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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

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venerdì 29 aprile 2022

Manuale pratico di sinodalità - 12 – Libertà – democrazia – popolo/dèmos e popolo ètnos – sinodalità democratica

 

Manuale pratico di sinodalità

-      12 –

Libertà – democrazia – popolo/dèmos e popolo ètnos – sinodalità democratica

 

 Noi  vogliamo  solo ciò che nella nostra società di riferimento è ritenuto plausibile: la libertà  è quindi una costruzione sociale. Questa mentalità  ci definisce addirittura come specie e nessun singolo individuo è capace di affrancarsene.

  Quindi, quando l’uomo moderno  è accusato di voler fare tutto ciò vuole,  si dice una cosa senza senso. L’uomo moderno  vuole secondo un ordine sociale diverso dal passato più antico, ma il suo volere, la sua libertà, rimane una costruzione sociale.

  Ciò che viene principalmente in rilievo nelle questioni del volere  e delle libertà è l’evoluzione sociale. Le società cambiano, questo è sotto gli occhi di tutti. Per quanto le forze sociali più influenti cerchino di programmarne il cambiamento, esso, almeno finora, non è   mai storicamente avvenuto secondo i progetti, anche quelli che si vogliono normativi. Anche questo è sotto gli occhi di tutti.

  In particolare, la deliberazione di una norma secondo una certa procedura non garantisce mai che essa sia osservata. Questo  è molto chiaro ai teorici e pratici del diritto: la norma giuridica, vale a dire deliberata secondo una procedura corretta, non ha lo stesso valore di una norma sociale o di una norma della natura. Le ultime due sono regolarità che vanno trovate studiando i fenomeni di riferimento, la prima va deliberata.

  La devianza da una norma giuridica dipende dall’universo sociale in cui il deviante è inserito. Anche la devianza è una costruzione sociale. Di questo nella scienza del diritto italiano si prese consapevolezza con l’opera del giurista Santi Romano (1875-1947). Anche deviando, vogliamo solo ciò che la società di riferimento rende plausibile. L’indole personale incide solo nella propensione ad accettare rischi.

  Tutto questo ha molta importanza ragionando di democrazia e di sinodalità.

  La prima è un sistema di procedure di governo, la seconda è una procedura di decisione.

  Nessuna società  umana può sussistere se non è governata. Il governo si fa deliberando norme secondo procedure.

  Quando parliamo di democrazia, dobbiamo essere consapevoli che questo concetto non ha avuto nella storia sempre lo stesso significato. Ha però sempre denotato un governo collettivo. Ma storicamente ha significato il governo dei liberi, il governo dei maggiorenti, il governo dei più, il governo di tutti.  Elementi comuni sono stati: riconoscere pari dignità sociale ai decisori, la volontà di accettare le deliberazioni prese secondo procedure predefinite e condivise anche se dissenzienti. Questi elementi collegano il concetto di democrazia  a quello di sinodalità.

  Ai tempi nostri, in Occidente, democrazia viene intesa come governo in cui tutti possono aver parte limitando ogni potere sociale secondo valori. Il primo e fondamentale valore è quello di non accettare nessun potere illimitato. Quindi democrazia  come sistema di limiti secondo valori. In questo contesto ci si riconosce pari dignità sociale in quanto tutti decisori e il popolo, inteso come tutti,  governa limitando ogni potere sociale: questo comporta la costruzione di un sistema di diritti fondamentali della persona, che costituiscono uno dei principali sistemi di limiti caratterizzanti la democrazia come oggi la intendiamo. Sottolineo oggi, perché, ad esempio, ciò che oggi chiamiamo democrazia  è molto diverso da ciò che veniva ritenuta tale nell’antica civiltà ateniese, anche se ancora ne usiamo la concettuologia, ad esempio quando parliamo di popolo – dèmos. Va osservato che, quando parliamo di popolo  riferendoci all’idea di nazione, non pensiamo al popolo – dèmos ma a ciò che gli antichi greci definivano  popolo – ètnos (da cui etnikòi,  appartenenti al popolo),  quindi a una popolazione con determinate caratteristiche sociali e culturali, e in genere antropologiche, per cui, ad esempio, parliamo di italiani. La distinzione mi pare molto importante in teologia (ne parlo però da non teologo), dove noto che si si ragiona in italiano traducendo con pagani ciò che nel greco evangelico era ἐθνικοὶ [le genti, i non giudei], ad esempio in Mt 5,47:

κα ἐὰν σπάσησθε τος ⸀ἀδελφος μν μόνον, τί περισσν ποιετε; οχ κα ο θνικο τ ατὸ⸃ ποιοσιν;

traendone conclusioni che non mi paiono esattamente in linea con il messaggio evangelico. In particolare, nei detti evangelici con etnikòi  si riconosce il pluralismo  dei popoli.

  Quando nella Costituzione conciliare Luce per le genti,  del Concilio Vaticano 2°, si usa l’espressione Popolo di Dio, si intende il popolo – dèmos. Quest’ultimo, a differenza del popolo – ètnos, è un concetto politico, secondo il quale il popolo è la popolazione soggetta a un governo, ma nel contempo quella popolazione è anche riconosciuta come proprio popolo  da quel governo. Nella teologia cattolica, come in altre confessioni cristiane,  il concetto di popolo – dèmos  è costruito in base a un sistema di verità. In quest’ordine di idee, verità  è ciò che deve essere creduto  per essere riconosciuti come popolo. Credere, in questo contesto, significa manifestare convinzioni che corrispondono ad un sentire interiore. L’acculturazione alla fede richiede innanzi tutto la costruzione di quel sentire interiore, che invece non era richiesto nei culti pubblici politeistici precristiani diffusi nel bacino del Mediterraneo. L’idea di verità come discrimine del popolo di Dio, quindi come criterio di riconoscimento ecclesiale, spiega l’idea teologica di  gerarchia della verità,  che altrimenti non avrebbe senso. Le verità  teologiche possono essere pensate come gerarchizzate  in relazione alla loro forza  come discrimine ecclesiale.

 Quando nella politica di governo degli Stati Uniti d’America o della Federazione russa si fa riferimento a una missione storica dei rispettivi popoli, si parla di popolo  nel senso di popolo – ètnos. Questo è molto importante per comprendere la neo-ideologia del fascismo putiniano, assecondata dal patriarcato ortodosso di Mosca, che assegna alla Russia, come popolo – ètnos,  un ruolo missionario per la difesa della fede cristiana.

  Quando nell’attuale Occidente si parla di democrazia  si fa anche qui riferimento al popolo – dèmos. La caratteristica fondamentale della democrazia come oggi la si intende è che  è un sistema di governo in cui il concetto di popolo – dèmos  non è costruito solo in base alla soggezione ad un governo, ma anche al potere del popolo, mediante specifiche procedure, di limitare il potere del governo e, in genere, ogni potere sociale. Come, però, si diventa parte del popolo-dèmos? Qui vi è ancora una interferenza tra l’idea di popolo – dèmos  e quella di popolo – ètnos. In questo senso, ad esempio, si parla di popolo italiano come della popolazione  alla quale è riconosciuta la cittadinanza italiana, in base ad una legge nazionale, ma la linea evolutiva finora dell’idea democratica è nel senso di riconoscere come popolo tutti, sulla base della sola appartenenza alla specie umana, riconoscendo a tutti  determinati diritti fondamentali, che sono correlativamente limiti  ai poteri sociali. Quest’idea è espressa, ad esempio, nell’art.2 della nostra Costituzione:

 

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

 

  Al secondo comma dell’art.1 si parla di una sovranità  che appartiene al popolo, ma solo nelle forme e nei limiti della Costituzione. Un popolo  che, come è scritto nel primo comma dell’art.3, è composto di uguali senza distinzione di razza e di lingua, concezione che si distacca marcatamente dall’idea di popolo – ètnos. Tanto che la sovranità appartiene al popolo, è scritto, non  al popolo italiano. Sovranità, poi, significa non riconoscere altri poteri sopra di sé, ma, se deve essere esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione, non è più tale, perché si riconosce soggetta ai principi fondamentali, tra i quali i diritti inviolabili dell’uomo. Questo, dei ripudio della sovranità, per il quale anche il potere del popolo è limitato, diventa quindi il  principio fondamentale di queta concezione della democrazia. Esso, la base ideologica e politica della costruzione democratica del popolo – dèmos,  non è però una verità,  ma un impegno etico reso plausibile dal contesto sociale europeo contemporaneo. Non richiede di essere creduto, ma solo praticato.

  Come si capisce c’è una forte tensione tra il concetto di popolo – dèmos  ecclesiastico, in particolare cattolico, e quello di popolo – dèmos  democratico. E’ essa sostanzialmente a creare i maggiori problemi di compatibilità ecclesiale della democrazia. Questo perché il sistema di verità ecclesiastico è stato costruito nel Quarto secolo a sostegno di un’ecclesiologia che voleva sottomettere un solo  popolo, fatto di tutta l’umanità, ad un unico imperatore,  elevato a Vicario del Cristo e quindi a unico mandatario del Cielo. Nel Secondo millennio questa sovranità imperiale venne rivendicata, con un certo successo pur tra alterne vicende, dal Papato romano. L’impianto ideologico che sorregge questa concezione è ciò che in teologia è definito cristologia, e ve ne sono state diverse, a seconda dell’evoluzione sociale e politica delle società cristianizzate. Anche i documenti del Concilio Vaticano 2° ne contengono alcune, che vennero presentate, in modo immaginifico, come un ritorno  alle origini, pur essendo in alcuni punti piuttosto innovative. Come talvolta accade nelle ideologie, si trattò prevalentemente di un ritorno a un neo-passato.

  Quando parliamo di riforma sinodale  della nostra Chiesa, come fa il Papa, deve intendersi che si vuole incidere sull’idea normativa di popolo – dèmos in senso propriamente democratico. E’ per questo che il cammino sinodale  è stato proposto a tutti. Coloro che pregiudizialmente, in base al sistema di verità ecclesiali, sanciscono l’incompatibilità tra democrazia e sinodalità in quel senso si mettono di traverso per bloccare la via. Accusano di voler mettere in questione Cristo, ma in realtà difendono un sistema di potere immaginificamente costruito su una cristologia ideata nel Quarto secolo e riformata nell’Undicesimo per sostenere quelle che propriamente sono autocrazie. Le autocrazie cristianizzate non scendono dal Cielo ma cercano di salirvi, per sacralizzarsi e rendersi indiscutibili. Il processo contrario è la secolarizzazione: essa è alla base dei processi democratici, che non riconoscono nulla di indiscutibile.

  Storicamente la sinodalità iniziò ad essere praticata, dall’inizio del Terzo secolo (il primo sinodo documentato è quello di Cartagine del 225) come forma di intesa tra gerarchi  ecclesiastici, quindi tra detentori di un potere sacrale, su  verità normative,  per definire chi potesse essere riconosciuto, continuare a essere riconosciuto, riammesso, come popolo – dèmos  della Chiesa e su problemi disciplinari. Nella Chiesa cattolica rimase sostanzialmente questo fino alla riforma deliberata durante il Concilio Vaticano 2°. Le presunte virtù di questa sinodalità mi sembrano essere piuttosto sovrastimate. In realtà le cose non si  misero sempre bene e ciò può dirsi anche per l’esperienza millenaria dei concili ecumenici, che su quella forma di sinodalità si basarono, con la differenza che dal Quarto al Quindicesimo secolo vi ebbero parte determinante poteri politici non propriamente ecclesiastici. Ma ciò che costituisce il principale problema nell’ispirare la nostra attuale esperienza sinodalità a quella sinodalità tra gerarchi è che quest’ultima è centrata sulla deliberazione di verità normative, cosa che non rientra nel campo della sinodalità che invece ai tempi nostri si vorrebbe sviluppare. E tuttavia il sistema normativo di quelle verità la limita abbastanza nella sua pretesa di apertura alla democraticità, intesa nel senso che tutti  debbano avere voce nelle decisioni che li riguardano, innanzi tutto limitando ogni potere che pretenda assolutezza. Il problema principale è la costruzione di una gerarchia  che si vuole sacra, quindi indiscutibile. Nel sistema della gerarchia ecclesiastica, come in quella delle verità, la forza scende dall’alto, mentre nel sistema democratico dal basso scaturisce una forza che costituisce il limite di ogni altra. E’ paradossale però che proprio dal potere che, almeno per il diritto canonico, ha riconosciuta quell’assolutezza al massimo grado, quello del Papa, provenga ora l’esortazione a quella che potrebbe definirsi sinodalità democratica. Questo si spiega con il mutamento delle società in cui il cristianesimo è ancora diffuso, a cui devono conformarsi le istituzioni sociali, anche ecclesiali, se non vogliono perire, dissolvendosi. L’autocrazia è divenuta socialmente obsoleta e serve sempre meno come collante sociale, soprattutto nelle realtà di base, dove la gente ha rapporti faccia a faccia. E’ molto significativa anche l’evoluzione che mi pare di cogliere in teologia da un’idea di appartenenza  basata su procedure liturgiche formali ad una fondata sulla comune umanità, per cui si è figli  in quanto appartenenti alla specie umana.

  Va detto, che come da più parti si osserva, la crisi delle democrazie europee, resa manifesta ad esempio nel conflitto che si sta combattendo in Ucraina tra stati formalmente democratici e cristianizzati, potrebbe comportare un arretramento di quest’idea di popolo dèmos  verso una più rispondente a concetto di popolo – ètnos,  come appare nei sovranismi  europei, dei quali il fascismo russo putiniano può essere considerato una sottospecie.

Mario Ardigò

 

   

 

 

 

giovedì 28 aprile 2022

 

PROSSIMAMENTE LA PROPOSTA DI UN GRUPPO DI LETTURA QUINDICINALE SULLA PIATTAFORMA MEET

 

 Leggere nutre, ma leggere insieme è un nutrimento più sostanzioso: è la base di un tirocinio di sinodalità, a cominciare dalla decisione su che cosa leggere

mercoledì 20 aprile 2022

Manuale pratico di sinodalità - 11 – La sinodalità come esperienza di libertà

 

Manuale  pratico di sinodalità

-      11 –

La sinodalità come esperienza di libertà

 

 

  Chi in questi mesi ha fatto pratica di sinodalità ha fatto esperienza delle difficoltà che sorgono su quella via.

  E’ perché essa mette in campo la nostra capacità di libertà.

 Di solito non viene presentata in questi termini, ma è proprio questo che dovrebbe essere. Non se ne parla come di una esperienza di libertà perché nella nostra Chiesa, e in particolar modo tra clero e religiosi, si diffida della libertà come di una fonte di arbitrio personale e di disordine sociale.

 Sinodalità  popolare, che è quello che il Papa (e pochi altri oltre a lui) cerca di indurre tra noi e in noi, significa codecisione. Libertà significa poter aver parte nelle decisioni che ci riguardano. Sinodalità (e anche democrazia) è la libertà nella sua forma collettiva.  

  Di solito in ambito ecclesiale la libertà viene diffamata come la pretesa di fare tutto ciò che si vuole.

  Nessuno fa mai tutto ciò che vuole, innanzi tutto perché  si vuole solo ciò che in società viene messo in decisione. Questo perché siamo viventi sociali in modo molto profondo ed esteso e non sappiamo vivere in altro modo. Questo significa che l’ambito della libertà è un dato storicamente e socialmente condizionato. Si può essere liberi nella misura in cui ciò è socialmente contemplato. Questo si apprezza meglio quando si passa, come oggi è più facile fare che un tempo, da una società all’altra. L’ambito delle libertà, in tal caso, non solo si restringe o si estende ma diventa anche diverso. Per capire come  essere liberi noi guardiamo alla società intorno a noi: essa ci indica le alternative, che però, in teoria, non sono mai le uniche possibili, ma  socialmente  lo diventano.

  L’esempio sotto gli occhi di tutti è quello della moda. Non c’è nessuna legge che ci imponga come vestirci, ad esempio che gli uomini debbano vestirsi da uomini  e le donne  da donna. La moda per uomini e donne è molto cambiata storicamente e a seconda dei luoghi del mondo. Eppure, quando acquistiamo degli abiti, se siamo uomini scegliamo tra i vestiti che vengono venduti nel reparto uomini  di un grande magazzino e così fanno le donne.

  Ma chi decide, allora, l’ambito delle libertà?

  E’ in frutto di un sistema complesso di relazioni, dove alcune persone o gruppi contano più degli altri ma nessuna persona e nessun gruppo è arbitro assoluto e le regole di riferimento possono variare più o meno rapidamente.  Ed esse devono  cambiare, perché le stesse società cambiano e la loro sopravvivenza richiede che ne cambino anche le culture e i costumi.

  Il principale problema delle società contemporanee, interconnesse da ogni punto di vista in modi che mai si erano vissuti nel passato, è costruire un nuovo contesto di libertà, quindi anche nuove capacità di libertà, che rendano possibile la sopravvivenza di una umanità fatta di otto miliardi di persone, una quantità che rende imprevedibili  con precisione gli eventi, apprezzabili solo da un punto di vista statistico. Ma non solo imprevedibili, ma anche difficilmente fronteggiabili da centri d’autorità superiori. Occorre che tutti facciano la loro parte.

  L’esperienza di sinodalità significa appunto  imparare a fare la propria parte,  imparando nuove libertà.

  Chi presenta la sinodalità come il metodo per cui tutti decidono di buon grado di fare quello che si decide al vertice, è fuori strada. E’ per questo che la sinodalità che si vorrebbe indurre viene presentata come scaturente  dal basso.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 19 aprile 2022

Metz: la Chiesa della compassione (2002)

Metz: la Chiesa della compassione (2002)


mail di mio zio Achille Ardigò del 2002

  Johann Baptist Metz, noto teologo cattolico , autorità nel campo della teologia politica. E' uno scritto che tende a proporre a chi soffre una Chiesa della compassione piuttosto che  della colpa . Forse e' una interpretazione che trascura la dimensione verticale, mistica. Ma tu ora sei nelle condizioni diconnettere la tua privata esperienza di dolore come ad un tempo  anche una esperienza che richiede una qualche riforma dell'intera Chiesa . Attendo senza  fretta una tua nota in e-mail.

  Sofferenza personale e insieme confidenza nella Provvidenza di Dio,  sollecitano a rendere necessario il legame tra percorso soggettivo  e il carisma della Chiesa semper reformanda.

Un abbraccio tuo zio Achille (2002:

L'ELEFANTE CATTOLICO

Per una Chiesa della compassione per chi soffre

(2002)

Intervista a Johann Baptist Metz
Michael Jacquemain: Professor Metz, come percepisce Lei la chiesa oggi?

J.B. Metz: Oggi non è, in ogni caso, il tempo di un nuovo grande  concilio, non è il tempo di un'apertura sinodale come 25 anni fa.

  Oggi è tempo di pausa per i grandi eventi. I malintesi da una parte e  le delusioni dall'altra si accumulano. Le crisi, così sembra, sono  sempre più ricorrenti. Non si tratta più di trovare vie "d'uscita" dalla crisi, bensì vie dentro la crisi.


- Come potrebbero essere queste vie?

Metz: Non conosco alcuna risposta passabile. Ho però un'immagine, una  metafora a me familiare da tempo: è la metafora dell'elefante,  dell'elefante cattolico, che ha pur sempre già attraversato  pesantemente molte soglie epocali, anche se alquanto faticosamente.

  Mi lasci chiarire un poco questa metafora, applicandola alla nostra  situazione. La chiesa cattolica, con un miliardo di cattolici sparsi  per le chiese del mondo, è pur sempre così grande e grossa come un elefante, dotata di una memoria da elefante nella quale, cosa  difficile altrove, sono conservate storia del mondo e storia dello spirito, storia delle civiltà e storia delle religioni, aspetti liberanti e aspetti pesanti, luci e tenebre. La chiesa cattolica, insensibile e testarda come un elefante, e questo ormai assolutamente in una duplice prospettiva: insensibile in primo luogo nei confronti  delle seduzioni e delle suggestioni del cosiddetto spirito del tempo,  una specie di produttiva inattualità. In secondo luogo, però, insensibile anche e sempre più verso quelli che stanno seduti in alto e indicano la strada agli elefanti.


- Quali strade dovrebbe dunque percorrere l'elefante?

Metz: Nella chiesa cattolica in realtà molte cose cambiano, ma  appunto piuttosto senza forma, per così dire in modo passivo, sotto la spinta anonima di condizioni indefinite, indeterminate. Occorre il  cambiamento che abbia una sua forma, in questo senso l'autentica riforma. Altrimenti si profila un pericolo per il cristianesimo di chiesa. Un pericolo invero che può sembrare non drammatico, che però,  a mio avviso, possiede una forza elementare. Si giungerà allora ad un  consolidamento della cosiddetta chiesa-di-servizi borghese, ad una stabilizzazione di quella chiesa di servizi che nei nostri sogni sulla chiesa già una volta abbiamo creduto alle nostre spalle. Le  uscite dalla chiesa presumibilmente continueranno a diminuire, ma l'indifferenza dentro la chiesa continuerà invece ad aumentare. In un mondo confuso e complicato aumentano sempre più i bisogni che fanno  da cornice alla vita. Quale rappresentante di un ambito di vita, la chiesa, perciò, troverà ,in questo mondo, attenzione anche in futuro.

  Ma che ne è delle sue opportunità in quanto rappresentante di una  possibilità di dar forma alla vita? Mi permetta allora di ricorrere ancora una volta alla metafora dell'elefante per mettermi in ricerca della proverbiale sensibilità di questo bestione: ci interroghiamo  sull' "anima sensibile" dell'elefante cattolico, della quale potrebbe alimentarsi la forza dell'orientamento.

Quale potrebbe essere la bussola per questo orientamento?

Metz: Questa anima sensibile dell'elefante sarebbe, ai miei occhi, una chiesa della compassione, una chiesa della assunzione  partecipante del dolore altrui, una chiesa del coinvolgimento quale  espressione della sua passione per Dio. Poichè il messaggio biblico su Dio è, nel suo nucleo, un messaggio sensibile alla sofferenza:  sensibile al dolore altrui in definitiva fino al dolore dei nemici.

  Sottolineo molto questo perchè la chiesa, come il cristianesimo, ha avuto fin dall'inizio grandi difficoltà soprattutto con questa elementare sensibilità alla sofferenza, propria del messaggio  biblico. La questione della giustizia per chi soffre innocente,  questione che inquieta le tradizioni bibliche, fu infatti molto  presto e molto velocemente, troppo velocemente, trasformata e  riformulata come questione della redenzione dei colpevoli. La dottrina cristiana della redenzione ha drammatizzato troppo la  questione della colpa e ha relativizzato troppo la questione della  sofferenza. Il cristianesimo si è trasformato da religione primariamente sensibile alla sofferenza in una religione primariamente attenta alla colpa. Sembra che la chiesa abbia avuto  sempre mano più leggera con i colpevoli che con le vittime innocenti.


Sono ancora disponibili i cristiani, oggi soprattutto, a comprendere ciò che Lei intende con 'compassione'?

 

Metz: Dapprima devo ammettere che non conosco alcuna parola tedesca  che vada bene per indicare ciò che io intendo con percezione  partecipante del dolore altrui. 'Patire-con' (Mitleid) suona in modo  troppo non-politico, è parola sospettata di mascherare col sentimentalismo le dominanti sofferenze ingiuste e innocenti. Così mi sono deciso per 'compassione' (Compassion). Può essere che molti  ritengano questo cristianesimo della compassione un vago romanticismo  pastorale. Certo, questa compassione è una grande provocazione,  proprio come tutto il cristianesimo, come la sequela, come Dio. Ma in definitiva il primo sguardo di Gesù non andava al peccato degli  altri, bensì al dolore degli altri. Nel linguaggio di una religione  borghese irrigidita in se stessa, che davanti a niente ha tanta paura  quanto di fronte al proprio naufragio e che perciò continua a  preferire l'uovo oggi alla gallina domani, questo è difficile da  spiegare. Dobbiamo invece metterci sulle tracce di una durevole  simpatia, impegnarci in una disponibilità coraggiosa a non eludere il dolore degli altri, in alleanze e progetti-base della compassione che  si sottraggano all'attuale corrente della raffinata indifferenza e  della coltivata apatia, e che rifiutino di vivere e celebrare  felicità e amore esclusivamente come messe in scena narcisistiche di apparato. Mi sia permesso, infine, tornare ancora una volta brevemente all'immagine dell'elefante cattolico, a questo miliardo di  cattolici. Se essi veramente, nei loro differenti mondi di vita,  osassero questo esperimento della compassione e se alla fine si
arrivasse ad un ecumenismo della compassione tra tutti i cristiani,  non potrebbe questo gettare una nuova luce sul nostro mondo  globalizzato e al tempo stesso così dolorosamente lacerato?

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Editrice Queriniana, Brescia



Johann Baptist Metz è uno dei teologi cattolici più noti internazionalmente. Discepolo di Karl Rahner, è andato oltre la  teologia antropologico-trascendentale del suo maestro e ha proposto  la nuova teologia politica, e cioè una riflessione teologica attenta  alla dimensione pubblica, sociale e pratica del cristianesimo.

 In questa intervista il teologo di Münster assume la categoria della compassione come più originaria nella caratterizzazione del messaggio  e della pratica cristiana.
Nella celebre prolusione viennese (inserita in "Cammino e visione",  Queriniana 1996) aveva scritto: "Il cristianesimo si è trasformato da  una morale della sofferenza in una morale del peccato. Un  cristianesimo sensibile al dolore è diventato un cristianesimo  sensibile - in misura troppo esclusiva - al peccato. L'attenzione  prioritaria è stata prestata non alla sofferenza della creatura,  bensì alla sua colpa. L'annuncio cristiano è diventato soprattutto  una euristica dei sentimenti di colpa e della paura di peccare.

 Questo ha paralizzato la sensibilità del cristianesimo per la sofferenza dei giusti e ha offuscato la visione biblica della grande  giustizia di Dio". Questa analisi e questo giro di pensieri è ora  assunto sotto la categoria di compassione.

 

lunedì 18 aprile 2022

Eusebio = Gelasio - Democrazia

 Eusebio – Gelasio – democrazia

La democrazia, come oggi la concepiamo, e la intendiamo in maniera molto diversa dai secoli passati, ha come modello la città di luce donata dall'alto che chiude le grandi visioni dell'Apocalisse.  E' chiaramente anche una costruzione cristiana.

  La Chiesa, invece, è ancora affascinata dall'idea di impero di Cristo (non: cristiano) immaginata durante la grande riforma delle istituzioni pubbliche dell'impero romano (con il suo centro in Tracia, però), dal quale ricevette anche il modello di magnificenza sacrale che ancora pratica nelle sue liturgie solenni. All'epoca una cosa straordinariamente nuova. Le nostre conoscenze dei cristianesimi delle origini fu a lungo dipendente dal pensiero di uno dei più grandi protagonisti di quella storia, il vescovo palestinese di cultura ellenistica, Eusebio di Cesarea, vissuto tra il Terzo e il Quarto secolo.

 Quando fui un ragazzo del liceo, un'estate, durante una vacanza sulle Dolomiti, a Serrada di Folgaria, conobbi don Gianni Baget Bozzo, un amico di mio zio Achille e di mio padre, mentre stava scrivendo la prima parte della sua grande opera sulla storia del partito cristiano. Lui e lo zio Achille discutevano dei problemi che don Gianni stava affrontando. Dal Quinto secolo, mi spiegarono, le Chiese cristiane evolsero secondo due schemi, quello di Eusebio di Cesarea, fondato sull'idea di un imperatore vescovo e vicario di Cristo, e quello riconducibile all'africano Gelasio, papa a Roma nel Quinto secolo, fondato sull'accentramento dei poteri religiosi nella gerarchia del clero e sulla sottoposizione ad essa dei poteri  civili. Nel Primo Millennio fu il primo a dominare, nel Secondo Millennio il secondo fu alla base della costruzione del Papato imperiale a partire dalla riforma ordinata e attuata dal toscano papa Gregorio 7° (Undicesimo secolo): di questa riforma fu parte la teologia del Papa come Vicario di Cristo. L'idea di regalità, nel primo e nel secondo modello, dipendeva dalla costruzione di quella di Cristo, re dell'Universo, Pantocratore nella concezione bizantina, fatta dal Quarto al Nono secolo. Questa immagine di Cristo è molto diversa da quella riconducibile al magistero terreno di Gesù di Nazaret, anche se ne può essere considerata uno sviluppo, nel senso che alcuni detti del Maestro che troviamo nei Vangeli canonici possono avvalorarla. Tuttavia va considerato che l'idea di Cristo  che troviamo in quegli scritti è ancora molto dipendente da quella di Messia che si aveva nell'ebraismo del Primo secolo, che nel greco antico si rese appunto con Cristo. L'ideologia dossettiana, secondo Baget Bozzo (che era stato dossettiano), richiamava il modello eusebiano. Quella di De Gasperi il modello gelasiano. Tutti questi discorsi sono posti all'inizio del libro di Baget-Bozzo Il partito cristiano al potere: la Dc di De Gasperi e Dossetti, 1945-1954. 

  Tuttavia, mi spiegò mio zio Achille, c'era sempre stato un terzo modello di Chiesa:  appunto quello della città di luce del cap. 21 dell'Apocalisse. E' proprio ad esso che pensava Giuseppe Dossetti, era  questo che aveva affascinato anche i primi teorici e pratici della democrazia, in nord America, ed era anche quello a cui aspiravano i cristiano democratici europei, e la ragione della loro scomunica durante la persecuzione antimodernista. E' tratteggiato in una raccolta di scritti di Dossetti pubblicato con il titolo Per la vita della città [disponibile anche in ebook per Zikkaron, 2017]. In questa visione, la manifestazione della gloria della Chiesa non sarà opera umana, ma sarà interamente opera di Dio, verrà in un battito di ciglia, secondo la suggestiva espressione di Paolo. Mio zio Achille, nelle sue periodiche conversazioni che mi teneva, essendo egli il mio padrino di Cresima, mi iniziò a questa visione, che ancora ho nel cuore. Nell'ordine di idee basato sul modello Gelasiano, la Chiesa è invece una specie di macchina organica divisa per organi e funzioni, che ingloba sacralità e regalità, impersonando  sulla Terra la presenza del Maestro ed esercitandone la regalità in modo vicario. Nel modello, diciamo così, apocalittico non vi sono vicari, perché Dio abita fra gli uomini, e il mondo di prima non c'è più, e non ci sono più neanche diseguaglianze per funzioni diverse esercitate, costrizioni determinate dalla ragion di stato nel governo, né inimicizie. Uguaglianza, libertà, fraternità. Questa visione è alla base della  costruzione europea, nella quale i cristiani democratici furono protagonisti. Una suggestione: la bandiera dell'Unione richiama l'Apocalisse, contiene la corona di dodici stelle  sul capo della donna vestita di sole del capitolo 12 dell'Apocalisse. L'autore del bozzetto, il francese Arséne Heitz, era un cristiano, e spiegò così il senso della sua opera; la risoluzione del Consiglio dei ministri dell'allora Comunità economica Europea per approvare quella bandiera è dell'8 dicembre 1955, solennità dell'Immacolata Concezione, introdotta cinque anni prima.

Mario Ardigò


Affrontare la complessità

Affrontare la complessità


  A chi la osserva superficialmente la nostra Chiesa appare cosa per vecchi, bambini ed illusi estatici. Questo accade perché in genere viene predicata così. La complessità viene riservata a clero e religiosi (maschi), che però sono sempre meno e sempre più anziani. Così, quella che veniva paventata come ipotesi remota ora è veramente più realistica: vale a dire l’estinzione. Di tutto: Chiesa e fede. Del resto, la riforma tentata dagli anni Sessanta, l’ultima di moltissime condotte nei due millenni della nostra tremenda storia ecclesiale  per cercare ciclicamente di  rivitalizzare la nostra esperienza religiosa in modo da renderla ancora utile come criterio di orientamento in una realtà sociale profondamente mutata, è sostanzialmente fallita. Non è questa la sede per tentare di capirne le ragioni, ma così è. Va aggiunto che questo comprometterà anche il processo ecumenico, il progressivo avvicinamento delle esperienze religiose delle Chiese cristiane, alcune delle quali ricadute nei tristi e violenti costumi del passato, in cui furono  strumento di sacralizzazione di poteri politici impostisi e mantenuti  con la violenza e le guerre di sopraffazione e rapina. In quanto ritornano ad essere questo, esse meritano di essere combattute senza quartiere al pari delle organizzazioni criminali, con gli strumenti del pensiero e del diritto umanitario. L’ecumenismo, come la pace sinodale in genere, richiede di essere costruito, e innanzi tutto pensato, confrontandosi con la complessità sociale. Le Chiese schierate in guerra cercano solo di distruggerla.

  La leggenda di Francesco d’Assisi viene in genere proposta per scoraggiare quel lavoro di affrontare la complessità. Si sogna,  così, di diventare persone semplici e in questo modo di cambiare una società violenta. Ma il principio dell’ evangelium sine glossa, vale a dire praticare il vangelo senza interpretarlo alla luce delle diverse situazioni, rende impossibile la costruzione sociale orientata secondo i principi evangelici, come subito capirono gli stessi religiosi che si ispirarono alla via francescana, che infatti presto l’abbandonarono. Letteralmente, senza glosse quindi, non c’è nei Vangeli ciò che Francesco pretese di leggervi. Anche la sua, in definitiva, fu una interpretazione evangelica alla luce dei suoi tempi. Certamente, da ciò che ne sappiamo, Gesù di Nazaret non visse come Francesco. Il suo blando anarchismo verso i poteri religiosi del giudaismo di allora contrasta nettamente con la severa professione di obbedienza al papato che Francesco espresse e praticò. Con i canoni contemporanei potremmo definire la teologia di Francesco, perché tale fu, come un  rivolta non violenta contro i costumi dissoluti delle gerarchie religiose del suo tempo. Propriamente, quindi, un tentativo di riforma religiosa praticata dal basso mentre la si pensava. In questo l’analogia con i processi di riforma sinodale voluti da Papa Francesco, il quale, fin dal nome scelto per il suo supremo ministero, al santo medievale intende ispirarsi.

  I cristianesimi antichi furono molto più di come le bambinesche favole devozionali ce li presentano. Furono innanzi tutto frutto di un intenso lavorio intellettuale, opera di scrittori che poi gradatamente divennero anche capi religiosi, dialogando e anche combattendosi nel campo della costruzione sociale. Già gli scritti attribuiti a Paolo di Tarso, i più vicini agli eventi evangelici, ne sono espressione. Ma non corrisponde al vero quanto superficialmente sogliono ripetere certi polemisti irreligiosi  che il cristianesimo sia stato costruito da Paolo. Ho letto che, invece, il paolinismo tardò abbastanza ad affermarsi. Fin dalle origini non si manifestò il cristianesimo ma un insieme molto variegato di cristianesimi che però vollero entrare in relazione non appagandosi mai della propria sfera particolare di influenza sociale  che ciascuno era riuscito a conquistare: ed è ancora oggi così, anche nella nostra Chiesa, nonostante la posticcia e fantasiosa immagine di uniformità che vi si vuole appiccicare sopra. Non basta sottomettersi ad un unico gerarca per essere un’anima sola. Egli può porsi al servizio dell’unità, ma non ne può essere il fattore esclusivo. L’unità di spirito che i cristiani chiamano agápe è  costruzione sociale collettiva, frutto di pensieri e pratiche in relazioni, dalle quali nessuno è escluso, anche se pensi di esserlo; è una risultante delle forze sociali in concreto operanti.

  In questi desolanti tempi di guerra andrebbe intensificato il lavoro sinodale sulle vie di una convivenza di nuovo pacificata. Ciò richiede di entrare in dura polemica con i circoli di governo che hanno ordinato la guerra, tutti, obbligando le popolazioni sottomesse a prendervi parte. Si preferiscono invece vie consolatorie, ad esempio, affidando l’avvento di una nuova pace alla potenza celeste, nel frattempo cercando di recuperare un qualche benessere psicologico, in particolare cercando di chiamarsi fuori rovesciando il peccato di guerra sugli altri. O chiamando il Cielo a proprio sostegno: c’è chi accusa questo atteggiamento di blasfemia, ma in realtà fu quello adottato per millenni, dal quale solo molto di recente tra i cattolici ci si è cominciati ad affrancare, con scarso successo. 

 Di solito si intende il comando evangelico di fare agápe con il nemico (ἐχθρόs - echtròs,questo il termine del greco antico usato nei Vangeli, che indica principalmente l’avversario personale, mentre per il nemico di guerra c’è πολεμικός  polemikòs), nel senso di un qualche trasporto sentimentale verso le persone di coloro che ci sono avversi, che poi, di solito, non viene naturalmente corrisposto, perché nulla si fa per rimuovere le cause di inimicizia, e allora ci si rassegna e si assegna all’avversario la parte del malvagio. Non è questo che però ci viene comandato. Il sentimento conta poco. Occorre agire sulle cause sociali dei conflitti e, in ciò, mettersi in questione. Negli attuali frangenti di guerra chi lo fa  viene invece accusato di intelligenza con il nemico e di disfattismo. Eppure questa è la strada per costruire la pace indicata da papa Francesco in alternativa a quella della guerra che anche i governi occidentali hanno intrapreso.

  Il confronto con la complessità richiederebbe di non fermarsi a constatare chi per primo ha varcato la frontiera del vicino, cercando poi di procurare la vittoria di chi ha subito l’invasione. Questa vittoria è impossibile. Nessuno può infatti  vincere una guerra simile, che rapidamente sta degenerando in un conflitto continentale tra Europei occidentali e Europei orientali, la guerra che per oltre settant’anni non abbiamo combattuto perché ci terrorizzava, in quanto implicava il rischio della catastrofe totale. Sapevamo bene appunto,  allora, ma ora pare non più, che una guerra simile non può essere vinta da nessuno.

  La nostra colpa, di Occidentali ricchi e potentemente armati? Non aver saputo costruire ai confini tra ucraini e russi un processo analogo a quello che in Europa occidentale ha condotto all’abolizione delle frontiere, e quindi alla pace tra Stati nazionali che dal Seicento si erano aspramente combattuti. In quell’arte di pacificazione i cristiani democratici, e tra essi i cattolici, ebbero un ruolo molto importante, avendo affrontato il faticoso lavoro di confrontarsi con la complessità sociale, uscendo dall’ideologia favolistica che non di rado viene spacciata per spiritualità adatta alle persone laiche. Non è un caso che proprio nel mesto declino del cristianesimo democratico, nell’ultratrentennale duro inverno ecclesiale che ci ha tanto cambiati, è rinato potente lo spirito di guerra, contro il quale i popoli europei sembrano non avere più anticorpi.

 Bisogna trovare la forza di ripartire. In particolare dai più giovani, quelli che nella guerra hanno più da perdere.

  Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

  


   


domenica 17 aprile 2022

Ordinare la pace

 Ordinare la pace


      La formazione alla pace dei fedeli si rivela, di questi tempi, insufficiente.

 In particolare, le persone non riescono a distinguere tra le guerre e altre violenze che riguardano singoli o gruppi più limitati.

 Si può parlare di guerra solo nel caso di violenza organizzata, e anzitutto ordinata, da un ordinamento politico che, in una certa area geografica, definita territorio, sia riuscito a prevalere su ogni altro, riuscendo, in particolare, a farsi obbedire. Ogni altro tipo di violenza, anche molto intensa, anche organizzata, non può essere definita guerra.

  L’utilità di fare questa distinzione sta in questo: ad una guerra propriamente detta non ci si può sottrarre volontariamente, con una decisione presa nella propria coscienza. E anche ciò che chiamiamo obiezione di coscienza verso la guerra vale solo nei limiti in cui chi ordina la guerra la riconosce.

  Questo spiega come possa accadere che la dottrina sociale tuttora insegnata non consideri le violenze dei soldati in guerra come una colpa personale, nei limiti in cui ci si sia limitati ad obbedire. C’è ancora una teologia della guerra giusta, che implica che non tutte le guerre lo sono, ma si ritiene che solo chi è al vertice degli ordinamenti politici capaci di ordinare la guerra abbia la competenza per valutare quando una guerra lo sia, e in teoria possa rispondere personalmente del peccato di guerra (perché la guerra rimane un peccato grave, in quanto va contro ad uno dei principali comandamenti evangelici). Quindi la nostra Chiesa in genere non ha ordinato l’obiezione di coscienza se non al clero e ai religiosi, istituisce cappellani negli eserciti dove ciò è ammesso, e benedice anche le truppe quando le è richiesto. È accaduto che la nostra Chiesa abbia benedetto certe guerre, o addirittura le abbia ordinate, quando ebbe la forza politica di farlo, ma, ai nostri tempi, l’assistenza religiosa alle truppe viene giustificata con il fatto che sono composte di persone in grave pericolo di vita. Naturalmente ciò comporta un brutale ridimensionamento della predicazione, decurtandola del comandamento di cercare di includere nell’agápe anche i nemici.

  In guerra sono ordinate e vengono compiute incredibili ed efferate violenze su larghissima scala. È ipocrita chi se ne stupisce. Le guerre si fanno così.  Ma chi combatte non ha un fatto personale con quelli dell’altra parte. Combatte e uccide perché così gli è stato ordinato, e quando è in battaglia cerca di uccidere per non essere ucciso.

 Ritornata la pace, quando la si è ordinata, accade che i governi un tempo belligeranti organizzino eventi in cui tra ex nemici ci incontra per onorare tutti i caduti. Così facendo si continua a riconoscere l’indispensabilità della guerra, la virtuosità del coraggio in battaglia (che si manifesta nel rischiare gravemente la propria vita per distruggere e uccidere il più possibile), quindi ad accreditare la plausibilità della guerra come istituzione politica.

   Il combattente che sopravvive a una guerra è chiamato veterano. Da anziani, i veterani diventano reduci. In quelle occasioni di commemorazione dei caduti di cui dicevo, accade che partecipino reduci di entrambi gli schieramenti, con le loro divise, i quali incontrandosi nella cerimonia non si sbranano più come in guerra era stato loro comandato di fare, ma si salutano come vecchi amici. Questo mi è sempre sembrato un controsenso. In realtà, nell’ottica della politica di governo che ammette l’istituzione della guerra, non lo è: da quel punto di vista, obbedire all’ordine della guerra è una elevata virtù civica; quindi chi ha obbedito combattendo è onorato anche dall’ordinamento politico che animava il nemico. La politica dei governi in genere costruisce ideologie di disprezzo sociale verso coloro che rifiutano obbedienza in guerra, diffamandoli come vili. Sta accadendo anche ora, in questi tristi tempi di guerra, in questa guerra con la Federazione Russa che anche l’Italia sta già combattendo. Infatti armare uno dei belligeranti è già fare guerra. Si può osservare che questa guerra non è stata ordinata nelle forme previste in Costituzione, lo stato di guerra non è stato infatti deliberato, e il dibattito parlamentare sull’invio di armi e sul riarmo è stato viziato dalla medesima ipocrisia praticata dal governo della Federazione russa: ci si è vietato di chiamare guerra la guerra.

  Dagli scorsi anni Cinquanta si è capito, in Europa e a seguito dell’esperienza della Seconda guerra mondiale, conclusa con le atroci stragi di Hiroshima e Nakasaki perpetrate con armi nucleari molto meno potenti di quelle di cui oggi disponiamo in migliaia di pezzi venduti, e della nostra guerra fredda con l’Unione sovietica, in cui si fece l’equilibrio del terrore e quindi non si combatterono guerre mondiali essendovi plausibile l’annientamento reciproco, che questa ideologia della guerra come virtù civica non andava più bene. Bisognava dunque che i popoli non dovessero più limitarsi a subirla obbedendovi, ma dovessero essere formati a resistervi, in particolare contrastandola con la lotta nonviolenta, ora insegnata anche da papa Francesco. Si basa sull’obiezione di coscienza, per la quale, secondo l’espressione di Lorenzo Milani, grande anima, tutti ci si sente responsabili di tutto e l’obbedienza non è più una virtù ma la più subdola delle tentazioni. In questo quadro ogni persona è competente sulla questione della decisione sulla guerra giusta e, valutato che nessuna guerra può esserlo ai nostri tempi perché fa correre il rischio dell’annientamento dell’intera umanità, anche legittimata  a rifiutare obbedienza all’ordine di guerra. Questo, dal punto di vista di chi si attribuisce il potere di ordinare la guerra, è un crimine politico: è una decisione dunque che richiede molto coraggio. Già ora vediamo le dure reazioni contro chi osa essere contro la guerra, come il Papa insegna ad essere, in particolare nel suo libro che si chiama proprio così: contro la guerra.

 Si dice che il passaggio dalla guerra alla pace richiede che si faccia giustizia. Ma non è così che sono mai finite le guerre. Le guerre finiscono solo quando chi le ha ordinate ordina invece la pace. E ciò, in genere, accade quando i belligeranti trovano convenienza a farlo. La spinta di popoli che resistano all’ordine di guerra facendovi obiezione di coscienza contro può essere un potente fattore per costringere quelli che ne hanno il potere a ordinare la pace.

 I popoli hanno dalla loro parte questa giustificazione etica: la guerra è la prima ingiustizia, perché nulla è perduto con la pace mentre tutto può esserlo con la guerra.

Mario Ardigò- Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro Valli


sabato 16 aprile 2022

Contro la guerra

 

Uomo del mio tempo

di Salvatore Quasimodo

 

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

Quando il fratello disse all’altro fratello:

«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

 

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  Ieri è stato pubblicato, anche in e-book, un libro dal titolo Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace, Libreria editrice vaticana / RCS, fatto di omelie, discorsi, documenti di papa Francesco, da quando è vescovo di Roma e pastore universale della nostra Chiesa.

  Parlare contro la guerra espone da noi ad aspre critiche e a sospetti di connivenza con il nemico. Al Papa viene riservato un trattamento meno duro, viene semplicemente ignorato.

  Eppure bisogna avere il coraggio di continuare a cercare di costruire la pace, perché altrimenti l’essere cristiani ha poco senso. La guerra si fa sempre  contro Cristo, è un atto malvagio e già lo è il solo riarmo. Quest’ultimo  sporca l’anima, è scritto nel libro del Papa.

  In Europa, guidati da politiche malvagie, abbiamo ripreso a combattere una guerra continentale, dopo esserci lungamente preparati a questo, anche se avevamo giurato che non sarebbe accaduto più. Ecco: invece sta accadendo di nuovo. Rapidamente stiamo   rompendo relazioni che avevamo faticosamente costruito al posto della passata inimicizia e stiamo sprecando per riarmarci, con armamenti di distruzione di massa, utilizzando le risorse che centellinavamo quando si trattava di favorire la ripresa dopo la pandemia di Covid 19 e di mantenere le misure di stato sociale. La guerra, e già il riarmo, sono molto costosi. Un solo aviogetto da guerra, una delle armi più tremende, costa tra i cinquanta e i cento milioni di dollari.

 Ecco che ci sorprendiamo ad esultare per la morte dei nemici, per l’affondamento di una grande nave da guerra, un altro tremendo strumento di morte, ma non tanto perché non potrà più uccidere, piuttosto perché vi sono morte dentro le persone che la facevano funzionare, comandate in guerra, perché  sono morti dei nemici. Chi esulta per la morte si fa schiavo della morte.

 Scriveva il grande filosofo Immanuel Kant nel Settecento, nel suo Per la pace perpetua:

 «Non sarebbe male che un popolo, a guerra finita e dopo aver concluso il trattato di pace, dopo la festa del ringraziamento decretasse un giorno di espiazione per chiedere perdono al cielo, in nome dello Stato, per la grave colpa della quale il genere umano continua a macchiarsi, rifiutando di sottomettersi ad una costituzione legale che regoli i rapporti con gli altri popoli, e preferendo usare, fiero della sua indipendenza, il barbaro mezzo della guerra (mediante il quale tuttavia non si decide ciò che si cerca, vale a dire il diritto dello Stato). I festeggiamenti coi quali si rende grazie per una vittoria conseguita in guerra, gli inni cantati … al Signore degli eserciti, non contrastano meno nettamente con l’idea morale del padre degli uomini; infatti, a parte la già abbastanza triste indifferenza a riguardo dei mezzi coi quali i popoli perseguono il proprio reciproco diritto, esprimono per di più la soddisfazione d’avere annientato un bel numero di uomini, o distrutto la loro felicità»

  Come possiamo osare  celebrare la Pasqua dei cristiani con questi pensieri di morte dentro? La guerra è sempre  contro il Dio dei cristiani, perché il nome di Dio, è scritto, è agàpe, che significa pace perfetta.

  «Abbiamo smarrito la via della pace», con questa frase comincia il libro del Papa. La guerra che stiamo combattendo deriva da politiche di dominio e sopraffazione che sono condivise da tutti i belligeranti e di cui fanno le spese i popoli. Questi ultimi, nelle guerre, sono gli aggrediti; gli aggressori sono coloro che comandano le guerre, senza distinzione. Il primo nemico di chi ordina una guerra è il proprio popolo. Le guerre sono sempre uno strumento di dominio sui popoli.

 Il riarmo e la guerra sta rapidamente distruggendo quell’epocale strumento di pace che è stato l’Unione Europea. C’è chi la vorrebbe più simile agli Stati Uniti d’America, con una immane forza militare sotto comando unico. Ma il nostro problema non è quello, quanto sostituire la deterrenza militare con relazioni tanto intense da non poter più essere spezzate, non solo economiche, ma culturali, religiose, umane in ogni senso. Non si è voluto costruire la nostra nuova Europa come una potenza bellicosa, consapevoli che una grande forza militare sotto comando unico sarebbe stata un grande pericolo politico per gli stati membri. Il riarmo è sempre  un pericolo per la democrazia e l’Unione Europea è l’unica grande potenza politica del mondo in cui la democrazia non meramente formale, non fatta solo di procedure tradite nella sostanza, è ancora realmente vissuta.

  Sui nostri giornali, a parte pochi e tra essi il nostro Avvenire, vengono duramente criticati gli italiani restii a seguire la politica di riarmo e di intervento in guerra, alla quale anche il nostro governo sembra essersi dovuto piegare. Chi è per la guerra si vergogna di queste remore del nostro popolo, accusandolo di codardia, la velenosa infamia che si riversa sempre contro gli obiettori di coscienza contro la guerra. Ma tanti anni di educazione alla pace hanno dato i loro frutti. In questo i cristiani hanno fatto la loro parte. E’ soprattutto per merito loro che l’Unione Europea è divenuta una potenza di pace.

 Ma oggi ci vuole coraggio ad obiettare contro la guerra, da qui la frase che c’è nel titolo del libro del papa: “il coraggio di costruire la pace”.

  La guerra è una dura schiavitù, chi vi ci si trova dentro lo sa bene. La violenza bellica è come un gorgo che inghiotte tutto. L’unica via di liberazione è non finirci dentro. Purtroppo le politiche malvagie di riarmo e di guerra è proprio lì che ci portano, cercando di convincerci che non c’è alternativa. E invece, la storia lo insegna, l’alternativa c’è sempre. Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra, insegnò il papa Pio 12° pochi mesi prima dell’esplosione della Seconda guerra mondiale: ecco stiamo vivendo un periodo simile.

  La fede cristiana e tutti i suoi riti e devozioni, tutte le sue parole, non hanno più senso se ci si fa schiavi del riarmo e della guerra. Sono solo imposture. Fede cristiana e guerra non possono stare insieme: questo ci insegna la nostra tremenda storia ecclesiale. Una Chiesa che si fa schiava della guerra va combattuta come un’organizzazione criminale, senza riguardo per qualsiasi sua sacralizzazione, che è solo inganno. La Chiesa che ama, quella ad esempio di papa Francesco, manifesta Cristo e per questo merita invece di essere amata.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli