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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

venerdì 30 novembre 2018

statistiche



Fonte: http://www.clerus.va/content/clerus/it/statistiche.html della Congregazione per il clero

  Le tavole statistiche che ho sopra riportato devono ritenersi affidabili per la loro fonte. Dimostrano l'importanza dell'America Latina nel complesso del cattolicesimo mondiale e che in Europa la percentuale dei cattolici è sostanzialmente stabile. Dimostrano che in Italia la percentuale dei cattolici è ancora superiore all'80% della popolazione, anche se in calo dagli anni '70. Vengono annoverati tra i cattolici i battezzati.
  Altre statistiche parlano della partecipazione alle liturgie e all'azione sociale della Chiesa e della consapevolezza teologica, e i numeri sono molto più bassi: per l'Italia si stimano percentuali tra il 20 e il 30%, in altre nazioni dell'Europa occidentale si arriva a stento al 5%. Del resto certe forme di espressione più partecipe della religiosità, ad esempio l'approfondimento biblico,  sono state promosse tra i cattolici  solo di recente, dalla metà dell'Ottocento e con particolare forza dagli scorsi anni Sessanta. Quanto alla partecipazione alla liturgia, ancora negli anni Sessanta contava molto il conformismo sociale, perché chi non  andava  in Chiesa veniva considerato strano e guardato con sospetto. Dagli inizi dell'Ottocento la partecipazione maschile si era fatta però più distratta. Il secolarismo, il privare la religione del ruolo di supporto alla politica, aveva disamorato gli uomini alla fede, perché la politica era essenzialmente un fatto maschile. Si assistette a una femminilizzazione  dei costumi religiosi, con l'imponente ripresa del culto mariano, assecondata dalla gerarchia. Lorenzo Milani ricorda che negli anni Cinquanta in chiesa gli uomini rimanevano in fondo, in piedi, poco partecipi, in attesa che la liturgia, che era molto più breve di oggi, finisse. Nei primi decenni del Novecento l'azione sociale della Chiesa curò molto il popolo femminile, che ancora contava poco in politica, perché il voto era solo maschile. Con la nuova democrazia di popolo succeduta nel '46 alla caduta del fascismo mussoliniano il voto femminile ebbe una rilevantissima importanza nel determinare il corso nazionale e su di esso si basò sostanzialmente l'egemonia del partito cristiano,  organizzato da Alcide De Gasperi negli ultimi anni del fascismo storico. 
  Non ci sono statistiche che riguardino l'autorità della gerarchia ecclesiale: quest'ultima è sostanzialmente autoreferenziale, non  è veramente interessata al consenso popolare né ritiene di dipendere da esso. Ci sono però statistiche che riguardano l'opinione dei fedeli su certi temi  sensibili  e segnalano opinioni divergenti dagli insegnamenti del Magistero, ad esempio sulla questione dei migranti stranieri, sul ruolo della donna in società e sulla famiglia. Allora, a volte, il clero se ne esce lamentando che i cattolici sono in minoranza in Italia, intendendo che non fanno più quello che  si dice loro. Così ieri, in un'intervista sul Corriere della Sera, Gianfranco Ravasi. 
   La religiosità di una persona non può essere valutata dalla sua consapevolezza culturale, e in particolare teologica. La fede è alla portata anche degli incolti, come pure dei bimbi piccoli. L'azione sociale risente però dell'ignoranza religiosa e del conformismo verso certi costumi disinvolti che derivano, ad esempio, dalla mentalità consumistica promossa  in società dai produttori. Si sa che gli insegnamenti evangelici segnalano le difficoltà per i  ricchi  ad entrare nel Regno, ma che ne è di coloro che ricchi non sono e che però vivono con una mentalità  da ricchi? E' appunto questo il caso di chi si lascia catturare nel gran circo del consumismo. La differenza, rispetto alla situazione dei veri ricchi, è che, finito lo spettacolo e consumate le poche risorse, si resta disillusi, infelici e frustati, rendendosi conto di averci rimesso. E' ciò che sperimenta chi è divenuto dipendente dalle lotterie e dal gioco d'azzardo mediante apparecchi elettronici. I fascismi sovranisti che stanno prendendo piede in Europa fanno essenzialmente forza su questa massa popolare di frustrati e in questo non sono molto diversi da quelli che divennero egemoni dagli anni Venti agli anni Quaranta del secolo scorso. Tuttavia, nelle soluzioni politiche, sembrano ispirarsi più ai fascismi dello spagnolo Francisco Franco e del portoghese Antonio de Oliveira Salazar, regimi caduti entrambi negli scorsi anni '70,  che a quelli mussoliniano e hitleriano:  essi facevano molto conto sull'appoggio clericale e si presentavano come difensori della religione e del clero, in un nazionalismo  con toni paternalistici e maschilisti fortemente connotati in senso religioso, nonostante le durezze della repressione politica attuata. Gli attuali fascismi sovranisti europei non trovano però sponda nella gerarchia del clero, né, per la verità, nella religiosità della gente: nel Magistero la religiosità reazionaria del "Dio-Patria-Famiglia" è in fase recessiva, a favore della nuova cultura religiosa popolare pensata e sperimentata anzitutto nell'America Latina e la gente non vuole sentirsi proporre sacrifici altruistici e penitenza. Ai nuovi fascismi sovranisti gli europei chiedono benessere, non importa a spese di chi, mentre i vecchi fascismi europei promettevano la gloria, richiedendo però di essere pronti  immolarsi sacrificando tutto ad una Patria sacralizzata, tutt'uno con la religione.  La loro via al benessere era quella delle guerre di rapina. Quello europeo dei nostri tempi  è invece un fascismo consumista, che chiede innanzi tutto l'impegno a tracciare un segno su una scheda elettorale, tutto sommato non un granché come sforzo, promettendo la fortuna, come nelle lotterie. ma si sa come vanno a finire le lotterie. La sua via al benessere è quella dell'avarizia egoistica, supponendo che ci siano risorse sufficienti per soddisfare le pretese di tutti gli italiani, purché si decida di accontentare "prima loro". Ma gli anni del boom  dell'economia italiana, negli scorsi anni '50 e '60, si sono basati, all'inizio, sul supporto di aiuti internazionali e, poi, sul basso costo del lavoro e dell'energia, che rendeva concorrenziali sul mercato internazionale le nostre produzioni, quindi un benessere che ci derivava dalla cooperazione  e dal  commercio internazionali, non si faceva tutto da noi con quello che avevamo. E incidevano anche le cospicue rimesse dall'estero dei nostri emigranti. Non abbiamo grandi ricchezze nazionali salvo il paesaggio, il nostro ingegno e le nostre braccia. Siamo essenzialmente trasformatori e commercianti. Il "Prima noi"  non avrebbe funzionato.  Queste condizioni di basso costo del lavoro e dell'energia si sono ripresentate nel decennio in corso, ma la differenza c'è ed è costituita dal mercato internazionale, nel quale ci sono competitori che producono a prezzi più convenienti. E non c'è, come negli Stati Uniti d'America un grande mercato interno a compensare, perché l'economia dell'Unione Europea, che si avviava a diventarlo, è stata gelata, anche dal punto politico, dal vento di recessione che nel 2008 l'ha investita, spirando d'oltre Oceano, dall'America del Nord. Ciò considerato, il sovranismo europeo, teso a disgregare l'Unione Europea, cercando nel frattempo di avere più di ciò che si dà, appare tutto sommato miope. Le si sparano grosse, contro l'Europa  e i migranti presentati come parassiti invasori, ma i risultati in termine di benessere sono modesti e questo non è più solo una specie di teatrino, come sembravano essere, ad esempio, le uscite secessioniste di vent'anni fa, "Prima il Nord", non si tratta più solo di chiacchiere: si stanno producendo effetti reali e non tanto belli, c'è anche gente che ci sta rimettendo la pelle, anche se in genere lontano dagli occhi di chi ancora galleggia in società, ma a volte anche in mezzo alle nostre città. Non si è ancora nemmeno trovata una mentalità religiosa adatta a questi nuovi tipi di fascismi. Quella dei vari tradizionalismi reazionari correnti è infatti ancora basata sulla rinuncia e sul sacrificio di sé, ai quali ai nostri tempi si è poco disposti. Gaudenti si vuole essere.  E gli insegnamenti evangelici, con quel Maestro presentato come sempre alla ricerca dei reietti sociali per salvarli e innanzi tutto guarirli, non aiutano, lui stesso, in fondo, un reietto senza un luogo in cui posare il capo:
[20] Gli rispose Gesù: "Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo". [Matteo 8,20 - trad.it.CEI 2008]
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli. 

giovedì 29 novembre 2018

Valori


Valori

 Il valore commerciale di una cosa è il suo prezzo: che cosa o quanto si è disposti a dare per averla, comprandola da chi la possiede. Ci sono però cose che costano poco e che, in certe circostanze, hanno per noi un grandissimo valore, perché da come funzionano o dall’averle può dipendere la nostra vita: è il caso, ad esempio, di alcuni componenti meccanici delle nostre automobili, come i freni. C’è chi ha bisogno di stampelle per camminare e, se le perde o anche solo se gli cadono lontano tanto che non può più afferrarle, non ha altra scelta per muoversi che strisciare per terra o chiedere aiuto, se c’è chi glielo può dare.
 Quando in società si parla di valori non ci si riferisce, però, a cose, ma a certi principi che guidano l’azione e che vengono ritenuti senza prezzo, quindi non commerciabili  o non negoziabili, in quanto indispensabili per la convivenza e addirittura la sopravvivenza. Questi valori  sono di origine culturale, vale a dire che sono integralmente una  costruzione sociale, attuata sulla base di consuetudini  sociali, quindi ad usi e costumi e all’interazione tra i gruppi che animano la società, ma anche della volontà del ceto che è riuscito storicamente a dominare la società, quindi della norme  da esso espresse. Ogni ceto dominante ha come primo scopo quello di inculcare nella società il valore  della sua indispensabilità per la convivenza. Il primo scopo del potere è quello di consolidare il proprio potere: ne trattò diffusamente e organicamente il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1689).  Per riuscirci, storicamente si è cercato di sacralizzare  il sistema di potere dominante con due metodi:   accreditandolo come  tradizionale, quindi risalente ai  fondatori  di una civiltà, agli antenati, o di origine  soprannaturale.  La prima via fu seguita dagli antichi Romani, la seconda dagli antichi israeliti e poi dall’ebraismo, la cultura religiosa che da essi derivò. Nella nostra confessione religiosa, inculturata, prima, dall’antico ebraismo e, poi, dalla cultura giudica degli antichi Romani,   si sono seguite entrambe le vie: il potere religioso viene accreditato da un’origine soprannaturale dei valori  da esso espressi e dal fatto che essi sono stati tramandati  mediante una tradizione, che, a questo punto, essendo un valore essa stessa, viene scritta con la “T” maiuscola, Tradizione. In questa prospettiva, il potere rende sé stesso indispensabile, quindi esso stesso un valore, perché nella Tradizione si fa rientrare, oltre ad usi e costumi, anche la tradizione, per via legittima, del potere stesso mediante cooptazione, che è quando un potente sceglie il suo successore e/o i suoi collaboratori elevandoli al suo rango, introducendoli nella sua cerchia, corte, classe o ceto e conferendo loro analogo potere. Spesso, nelle tradizioni culturali fondative di un potere si trova un mito, una narrazione non storicamente accreditata, in genere con connotati soprannaturali,  che spiega la ragione per la quale quel potere deve ritenersi indiscutibile, al riparo di ogni contestazione e indispensabile per l’armonia sociale e per quella tra società e natura. Di miti di questo genere è piena la parte della nostra Bibbia che abbiamo acquisito dall’antico ebraismo. La tradizione fondativa della nostra confessione religiosa non ha invece carattere mitico e si basa sull’insegnamento e sulla figura di una persona realmente esistita, il nostro Maestro. Questo è stato ritenuto talmente importante nella nostra fede, che le tradizioni evangeliche hanno cercato di situare con la massima precisione possibile il tempo della vita del Maestro, raccogliendone le memorie trasmesse dai primi testimoni. Narrazioni con carattere mitico sul potere religioso sono state costruite molto più tardi, in particolare all’inizio del Secondo millennio, quando il Papato romano si diede organizzazione da impero religioso. Nell’insegnamento del Maestro è  però piuttosto evidente questo principio, che è anche un  valore nel senso che ho precisato: il potere religioso non è un valore in sé stesso. Il potere religioso vale  solo come servizio. Uno dei titoli  più antichi del Papa romano, risalente al Sesto secolo, è infatti  Servo dei servi di Dio, espressione che dal Nono secolo venne impiegata all’inizio dei documenti del Papa romano. L’insegnamento del Maestro è pieno di altri valori, accreditati dall’essere di origine soprannaturale, conformemente all’ideologia religiosa nell’antico ebraismo.
  Il  valore  in quanto tale è inteso come un limite ad ogni potere. Ma il potere sociale partecipa alla  costruzione  dei valori e quindi tende ad adattarli a seconda delle sue esigenze, in particolare per accreditarsi in società, ottenendo il riconoscimento della propria sacralizzazione. La critica di un potere che è riuscito a sacralizzarsi viene considerata eretica, vale a dire come un discostamento inammissibile dalle concezioni fondamentali della fede.
  Dalla fine del Settecento si è prodotto, nei popoli di  cultura europea, un movimento per la desacralizzazione  dei poteri politici, per consentirne la critica: in questo consiste, in definitiva, il principio-valore della laicità delle istituzioni pubbliche  che può anche dirsi secolarizzazione. Quest’ultimo non va inteso come presa di distanziazione dal soprannaturale, perché in piena secolarizzazione tra gli europei le concezioni soprannaturali abbondano, ma da ogni potere che pretenda obbedienza religiosa. Questo ha finito fatalmente per coinvolgere lo stesso Papato romano, che infatti si vorrebbe cercare di riorganizzare nello spirito di servizio, uno dei valori insegnati dal Maestro.
  In democrazia, ai tempi nostri, si considera un valore  la secolarizzazione dei poteri politici: ad essi non è più riconosciuto di sottrarsi alla critica facendosi scudo della religione. E tuttavia la democrazia contemporanea  si fonda anche su un sistema molto esteso di altri valori, di principi sottratti ad ogni potere, ad esempio di quello del ceto di volta in volta dominante o delle maggioranze politiche. In altre parole: la stessa volontà popolare non è considerata il principio supremo di organizzazione sociale. Non esiste più una vera e propria sovranità,  l’essere al di sopra di ogni potere. Anche la volontà popolare, in democrazia come oggi la si intende, deve riconoscere un esteso sistema di limiti fondati su valori. Nelle democrazie avanzate espresse dalle culture europee questo sistema di valori deriva  culturalmente, in gran parte,  dall’insegnamento del Maestro. In esso stanno, effettivamente, le loro radici culturali. L’idea fondamentale è quella di giustizia, intesa come dare a ciascuno il suo ma in una concezione di agàpe, di convivenza misericordiosa derivante da relazioni di tipo fraterno, per avere uno stesso Padre. L’atteggiamento del Maestro verso i reietti della società del suo tempo è molto significativo per capire quell’ordine di idee. Si trattò di un sostanziale rovesciamento di concezioni correnti nell’antico ebraismo vissuto nella Palestina del suo tempo. Può essere utile, per intendere, rileggere la parabola del Padre misericordioso  detta anche del Figliuol prodigo  (Luca 15,11-32):
[11] Disse ancora: "Un uomo aveva due figli. 
[12] Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. 

[13] Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 
[14] Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 
[15] Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 
[16] Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. 
[17] Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 
[18] Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 
[19] non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 
[20] Partì e si incamminò verso suo padre. 
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 
[21] Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. 
[22] Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. 
[23] Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 
[24] perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. 
[25] Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 
[26] chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. 
[27] Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. 
[28] Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. 
[29] Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 
[30] Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. 
[31] Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 
[32] ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".
  Dunque, la vita del giovane dissoluto è un valore  a prescindere da ciò che ha fatto. Ciò che gli viene concesso al ritorno nella casa paterna dipende da questo: non viene retribuito per ciò che ha fatto e quindi scacciato o ridotto a condizione servile. E’ proprio delle democrazie contemporanee considerare un  valore  la vita delle persone, a prescindere da etnia, cultura, religione, orientamento sessuale, ricchezza o altre ragioni di eminenza sociale. La concezione di giustizia  delle democrazie contemporanee è strettamente legata all’idea di uguaglianza delle vite delle persone considerate valori.
  In passato si temette l’eclisse dei valori religiosi perché si era iniziato a mettere in questione il valore del potere religioso, visto come parte essenziale di quel sistema di valori. In realtà, muovendo nell’ottica della riforma  di quel potere, per agganciarlo nuovamente al valore  del  servizio, e dunque non facendone un valore in sé, è apparso chiaro che si poteva trovare una sua valida giustificazione sociale anche ai tempi nostri. Tutte le volte che però si mette in questione il valore  delle vite delle persone, come sta accadendo in Occidente di questi tempi e come già accaduto nell’era dei fascismi europei tra gli anni Venti e la metà degli anni Quaranta del secolo scorso, la questione è molto più seria: sono effettivamente in questione le radici  di una civiltà, al di là di chi comanda in un certo tempo. La democrazia, come già prima la nostra fede religiosa, fu una faticosa conquista culturale e, tutto sommato, è una tradizione recente, degli ultimi due secoli. Non si è lavorato abbastanza sulla sua  tradizione alle generazioni future, dando per scontato, implicitamente, che per i suoi evidenti agganci religiosi essa potesse valersi della Tradizione di fede.  Questo è all’origine di tutti i problemi dell’oggi, in particolare alla crisi di solidarietà per la quale si tende ad assegnare a tutto un prezzo e a dare a ciascuno secondo quel prezzo, divenendo il commercio, e la sua istituzione principale che è il mercato, l’ambiente in cui in mancanza di correttivi sociali tende a predominare il più forte come in natura, il valore predominante. Il pensiero sociale di fede, e al suo interno la dottrina sociale, cerca di reagire costruendo ideologie e prassi politiche adeguate. Un lavoro che andrebbe fatto, ma che in genere non si fa perché non se ne trova più il  tempo, anche in quelle cellule di società che sono le parrocchie. Non se ne ha tempo perché, in particolare da giovani, si sta troppo poco in parrocchia, benché gli ambienti per starci generalmente ci siano, ma rimangono vuoti la gran parte del giorno. Questo ostacola la tradizione e l’inculturazione dei valori fondamentali della fede, che, come ho notato, sono anche quelli fondativi della democrazie contemporanee espresse dalle culture europee. Le relazioni sociali sono sempre più mediate da reti sociali a cui si è connessi per molte ore al giorno, sempre più ore al giorno, attraverso gli smartphone, che sono terminali dei sistemi di intelligenza artificiale che consentono il controllo sociale. Queste reti sono povere in termini di valori, veicolano solo punti di vista e l’influenza di chi le reti sociali controlla e riesce a influire proprio su quei punti di vista, costruendo una sorta di  bolla  cognitiva  intorno alle persone. Il valore che appare più minacciato è paradossalmente, trattandosi di relazioni che si intrattengono con reti  sociali, quello della solidarietà. Questo perché chi controlla le reti sociali mediante sistemi di intelligenza artificiale non è in genere interessato alla solidarietà ma al consolidamento del proprio potere, al potere per il potere (Hobbes). L’approccio alla religione  è così piuttosto superficiale, basato prevalentemente sull’esibizione di oggetti ridotti a feticci o amuleti o su immaginifiche tradizioni alterate in fantasiosi miti strumentalizzati a fini di potere. Le relazioni sono volatili, sentite come poco impegnative. La relazione più stabile e impegnativa, tanto da generare dipendenza, è quella con il sistema che gestisce la rete e crea la bolla in cui ci si caccia.  Reagire richiede il ripristino di una tradizione di maggiore, più ravvicinata e prolungata consuetudine reciproca, al modo in cui avveniva, ad esempio, nell’esperienza degli oratori, per i più giovani.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli



mercoledì 28 novembre 2018

Ripartire da un passato immaginario? Contro le retropie


Ripartire da un passato immaginario? Contro le retropie

  Il termine  retropia  significa idealizzare un passato immaginario per costruirvi sopra un futuro alternativo. Ciclicamente l’operazione viene allestita, nella società civile come in religione. Accade nei sogni di purificazione mediante ritorno ad origini di cui si sa poco, come  quelle delle nostre collettività di fede. Quando il passato immaginario si situa più vicino nel tempo, la tendenza è puramente e semplicemente reazionaria, anche se non se ne ha chiara consapevolezza per l’aura di novità che circonda quel passato strumentalizzato. Ma come può essere  nuovo  un passato? Il passato è, appunto, passato, trascorso: se ne può solo avere un ricordo affidabile  o non. Questo però accade nell’ambiente degli storici: nelle culture umane è molto diverso e il ricordo del passato viene liberamente reinterpretato a seconda delle esigenze del presente. E’ il lavoro che nel romanzo di George Orwell, 1984, viene svolto da un’apposita organizzazione burocratica, il Ministero della Verità, secondo le disposizioni di un capo politico detto  Grande Fratello. In quella narrazione, nessuno è più in grado di ricordare bene il passato, che viene costantemente reinventato per farlo corrispondere alla situazione dell’oggi e, soprattutto, per dare ragione di ciò che si programma per il futuro. E’ un argomento che di solito non viene trattato nella formazione religiosa di base, ma quel modo di fare è stato proprio anche della Chiesa cattolica fino a…vorrei poter fissare una data del passato in cui ci si è fermati, ma, francamente, non ci riesco. Sarebbe anche questa, da parte mia, una retropia.
  In religione, dunque, si combatte ancora la battaglia fra retropie. Nessuno si fa avanti proponendo cose nuove come nuove, ma sempre richiedendo correzioni del presente sulla base di un certo passato. Infatti negli ambienti religiosi la tradizione, dunque gli usi e concezioni del passato, fonda e accredita l’autorità. Quanto più indietro nel tempo si situano, tanto più li si ritiene affidabili, per quella infallibilità  nel credere che si spera sia virtù soprannaturale del popolo di fede. In realtà il presente, come in 1984, controlla il passato, vale a dire il suo ricordo, e la memoria di quanto è costato in termini di sofferenza ottenere storicamente una certa uniformità nelle concezioni non è posta particolarmente in rilievo, diviene affare da specialisti che possono reggerne la visione chiara, facendosene una ragione.
  Un’operazione retropica è stata attuata in occasione della beatificazione e poi della canonizzazione di san Karol Wojtyla, che ha regnato dal 1978 al 2005 come papa Giovanni Paolo 2°. Occorrerà ancora molto tempo per interpretare in modo veramente e completamente affidabile la sua storia, il passato che egli animò da protagonista. A quel lungo regno corrispose anche un’era della nostra parrocchia, in linea con gli orientamenti complessivamente reazionari e retropici di quel pontificato. Anch’essa, come quella del Wojtyla, che si prolungò dopo la sua morte e fino al 2013, l’anno dell’elezione di papa Francesco, sopravvisse per un po' in un diverso clima storico e terminò solo nel 2015, due anni dopo l’inizio del nuovo pontificato di papa Francesco,  con l’arrivo non solo di un nuovo parroco, ma di una nuova squadra di preti, con la missione di realizzare da noi la Chiesa in uscita  che corrisponde agli orientamenti, effettivamente nuovi, del Papa regnante, ma prima di questo, di aprire la parrocchia al quartiere accogliendone le diversità culturali. Occorreva sanare una frattura tra la gente del quartiere e la sua parrocchia, manifestatasi platealmente con la drastica riduzione dei bambini che venivano portati in parrocchia per ricevervi la prima formazione religiosa. Si era preso a migrare nelle parrocchie vicine. Quale la causa? Da quello che ho potuto constatare, era stata l’ideologia di comunità difensiva e autoritaria che dal 1983 si era tentato di attuare in parrocchia, partendo dalla realtà sociale vivacissima che l’aveva caratterizzata nel corso degli anni Settanta e che si pensava troppo disordinata. Si pensava che, a fronte di un  assedio alla fede da parte del mondo intorno, per la diffusione di mentalità e costumi non religiosi, la via giusta fosse quella di compattare il  resto  fedele in comunità chiuse, ad ammissione riservata dopo scrutinio, affidate sostanzialmente a maschi dominanti, sul modello di ciò che si immaginava fosse accaduto nei primi tempi delle nostre collettività di fede e del modello tribale degli antichi israeliti. Le altre esperienze, come la nostra Azione Cattolica, mi parvero tollerate solo come ambienti ad esaurimento, destinati ai più anziani. Ai più giovani venne proposta una sola via, come sbocco della prima formazione religiosa, quella dell’ingresso nelle neo-comunità, prendere o lasciare, aut-aut, o  quella o  uscire. E molti uscirono, molti giovani, anche, ad esempio, i compagni di catechismo delle mie figlie. Si cercò di riempire i vuoti di quelli che uscivano con immigrazioni da altre parti della città, con spirito di club: “la parrocchia è di chi ci vuol stare”, si diceva. I ministeri laicali, a cominciare da quello catechistico, vennero progressivamente affidati a persone in linea con la nuova cultura che si voleva far prevalere, ritenendola indispensabile per resistere al mondo  cattivo intorno, lasciato in definitiva alla sua perdizione e inevitabile rovina. Coloro che riuscivano a resistere dentro immaginavano di essere una sorta di stirpe eletta e che gli altri, vedendoli da fuori, avrebbero desiderato imitarli, come si legge sarebbe avvenuto per le nostre prime comunità di fede. In realtà accadde proprio il contrario: osservai una crescente ostilità del quartiere verso gli ambienti parrocchiali, segnalata ciclicamente da gesti evidenti di insofferenza. Il nuovo corso non attirava. Chi lo animava vi vide la conferma della cattiveria del mondo intorno e una ragione di più per sigillare le neo-comunità.
  Io e mia moglie ci siamo formati fin da giovani in ambienti parrocchiali molto diversi, abbiamo avuto qualcosa che alle nostre figlie è stato a lungo negato e che infine hanno potuto sperimentare solo con la nuova organizzazione della parrocchia, attuata dal 2015. Non si sono allontanate, ma ad un certo punto si sono disamorate. Hanno resistito, probabilmente anche sul nostro esempio, in un’Azione Cattolica certamente non favorita da quel vecchio corso, ma anche avendo maturato la consapevolezza di ciò che in quello che avevano vissuto in parrocchia non andava, non funzionava, faceva soffrire, disamorava, a prescindere dalla buone intenzioni individuali di chi lo dirigeva. Perché, è chiaro, come quasi sempre in religione, si è sbagliato, ma in perfetta buona fede. E’ questa la ragione della beatificazione e della canonizzazione anche di persone di fede discutibili sotto molti profili, in particolare per la loro azione politica, ma anche per certe durezze in campo religioso. Ma, chiediamoci: quanta gente di fede si è persa nel nostro quartiere nell’era monopolizzata dall’ideologia delle comunità-fortezza e proprio a causa di questa impostazione? Il nuovo corso iniziato con papa Francesco è improntato a principi radicalmente diversi, direi proprio opposti, quanto all’atteggiamento da tenere verso ciò che circonda le nostre comunità di fede. L’errore sarebbe, però, procedere come nell’era passata, ritenendo obsolete le concezioni e le vite di coloro che si sono arroccati nelle comunità chiuse e cercando di cambiare d’autorità menti e costumi. Errore perché, insieme ad aspetti sicuramente negativi, quell’esperienza ne ha avuti anche di positivi, come sempre accade nelle cose umane. La via giusta è dunque l’Et-Et, E-E,  ammettere il pluralismo e convivervi. Questo non può accadere, però, semplicemente affiancando  i diversi tipi di comunità, vivendo la parrocchia con spirito condominiale senza mai volersi conoscere un po’ meglio per collaborare fraternamente. Perché, così facendo, viene meno la ragion d’essere della parrocchia e dello stesso ministero sacerdotale in essa, inteso a guidare verso l’unità misericordiosa dei diversi, nello spirito del Maestro e impersonandone la figura e gli insegnamenti. A quel punto basterebbero un amministratore e un regolamento condominiali. Ciascuno poi farebbe per sé, contribuendo nella misura stabilita. Gente che va, gente che viene: complessivamente gente, non un popolo. Come in piscina o in palestra, ci sarebbe il giorno per gli uni e quello per gli altri. Una coabitazione ordinata, certo, ma è questo lo spirito di Chiesa? Per quanti notevoli passi avanti si siano fatti dal 2015, si è ancora più o meno al livello delle comunità semplicemente affiancate, e comunque non è poco rispetto al punto di partenza.  Come ho scritto, questo genera scintille nelle occasioni liturgiche in cui le diverse esperienze comunitarie solo affiancate in una sorta di armistizio devono per forza coesistere collaborando, come nelle Veglie  per le solennità maggiori, il Natale e la Pasqua, in particolare di quest’ultima che l’ideologia religiosa a lungo prevalente aveva riempito di riti particolari, prolungandola molto e rendendola sostanzialmente inaccessibile a molti. Si avvicina il Natale e, ancor prima, l’Avvento. Non dovrebbe sentirsi più forte lo spirito dell’agàpe, dell’unione misericordiosa, riflettendo su concezioni fondamentali della nostra fede? Non è così che vanno le cose in religione. E’  il momento, invece, dei litigi e, in particolare, delle contrapposte visioni retropiche: "Come si stava meglio all'epoca di ...", "Che belle veglie si facevano!", "Che belle statuine venivano esposte!". I passati alternativi vengono proposti per prevalere nel presente. Le esigenze del presente non possono però essere soddisfatte da quei passati immaginati come migliori. I tempi sono diversi e di quei passati bisognerebbe anche considerare francamente e realisticamente ciò che non è andato bene. I tempi liturgici forti,  come quelli di Avvento e di Natale, non dovrebbero essere riservati a chi è dentro, ma presi come occasione per l’azione missionaria verso chi ancora è fuori  o è mezzo fuori e mezzo dentro, ancora non bene integrato, non ancora veramente parte attiva. Si dovrebbe poterli esprimere, spiegandone il senso religioso, in una lingua che tutti  siano in grado di intendere, nello spirito della Chiesa in uscita proposto nell’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium, del 2013, considerata il manifesto  del nuovo pontificato.

24. [ […]La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo, però il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. Infine, la comunità evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi.
[…]
116. […]Quando una comunità accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne feconda la cultura con la forza trasformante del Vangelo. In modo che, come possiamo vedere nella storia della Chiesa, il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale, bensì, «restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all’annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato».Nei diversi popoli che sperimentano il dono di Dio secondo la propria cultura, la Chiesa esprime la sua autentica cattolicità e mostra «la bellezza di questo volto pluriforme». Nelle espressioni cristiane di un popolo evangelizzato, lo Spirito Santo abbellisce la Chiesa, mostrandole nuovi aspetti della Rivelazione e regalandole un nuovo volto. Nell’inculturazione, la Chiesa «introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità», perché «i valori e le forme positivi» che ogni cultura propone «arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto».  In tal modo «la Chiesa, assumendo i valori delle differenti culture, diventa “sponsa ornata monilibus suis”, “la sposa che si adorna con i suoi gioielli”
(Is 61,10)».
117. Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa. È lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella comunione perfetta della Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. Egli costruisce la comunione e l’armonia del Popolo di Dio. Lo stesso Spirito Santo è l’armonia, così come è il vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio. Egli è Colui che suscita una molteplice e varia ricchezza di doni e al tempo stesso costruisce un’unità che non è mai uniformità ma multiforme armonia che attrae. L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella Chiesa. Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore.

  Contro la tentazione delle visioni retropiche che ostacolano quel lavoro missionario, lasciamoci guidare da san Karol Wojtyla nel lavoro di purificazione della memoria:

[dalla Bolla Il mistero dell’Incarnazione - Incarnationis mysterium, di indizione del Grande Giubileo dell’Anno 2000, diffusa dal papa Giovanni Paolo 2° il 29-11-1998 (ne ricorre il ventennale!)]

Innanzitutto il segno della purificazione della memoria: esso chiede a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani. L'Anno Santo è per sua natura un momento di chiamata alla conversione. E' questa la prima parola della predicazione di Gesù, che significativamente si coniuga con la disponibilità a credere: « Convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 15). L'imperativo che Cristo pone è conseguenza della presa di coscienza del fatto che « il tempo è compiuto » (Mc1, 15). Il compiersi del tempo di Dio si traduce in appello alla conversione. Questa, peraltro, è in primo luogo frutto della grazia. E' lo Spirito che spinge ognuno a « rientrare in se stesso » e a percepire il bisogno di ritornare alla casa del Padre (cfr Lc 15, 17-20). L'esame di coscienza, quindi, è uno dei momenti più qualificanti dell'esistenza personale. Con esso, infatti, ogni uomo è posto dinanzi alla verità della propria vita. Egli scopre, così, la distanza che separa le sue azioni dall'ideale che si è prefisso.
 La storia della Chiesa è una storia di santità. Il Nuovo Testamento afferma con forza questa caratteristica dei battezzati: essi sono « santi » nella misura in cui, separati dal mondo in quanto soggetto al Maligno, si consacrano a rendere il culto all'unico e vero Dio. Di fatto, questa santità si manifesta nelle vicende di tanti Santi e Beati, riconosciuti dalla Chiesa, come anche in quelle di un'immensa moltitudine di uomini e donne sconosciuti il cui numero è impossibile calcolare (cfr Ap 7, 9). La loro vita attesta la verità del Vangelo e offre al mondo il segno visibile della possibilità della perfezione. E' doveroso riconoscere, tuttavia, che la storia registra anche non poche vicende che costituiscono una contro-testimonianza nei confronti del cristianesimo. Per quel legame che, nel Corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personale e senza sostituirci al giudizio di Dio che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha preceduto. Ma anche noi, figli della Chiesa, abbiamo peccato e alla Sposa di Cristo è stato impedito di risplendere in tutta la bellezza del suo volto. Il nostro peccato ha ostacolato l'azione dello Spirito nel cuore di tante persone. La nostra poca fede ha fatto cadere nell'indifferenza e allontanato molti da un autentico incontro con Cristo.
[…]
 Nessuno in questo anno giubilare voglia escludersi dall'abbraccio del Padre. Nessuno si comporti come il fratello maggiore della parabola evangelica che si rifiuta di entrare in casa per fare festa (cfr Lc 15, 25-30). La gioia del perdono sia più forte e più grande di ogni risentimento. 

  Non turbiamo le prossime feste con le nostre reciproche e astiose rivendicazioni retropiche! Abbandoniamo lo spirito di condominio e di club! Cerchiamo di profittare dei tempi forti per avvicinarci alla conquista culturale dell’agàpe  anche nella vita parrocchiale!
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 27 novembre 2018

Noi, il popolo


Noi, il popolo

We the People of the United States, in Order to form a more perfect Union, establish Justice, insure domestic Tranquility, provide for the common defence, promote the general Welfare, and secure the Blessings of Liberty to ourselves and our Posterity, do ordain and establish this Constitution for the United States of America.
Noi Popolo degli Stati Uniti, per formare un'Unione più perfetta, istituire la giustizia, assicurare la tranquillità domestica, provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale e assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi e ai nostri posteri, ordiniamo stabiliamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d'America.
[Preambolo della Costituzione degli Stati Uniti d’America, deliberata il 17 settembre 1787 dai rappresentanti delle tredici colonie inglesi che nel 1776 si erano dichiarate indipendenti dal Re d’Inghilterra]

  Il passo sopra citato della Costituzione degli Stati Uniti d’America  è molto importante perché è la prima affermazione politica di una soggettività di un popolo  come sovrano. Essa seguì ad una guerra detta dagli storici d’Indipendenza, ma anche  Rivoluzionaria. Quella statunitense fu infatti, insieme, indipendenza  e  rivoluzione, o meglio: indipendenza per via rivoluzionaria. L’indipendenza, più precisamente, fu la via per attuare una rivoluzione. Quest’ultima ebbe carattere sociale, perché progettava una società politica diversa fondata sulla giustizia.
 Questo emerge da un altro testo molto importante per la politica statunitense, la Dichiarazione di Indipendenza del 1776:

When in the Course of human events, it becomes necessary for one people to dissolve the political bands which have connected them with another, and to assume among the powers of the earth, the separate and equal station to which the Laws of Nature and of Nature's God entitle them, a decent respect to the opinions of mankind requires that they should declare the causes which impel them to the separation.
Quando, nel corso degli umani eventi, diviene necessario per un popolo sciogliere i legami politici con un altro popolo e di assumere davanti ai poteri della terra la posizione distinta e paritaria che gli spetta per Legge di Natura voluta da Dio, è necessario dichiarare chiaramente all’umanità le cause che lo spingono alla separazione
We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.
Crediamo in queste verità che sono evidenti di per sè stesse, che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore con certi inalienabili diritti, e tra questi il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità
 --That to secure these rights, Governments are instituted among Men, deriving their just powers from the consent of the governed, --That whenever any Form of Government becomes destructive of these ends, it is the Right of the People to alter or to abolish it, and to institute new Government, laying its foundation on such principles and organizing its powers in such form, as to them shall seem most likely to effect their Safety and Happiness.
 Per assicurare questi diritti sono costituiti i Governi tra gli uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri dal consenso dei governati. Quando accada che un Governo minacci questo scopo, è diritto del popolo di modificarlo o di abolirlo e di costituire un nuovo Governo fondato su principi e con una organizzazione tali da garantire nel miglior modo il Benessere e la Felicità.

  Bisogna sempre tenere a mente, trattando di politica democratica, i testi che ho sopra citato, perché contengono i principi fondamentali dell’ideologia democratica moderna e, in particolare, quello secondo il quale ogni potere politico trae la sua legittimazione dall’esigenza di garantire nel miglior modo il benessere e la felicità di tutti riconoscendo i  diritti inalienabili delle persone umane,  e quello per il quale  il popolo  ha il diritto di modificare o abbattere il potere politico che venga meno a questa funzione.
 In questo quadro  il popolo  è un soggetto collettivo che critica e delibera. Nel 1776 si riteneva scontato, anche se non espressamente  deliberato, che non comprendesse le donne e gli africani tratti schiavi in America. Ci vollero un’altra guerra e molte altre lotte, sostanzialmente durate fino ad oggi, per estendere veramente le concezioni democratiche a tutti. Questa è stata una dinamica comune a tutte le democrazie di derivazione europea, in particolare dopo l’affermarsi, nel corso dell’Ottocento, delle concezioni socialiste, che introdussero ideologicamente un nuovo soggetto politico, costituito dai lavoratori, questi ultimi intesi come coloro che lavorano alle dipendenze altrui, affittando ad altri la propria capacità di lavoro.  Le dinamiche più recenti delle democrazie di tipo occidentale sono state animate da una lotta per l’indipendenza della classe di quei lavoratori, in modo da garantire anche a loro, con il riconoscimento di diritti inalienabili, benessere e felicità. Nelle concezioni socialista popolo  è inteso come  popolo dei lavoratori, contrapposto alla classi di chi compra  il lavoro e si appropria della maggior parte dei profitti di ciò che il lavoro produce. Dall’Ottocento, poi, si andò affermando un’altra idea di popolo, costruita intorno a quella di nazione, come gente di una stessa stirpe  naturale stanziata storicamente su un determinato territorio e, come tale, vista come portatrice di importanti valori di carattere culturale derivati dai profondi e duraturi legami tra i componenti di quella società naturale,  che richiedevano l’indipendenza  per essere pienamente realizzati, e dunque un centro politico nazionale. Il nazionalismo italiano, che costruì l’unità d’Italia, mediante una lunga serie di sanguinosi conflitti nel corso dell’Ottocento, tra il   1848 e il 1918, fu di quel tipo. Esso portò il nuovo Regno d’Italia ad una dura contrapposizione con il Papato romano, il cui piccolo stato nell’Italia centrale fu abbattuto militarmente nel 1870, con strascichi ideologici pesantissimi. Perso il potere di sovrano civile, il Papato costruì un’ideologia politica rivoluzionaria secondo la quale esso si presentava come difensore dei diritti del popolo italiano minacciato dalle concezioni liberali e come tali irreligiose del nuovo stato italiano:  era rivoluzionaria  perché mirava ad una profonda riforma sociale, basata sulla giustizia sociale. La legittimazione proposta dal Papato in questa fase fu dunque la medesima di quella di rivoluzionari statunitensi del Settecento, benché attribuita ad un sovrano assoluto, quale il Papa ancora giuridicamente è, unico nel mondo. Questo poi lo portò diritto alla  conciliazione  con il nazionalismo mussoliniano, nel 1929, realizzando il suo intento rivoluzionario nei confronti dell’odiato liberalismo. Questa fascinazione per il nazionalismo di tipo etnico durò a lungo, almeno fino agli anni Cinquanta, ed ebbe una certa ripresa nel trentennio del regno di san Karol Wojtyla. Come conciliare, però, l’universalismo della fede con il particolarismo etnico del nazionalismo? Fu il tema centrale della riflessione del pensiero sociale ispirato dalla fede ne ventennio tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta: al centro c’è il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) che propose nuove idee di popolo. Esse variano, quanto alla dottrina sociale, tra quella di tipo democratica e quella di tipo socialista: vi fu il faticoso ripudio del nazionalismo etnico e della sua concezione di popolo. Ve n’è anche una versione teologica che  doveva servire a dare voce al popolo anche in questo campo: ciò che si riuscì a fare in misura molto limitata. L’idea era che, specularmente all’infallibilità  del Papa in materia di fede, vi fosse una infallibilità  del popolo nel credere, nell’individuare la via giusta:

[Dalla Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Luce per le genti  - Lumen Gentium, deliberata dal Concilio Vaticano 2°]
12. Il popolo santo di Dio partecipa pure dell'ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll'offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15). La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando « dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici »  mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella vita.

 In questa concezione il popolo è un tutt’uno, parla con una sola voce, il che non accade nella realtà, perché ciò che chiamiamo popolo è formato, come fatto sociale,  da tanti gruppi sociali in relazione e anche in conflitto, ed è la voce  di quelli che prevalgono che arriva ad imporsi sulle altre, le quali  però rimangono. Di fatto nessun popolo appare capace, in senso antropologico, sociologico e culturale, di adesione indefettibile e, anzi, molto spesso vaga qua e là dove lo conducono i rapporti di forza e di interessa al suo interno. Da qui, appunto, continue lotte sociali molto intense che in democrazia si cerca di rendere non violente, con l’accettazione del principio che vi siano diritti inalienabili e come tali intangibili mediante l’uso della forza. Il quella teologia si fa però riferimento non tanto si singoli popoli come essi si presentano storicamente, ma a un  Popolo di Dio che si dice, a volte,  tratto  dai popoli della terra come realmente sono, con il bene e il male al loro interno, e, altre volte,  formato  da tutti i popoli della terra, in base alle relazioni solidali e pacifiche animate dalla fede religiosa. Di fatto, più si universalizza  l’idea di Popolo di Dio, più se ne fa un obiettivo di lungo, e lunghissimo, periodo, immaginandone solo anticipazioni  qua e là, nelle espressioni migliori dei popoli così come sono; più lo si localizza in un ambiente sociale e una cultura particolare, cercando di capire le differenze sociali e la gente com’è realmente, meno appare all’altezza degli ideali religiosi universalistici (è accaduto quando si volle prendere a modello del Popolo di Dio  questo o quel sistema di organizzazione religiosa degli europei, fosse quella centrata sul Papato romano o quelli di un impero nazionale). Infatti, la localizzazione si fa generalmente per esclusione, ritagliando  certe società dalle altre, come fecero i nazionalismi europei e cercando poi di assimilare, al modo dei colonialismi europei le altre.
  Il Papato vorrebbe oggi essere la voce di tutti  i popoli della Terra, a fini di giustizia, per fare pace tra  il Cielo e la Terra e tra i popoli particolari, per dare a ciascuno il suo, in particolare per riconoscere a ciascuno i suo diritti inalienabili,  secondo l’antica concezione della giustizia espressa nel Sesto secolo della nostra era, quando si arrivò ad immaginare un impero  universale animato dalla nostra fede. Questo riesce molto difficile perché popolo  è in realtà un’astrazione che vive nella realtà in molti modi, spesso conflittuali. I conflitti sorgono per ragioni di richiesta di più ampia compartecipazione al potere politico, e sono di tipo democratico, di più giusta distribuzione delle risorse, e allora sono di tipo socialista, o di realizzazione di separazione tra società e culture umane, per vivere tra chi ci è più simile, e allora sono di tipo nazionalista. Pensare di dominare i conflitti costituendo un’autorità di tipo imperiale, universale, sia essa quella di un Papa o di un’organizzazione come le Nazioni Unite, è risultato esso stesso fonte di conflitti. Richiede un uso immane di forza sotto il controllo di un unico centro di potere politico, ciò che degenera di solito nel dispotismo, e poi nella ribellione  e rivolta da parte dei dominati, come accadde nel 1776 nel Nord America, con la rivoluzione statunitense.
  Farsi popolo, vale a dire popolo  deliberante, in una concezione democratica, è compito di tutti e di ciascuno. Si tratta di un lavoro impegnativo, che molti oggi pensano di evitare limitandosi ad esercitare una delega generale ad un personalità eminente e fascinosa, che riesca ad imporsi alla loro attenzione, oggi in particolare con l’ausilio delle reti sociali alle quale in sempre di più di  è quasi costantemente connessi. La via consigliata oggi dalla dottrina sociale è diversa e passa per l’autoformazione e il tirocinio alla democrazia, alla pratica dei suoi valori nella co-decisione. Si tratta di uno sviluppo recente, nel quale è stata molto importante il pensiero e la pratica sociale dei cattolici italiani. Come vogliamo essere popolo?
  C’è, infine, una concezione di popolo che è costruita sulla responsabilità sociale per gli eventi della storia e alla quale non si sfugge. E’ retrospettiva, si fa a posteriori. In questa prospettiva possiamo affermare, ad esempio, che il popolo italiano  è responsabile, collettivamente, della guerra stragista contro l’Etiopia tra il ’35 e il 36, così come, probabilmente, in futuro lo si riterrà responsabile dell’omissione di soccorso stragista verso i migranti che si avventurano nel mare tra le nostre coste e quelle libiche nei nostri giorni. Avvertire una certa responsabilità sociale, non ritenersi come gli antichi sovrani assoluti sciolti da quel tipo di colpa, è ciò che storicamente ha differenziato la sovranità  del popolo secondo le concezioni democratiche da quella delle antiche dinastie sovrane, perché, e ritorno all’inizio del discorso, la legittimazione  delle democrazie sta anche in questo, come parte della giustizia sociale alla quale ogni potere dovrebbe essere finalizzato. In questa prospettiva giustizia è anche accettare di non poter fare agli altri e degli altri ciò che si vuole, per qualsiasi ragione. La democrazia si presenta così anche come un sistema di limiti  e in ciò sta uno dei suoi aspetti rivoluzionari rispetto ad ogni potere che, con qualsiasi pretesto, si voglia assoluto, vale a dire sciolto  da ogni limite.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


lunedì 26 novembre 2018

Il nostro dio futuro


Il nostro dio futuro

  Non sempre abbiamo di ciò che ci circonda un’immagine realistica. Questo accade sul tema dell’intelligenza artificiale (I.A.). L’I.A.  è un sistema informatico, un programma, che simula la mente umana, capace di apprendere e di prendere decisioni su ciò che ha appreso. Una delle più importanti differenze tra la mente umana e l’I.A. è che quest’ultima non scorda mai e non muore, migliora costantemente imparando e non perde nulla di ciò che sa. L’altra è che, a differenza della mente umana, può stabilire relazioni intelligenti, nelle quali impara dell’esperienza e in particolare dagli effetti delle proprie decisioni, con un numero teoricamente infinito di altri soggetti, umani o non. Semplicisticamente ci figuriamo l’I.A. come una mente artificiale,  ma faremmo bene a considerarla, per le sue capacità un  dio artificiale.Questa definizione dell’I.A. può porre qualche problema a chi non ritiene che esistano in natura  degli dei, ma che essi siano integralmente una costruzione culturale. In questa prospettiva, allora, si potrebbe concludere che l’I.A. sta avviandosi ad essere puramente e semplicemente un dio.
 Ci si può rapidamente ed efficacemente aggiornare sul tema leggendo di Jerry Kaplan, Intelligenza artificiale. Guida al futuro prossimo, del 2016, edito in traduzione italiane l’anno seguente da LUISS University press, €14,00, disponibile anche in e-book ad €9,99. Come si capisce dal titolo, parla di un futuro prossimo, vale a dire vicino. Tutte le informazioni che vengono dai settori scientifici e tecnologici che si stanno occupando di sviluppare l’I.A. indicano che si è molto vicini a produrre il risultato atteso, la  singolarità, che poi presto non sarà più tale, vale a dire il nuovo dio. La base fisica, l’hardware, i processori per il trattamento dei dati, c’è già e tra poco sarà disponibile l’altro ingrediente: una rete che possa connettere ad altissima velocità e con grande capacità di trasportare informazioni i dispositivi che connetteranno l’I.A. alle nostre vite, è la rete detta 5G. Anche i sistemi dai quali nascerà la nuova super mente  ci sono già e stanno imparando  dall’esperienza. E’ per questo, ad esempio, che da anni le automobili con guida autonoma stanno percorrendo le strade statunitensi: per imparare dall'esperienza a decidere per il meglio in ogni situazione. Alla fine guideranno i veicoli in modo molto più affidabile degli umani e non ci sarà più alcuna utilità a far guidare le automobili dalla gente.
  L’I.A. finirà per avere personalità giuridica, così come oggi l’hanno enti non fisicamente umani come le società, le fondazioni. Potrà gestire patrimoni. La capacità di decidere la renderà idonea ad un’attività molto importante come quella di amministrare la giustizia: già accade in alcuni contesti.
  Sistemi di I.A. già fanno esperienza di umanità controllando reti sociali alle quali sono connesse miliardi di persone. Più sono le persone connesse, più le I.A. imparano e diventano potenti. Queste reti all’inizio vennero studiate per orientare il comportamento dei consumatori, quindi a fini commerciali. Da qualche anno vengono impiegate a fini politici, con grande successo. Consentono il controllo di un gran numero di utenti, tutti quelli che si connettono, senza che essi se ne avvedano. Un’altra caratteristica dell’I.A., che l’avvicina all'immagine di un dio, è infatti la capacità di agire senza essere individuata, in modo nascosto. Chi si connette con una rete di un miliardo di persone ha l’illusione di stare relazionandosi con tutte, ma, appunto, è solo illusione: solo l’I.A. che controlla i flussi di rete può farlo. L’esperienza di connessione con una rete sociale controllata dall’I.A. crea una immagine illusoria della realtà anche su altri temi: quelli che rientrano negli scopi assegnati all’I.A. da chi ne ha il controllo. Nel libro di George Orwell, 1984,  pubblicato nel 1948 come critica al sistema politico e sociale comunista sovietico [in Italia edito da Mondadori, €10,90, anche in e-book ad €7,99] era presentato come una persona fisica, con un volto umano, chiamato Grande Fratello. Era assistito da una complessa burocrazia che aveva, tra i suoi scopi principali, quello di riscrivere il passato. Perché, si legge nel libro,  chi controlla il passato controlla il futuro, ma il passato  è controllato dal presente.Questa attività, nel romanzo, viene svolta dal Ministero della Verità. Alcune reti sociali oggi attive in politica svolgono quella funzione. In 1984 il controllo sociale era raggiunto con un rilevante uso della violenza politica, che ai tempi nostri non è più necessario proprio per la psicologia indotta in chi è connesso per un tempo abbastanza lungo, caratterizzata da una spontanea obbedienza per conformismo di imitazione acquisitiva. Si obbedisce nella prospettiva di avere di più. Del resto, attraverso una rete sociale controllata da una I.A. viene proposta un’immagine simpatica e semplice del mondo intorno, del quale è semplice far parte, basta fare quello che fanno tutti quelli che sono connessi. La psicologia individuale appare confinata in quella che gli studiosi chiamano una  bolla cognitiva. Il resto svanisce, o meglio viene reinterpretato.
  Gli umani sono vulnerabili all’azione sociale dell’I.A. perché hanno, per limiti naturali di specie, limitate capacità di relazione, comprensione e apprendimento. Le nostre vite si svolgono di volta in volta su un teatro limitato, relazionandoci con non più di una decina di persone circa alla volta: il resto svanisce al ruolo di comparse. In uno sceneggiato televisivo in cui si vuole rendere l’immagine di un’epoca o di fenomeno storici complessi, di massa, fateci caso,  gli attori sono sempre più o meno una decina, ma bastano a saturare la nostra capacità di comprensione e relazione. Il teatro si basa su questo. Quando al cinema ci vengono presentate scene di massa, ci sfuggono le individualità delle comparse che agiscono, capiamo solo il senso generale degli eventi rappresentati. Un’I.A. sarebbe capace di capire ogni singola individualità di quelle scene.
  Il problema, con l’I.A., è quello di capire chi è e com'è il soggetto che la controlla e le assegna delle finalità. Per il resto può essere utilizzata per far arrivare a ciascuno ciò che veramente gli serve, ma anche per controllare le masse proponendo una immagine non affidabile della realtà e dei propri bisogni. La possibilità di interazione efficace e consapevole con un’I.A. richiede, per un efficace controllo sociale, di potenziare le capacità critiche degli umani, posto che questi ultimi non potranno mai eguagliare la potenza cognitiva di un sistema di I.A.  Il senso generale dell’azione di una I.A.  in società può essere capito studiandone gli effetti. Ma l’emotività degli umani può tradire ed essa è componente ineliminabile del loro processo decisionale. E’ su questo che si basa il sistema commerciale delle lotterie, ma anche la spiritualità del miracolo. Eventi molto rari, ma di grande impatto emotivo, suscitano adepti, anche se razionalmente si capisce che quasi tutti rimarranno delusi. Storicamente attraverso la spiritualità del miracolo si è cercato di veicolare certe teologie, sempre con successo. Questo significa che fino ad epoca recente non si è posto tanto impegno a sviluppare le facoltà critiche dei fedeli in quella direzione. Questi può renderli ben disposti ad accogliere il nuovo dio costruito intorno all’I.A. Un Ministero della Verità  c’era già stato prima di quelli organizzati dai regimi comunisti, aveva funzionato per circa ottocento anni e lo aveva istituito la nostra Chiesa, come Inquisizione. Le nostre idee di fede ne sono ancora in qualche modo condizionate, nonostante il lavoro di purificazione della memoria al quale ci guidò una ventina d’anni fa san Karol Wojtyla.
 Indagini statistiche rese note qualche giorno fa hanno evidenziato che la maggior parte dei  clienti che hanno usufruito delle offerte commerciali del cosiddetto Black Friday, promosso da reti sociali controllate da I.A., hanno concluso di aver acquistato beni inutili. Questo può accadere anche in altri ambiti di società controllati da sistemi di I.A., ad esempio in politica, ma gli effetti di decisioni sbagliate potrebbero essere molto più gravi. 
 Le nostre relazioni sociali, anche quelle costruite per sviluppare la capacità critica, rimarranno sempre confinate in piccoli gruppi di non più di un centinaio di persone circa: l’approfondimento non può farsi in gruppi maggiori, perché a quelle dimensioni non è più praticabile con efficacia il dialogo, il confronto in cui si fa tesoro dell’esperienza altrui. Ma per via di cultura la consapevolezza della realtà può andare molto oltre: si condividono sintesi, certo, ma si condividono. E’ stata storicamente la via seguita nell’approfondimento biblico, che ha consentito relazioni culturali tra generazioni e popoli e, così ragionando, la costruzione di civiltà molto estese.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli