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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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venerdì 30 giugno 2017

Alcune serie obiezioni alle argomentazioni del Papa sulle pensioni

Alcune serie obiezioni alle argomentazioni del Papa sulle pensioni

  La parte del discorso del Papa ai sindacalisti della CISL del 28 giugno scorso sulle pensioni mi era apparsa subito la meno convincente, benché fosse quella più citata dai giornalisti. Ieri le sono state opposte alcune serie obiezioni.
  Gli studiosi dei fatti economici ritengono che non sia dimostrabile alcuna correlazione tra tasso di attività delle persone tra 55 e 64 anni di età e disoccupazione giovanile (così Alberto Mingardi su La Stampa, Nicola Rossi e Vincenzo Galasso su La Repubblica). E questo benché tra il 2007 e il 2014, gli anni della recessione economica ancora in corso, il tasso di occupazione delle persone tra i 15 e i 29 anni di età sia sceso del 12% tra gli uomini e del 6% tra le donne, mentre quello delle persone tra i 55 e i 74 anni sia cresciuto del 38% fra gli uomini e del 22 % tra le donne. I due fenomeni hanno la stessa causa , ma non  è dimostrabile che siano legati, nel senso che si perda occupazione tra i giovani perché aumenta tra i più anziani.
  Roberto Mania, nell’articolo di ieri su Repubblica  sul discorso del Papa, riporta un brano dell’ultima Relazione annuale della Banca d’Italia: “Secondo la nostra analisi non vi è evidenza di un nesso negativo, nemmeno nel breve periodo, tra il prolungamento della vita lavorativa degli anziani e l’occupazione dei giovani; piuttosto i due fenomeni appaiono complementari”.
  E’ stato osservato che tra pensionati e nuovi assunti non c’è un ricambio nello stesso posto di lavoro: giovani e anziani , in genere, non fanno lo stesso lavoro. Non c’è la staffetta, non c’è ricambio nello stesso posto di lavoro. E’ cambiato il modo di lavorare, tra giovani e anziani. E’ il modo di produzione che fa perdere posti di lavoro: in media ogni quattro lavoratori  che escono per anzianità dal mercato del lavoro ne entra uno solo (Roberto Mania su  La Repubblica). Inoltre non c’è un numero fisso di posti di lavoro: il numero di occupati aumenta nelle fasi espansive dell’economia, in quelle di crescita economica. Ma, osservano gli economisti, la ripresa dell’economia di cui stiamo notando alcuni primi segni, sarà jobless, non produrrà un aumento proporzionale degli occupati.
  Alberto Mingardi su La Stampa:
“I posti di lavoro non sono un numero fisso, una torta da spartire tra anziani e meno anziani. Crescono se aumenta la produttività e se si intensifica l’attività economica”.
 Il progressivo aumento dell’età del pensionamento obbligatorio non è dipeso da egoismo delle classi d’età più anziane, ma da esigenze di finanza pubblica. Accrescere il numero dei pensionati non solo non accrescerebbe l’occupazione fra i più giovani, ma farebbe sì che il loro lavoro debba mantenere più persone, perché è la popolazione attiva che paga per chi attivo non è più.
  Oggi i genitori mantengono i figli più a lungo, perché questi ultimi trovano occupazione più tardi, e, comunque, spesso integrano il reddito dei più giovani, che hanno retribuzioni più basse. Se i più anziani fossero costretti a lavorare per meno ore, con retribuzioni più basse, la capacità di sostegno dei figli diminuirebbe. Sarebbe, in sostanza, il reddito familiare a risentirne.
  Il patto sociale  tra giovani e anziani proposto dal Papa non funzionerebbe, non aumenterebbe l’occupazione tra i più giovani e finirebbe con il ridurla tra i più anziani, o comunque, per abbassare il reddito dei più anziani.
 Sostiene Nicola Rossi (come riportato da Roberto Mania su La Repubblica): “La nostra anomalia nasce dal fatto che non cresciamo da oltre vent’anni. E per questo è dannoso il messaggio del Papa che spinge i giovani a pensare che per ottenere qualcosa è necessario toglierla a qualcun altro. Così abbiamo messo definitivamente una pietra sul mito dell’infallibilità papale”. In effetti in dottrina non si è mai sostenuto che un papa sia infallibile nelle questioni economiche, sociali e politiche. Su questi temi, anzi, i papi si sono si sono in genere dimostrati fallibilissimi.
   Il lavoro, salvo che nel pubblico impiego, si è fatto più precario sia per i giovani che per gli anziani, benché maggiormente per giovani, che vengono assunti con i contratti recentemente introdotti in Italia dalla nuova normativa sul lavoro, che prevedono la reintegrazione nel posto di lavoro, dopo ingiusto licenziamento, solo per i licenziamenti discriminatori, quindi in un limitatissimo numero di casi e per di più con gravi problemi di prova. Lì dove non sono più protetti dalla stabilità del posto di lavoro, al modo del pubblico impiego, i lavoratori più anziani resistono per le loro competenze, maturate sul campo (Alberto Mingardi).  I più giovani  le possiedono nella misura in cui le apprendono nel loro percorso scolastico: è la scuola che va potenziata e migliorata, invece l’Italia spende troppo poco in questo settore.
  La crisi dell’occupazione in Italia dipende dal modello di sviluppo e dalle risposte date dai poteri pubblici.
  Servono meno occupati per produrre e molte lavorazioni sono state trasferite all’estero, dove il lavoro costa meno. In Italia sono rimasti in genere i lavori più sofisticati, che richiedono maggiori competenze, ma la scuola non prepara i giovani a sufficienza per raggiungerli, perché il settore pubblico vi investe poco. Il sistema, inoltre, ha favorito i più ricchi. Al Congresso della CISL è stato osservato che dal 1973, quando nacque l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, i redditi massimi hanno goduto di 29 punti percentuali di sgravio fiscale, mentre quelli minimi di un aggravio di 13 punti. Ieri, Romano Prodi, a quel Congresso in corso qui a Roma, ha ricordato che la retribuzione di una posizione di vertice di un’azienda privata è oggi trecento volte quella della posizione di ingresso, e non ci si scandalizza più. E’ per questo che ci sono poi le pensioni d’oro, che perpetuano uno squilibrio che c’è nel mondo del lavoro tra i favoriti e gli sfavoriti dal modello di sviluppo.
  Il potere d’acquisto reale dei lavoratori dipendenti è costantemente diminuito negli ultimi anni, mentre i profitti d’impresa sono costantemente aumentati, anche negli anni della crisi. Questi profitti appaiono incomprimibili e vengono messi a sicuro, nonostante le crisi delle imprese di produzione, sfruttando le opportunità offerte dal sistema giuridico del capitalismo globalizzato, che consentono un rapido sganciamento del capitale dalle crisi aziendali. I lavoratori hanno  la sensazione di aver mantenuto più o  meno lo stesso tenore di vita perché i beni della vita che acquistano costano poco. Infatti provengono da posti dove il lavoro è ancora più svalutato che da noi, in particolare dall’Oriente. Anche i lavoratori/consumatori quindi si avvantaggiano, precariamente, per ora, delle condizioni di sfruttamento di lavoratori ancora più svantaggiati.
 Gli economisti liberali propongono, per favorire la crescita, di rendere ancora peggiori le condizioni giuridiche dei lavoratori dipendenti, che sono quelli il cui lavoro è organizzato da altri. La flessibilità  favorirebbe l’occupazione e la ripresa. L’esperienza storica non conferma quest’idea. Da quando il sindacato ha avuto meno capacità contrattuale, dagli anni ’80, e il lavoro si è fatto sempre più flessibile  le condizioni dei lavoratori dipendenti sono costantemente peggiorate e le diseguaglianza sociali sono sempre più aumentate.
  Cambiare richiede un’azione di massa, e su questo possono condividersi le argomentazioni del Papa, e un nuovo modello di sviluppo, che comprenda anche un modo diverso di consumare. I rapporti di forza possono essere cambiati da un’azione di massa ed  è il sindacato che deve organizzarla. Ma occorre agire avendo presente l’interesse generale, quindi anche di chi è escluso dal lavoro o  è coinvolto in  lavoro svalutato e non  può sindacalizzarsi perché lo perderebbe. Questo significa che all’azione sindacale va affiancata quella politica. Ma la cultura sindacale come quella politica vanno rifondate nella gente: c’è necessità anzitutto di un’educazione specifica, un lavoro che deve cominciare molto presto, fin dalla scuola, il tempo che ancora dà una tregua alle persone, non ancora schiavizzate da lavori svalutati. Prodi ieri ha osservato che in Italia l’1% della popolazione controlla circa il 50% della ricchezza, ma poi la maggioranza della gente segue le idee politiche di quell’1% anche se questo è contro il suo interesse. I lavoratori dipendenti, da consumatori che si avvantaggiano delle condizioni di sfruttamento di lavoratori che stanno peggio, hanno l’impressione di essere dalla stessa parte sociale dei più ricchi, ma non è vero. Capirlo è una conquista culturale. Il lavoro non si salverà se non cambieremo la cultura del consumo. Appunto: è un  intero modello di sviluppo che è in questione.
  Mettere in più anziani in conflitto con i più giovani non è saggio e, soprattutto, non ha fondamento razionale. Divide le forze di chi sta peggio perché subisce le conseguenze di un medesimo modello di sviluppo che divide la gente in due classi sociali: i favoriti e gli sfavoriti dal sistema, non giovani e anziani. Nel modello dello stato sociale, lì dove si  è sviluppata l’economia sociale di mercato, il conflitto di classe si era molto attenuato, perché le istituzioni pubbliche si incaricavano di riequilibrare, con lo strumento fiscale e con la tutela giuridica del lavoro, le diseguaglianze sociali. Dagli anni ’90 l’orientamento è cambiato, senza distinzione tra governi di opposte ideologie politiche, e il conflitto di classe, in quella nuova presentazione, si ripropone. Ma nella classe che possiamo denominare subalterna ci sono giovani e anziani.

 Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli 

giovedì 29 giugno 2017

Giustizia sociale come conversione - note sul discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017

Giustizia sociale come conversione
  note sul discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017

 Ieri il nostro Padre Francesco, incontrando a Roma i sindacalisti della CISL, ha parlato di economia e società, di giustizia sociale, di sindacalismo buono e corrotto, della necessità di un sindacalismo buono per cambiare in meglio la società attraverso lotte sociali, della necessità di lottare anche per chi i diritti civili non li ha ancora, in primo luogo per i giovani senza lavoro, del legame tra lavoro e democrazia e di un capitalismo che induce in peccato, e in uno dei più grossi, perché disconosce la natura sociale dell’economia e dell’impresa.
   Vedremo come i giornali riporteranno le sue parole oggi. Ieri quelli  che pubblicano su internet e quelli televisivi sono stati un po’ superficiali, si sono concentrati sulla sua critica alle pensioni d’oro, che sono quelle troppo alte, che perpetuano una ingiusta diseguaglianza sociale. Ognuno di noi, naturalmente, ha pensato a quelle degli altri e tutti, in definitiva, a quelle dei parlamentari. Ma, tutto sommato, questo tema non era al centro delle argomentazioni di quel discorso.
  Persona e lavoro devono sempre andare insieme, ha sostenuto Francesco all’inizio, nel senso che il lavoro non deve diventare disumano e che ogni persona deve avere un lavoro. Il lavoro è importante perché l’individuo  si faccia  persona. Nel lavoro  si coopera  con gli altri, ci si apre alla società. Ma il lavoro non è tutto. Anche il riposo è importante. Ricordiamocelo ora che cominciamo a vedere esercizi commerciali aperti giorno e notte, senza giorni di festa, senza mai interruzioni. Il nostro Padre Francesco ha parlato addirittura di sana cultura dell’ozio.  Ma oltre al riposo c’è lo studio: lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi, ha detto. Ma non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi, e anche questo è un diritto. Ci sono le pensioni, per quelli che sono malati o troppo vecchi per lavorare. Ma devono essere pensioni  giuste. Altrimenti si perpetuano le diseguaglianze sociali, diventano perenni. E’ a questo punto che ha criticato le pensioni d’oro, che creano scandalo in un tempo in cui c’è tanta gente che la pensione non l’ha o ce l’ha insufficiente. Le pensioni troppo alte, come quelle troppo povere, sono un’offesa al lavoro,  proprio perché perpetuano le diseguaglianze del lavoro. Il lavoro, quindi, nella concezione del nostro Padre Francesco, dovrebbe avere la funzione anche di ridurre le diseguaglianze sociali, in particolare elevando quelli che stanno peggio. E ha anche ricordato che, a volte, per i malati, che tendono ad essere scartati dal mondo del lavoro, lavorare è parte della terapia: si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.
  Non è ragionevole, sostiene il nostro Padre Francesco, che in una società gli anziani siano costretti a lavorare troppo a lungo, mentre i giovani rimangono disoccupati. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità, ha detto. Il lavoro dei giovani non fa bene solo ai giovani stessi, ma a tutta la società. Occorrerebbe, quindi, ha proposto, un nuovo patto sociale che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare.
  Il lavoro rientra nei fatti economici e in quelli dell’impresa. E’ il mercato che deve dominare tutto? No!, sostiene il nostro Padre Francesco. Economia di mercato, no! Economia sociale  di mercato, invece. Il capitalismo del nostro tempo  ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa,  è per questo che disprezza il sindacato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti.  E’ per questo che occorre un lotta per affermarla: questo è il compito del sindacato. La sua azione, se fa bene il suo lavoro, migliora la società. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari. Non si tratta di scontri tra interessi privati, dei datori di lavoro e dei lavoratori, ma di una questione di  giustizia sociale. Lo si capisce pensano da dove viene la parola sindacato. Dice Francesco: Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”: in questo svolge una funzione profetica. Dice Francesco: “[il sindacato] deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia”. In definitiva occorre lottare. Se la società non apprezza il sindacato, forse è perché non lo vede lottare abbastanza, in particolare nei luoghi dei “diritti del non ancora”, nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro; non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Nelle nostre società capitalistiche avanzate, ammonisce Francesco,  il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia.
  Dimenticare o negare la natura sociale dell’economia e del lavoro è un peccato, e uno dei più grossi, sostiene il nostro Padre Francesco. Allora, non è solo questione di lottare, ma anche di convertirsi. Significa fare un passo in meglio.
Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi: è sbagliato pensare solo al proprio interesse privato, non è il mercato che deve decidere tutto, lì dove i più grossi e potenti prevalgono sui più deboli. E’ attraverso le lotte sindacali che la situazione viene riequilibrata, perché insieme si ha più forza. Se l'economia, con la legge del più forte, minaccia la dignità del lavoro, con la forza del numero e della solidarietà occorre cambiare l'economia. Ma occorre lottare anche per chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.
  I primi commentatori hanno notato che l’apprezzamento di Francesco per il lavoro del sindacato va controcorrente. I sindacati si sono fatti più deboli, hanno meno presa sui lavoratori, anche perché il lavoro si è fatto più precario, meno garantito, addirittura svalutato, e chi ce l’ha teme di perderlo, di essere preso di mira in quanto lavoratore sindacalizzato. Ma è proprio l’eclisse del sindacato uno dei fattori che ha svalutato  il lavoro.
 Le idee esposte dal nostro Padre Francesco ieri sono dagli anni ’70 parte del magistero sociale, della dottrina sociale della Chiesa. Le ritroviamo, ad esempio, in un’esposizione estesa e sistematica nell’enciclica Lavorando [l’essere umano deve procurarsi il pane quotidiano …] , di san Karol Wojtyla, diffusa nel settembre 1981.
[testo sul Web: 
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091981_laborem-exercens.html ]
 Come scrisse il Wojtyla nel finale di quel documento, l'enciclica avrebbe dovuto essere diffusa il 15 maggio 1981, ma il 13 maggio ci fu l’attentato in piazza San Pietro e poté essere riveduta dal Papa solo dopo la sua degenza ospedaliera. Andare contro l’economia egemone può essere molto rischioso.
 Di nuovo, nelle parole di Francesco di ieri, c’è sicuramente la considerazione del dovere di lottare, come sindacato, da lavoratori sindacalizzati, anche per chi il lavoro non ce l’ha, per gli esclusi. Ma come dev’essere questa lotta? La lotta è necessaria e doverosa quando le giuste pretese di una parte sociale vengono rigettate dall’altra. Non ci si può rassegnare all’ingiustizia. La parte forte rifiuta di ascoltare, di sentire ragioni. Ha dimenticato la natura sociale dell’economia. La legge del mercato è a favore dei più forti? Nelle società democratiche ci sono strumenti legali per non accettare questa posizione. I deboli possono farsi forti facendo massa e agendo in modo solidale. Le libertà civili servono anche a questo, a non finire schiavi del mercato. C’è la libertà di parola, di manifestazione, c'è la politica democratica, c’è lo sciopero. In Italia lo sciopero è un diritto sociale riconosciuto dalla Costituzione. E in Costituzione c’è anche la natura sociale dell’economia e della proprietà privata. L’impresa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; in base alle leggi, deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art.41 Costituzione). La proprietà privata deve essere resa accessibile a tutti e deve esserne assicurata la funzione sociale (art.42 Costituzione). Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata  alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art.36 Costituzione). L’organizzazione sindacale è libera (art.39 Costituzione) e lo sciopero  è un diritto (art.39 Costituzione), anche se la legge può regolarne l’esercizio. Queste sono leggi fondamentali della Repubblica.
  L’evoluzione sociale recente richiederebbe modifiche costituzionali per rinforzare la natura sociale dell’economia e del lavoro, ma in genere le proposte vanno in direzione opposta. Si è di solito  d’accordo nel  notare che il lavoro si è svalutato  e ha perso garanzie. Si giustifica questo con le leggi del mercato: queste leggi però sono incostituzionali e, in particolare dall’inizio dell’attuale fase recessiva, nel 2008, hanno fatto e stanno facendo disastri sociali. In Costituzione non ci sono principi per essere consumatori responsabili. Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, in un’Italia tanto più povera di oggi, non ci si pensava. I consumatori, in genere inconsapevolmente, sono complici dell’ingiustizia sociale.
  Il lavoro che c’è da fare, da fedeli che vogliano rendere ragione delle loro convinzioni religiose, è quello di ragionare sui temi richiamati dal nostro Padre Francesco ieri. Condividiamo la sua posizione? Se sì, perché? Se no, perché? Si tratta di temi sociali e politici sui quali non siamo obbligati a pensarla come un papa. La nostra posizione su di essi ha comunque un significato religioso. Farsi complici di ingiustizie sociali è peccato: questo è magistero etico, sul quale il Papa insegna da papa, autorevolmente. Del resto possiamo facilmente evocare fondamenti biblici: nelle note dell’enciclica Lavorando  che ho citato prima ve ne sono diversi. Dunque, riparare alle ingiustizie sociale richiede propriamente una  conversione. Specialmente quando si pensa che siano ingiusti l’esclusione, l’emarginazione, l’essere senza diritti, in particolare senza lavoro.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli


mercoledì 28 giugno 2017

Il nostro Padre Francesco: Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato. Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie; non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro. Convertirsi: cioè fare un passo in meglio.

Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato.
Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.
Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie; non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione.
Lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro.
Convertirsi: cioè fare un passo in meglio.

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI DELEGATI DELLA
CONFEDERAZIONE ITALIANA SINDACATI LAVORATORI (CISL)
Aula Paolo VI
Mercoledì, 28 giugno 2017
dal Web: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170628_delegati-cisl.html

Cari fratelli e sorelle,
vi do il benvenuto in occasione del vostro Congresso, e ringrazio la Segretaria Generale per la sua presentazione.
Avete scelto un motto molto bello per questo Congresso: “Per la persona, per il lavoro”. Persona e lavoro sono due parole che possono e devono stare insieme. Perché se pensiamo e diciamo il lavoro senza la persona, il lavoro finisce per diventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone dimentica e smarrisce sé stesso. Ma se pensiamo la persona senza lavoro, diciamo qualcosa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in pienezza quando diventa lavoratore, lavoratrice; perché l’individuo si fa persona quando si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro. La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione che l’umanità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di persone cooperano semplicemente lavorando: educando i nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando pratiche in un ufficio... Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né sempre intenzionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta avanti il mondo.
Certo, la persona non è solo lavoro… Dobbiamo pensare anche alla sana cultura dell’ozio, di saper riposare. Questo non è pigrizia, è un bisogno umano. Quando domando a un uomo, a una donna che ha due, tre bambini: “Ma, mi dica, lei gioca con i suoi figli? Ha questo ‘ozio’?” – “Eh, sa, quando io vado al lavoro, loro ancora dormono, e quando torno, sono già a letto”. Questo è disumano. Per questo, insieme con il lavoro deve andare anche l’altra cultura. Perché la persona non è solo lavoro, perché non sempre lavoriamo, e non sempre dobbiamo lavorare. Da bambini non si lavora, e non si deve lavorare. Non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi. Ci sono molte persone che ancora non lavorano, o che non lavorano più. Tutto questo è vero e conosciuto, ma va ricordato anche oggi, quando ci sono nel mondo ancora troppi bambini e ragazzi che lavorano e non studiano, mentre lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi. E quando non sempre e non a tutti è riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni. O quando un lavoratore si ammala e viene scartato anche dal mondo del lavoro in nome dell’efficienza – e invece se una persona malata riesce, nei suoi limiti, ancora a lavorare, il lavoro svolge anche una funzione terapeutica: a volte si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.
E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità. È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta.
Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento sindacale deve affrontare e vincere se vuole continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene comune.
La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindacato è espressione del profilo profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. Come dimostra anche la grande tradizione della CISL, il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. Ma nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è la profezia.
Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono delle sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.
Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa. Questo è uno dei peccati più grossi. Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro. Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni in giù, che non hanno lavoro. Qui. In Italia. E voi dovete lottare lì! Sono periferie esistenziali. Non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Non lasciatevi bloccare da questo. So che vi state impegnando già da tempo nelle direzioni giuste, specialmente con i migranti, con i giovani e con le donne. E questo che dico potrebbe sembrare superato, ma nel mondo del lavoro la donna è ancora di seconda classe. Voi potreste dire: “No, ma c’è quell’imprenditrice, quell’altra…”. Sì, ma la donna guadagna di meno, è più facilmente sfruttata… Fate qualcosa. Vi incoraggio a continuare e, se possibile, a fare di più. Abitare le periferie può diventare una strategia di azione, una priorità del sindacato di oggi e di domani. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari. Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.
Vi ringrazio per questo incontro, vi benedico, benedico il vostro lavoro e auguro ogni bene per il vostro Congresso e il vostro lavoro quotidiano. E quando noi nella Chiesa facciamo una missione, in una parrocchia, per esempio, il vescovo dice: “Facciamo la missione perché tutta la parrocchia si converta, cioè faccia un passo in meglio”. Anche voi “convertitevi”: fate un passo in meglio nel vostro lavoro, che sia migliore. Grazie!
E adesso, vi chiedo di pregare per me, perché anch’io devo convertirmi, nel mio lavoro: ogni giorno devo fare meglio per aiutare e fare la mia vocazione. Pregate per me e vorrei darvi la benedizione del Signore.
[Benedizione]


Interpretare il mondo contemporaneo

Interpretare il mondo contemporaneo

  Il mondo in cui viviamo può essere letto e capito, come un libro. I buoni lettori hanno quindi più risorse per viverci dentro perché a questo sono abituati. Ma a leggere si impara, non è  un’abilità innata. Chi insegna a leggere il mondo, oggi? Questo è appunto il nostro problema principale.
  Le religioni sono state storicamente chiavi di lettura dei mondi socialI. Insegnavano alla gente a leggerli e quindi a viverci meglio. Con la modernità, diciamo negli ultimi cinquecento anni, lo hanno fatto sempre peggio. Questa è stata una vera tragedia perché, in questo modo, i mondi sociali sono cominciati a divenire incomprensibili a molti. Le esperienze religiose hanno iniziato a distaccarsi dalla realtà e a rifugiarsi nell'immaginazione. Da esperienze sociali hanno preso a trasformarsi in esperienze psicologiche, interiori. E’ l’idea della religione come medicina dell’anima. Ogni religione, e in particolare quelle maggiori, quelle storiche, molto antiche, ha avuto un suo modo per trasformarsi così. Nella nostra è stata la sua antica organizzazione feudale a spingere verso quel modello: la politica diventava democratica e minacciava la stabilità del potere religioso, così si è assecondata l’interiorizzazione per bloccare quell’evoluzione sociale. Si è puntato sullo star bene piuttosto che sul vivere bene. Una volta che il risultato che ci si attende è prevalentemente interiore si può dar libero sfogo al sogno. Si costruiscono mondi immaginifici al modo in cui lo si fa nei videogiochi. Ci si pensa onnipotenti come le potenze celesti. Il confronto con la realtà non c’è più. Quello della religione diventa un mondo separato in cui si entra sognando. Si possono fare belle esperienze, dicono, ma è quello che succede anche assumendo stupefacenti. La religione così intesa è veramente una droga sociale, assimilabile ad esempio all’LSD, lo stupefacente dei sogni formidabili, che si diffuse tra gli occidentali a partire dagli anni Sessanta. Questa è una religione psichedelica,  vale a dire che induce stati di coscienza alterati e che introduce in un mondo fantastico, in cui si sta bene. Ma questo, come sempre accade con le droghe, non è veramente  vivere. Si vive solo nel mondo vero, reale. Altrimenti si sogna.
  Il mondo così come veramente è non teme la religione psichedelica. Teme invece la nostra religione se si presenta come interpretazione realistica della società, se insegna a leggere il mondo. E’ appunto quello che sta accadendo tra noi, ora. Un’enciclica come la Laudato si’, del 2015, ne è un esempio molto chiaro. Questo tipo di religione non spinge verso mondi psichedelici, ma verso la realtà sociale così com’è, per cambiarla e vivere meglio.
  Un tempo i nostri capi religiosi vollero farsi imperatori e prìncipi al modo di quelli civili. Ora, invece, è all’organizzazione delle Nazioni Unite che si ispirano. Nella nostra organizzazione religiosa c’è tutto il mondo: è per questo che può capirlo realisticamente. Vedete che il nostro padre Francesco ci è venuto dall’altro capo della Terra? Basta entrare in una delle tante università religiose di Roma per incontrarsi con gente di tutto il mondo. Anche i docenti vengono da ogni parte dell’umanità.
  Di fronte ai grandi fenomeni sociali che hanno modificato il nostro vivere sociale molti si trovano impauriti e non capiscono. Perché non posso chiudere le porte della mia nazione come chiudo con le mandate le porte di casa mia, la sera? E, magari, se provassero a immaginare da dove sono venuti i loro avi, scoprirebbero che sono venuti da molto, molto lontano. L’umanità ha sempre girato molto: tutti sono stati spinti dalle circostanze a uscire da casa propria. Noi tutti che abitiamo oggi l’Europa siamo originari dell’Africa, ci dicono gli antropologi confortati dai genetisti. Il sanscrito, l’antica lingua dell’India, ha radici comuni con l’italiano: come è accaduto?
  Si pensa, ad esempio, che più gente arriva da noi, meno lavoro c’è, perché i nuovi arrivati rubano  il lavoro a quelli che c’erano prima. Ma non è così che funziona. Ce lo confermano le scienze sociali. Più gente lavora, più lavoro c’è. E i sistemi sociali più potenti della Terra sono oggi anche i più popolosi. La carenza di lavoro non dipende dalla gente che arriva, ma dallo sfruttamento ingiusto del lavoro. E’ cosa che non potrebbe essere realizzata senza la nostra collaborazione, di noi consumatori. Il lavoro non c’è perché noi consumiamo male. E la stessa cosa che accade con il voto. Com’è, è scritto in un libro che sto leggendo, che la grande maggioranza della popolazione vota secondo gli intessi dell’1% più ricco che detiene quote molto rilevanti della ricchezza sociale, tra il 30 e quasi il 50% di quella totale, a seconda delle nazioni? Consumare meglio aiuterebbe a vivere meglio, perché ci sarebbe più lavoro, ed essendovi più lavoro, più gente lavorerebbe e allora ci sarebbe ancora più lavoro. Queste argomentazioni le potete leggere nell’enciclica Laudato si’.
  Così, venire in parrocchia non significa rifugiarsi  in un mondo di sogno, come quando si entra in un posto come Disneyland. Significa non accontentarsi dei mondi psichedelici  in cui l’economia che sfrutta e ruba lavoro e anche le fedi di tipo psichedelico  vorrebbero rinchiuderci per dominarci meglio. Significa capire che non basta stare meglio, ma che occorre vivere meglio, e che per farlo bisogna imparare a leggere il mondo così com’è, per cambiare quello che non va. Capire>criticare>cambiare: questo è il percorso della liberazione sociale. Alla critica sociale non siamo più tanto abituati in religione. I nostri capi l’hanno temuta, ora però ci spingono verso quell’impegno. Che è una via di laicità perché comporta di desacralizzare  ogni oggetto sociale di conoscenza: non c’è alcun mondo sociale che può invocare l’esenzione alla critica. Perché, come si dice, la società deve sempre essere riformata, che significa cambiata per migliorarla. Questo vale anche per la stessa parrocchia. A volte si concepiscono le organizzazioni sociali come stampelle per le psicologie individuali e allora le si sacralizza, cercando di sottrarle ad ogni critica. Ma la società funziona solo se viene costantemente riformata, altrimenti delude. Non riesce a mantenere le sue promesse e allora, per resistere al cambiamento, spinge verso mondi psichedelici. Le religioni del miracolo  e delle esperienze psichiche aumentate sono un po’ questo. D’altra parte è così facile lasciarsi andare! Ma dove è scritto   che si debba fare così? Non è per esperienze psichedeliche che siamo stati mandati  fino ai più lontani confini.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

  

martedì 27 giugno 2017

Effervescenza locale

Effervescenza locale

  Negli anni 70 del secolo scorso, al tempo in cui fui adolescente, le nostre collettività religiose furono attraversate da forti moti di rinnovamento, spinte dalle idee enunciate durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Al centro furono le parrocchie, che erano molto più abitate di oggi e per di più da molti più giovani. Un’effervescenza sociale locale che fece temere alla gerarchia di perdere il controllo. E’ a questo punto che si diede mano libera ai movimenti. Si trattava di aggregazioni laicali indipendenti dalla struttura organizzativa delle Diocesi. Non era il caso dell’Azione Cattolica, naturalmente, perché essa era stata pensata all’origine per integrarsi con la Diocesi e nelle parrocchie. I movimenti si erano espansi, affiliando adepti, sfruttando gli spazi di maggiore libertà, e innanzi tutto puramente e semplicemente di libertà, che erano stati aperti dall’ultimo Concilio. Ma quelli che presero maggiormente piede erano animati da idee anti-conciliari, erano espressione, in particolare, della politica ecclesiastica di prima. Sotto il lungo regno di san Karol Wojtyla, alla gerarchia del clero sembrò di riacquistare il controllo della situazione governando i movimenti, giungendo ad intese con i loro vertici. Il governo della società religiosa si fece dal centro, intorno ad un neopapato con caratteristiche mai manifestate prima, con una fortissima desacralizzazione e insieme personalizzazione del regnante, per cui ai fedeli egli appariva come una  figura paterna di prossimità, e in periferia attraverso i movimenti, che presto espressero una loro gerarchia, di solito di tipo carismatico non democratico, caratterizzata dai fondatori. Attraverso intese con i movimenti si ridusse il pluralismo locale, si normalizzò il dissenso, si scoraggiarono gli esperimenti organizzativi. Sembrò, ad un certo punto, riprodursi l’assetto che si era avuto sotto il regno di  Eugenio Pacelli, terminato nel 1958, quando iniziò a manifestarsi l’effervescenza di cui dicevo: i fedeli come un blocco sociale coeso intorno al regnante. Questo tornò utile quando, con la dissoluzione del partito cristiano, organizzato sulle idee del cristianesimo democratico nella linea Murri>Sturzo>De Gasperi>Moro, la gerarchia prese a fare di nuovo politica direttamente in Italia, come aveva fatto, con esiti tutto sommato non esaltanti, fino al crollo del fascismo storico, nel 1945. Secondo l’impostazione di sempre si coalizzò con la destra politica italiana.
 Che serve fare memoria di tutto questo? Serve per capire come sono cambiate le parrocchie italiane negli ultimi quarant’anni. Oggi solo gente della mia età e più ha memoria di come si era prima.
 Un bel momento, nel 2013, arriva da lontano, veramente da un altro mondo, il nostro padre Francesco, e propone un diverso modello organizzativo che è quello su cui hanno lavorato dagli anni Sessanta i vescovi latino - americani, raccolti nella Consiglio Episcopale Latino Americano - CELAM, un coordinamento continentale che riunisce i capi religiosi dei popoli americani di lingua spagnola e portoghese e che fu fondato a metà degli anni Cinquanta, quando tante cose iniziarono a cambiare, fra noi, in religione. Secondo questa concezione l’effervescenza locale non è vista come un male da contenere, ma come un moto da sviluppare, da incoraggiare. E’ centrale il collegamento con le collettività locali. Tutto il modello italiano entra quindi in tensione. Capi carismatici? Francesco dice che ogni potere dovrebbe avere un limite temporale. La società deve emergere, non essere dominata. Ma chi la domina non è tanto d’accordo è infatti si sviluppa un moto di rancorosa, vivace, ma sotterranea resistenza. In definitiva un Papa è sempre un Papa, non si arriva a fargli guerra apertamente.  Si era arrivati a pensare di avere voce nella sua nomina, come accadeva nella Roma medievale tra le famiglie patrizie locali, e invece… Un messaggio di felicitazioni al cardinale sbagliato, alla fine dell’ultimo Conclave, mise allo scoperto le aspettative di molti, in Italia.
  Tutto questo che sta accadendo rende difficile intendersi nelle parrocchie. Queste ultime talvolta sono divenute come delle specie di condomini tra i movimenti che le abitano. La mediazione, sempre precaria, viene raggiunta allora attraverso i parroci, allo stesso modo in cui viene conseguita al vertice, al centro,  mediante una specie di conferenza dei capi di movimento.  Nel caso specifico della nostra parrocchia, poi, con il prevalere di un solo movimento, tutto il resto era divenuto poco vitale.
  Un  Consiglio pastorale rinnovato può essere la sede dove far emergere, piano piano, con la consuetudine reciproca e il lavoro comune, un modello più radicato sul territorio, meno  movimentizzato. Il problema è che ogni movimento sviluppa una sua politica ecclesiastica ed è insofferente delle innovazioni locali che riducano la sua influenza. Fatto sta che, quando ci si ritrova insieme, fatalmente si è portati a lanciarsi addosso i rispettivi slogan. La presidenza, in questo contesto, è un lavoro molto difficile. Ma ci sarà poi una realtà sociale locale a cui ricollegarsi? Quelli dei movimenti sussurrano alle orecchie dei nostri capi religiosi che non c’è, e che solo loro hanno salvato la situazione, ricostruendo  ciò che si era dissolto. Quale sarà l’immagine più affidabile della gente che abbiamo intorno? Direi che il primo passo da fare è quello di mettersi in ascolto. Andiamo e vediamo, secondo l’esortazione evangelica. Una parte del lavoro di un Consiglio parrocchiale pastorale potrebbe allora consistere in audizioni  e in inchieste sociali. Ascoltare gente e proporle domande. Sono portato a non dar credito alle opinioni catastrofiche sulla situazione religiosa. Quando la parrocchia si è aperta,  la gente da noi vi si è riversata dentro. Fatalmente, assecondando questo moto, si riproporrà l’effervescenza di un tempo. Ora però viene considerata una risorsa.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli



domenica 25 giugno 2017

Dialogo come metodo e mentalità

Dialogo come metodo e mentalità

 E’ da un bel po’ che non partecipo ad assemblee di istituzioni di partecipazione della Diocesi, quelle in cui i laici dovrebbero dare una mano come consulenti. Devo dire che quelle esperienze non furono esaltanti. Ci si convergeva da estranei e si stringevano alleanze per le nomine. Non c’era molto altro. Mi parevano dominate dai gruppi. Del resto le parrocchie tendono a diventare piccoli mondi isolati e nel lavoro collettivo gli isolati contano poco o nulla.
  Ci sono istituzioni da cui partono direttive d’azione e i gruppi maggiori vogliono avervi voce, mandare gente propria. Per farlo bisogna accordarsi con gli altri, se non si ha la forza sufficiente. Il tempo quindi viene impiegato in queste trattative. Lo si fa in cenacoli riservati, mentre sul palco parla qualche esperto. Ai tempi nostri di solito gli esperti spiegano come vanno le cose, e ognuno più o meno lo sa già, ma non danno soluzioni. Sembra che la cultura non se ne senta più responsabile, lo osservò Zygmunt Bauman, ma anche lui fu piuttosto sintetico nelle proposte operative, anche se ne fece.
 Il problema è che, quando ci si incontra per quelle faccende ,si è e si rimane estranei, perché il tempo è poco e, per di più, non si è veramente interessati agli altri. In religione, da noi, si preferisce passare il tempo tra gli amici propri. Non conoscendosi, riesce difficile sviluppare il dialogo, che è un modo di mettere in relazione i punti di vista e le storie  delle persone. Presuppone una mentalità, quella di essere interessati agli altri. Spesso si è impegnati, invece, a fare proselitismo, che significa aggregare gli altri al proprio gruppo, assimilandoli. Nel dialogo gli altri rimangono tali, ma è possibile farsene degli amici. Il lavoro collettivo è più produttivo se collaborano amici, se si collabora da amici. Allora non prevale la logica dello scambio, per cui si è disposti  a dare esattamente quanto si riceve o si prevede di ricevere.
   Si potrebbe pensare che, in religione, con tutto il parlare di amore  che si fa, sia più facile intendersi, ma non è così. In religione, in genere, ci si odia ferocemente. Del resto la lunga storia della nostra fede ce lo conferma. La pace  è diventata un valore realistico,  da perseguire anche nella vita reale, molto di recente nelle nostre concezioni religiose. A che cosa è dovuto tutto questo odio? In parte viene naturale, è il nostro istinto di antiche belve che si fa sentire. In questo ci manifestiamo simili agli altri viventi, come lo siamo nella biologia e nella fisiologia. In parte è dovuto proprio alla religione, quando si pensa di avere un filo diretto con il Cielo e si sacralizzano  le proprie concezioni, vale a dire che non si accetta che vengano poste in discussione. L’idea che, in società, vi siano valori  non negoziabili è espressione di questo modo di pensare. Se non si negozia si va allo scontro frontale. In una mentalità di dialogo non vi sono valori non negoziabili, perché è ammessa la discussione su tutto. Ma il dialogo è possibile quando ci si accorda su questo principio: che tutti siano uguali in dignità. L’altro va rispettato in questa dignità che ci si riconosce reciprocamente. Questo poi comporta dei limiti sia nella dialettica, sia nelle relazioni concrete, in ciò che si fa agli altri. Nel pensiero di Ghandi [Mohandas Karamchand Gandhi, mahatma,  grande anima,  capo spirituale e politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948], i primi rientrano nell’idea di nonmenzogna, gli altri nella  nonviolenza.
  In religione ci si propone, in linea di principio, una grande apertura verso gli altri. Vorremmo fare dell’intera umanità un’unica famiglia. Bello. Poi però qualche volta si parte male, pensando di inaugurare una sorta di casting, di selezione per scegliere chi può partecipare ai nostri eventi religiosi. E’ questo che succede quando si sbotta che non si vuole “abbassare l’asticella” (l’ho sentito dire da un esponente in un nostro gruppo) o “fare un compromesso al ribasso” (l’ho sentito dire da un’esponente di un gruppo che a quell’altro si oppone). Poiché queste espressioni, simili nel  contenuto, sono venute da gente di opposti schieramenti ecclesiastici, credo che si tratti di una mentalità piuttosto diffusa. Chi l’ha detto che la religione deve essere, per la gente comune, una gara di salto in alto? E che cos’è poi questo snobistico disprezzo per gli altri, come se ci fosse un basso in cui far rimanere confinati quelli che non saltano abbastanza in alto? Uno come Ignazio di Loyola [vissuto nel Cinquecento; è il fondatore dei Gesuiti] consigliava invece di abbassarsi il più possibile e di far mostra di ritenere gli altri sempre migliori di sé stessi, tacendo di ciò di cui di loro non si poteva parlar bene. Il nostro padre Francesco ci dà ogni giorno degli esempi di questo modo di fare con gli altri. Non sarebbe male prendere lezione da lui, che, in definitiva, è quello che è. Invece vedo che alcuni storcono il naso e, a mezza voce, dicono di rimpiangere quelli di prima. Ma non è che questi ultimi poi la pensassero diversamente. Perché: gli umili saranno innalzati. È scritto. E’  umile chi vuole alzare l’asticella  e rifiutare di trattare con gli altri  se sono troppo in basso?
  Tutti questi problemi che ho descritto fatalmente si ripropongono anche in realtà di prossimità come i consigli pastorali parrocchiali. E questo anche se ci si dovrebbe conoscere molto meglio, perché si hanno più occasioni per frequentarsi. Ma questo non accade anche nei condomini? Eppure sappiamo che le assemblee di condominio non sono, di solito, esattamente un modello di dialogo e di rispetto della dignità degli altri. La prossimità aiuta, ma occorre un cambio di mentalità.
  C’è una difficoltà a sviluppare un dialogo costruttivo e deriva in particolare dai confusi concetti teologici che noi laici spesso abbiamo in testa. La teologia è una cosa seria. Raramente però un laico ha la possibilità di una sufficiente formazione teologica, ma, in definitiva, non gli è nemmeno necessaria. Uno come Giuseppe Dossetti la riteneva addirittura controproducente. Viviamo in un mondo plasmato dall’ingegneria (delle costruzioni, meccanica, idraulica, elettronica, telematica, biologica ecc.), ma non abbiamo bisogno di prendere una laurea in ingegneria per viverci. In religione è indispensabile una buona spiritualità, che si acquisisce con la pratica liturgica, la frequenza al magistero e la meditazione personale sulle Scrittura. Dovremmo concentrarci su questa faccenda dell’amore, che è agàpe, il lieto convito a cui tutti devono trovare posto. Questa  è una buona base per una convivenza religiosa.
 Dal pensiero religioso ho sintetizzato alcune regole  che mi porto sempre dietro:
Fuggi il male
Segui con fermezza il bene
Ama gli altri come fratelli
Sii premuroso nello stimare gli altri
Sii impegnato e non pigro
Allegro nella speranza
Paziente nelle tribolazioni
Perseverante nella preghiera
Sii pronto ad aiutare i tuoi fratelli quando hanno bisogno
Fai di tutto per essere ospitale
Chiedi a Dio di benedire quelli che ti perseguitano; di perdonarli non di castigarli;
Sii felice con chi e’ nella gioia, piangi con chi piange;
Vai d’accordo con gli altri
Evita le discussioni sulle parole e le chiacchiere inutili
Non inseguire desideri di grandezza, volgiti piuttosto verso le cose umili
Non ti stimare sapiente da te stesso
Non rendere a nessuno male per male
Preoccupati di fare il bene dinanzi a tutti
Se possibile, per quanto dipende da te, vivi in pace con tutti
Non vendicarti
Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene
Sii paziente e generoso
Non essere invidioso
Non vantarti
Non gonfiarti di orgoglio
Non cercare il tuo interesse
Non cedere alla collera
Dimentica i torti
Non godere dell’ingiustizia
La verità sia la tua gioia
Tutto scusa
Di tutti abbi fiducia
Tutto sopporta
Non perdere mai la speranza.
 Con Google potrete trovare da dove le ho prese: è anche questo un esercizio spirituale.
 Vedete che non ci sono i comandamenti “Non abbassare l’asticella”, “Non fare compromessi al ribasso”.
   Spesso si ha l’idea che sia in atto un conflitto all’ultimo sangue tra ortodossi, quelli della propria parte, ed eretici, quelli dell’altra. Si preferirebbe che questi ultimi sparissero. Abbiamo la scomunica facile, noi laici, e questo anche se  i nostri capi religiosi fanno diversamente. Ora si vorrebbe scomunicare i corrotti, ho letto, ma non si è presa la cosa tanto alla leggera, pubblicando presto presto la bolla, il decreto che la commina: ci si è fatta una commissione sopra, che sta studiando la cosa. Noi, per faccende infinitamente meno importanti, andiamo invece per le spicce. Ma chi siamo noi per scomunicare? No, lo dico sul serio, non come fa il nostro padre Francesco, che, se volesse, potrebbe scomunicare chi crede debba esserlo! Chi siamo noi per alzare le asticelle, far saltare i compromessi, indicare agli altri la porta in uscita e via dicendo?
 In un consiglio pastorale parrocchiale ci si dovrebbe riconoscere amici, volerlo veramente essere, cercare di esserlo, sforzarsi in questo. Ricordiamo ciò che ci ha diviso solo per proporci di non dividerci più. Dobbiamo fare memoria  delle esperienze di divisione per imparare l'unità tra noi. Questa è memoria purificata, secondo l'insegnamento di san Karol Wojtyla.  La nostra miserella teologia da incolti teniamola da parte e piantiamola con l’ecclesialese di cui ci riempiamo la bocca per non dire nulla.
  In parrocchia abbiamo un problema: includere.  Chi? Tutta la gente del quartiere che si riconosce nella nostra fede. Ma perché non pensare addirittura più in grande? Perché non pensare addirittura a chi non si è mai riconosciuto o non si riconosce più nella nostra fede? Questo è il nostro dovere, ce lo dicono chiaramente i nostri maestri. Ma se non riusciamo a includere nemmeno tutti quelli che vivono la nostra fede, come possiamo pensare di andare oltre? Cominciamo a fare pratica di inclusione e di dialogo, il resto verrà, e non sarà nemmeno tutta opera nostra, perché il Cielo, in definitiva, c’è.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli



venerdì 23 giugno 2017

Idee per il Consiglio pastorale parrocchiale

Idee per il Consiglio pastorale parrocchiale

   Il Consiglio pastorale parrocchiale non dovrebbe avere più membri di quanti ne possano entrare nella nostra sala rossa: in questo caso la logistica  ci condiziona. Ho contato sei del clero (preti e diacono), sette di gruppi vari, sei dai servizi (ad esempio primo catechismo, catechismo per la Cresima ecc.), e fanno diciannove. Poi ci potremmo mettere due in rappresentanza dei giovani della fascia d’età 16-18, sette eletti dall’assemblea e cinque nominati discrezionalmente dal parroco, e fanno trentatré in totale. Una riunione plenaria (=con la presenza di tutti) con una discussione in cui  a ognuno fosse consentito di parlare per cinque minuti durerebbe così circa tre ore.  Ma, in realtà, ci si dovrebbe arrivare avendo già discusso prima in gruppi ristretti, in commissioni.   Sono previste dallo statuto, approvato nel 1994 dal Cardinal Vicario, nel quale in merito si scrive di organizzarle tenendo conto delle   “tre funzioni fondamentali della pastorale ordinaria –evangelizzazione e catechesi, liturgia, carità–, ed i quattro ambiti privilegiati individuati dal Sinodo diocesano: famiglia, giovani, impegno sociale, cultura”.
   In genere si ha poca pratica di lavoro assembleare e così si ha la sensazione di concludere poco. Questo favorisce l’emergere di capetti  i quali poi tendono ad allargarsi. Una volta che però si interiorizza il metodo, le cose procedono speditamente e utilmente. E’ molto importante il lavoro di chi presiede, che nel caso del Consiglio è il parroco. Deve essere autorevole, ma non eccessivamente invadente. Altrimenti o si lascia prendere la mano e non si conclude nulla o si blocca l’iniziativa dell’assemblea e viene scoraggiata la partecipazione.
  Dovrebbe praticarsi il metodo sinodale. Che cos’è? A volte viene presentato come se consistesse semplicemente nell’ossequio feudale al clero, come se si dovesse sempre pensarla come i preti. Immagino che nel Consiglio diocesano, con tutti quei vescovi in mezzo, sia fatale che accada. Ma non è così che lo si deve intendere. Il Consiglio è un gruppo di consulenti: se si pensa di non averne bisogno, di sapere già prima  come vanno le cose e che ci sia da fare, si parte male. Ascoltiamo questa consulenza  e poi ragioniamoci su!
 Il metodo sinodale  è il contrario di ciò che succede nelle assemblee condominiali. Se il Consiglio fosse un organo di auto-amministrazione, probabilmente degenererebbe su quella china. Ma non lo è. In un gruppo che opera con metodo  sinodale  la gente non pensa che l’essenziale sia che la propria fazione prevalga, ma che si riesca a rimanere insieme con soddisfazione. La parola sinodo  viene dal greco antico, e in particolare da altre due parole che richiamano l’idea del camminare insieme. Nel metodo sinodale il conflitto viene più limitato che nel metodo puramente e semplicemente democratico. Si riconosce che c’è molto che lega e che questo deve fare da collante per contrastare le forze che dividono. Può sembrare che in religione venga facile, ma non è così. Fin dalle origini ci si è azzuffati sulle questioni di fede e anche nei Concili fondamentali del primo millennio, quelli che hanno impostato il nostro Credo. Del resto se uno pensa di avere un filo diretto con il Cielo, e gli altri anàtema! (come  si esplodeva spesso nei primi secoli tra prìncipi e cosiddetti saggi religiosi, sant'uomini  veramente piuttosto bellicosi e irascibili), abominio!, è fatale azzuffarsi. Il metodo sinodale comporta una certa autolimitazione in questo azzuffarsi e di tenere conto che anche quelli che non la pensano come noi devono sempre essere tenuti con noi.  il metodo sinodale  è un'esigenza del principio di inclusione, che è il contrario del voler escludere  i dissenzienti. 
  E’ fondamentale, in un Consiglio parrocchiale, tenere ben presente lo scopo del lavoro. Non è che si stia rifacendo il Concilio Vaticano! E’ utile parlare in termini semplici, abbandonando l’ecclesialese, la confusa minestra di teologia male assimilata che spesso viene vomitata sugli altri. In questo bisognerebbe imparare dallo stile dell’esortazione La gioia del Vangelo, che dovrebbe essere uno dei principali riferimenti del Consiglio.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli 

giovedì 22 giugno 2017

Ancora sul Consiglio pastorale parrocchiale

Ancora sul Consiglio pastorale parrocchiale


 Abbiamo visto che il Consiglio pastorale parrocchiale non è un organo di autogoverno né di autoamministrazione.
  Nell’autogoverno una collettività decide chi comanda. Nell’autoamministrazione decide come impiegare denaro e beni per gli scopi comuni. Nella parrocchia comanda solo il parroco ed è solo lui che amministra. Lo fa senza dover subire controlli penetranti dall’alto  e senza dove rendere conto verso il basso. Non riceve ordini precisi da chi l’ha nominato: basta che gli mostri un certo ossequio. E’ legato a lui da un patto di fedeltà che, in fondo, è caratteristico del sistema di governo feudale, che appunto funzionava mediante patti di fedeltà tra sovrani di una scala gerarchica che andava dall’imperatore, in alto, all’ultimo dei prìncipi legati da quei patti. In un sistema feudale, chi comanda è immune verso il basso, il suo potere si basa solo sull’autorità superiore. La differenza rispetto ad un’organizzazione gerarchica di tipo burocratico, di funzionari mandati sul territorio, come è quella locale dei ministeri degli stati è la molto maggiore autonomia, per cui chi comanda, purché mostri ossequio verso l’alto, fa ciò che vuole. La nostra Chiesa, a differenza di quelle dei sistemi ecclesiastici dell’Ortodossia e di quelle scaturite dal processo della Riforma luterana, è molto legata al sistema feudale di potere perché è mediante esso che ha acquisito autonomia politica, più o meno dall’Ottavo secolo.
  Questo anche se le norme dei diritto canonico, il codice di leggi della Chiesa, parlano ora della parrocchia come di una comunità. Questa idea è un portato della teologia, in particolare di quella scaturita dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Questa teologia non è ancora riuscita ad esprimersi in un corrispondente ordine giuridico. Negli anni ’70 dello scorso secolo si avviò una transizione verso qualcosa di simile, ma tutto fu congelato sotto il ministero di san Karol Wojtyla, il quale governò da imperatore feudale la piena accettazione della democrazia politica da parte della Chiesa nell’organizzazione civile. Sotto certi aspetti è un paradosso. In un mondo organizzato su principi di democrazia politica, la nostra Chiesa sarebbe rimasta in fondo l’unico impero politico-religioso: questa però, dall'anno Mille, è stata sempre la principale ambizione del papato.
  Gli statuti  del consiglio pastorale parrocchiale approvati nelle varie Diocesi richiamano i principi di organizzazione di quelli diocesani. In essi è considerata importante la  rappresentatività,  soprattutto dei laici. Si legge infatti nel secondo comma del canone (=articolo) 512:
2. I fedeli designati al consiglio pastorale [diocesano] siano scelti in modo che attraverso di loro sia veramente rappresentata tutta la porzione di popolo di Dio che costituisce la diocesi, tenendo presenti le diverse zone della diocesi stessa, le condizioni sociali, le professioni e inoltre il ruolo che essi hanno nell'apostolato, sia come singoli, sia in quanto associati.
  I vescovi hanno i problemi dei signori feudali di sempre: sono circondati da corti ossequiose che tendono a separarli dal popolo. Per un parroco è diverso: ignora il popolo solo se vuole così. E’ troppo vicino alle realtà di prossimità. Ma i vescovi spesso risiedono nei loro antichi palazzi feudali, come accade a Roma, e quelle architetture fatte proprio per montar loro la testa possono effettivamente allontanarli dalla gente, e questo  anche pensando di far bene, di avere in quel modo l’anima rivolta al Cielo. Allora si è voluto avvicinar loro la gente, rendendola presente in un ufficio di consulenti i quali, con molto tatto e sempre rispettando la regola dell’ossequio, dicano loro come stanno realmente le cose. In un organo del genere, pieno di laici, anzi  soprattutto  di laici, come è scritto nel primo comma di quel canone  che ho citato, è fatale che si sviluppino processi democratici, gli unici a consentire valutazioni collettive affidabili e condivise. Ma la democrazia non supera la cerchia dei consulenti: anche qui non è né autogoverno né autoamministrazione.
  Questi consigli, a livello diocesano e parrocchiale, sono stati organizzati per collaborare alla programmazione delle attività. Studiare, valutare e proporre conclusioni operative: sono queste le loro attività che sono sintetizzate nel codice di diritto canonico quanto al consiglio pastorale diocesano. Nessun vero potere  è stato trasferito a quei consigli, perché sono al di fuori del sistema feudale ecclesiastico, di quei patti di fedeltà  che coinvolgono solo il clero e istituti di vita consacrata (frati e suore, monaci e monache).
  Sarebbe possibile un’organizzazione realmente democratica della nostra Chiesa? Senz'altro sì. Ma a me basta che sia democratica l’organizzazione pubblica in Europa: questo impedisce gli eccessi e gli abusi che travagliarono fino all'epoca moderna il rapporto tra appartenenza religiosa e civile. La nostra Azione Cattolica è l’esempio di come collettività di fede possano essere organizzate democraticamente senza creare alcun problema alla religione. Ma non vedrò nella mia vita l’abbandono del nostro anacronistico sistema feudale, quindi non ritengo utile ragionarci sopra più di tanto. L’importante è essere consapevoli del contesto. Leggendo queste righe lo siete diventati.
  L’idea di stabilire un collegamento tra il potere religioso e le comunità  governate ci può comunque tornare utile. Questo è appunto il nostro problema in parrocchia, la cui organizzazione, ad un certo punto e molto a lungo, è finita per coincidere sostanzialmente con quella di uno dei movimenti presenti. E’ potuto succedere perché lo staff del clero, da un certo punto in poi, proveniva quasi tutto da quel movimento, compreso il parroco e, in una parrocchia, tutto il potere compete al parroco. Del resto si trattava di un movimento con forte componente  comunitaria: perché non prenderlo come modello per la rivitalizzazione comunitaria  della parrocchia, per fare della parrocchia una vera comunità? Dico questo per evidenziare che tutto si è svolto in assoluta buona fede, con le migliori intenzioni, da parte di persone buone. Il risultato è quello che si è presentato al nuovo staff di preti che è arrivato nell’ottobre 2015 e non può essere considerato buono. Che cosa non ha funzionato? Diciamo così: una parrocchia muore se non si consente un certo pluralismo. La comunità  preesiste, può essere educata, certo, ma non rifatta da capo. E’ questa idea di ricostruire  la comunità non ritenendo soddisfacente quella che preesisteva che, con il senno del poi naturalmente, facendo un bilancio di ciò che è stato, non ha funzionato.
  Si poteva capire che non stava andando bene, che era diventata controproducente? Si poteva. E’ chiaro che qualcosa in alto non ha funzionato, non si sono suggerite, o disposte, correzioni a tempo debito. Del resto il sistema feudale funziona così: purché mantenga l’ossequio al superiore, il potente locale ha molta libertà. Ma, a questo punto, è inutile tornare sul passato. La situazione è cambiata, ma il lavoro da fare si presenta molto arduo. Ecco che una rivitalizzazione del Consiglio pastorale parrocchiale potrebbe servire a creare una struttura di effettivo raccordo con la gente del quartiere che vive la nostra fede. Bisognerebbe riuscire a farvi partecipare anche persone che riscuotano credito tra la gente del quartiere e che siano capaci di rappresentarne il punto di vista. Le regole sull’organizzazione del Consiglio sono piuttosto duttili: è il parroco che decide chi partecipa. In un’ottica democratica questo non va tanto bene, perché gli organi di partecipazione dovrebbero essere un limite al potere, non una sua emanazione. Se si trattasse di un organo coinvolto nell’autogoverno o nell’autoamministrazione, il Consiglio pastorale parrocchiale non dovrebbe essere nelle mani del parroco. Ma è qualcosa di diverso: serve solo a partecipare alla programmazione delle attività. Ora che ci serve più pluralismo, il parroco non ha alcun problema, giuridicamente, a indurlo nominando la gente giusta per ottenerlo. Ma poi questa gente non deve ragionare secondo la mentalità feudale: rispondo solo verso l’alto; purché mi mantenga ossequioso posso fare ciò che voglio nel mio regno, che può essere costituito, ad esempio, anche solo dalla microstruttura parrocchiale di riferimento, dal singolo  servizio. Occorre che accetti di essere messa in discussione con procedura di dialogo democratico e, soprattutto, deve parlare con la gente del quartiere: non cerchiamo monaci. I processi democratici devono estendersi. Non devono partecipare al Consiglio persone che considerino sé stesse, e pretendano di essere considerate, capi assoluti nel proprio settore, movimento o servizio che sia. In ogni struttura deve essere vivo il dialogo democratico sul da farsi e poi esso deve confluire nel Consiglio e da questo rifluire verso la base. In questo modo, con questo movimento di dare e avere, il Consiglio funzionerebbe un po’ come il cuore nel corpo umano, sarebbe il  cuore della parrocchia rigenerata.

 Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli