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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

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lunedì 28 maggio 2012

Perché i nostri figli non vengono a Messa?

Perché i nostri figli non vengono a Messa?

 Domenica scorsa durante l’omelia il sacerdote ci ha fatto notare che in chiesa, a Messa, non c’erano i nostri figli e i nostri nipoti. Perché? Non abbiamo dato una buona testimonianza, ci ha spiegato. Le mie due figlie erano accanto a me e a mia moglie, ma tra i banchi effettivamente c’erano pochi altri giovani: mi sono sentito quindi, in qualche modo, gratificato, ma insieme anche avvilito. Pur essendo riuscito, nella mia famiglia,  dove altri sono rimasti un po’ delusi, mi sento responsabile della generale apparente inefficacia della nostra azione di comunità.
 Naturalmente si poteva osservare che noi i nostri figli li avevamo portati in parrocchia, ma poi qualcosa lì probabilmente non ha funzionato. O anche, eravamo a Pentecoste, che forse è mancato qualcosa dall’alto, e non sappiamo capirne la ragione, come accade in molte altre questioni della fede.
 Certamente dobbiamo fare uno sforzo per migliorarci, per rendere una testimonianza più valida. Ma dobbiamo anche capire che recuperare sarà lungo e difficile e non dipenderà solo dalla nostra buona volontà o da quella dei sacerdoti: quello che viviamo può infatti essere considerato come l’esito di moti collettivi che vengono da lontano nel tempo. Bisogna anche tener in conto che il tipo di cristiano che oggi i nostri vescovi e sacerdoti considerano ideale non c’è mai  veramente stato prima nella storia. Non si tratta, quindi, di recuperare il passato, ma di costruire un nuovo futuro. Un compito appassionante.
 Se ben ricordo quello che ho letto, nel regno pontificio chi non andava a Messa la domenica poteva essere punito con una multa. In Indonesia, come abbiamo scoperto nei giorni scorsi, definirsi pubblicamente ateo è considerato un crimine. E’ chiaro che vi sono stati e vi sono ancora luoghi in cui la religione ha una considerazione diversa da quella che ha nell’Italia di oggi. Tuttavia penso che gli italiani del nostro tempo non accetterebbero che fossero punite con sanzioni penali le inosservanze di obblighi religiosi.  Qualcosa è pertanto molto cambiato e non si può tornare indietro, non illudiamoci. Ma non è solo questo: la pressione sociale per spingere alla religiosità si è fatta molto meno forte. Del resto è proprio l’attuale dottrina religiosa contemporanea a richiedere un consenso molto più motivato di quello fondato sul conformismo esteriore.
  Cerco di rendermi presenti le nozioni storiche che mi sono ancora rimaste in mente e, naturalmente approssimando molto, mi pare di poter concludere che il cristianesimo cattolico di popolo, quello che coinvolgeva tutti, uomini, donne e bambini, per pressione istituzionale e sociale e convinzione profonda, sia finito con il Settecento. Davanti all’emergere delle ideologie liberali i capi della nostra comunità si schierarono con i sovrani del vecchio regime. I moti rivoluzionari di impronta borghese che travagliarono l’Europa tra il Settecento e l’Ottocento ebbero quindi una marcata impronta antireligiosa. Essa si conservò nelle classi dirigenti del nuovo ordine, anche dopo la restaurazione.
 Nel corso dell’Ottocento i capi della cattolicità si schierarono anche contro i moti per l’elevazione dei ceti popolari, assumendo una marcata posizione contro il socialismo. Questo determinò la seconda profonda frattura.
 In Italia, poi, il nazionalismo di stampo cavouriano e mazziniano fu fortemente avversato dai papi, non per ragioni religiose ma per questioni di potere temporale, e questo comportò la terza frattura che travagliò il popolo italiano per molti decenni, fino al disastroso compromesso con il Mussolini.
 Quando parlo di “fratture” mi riferisco a cose che, in Europa, coinvolgevano essenzialmente la parte maschile delle popolazioni. Infatti le donne, non avendo alcun peso politico, non erano generalmente coinvolte nei moti che quelle divisioni avevano provocato. Le donne quindi rimasero più osservanti, nella pratica religiosa. Questo produsse, tra l’Ottocento e il Novecento, una marcata femminilizzazione del cattolicesimo, espressa in particolare nel culto mariano. Nella considerazione popolare la religione fu quindi progressivamente considerata un fatto da donne, in qualche modo disonorevole per un uomo vero. Sappiamo naturalmente che una componente maschile rimase sempre fedele, come dimostra in particolare l’esperienza dell’Azione Cattolica. Tuttavia questa componente avvertì più duramente l’emarginazione che i cattolici italiani subirono a causa delle fratture di cui dicevo, in particolare di quella prodottasi nel Risorgimento e perpetuatasi a seguito dell’intransigentismo papale sulla questione della sovranità temporale. Oggi certe cose appaiono immeritevoli di tanta cura. Ma bisogna riportarsi al clima dell’epoca in cui esse furono al centro delle diatribe tra i papi e i capi del regno d’Italia. Basti pensare, per capire il loro rilievo centrale, che la “conciliazione” avvenne istituendo, nel 1929, un piccolo quartiere-stato, la Città del Vaticano, dove i papi potessero ancora regnare.
 Accadeva quindi che le donne fossero in genere “praticanti”, mentre molti degli uomini “praticassero” solamente nelle feste maggiori, Natale, Pasqua e via dicendo, e nelle celebrazioni riguardanti gli eventi fondamentali della vita famigliare e gli stati di vita: nascita, iniziazione religiosa, matrimonio, conferimento dell’Ordini sacro, ammissione in una famiglia religiosa, morte. I sacerdoti più anziani dei paesi rurali ricordano ancora che la domenica gli uomini attendevano in piazza  l’uscita delle donne dalla Messa o, se entravano, se ne stavano in piedi in fondo alla chiesa.
 Se poi consideriamo la frequenza al sacramento della penitenza, ho letto che anche nei secoli della cattolicità di popolo non ci si confessava con la frequenza oggi consigliata dai nostri sacerdoti, ma una o due volte l’anno, salvo che si avesse coscienza di essere in peccato mortale, secondo i vari criteri predicati di tempo in tempo dai preti. Naturalmente dopo le fratture di cui ho scritto, la confessione rimase un sacramento “praticato” prevalentemente dalla donne e dai bambini.
 Bisogna tuttavia riconoscere che fino agli anni ’70 del secolo scorso la frequenza dei giovani e degli uomini alla Messa era molto più elevata di oggi. Questo, a mio avviso, dipendeva da due fattori fondamentali: la pressione sociale e l’aspetto magico di certe convinzioni religiose di allora. Essere irreligiosi appariva ancora come strano. E si confidava di poter rimediare a certe difficoltà con l’appoggio soprannaturale. E’ stato osservato che la riforma attuata dopo il Concilio Vaticano II li ha depotenziati, richiedendo un tipo di adesione religiosa molto più profonda, motivata, consapevole e, come tale, impegnativa e difficile. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II si è cercato in quale modo di recuperarli, da un lato proponendo un coinvolgimento collettivo basato sul potente carisma del papa e dall’altro semplificando, con catechismi e compendi, certe questioni piuttosto controverse e rilanciando, con la spiritualità basata sui santuari e i grandi eventi, l’affidamento nel soprannaturale. Il successo di questo orientamento si è rivelato però piuttosto effimero a livello locale, parrocchiale. La gente infatti frequenta in massa gli eventi papali e i santuari, ma non la parrocchia.
 Oggi, al punto in cui siamo, temiamo che la fede si spenga del tutto nel popolo e che anche la Chiesa finisca per decadere e scomparire. Ed effettivamente, considerando le cose da un punto di vista razionale, qualche ragione di apprensione l’abbiamo. Ma si è religiosi anche perché ci si aspetta di essere sorpresi dal futuro: nulla  è impossibile dall’alto, ci ripetiamo. Quindi consiglierei di non recriminare tra noi nel cercare colpevoli. Certe cose ci sovrastano e noi possiamo al più confidare di apportare un contributo infinitesimale per fare in modo che cambino, sperando in un decisivo ausilio soprannaturale. Eppure, goccia a goccia viene scavata la roccia più dura, ci insegna l’esperienza. Quindi ciò che facciamo, la nostra piccola goccia, non  è mai inutile. Occorre perseverare ed essere pronti, secondo il motto evangelico.
 Per quanto poi specificamente riguarda i giovani, è piuttosto evidente che la nostra religione non sembra fatta per loro. Tutto coopera per respingerli. Le conseguenze delle fratture di cui dicevo, il fatto che tra noi comanda gente piuttosto anziana e infine le questioni relative al contenimento dell’istinto sessuale, che è fortissimo, per motivi di natura, fisiologici, nell’età più giovane. Un cinquantenne come me, piuttosto sbattuto dalle pesanti terapie che ha subito e con il naturale calo ormonale dell’età, può tutto sommato guardare a certe cose più serenamente. Ma bisogna sempre far memoria, onestamente,  di ciò che si è vissuto nelle stagioni precedenti. Per un giovane è realmente sostenibile la morale che in quelle questioni gli proponiamo?
 Poi, sempre per i giovani, c’è la pressione sociale che induce al conformismo su atteggiamenti consumistici, funzionali al tipo di economia in cui viviamo. Difficile resistere: lo è anche per noi più grandicelli che abbiamo, o almeno si suppone che abbiamo,  una formazione più completa, avendo avuto più tempo a disposizione per rimediare a tutti gli errori e le cattiverie che abbiamo fatto.
 E tuttavia l’aspetto che mi pare cruciale è quello della capacità di indurre speranza, di confidare che il mondo com’è non sia l’ultima parola su di noi. Per quello che mi è parso di capire parlando con le mie figlie è questo il problema più serio dei più giovani sulla via della religiosità. Quando ero più giovane mi piaceva pensare al mondo come ad un vulcano in procinto di eruttare e quindi che tutto sarebbe di lì a poco cambiato. Nella mia fede ho trovato conferma di questa mia convinzione. E’ infatti, la mia, un tipo di religiosità basata sulla ribellione alle cose così come vanno, innanzi tutto alla morte fisica, alla quale, tuttavia, come cantò Francesco d’Assisi, nessun uomo può scampare. Se uno non si convince a sperare, non riesce nemmeno ad essere religioso. L’ideale di speranza… Sapevano quanto fosse importante anche i vecchi socialisti. Nella versione italiana dell’Internazionale si legge che non si è più “plebe all’opra china senza ideale in cui sperar”; è sull’ideale di speranza, di cambiamento, che si basa l’internazionale futura umanità. Direi che è da qui che possiamo pensare di poter ricominciare. E’ cosa che noi laici abbiamo la possibilità di fare in concreto, non solo a chiacchiere, nel mondo del lavoro e, in genere, nella società che è il nostro campo privilegiato d’azione. E’ qui che, penso, possiamo molto migliorare.
 Io credo e quindi spero, e poi cerco di agire di conseguenza. Non mi disilludono gli apparenti insuccessi. Ho iniziato da qualche mese a collaborare a questo blog pensando di poter ottenere qualche risultato, ma ancora, pur avendo avuto la gioia di nuove adesioni, non siamo riusciti a raggiungere gli obiettivi che ci eravamo proposti, innanzi tutto quello di raccogliere nel nostro gruppo una componente più giovane in grado di costituire un centro di attrazione per i coetanei. Vedo però le cose da un  punto di vista religioso e concludo con le parole della sequenza di Pentecoste: vieni, padre dei poveri, datore dei doni, luce dei cuori, vieni!

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli.


  
  


giovedì 17 maggio 2012

L’Ascensione di Gesù - commento al Vangelo di domenica 20 maggio 2012

L’Ascensione di Gesù - commento al Vangelo di domenica 20 maggio 2012

Commento di A. S. P. – Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 L’Ascensione rappresenta per me il finale glorioso della vita pubblica di Gesù. Dopo la Pasqua è solo un modo per indicare la conclusione di una fase della storia della salvezza e l’inizio di un’altra. Fratelli, non so se voi l’avete notato, dopo la Pasqua le letture erano piene di parole d’amore: “vi ho amato”, “vi amo”, “amatevi”. Quelle di domenica scorsa le ho contate per curiosità: la parola “amore” è scritta per ben 13 volte. Questo soprattutto Gesù ci vuol dire: che ci ha amato tanto da dare la vita per noi; si è fatto flagellare, crocifiggere ed è morto sulla croce per i nostri peccati.
 Gesù, con il quale i discepoli hanno mangiato e bevuto, continua la sua permanenza invisibile nella Chiesa anche dopo la sua ascesa.
  La Chiesa è chiamata a continuare la missione della predicazione di Cristo. Per questo gli angeli, dopo l’ascensione del Risorto, invitano gli apostoli a non attardarsi a guardare il cielo, perché l’avvenimento a cui hanno assistito non coinvolge solamente loro: al contrario, è qualcosa di universale (salvifica e missionaria), che sarà animata dallo Spirito Santo. Per noi cristiani l’Ascensione ha il significato di aprirci alla speranza nella vita futura con Dio e diffonderci nel mondo intero, unirlo in una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre.
 Gli apostoli con la salita al cielo di Gesù capiscono che Dio gli ha lasciato una ricerca di libertà, di dignità, di responsabilità e soprattutto un desiderio di poter fare di più nella vita: la volontà di costruire un mondo più giusto e più unito.
 Il Signore con questa sua ascesa al cielo segna l’inserzione piena dell’umanità nella divinità e la possibilità di camminare con l’Eterno. E come un grande padre misericordioso e buono ci dice: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.


domenica 13 maggio 2012

Il Settimo Sigillo: diversa versione del copione

Il Settimo Sigillo: diversa versione del copione

 Qualche giorno fa ho proposto una versione di uno dei dialoghi del film Il Settimo Sigillo – 1957 – regista Ingmar Bergman che avevo trascritto dal sonoro del film doppiato in italiano. Ora il presidente mi propone una traduzione del medesimo dialogo, dal copione originale, che diverge un po’ da quell’altra. La trascrivo di seguito. E’ tratta dall’opera Ingmar Bergman, Il Settimo Sigillo, Edizioni Angolo Manzoni, 2005. Era in commercio ad € 10,00, ma attualmente è di difficile reperibilità. Non mi risultano ristampe. traduttore è Alberto Criscuolo.
 Come succede da quando c’è la televisione, a una persona capita di guardare in vari momenti della sua vita lo stesso film.
 La prima volta che vidi in televisione i titoli di testa di Il Settimo Sigillo facevo le elementari e mia mamma non mi consentì di guardarlo: si andava a letto dopo Carosello e poi mi disse che era pauroso. La Morte personificata era un po’ al di là della mia immaginazione; confusi l’uomo con la tonaca nera, che nel film rappresenta la Morte, con il demonio di cui mi avevano parlato nel catechismo.
 Rividi il film da adolescente, ma non ne capii a pieno il senso. Mi coinvolsero di più, emotivamente, certe scene cruente, ad esempio quella in cui si brucia una donna accusata di stregoneria.
 Rividi ancora lo stesso film molti anni dopo, durante una fase della mia malattia più grave. E solo allora lo compresi. I problemi del “cavaliere” erano diventati i miei. Inoltre frequentavo luoghi, i reparti di oncologia, che, come le contrade infestate dalla pestilenza del film, erano pieni di gente che moriva.
 Devo dire che la mia religiosità è sempre stata piuttosto lontana da quella un po’ cupa, nordica, del film. Inoltre nella mia spiritualità non  è mai stato centrale il problema dell’ “esistenza” di Dio. Sono stato educato ad affrontare queste cose nel solco della tradizione  francescana, gioiosa e fiduciosa, capace di apostrofare la morte come “sorella”. E nessuno di coloro dai quali ho ricevuto la tradizione della fede mi ha mai promesso che avrei “visto” Dio in questa vita terrena o che sarei scampato alla morte fisica.  Non ho mai visto un problema in questo.
 Piuttosto, negli ultimi anni, nel corso  della malattia e dopo le fasi più emozionanti di essa, ho cominciato a vivere una religiosità intesa anche come ribellione alla schiavitù della morte, ma anche come ribellione in genere, alla natura, a certe forme di organizzazione sociale e via dicendo. Mi attira molto il carattere in fondo paradossale della fede. Prendo molto sul serio l’idea religiosa della vita eterna, pur costantemente contraddetta da ciò che sperimento intorno a me e nel mio essere fisico. Questo fa indubbiamente di me un credente indocile e come Lorenzo Milani non considero sempre una virtù l’ubbidienza, e di questo non mi pento. Ma anche un credente capace di resistere a molte disillusioni, specialmente a quelle che vengono dagli aspetti sociali della religiosità e dai tanti discorsi problematici che si fanno in materia di fede. Non mi convincono né le pretese di perfezione comunitaria né le chiacchiere. Inoltre la mia idea della fede non deriva dalla paura e non la considero  una mia creazione. Parafrasando una preghiera, di cui non so l’autore, il cui testo trovai molti anni fa, me ne sono trovato imbevuto come biscotto inzuppato nel vino.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli



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Il Settimo sigillo - Dialogo del cavaliere con la Morte

Il cavaliere sente un rumore dietro la grata del confessionale, immediatamente si avvicina. Il volto della morte appare per un attimo dietro la grata, ma il Cavaliere non lo vede.
CAVALIERE: Voglio parlarti il più sinceramente possibile, ma il mio cuore è vuoto.
MORTE: (non risponde).
CAVALIERE: Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine  e provo disgusto e paura.
MORTE: non risponde.
CAVALIERE: Per la mia indifferenza verso il prossimo mi sono isolato dalla compagnia umana. Ora vivo in un mondo di fantasmi, rinchiuso nei miei sogni e nelle mie fantasie.
MORTE: Eppure non vuoi morire.
CAVALIERE: Sì che lo voglio.
MORTE: E allora cosa aspetti?
CAVALIERE: Voglio sapere.
MORTE: Vuoi delle garanzie.
CAVALIERE: Chiamale come vuoi. E’ così crudelmente impensabile percepire Dio con i propri sensi? Perché nascondersi in una nebbia di mezze promesse e miracoli che nessuno ha visto?
MORTE: (non risponde).
CAVALIERE: Come possiamo credere in chi crede se non crediamo a noi stessi? Cosa sarà di quelli come noi che vorrebbero credere ma non ci riescono? E cosa sarà di quelli che non vogliono e non possono credere?

Il cavaliere tace in attesa di una risposta, ma nessuno parla, né risponde. C’è solo silenzio intorno a lui.
CAVALIERE: Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me in questo modo doloroso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto, continua a essere una realtà illusoria da cui non riesco a liberarmi? Mi ascolti?
MORTE: Ti ascolto.
CAVALIERE: Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli.
MORTE: Ma Lui tace.
CAVALIERE. Lo chiamo nelle tenebre, ma a volte è come se non esistesse.
MORTE: Forse non esiste.
CAVALIERE: Allora la vita  è un assurdo orrore. Nessuno può vivere con la Morte davanti agli occhi sapendo che tutto è nulla.
MORTE: La maggior parte della gente non pensa né alla Morte né al nulla.
CAVALIERE: Ma un giorno si troveranno al limite estremi della vita e vedranno le Tenebre.
MORTE: Sì “quel giorno”…
CAVALIERE: Abbiamo bisogno di crearci un’immagine delle nostre paure e a quell’immagine diamo il nome di dio.
MORTE: Tu ti tormenti.
CAVALIERE: La Morte è venuta a cercarmi questa mattina. Abbiamo cominciato una partita a scacchi. Questa proroga mi permette di sbrigare una faccenda che mi sta a cuore.
MORTE: Di che si tratta?
CAVALIERE: La mia vita è stata vuota. L’ho passata ad andare a caccia, a viaggiare, a parlare a vanvera di cose insignificanti. Lo dico senza amarezza né rimorso, perché so che la vita della maggior parte della gente è così. Ma ora voglio utilizzare questa proroga per un’ultima azione che abbia un senso.
MORTE: E’ per questo che giochi a scacchi con la Morte?
CAVALIERE: Sì, è un avversario temibile e molto abile, ma per ora non ho perso neanche un pezzo.
MORTE: Ma come fai a tener testa alla Morte?
CAVALIERE: Uso una combinazione di alfiere e cavallo che non ha ancora capito. Alla prossima mossa le porterò un attacco sul fianco.
MORTE: Lo terrò presente.
 La Morte mostra per un attimo il suo volto dietro la grata del confessionale, ma subito scompare.

giovedì 10 maggio 2012

religione, autorità, famiglia, celibato

Religione, autorità, famiglia celibato

Sullo spunto della vivace e interessante discussione sviluppatasi tra noi nell’ultima riunione del gruppo, vi propongo alcune mie riflessioni risalenti a due anni fa.
 Come ci ha annunciato il presidente, siamo nell’ultimo mese di incontri, prima della pausa estiva. Mi mancheranno molto le nostre occasioni di dibattito e i preziosi contributi del nostro sacerdote assistente. Se vorrete potremmo proseguirle qui sul blog, in attesa della ripresa. Spero di non essere apparso presuntuoso nel proporre certe mie idee. Parafrasando ciò che disse Giovanni Paolo II il giorno in cui fu eletto papa, ed io ero tra quelli che in piazza San Pietro lo ascoltavano di persona: se sbaglio, correggetemi.
 Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli
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La religione non è cosa solo per i teologi. Chiunque ci si trovi coinvolto può rifletterci su. I teologi poi riflettono su questi pensieri e li ordinano in un sistema. Dalla teologia riceviamo un'immagine di tutto quello che si è pensato sulla religione: si cerca di farla arrivare a tutti, per dare un orientamento. Ci arriva con i vari catechismi, nel corso della vita, quindi in varie forme di divulgazione. Per alcuni anche con letture più impegnative. Quella che pretende di essere obbedita, quella che viene sancita dall'autorità, assume il carattere proprio di una ideologia politica del gruppo. In passato contrastarla poteva costare molto caro. Oggi è diverso, ma fino a un certo punto. Non si rischiano più la vita o la libertà personale, certo. Ma se uno ha fatto della religione il suo mestiere può rischiare il posto. Tutti possono perdere la loro onorabilità. Se uno guarda al futuro della Chiesa, può anche immaginare che una delle cose da fare sia di ridimensionare la teologia che pretenda di essere obbedita come ideologia politica.
 Se consideriamo molti dei discorsi che le autorità religiose fanno su famiglia, celibato, corpo e natura ci rendiamo conto del loro carattere propriamente di ideologia politica. Il loro scopo non è tanto quello di spiegare la realtà, ma quello di assegnare a ciascuno un posto nel gruppo. L'uomo, la donna, il prete, il monaco, il frate, il marito, la moglie ecc. Contrastarli comporta l'accusa di ribellione, il dissenso non ha più solo un valore culturale. E' quello che accadde storicamente nella lotta agli eretici, ma che accade tuttora, anche se in termini meno espliciti e con metodi molto meno crudeli.
 La religione è una disciplina che uno si dà. Il carattere suo proprio è di andare contro quello che si vede e si sperimenta al di fuori di sé stessi. Esprime un'insoddisfazione dello spirito. E' anche un fatto collettivo. Di solito le persone fanno proprie religioni che trovano già costruite nella società in cui vivono. Apprenderle da altri, in particolare dai genitori e comunque da gente più anziana, le accredita. La partecipazione alle liturgie, ai riti collettivi, le rende visibili al pari della dura realtà contro cui ci si ribella, dà loro una consistenza fisica, naturale. Sorregge e soddisfa l'emotività personale, lì dove origina il movente alla religiosità. L'antropologia ci dice che da tempi preistorici sono collegate al governo delle società umane. Danno stabilità alle regole imposte dall'autorità e le accreditano nelle generazioni dei sudditi. E' come dire che, fin dagli inizi, sono collegate a ideologie politiche. Anticamente, ma più vicino a noi, si credeva che vi fosse una relazione reciproca tra la natura e l'ordinamento politico di una società. Che la natura punisse le deviazioni collettività umane e che queste ultime potessero provocare catastrofi naturali. Entrarono in uso riti per placare la rabbia della natura. Più avanti si ebbe la personificazione delle forze ultraterrene e certi riti vennero concepiti come un dialogo del  popolo, rappresentato dalla sua autorità suprema, con la divinità. Il lento e difficoltoso affermarsi delle scienze naturali, dal Cinquecento al secolo scorso, ci ha fatto alla fine uscire da quest'ordine di idee. Per comodità, ma con una certa imprecisione, possiamo fissare come spartiacque per il mondo cattolico il Concilio Vaticano II. Continua però a persistere, nei molti movimenti apocalittici collegati al culto mariano, la vecchia impostazione: buona parte dei fedeli cattolici, di tutte le età, vi è ancora legata. Ma non solo in quegli ambienti.
 Sappiamo, ad esempio, che c'è una vivace resistenza culturale ad accettare l'idea di un mondo dei viventi in continua evoluzione, senza un preciso progetto. I dati delle scienze naturali la confermano, anche se oggi il "motore" dell'evoluzione non è più visto esclusivamente nella selezione naturale, nell'affermazione genetica del più adatto in quanto sopravvissuto. Del resto, se una persona considera sé medesima capisce bene che, potendo decidere, si sarebbe fatta diversa e migliore di quella che è, sotto tutti gli aspetti. E l'ordine della natura in cui gli organismi si mangiano a vicenda è senz'altro una buona scelta dal punto di vista dell'economia energetica: ma essendo onnipotenti e volendo essere buoni nello stesso grado si poteva anche pensare qualcosa di diverso. Pochi, infine, essenzialmente le persone non religiose, accettano serenamente l'idea della propria definitiva morte personale, dell'avvicendarsi delle generazioni dei viventi: eppure di questo ci parla la natura intorno a noi. E la morte fisica  degli individui è necessaria per il mantenimento dell'ordine naturale sul pianeta. Se c'è un progetto, esso non risponde alle nostre attese. Affermarlo non contrasta però con le idee religiose: esse infatti hanno moventi paradossali, non accettano il mondo così com'è e si vede. Contrasta invece con l'ordinamento politico della collettività religiosa: se nulla è stabile e non c'è un progetto, anche l'ordinamento sacrale condivide questa precarietà e rischia di essere sconvolto col tempo. E se anche succedesse? In realtà è già accaduto, molte volte e il mondo non è finito. La natura e le società umane hanno continuato ad esistere, con la loro dose di crudeltà e insensatezza. E la Chiesa com'è oggi non è com’era la Chiesa di anche solo duecento anni fa, anche se la teologia vuole convincerci, ideologicamente, del contrario.: non è la stessa Chiesa. Nel corso dell'Ottocento si è prodotta una profonda mutazione, si è rifiutata l'idea del conflitto sociale e politico: sono gli insegnamenti confluiti in quel vastissimo corpo dottrinario che viene riassunto sotto la denominazione di "dottrina sociale". Più avanti, nel secolo scorso, si è accettata l'idea di libertà di coscienza, ripudiata e condannata come eresia solo nel secolo precedente.
  I problemi si ripropongono quando si parla del corpo umano. Siamo il nostro corpo o lo abitiamo semplicemente? Da giovani si propende per la prima, da vecchi per la seconda, quando il corpo risponde sempre meno bene ai nostri desideri. Fatto sta che esso cambia nel tempo, come tutto intorno a noi. Sappiamo che finirà. Finiremo con lui? E' una cosa che temiamo  e che non accettiamo: da questo le nostre attese religiose. Per quanto riguarda il nostro destino personale, le cose si chiariranno quando accadranno. Se però dobbiamo decidere sul corpo degli altri, le cose si complicano. In una comunità umana è importante stabilire quando uno è morto. Fino a qualche decennio fa sembrava facile farlo. Oggi molto meno. Si sapeva che la morte  non è un accadimento istantaneo, ma un processo. Sono state inventate delle macchine che sono capaci di sostenere la vita nonostante l'inizio di quel processo. Sono state anche introdotte leggi in materia: in Italia è considerata convenzionalmente  vera morte quella dell'encefalo. Ma si è poi  capito che anche la morte dell'encefalo non è istantanea, dopo certi interventi rianimatori o, comunque,  dopo certi eventi traumatici possono sopravvivere molto a lungo certe aree, pur nell'impossibilità del recupero della funzionalità completa dell'organo. Questa situazione non è considerata convenzionalmente vera morte, è vita umana ma non è la vita umana con cui siamo abituati ad entrare in relazione. Una situazione speculare è quella della vita umana durante la gestazione, dallo zigote a quando il feto assume forma umana: è vera vita, è vita umana, ma non è la vita umana con cui siamo abituati ad entrare in relazione. Le osservazioni della scienza ci dicono  quindi che la stessa vita umana personale è un processo, la sua formazione e la sua fine non sono istantanee, esse si sviluppano per fasi intermedie. Non sono dati che contrastano con quello che emerge per la natura in generale. Ma contrastano con l'idea di stabilità che vorremmo affermare come obiettivo quando progettiamo le società umane. Se tutto è processo, se tutto evolve, dove troviamo la pietra angolare? Eppure da sempre costruiamo società umane che evolvono come processi, regole che vengono sostituite da altre regole, così come costruiamo città nuove sulle vecchie città, di modo che città antiche come Roma hanno sotto di sé diversi strati archeologici e, in definitiva, la città che sta sopra tutte le altre funziona ancora, come corpo architettonico e corpo sociale.
 Infine ci sono  i problemi che sorgono quando si parla della famiglia. L'antropologia ci dice che storicamente ce ne sono stati molti modelli e che questa varietà sussiste anche attualmente: poligamica o monogamica, poligamica e poliandrica insieme, patriarcale, matriarcale, allargata o nucleare, a predominio maschile o con parità fra i sessi, dissolubile o indissolubile, di stirpe o acquisita,  con i figli e gli altri sottoposti considerati come proprietà dei capi famiglia o invece come persone con propria autonomia in relazione alla loro età e via dicendo. Quando però si sono progettate società con una certa stabilità si è voluto anche impartire regole sulla famiglia. In una società ordinata ognuno deve sapere qual è il suo posto. E ciò è tanto più importante in quanto le società umane sono sottoposte alla regola di natura della successione delle generazioni. Si deve poter sapere il posto che i nuovi arrivati devono occupare, in modo che, come l'avvicendarsi delle cellule nel corpo non ne muta se non molto lentamente l'aspetto, anche le società umane evolvano molto lentamente nel tempo, conservando le loro caratteristiche essenziali, in modo da rimanere riconoscibili  e comunque stabili su un certo territorio. Si sa l'importanza che quelle regole ebbero e ancora hanno nelle questioni dinastiche delle stirpi regali. La famiglia è collegata all'esercizio della sessualità, che quindi è visto come potenzialmente capace di scombinarla e con essa la società della quale la famiglia è, come si suole dire, cellula primigenia. Di qui deriva l'idea che fare sesso in modo sbagliato sia molto più che immorale, sia un attentato alla stabilità e al buon ordinamento della società. Una sorta di crimine politico. Naturalmente a farne le spese sono stati i soggetti deboli: le donne e i maschi che si allontanavano dall'ideale virile. Nei confronti degli altri maschi si è usata molta tolleranza. Del resto erano loro a fare le leggi.
 Col tempo le società civili hanno cambiato le regole discriminatorie e hanno usato più tolleranza. Anche nelle religioni è accaduto qualcosa di simile. In quella cattolica ci sono molte resistenze. Certo, nella Bibbia ci sono molti divieti imperativi. Ma si sa che molte delle regole che vi troviamo sono state storicizzate, le si è collegate a un certo sviluppo culturale. Oggi un cattolico non lapiderebbe un'adultera. E questo anche se si narra che il fondatore, nel decidere una questione di adulterio, pur avendone risparmiata una non ha condannato quella pena che a noi oggi sempre eccessiva e crudele. Eppure si fatica ad abbandonare certi modelli ideali di perfezione, che si sono rivelati impraticabili ai più. Ma non accade a causa della sostanza delle questioni, perché insomma essi siano proprio irrinunciabili, ma essenzialmente perché su di essi è costruita molta ideologia politica.
 La famiglia come ancora è ritratta nella predicazione non è maggioritaria, ma nemmeno significativamente presente nella società. Tutto quel parlare di amore oblativo, di darsi all'altro senza riserve. Le analogie soprannaturali. Condursi diversamente appare quindi lesa maestà e addirittura eresia.
 Non appena si è introdotti nella catechesi per i più grandi, ci dicono che l'antico mondo greco aveva almeno tre vocaboli diversi per quello che noi definiamo più sbrigativamente amore: "èros", "agàpe" e "filìa". Ma c'è anche il sentimento del genitore verso il figlio e quello reciproco. Sono cinque  modalità di attaccamento alle altre persone. Per dire: in "pedo-filia", c'è la "filìa". Nell'evangelico "amatevi come io vi ho amato" c'è l' "agàpe". E nella domanda "Simone, figlio di Giovanni, mi ami davvero?" posta per la terza volta c'è la "filìa",mentre le altre due volte c'era l'"agàpe". Nel "vi ho chiamato amici", c'è la "filìa" La famiglia, come è nella realtà, si fonda su tutte e cinque quelle modalità di attaccamento agli altri: un po' di sesso, molta amicizia a diversi livelli di profondità, una certa stima reciproca derivante da vera predilezione, molto sentimento di possesso dell'altro, un sentimento di dipendenza reciproca in vario grado. Ma anche molto sulla considerazione sociale che, a sua volta, deriva dall'ideologia dominante. Questi ingredienti sono presenti e importanti in varia misura nel tempo in cui una famiglia dura. Possono entrare in conflitto e fondare più relazioni analoghe contemporaneamente. Questa realtà è piuttosto trascurata dalla teologia ideologica. Nella pratica c'è molta tolleranza, si sa. Ma non si pensa di poter essere conseguenti, vale a dire di attenuare le pretese ideologiche sulla famiglia.
 Anche nel celibato dei chierici, che comporta l'impegno alla rinuncia non solo a qualsiasi forma di sessualità ma anche alla famiglia come è nella realtà, accade qualcosa di analogo. Si sa che le persone possono preferire, come scelta definitiva o temporanea, staccarsi dalla famiglia di origine senza fondarne una propria. Sovraccaricare ideologicamente queste scelte crea problemi. Nella Chiesa cattolica lo si fa per molti motivi. Per indicare un cammino di perfezione, al modo dei monaci. Come scelta oblativa al servizio degli altri. Storicamente però ha avuto anche lo scopo di costituire una casta virile custode del sacro, inteso come cose e azioni. In un articolo di Lisa Miller, pubblicato su Newsweek del 12 aprile scorso sotto il titolo di "Un posto per la donna nella Chiesa", la si critica sotto quest'ultimo profilo, prendendo spunto dallo scandalo dei chierici che abusarono di giovani affidati alle loro cure e da quello, collegato, del silenzio imposto dalle autorità ecclesiastiche su quei fatti. La si è fatta per resistere nelle società civili considerate sempre in pericolo di finire preda del caos. Nella realtà si sa che c'è una certa tolleranza. Alcune delle forme di sentimento tipiche della famiglia vengono praticate anche tra i chierici impegnati al celibato loro proprio, anche senza arrivare al concubinato vero e proprio. Ho letto che tra il clero indigeno africano sarebbe piuttosto diffuso. Questa tolleranza, tutta interna a una casta virile, ha impedito di rendersi conto e di contrastare fenomeni propriamente pedofili. Se in posti di responsabilità ci fossero state anche delle donne sarebbe stato diverso? Nell'articolo viene riportato l'idea espressa da Kerry Robinson, dirigente di un'associazione di imprenditori statunitensi che vorrebbero diffondere alcune forme di organizzazione che nell'impresa si sono rivelate efficaci: "Come è vista la Chiesa oggi? E' vista come un ambiente in cui  peccati e crimini commessi da maschi sono occultati e favoriti da maschi".
 Il movente primo dell'esperienza religiosa è non essere contenti del mondo com'è, natura compresa. E' curioso che poi si dia tanta importanza a mantenere il mondo così com'è. Ma in realtà non è nemmeno questo, perché si è visto che il mondo, natura e società, evolve. In realtà ciò che si vuole mantenere stabile è un sistema ideologico. Prodotto da quella casta virile di cui ho parlato. E' come se lo scopo vero e ultimo  di tutto questo sia la protezione della gerarchia.
 Se uno però non è contento del mondo com'è, con la sua violenza, la sua crudeltà, l'egoismo imperante, la legge del più forte come legge suprema, perché non dovrebbe porsi dei traguardi elevati? Perché ci si dovrebbe adeguare al mondo così com'è, invece di provare a contrastarlo in quello che va male? Perché non si dovrebbe provare, ad esempio, a migliorare la famiglia così com'è, dandole degli obiettivi più grandi? Perché uno non dovrebbe provare ad essere tutto per gli altri? A mettere da parte per sempre il proprio egoismo di essere naturale per obbedire a una legge più alta? Non si è religiosi, in fondo, proprio per questo? Il problema, una volta condivisi questi obiettivi, una volta che si è veramente deciso di vivere una vita religiosa, è quello di coinvolgere tutti. Perché, nonostante tutti i nostri sforzi, viviamo in un mondo in evoluzione in cui più si è  a cercare di capire e sperimentare, meglio è. Un organismo come la Chiesa cattolica così com’è oggi potrebbe consentirlo, senza mutare profondamente? Probabilmente no. Essa infatti oggi si fonda ancora troppo sull'esercizio dell'autorità, sulla pretesa di obbedienza. E quello della pedofilia non  è l'unico fenomeno su cui la casta virile al comando, nella sua supposta autosufficienza, non ha forse ancora trovato l'atteggiamento giusto.
 Mario Ardigò - Roma

mercoledì 9 maggio 2012

Quanti figli si devono avere per essere buoni cristiani?

Quanti figli si devono avere per essere buoni cristiani?

 Nella riunione di ieri del nostro gruppo di AC la nostra attenzione è stata portata sul tema di quanti figli si devono avere per essere buoni cristiani. Sono state proposte idee diverse in merito. E’ un argomento che appassiona anche  i più anziani. Nella predicazione ci si torna molto su. Questo nonostante la rilevanza tutto sommato non centrale che esso ha negli scritti fondativi della nuova alleanza.
 Di solito si ricorda in merito il caso di Pietro l’apostolo. Era sicuramente sposato. Infatti è scritto che aveva una suocera. Quanti figli ha avuto? Non si sa. Non sappiamo nulla nemmeno della sua vita coniugale. Ecco a che cosa intendo riferirmi.
  Ai tempi nostri la dottrina morale della nostra confessione religiosa riconosce che “per validi motivi gli sposi possono voler distanziare le nascite dei figli” (Catechismo della Chiesa cattolica n.2368). Si parla a tal proposito di “paternità responsabile”. Il problema è che in genere i figli vengono programmati, vale  a dire che fin dall’inizio si cerca di stabilirne il numero massimo in un’ottica di “genitorialità sostenibile”. Non è la stessa cosa.
 La natura, a cui si fa frequente riferimento quando si tratta di queste cose, consentirebbe circa una gravidanza ogni  due anni. Ciò è biologicamente possibile. Calcolando che si decida di cominciare a fare figli intorno ai trent’anni, come avviene generalmente nell’Italia di oggi, sarebbe biologicamente possibile avere una decina di figli. Quando l’età del matrimonio era molto più bassa di adesso se ne potevano avere anche di più. E’ stato ricordato che il beato Giuseppe Toniolo, di famiglia borghese, ebbe sette figli. In campagna non era infrequente, in un tempo non lontanissimo da noi, che se ne avessero anche più di dieci. La mortalità infantile, soprattutto nella campagne, era molto più alta di adesso. Vi erano anche più aborti spontanei a causa del fatto che le gravide non si risparmiavano le fatiche del lavoro domestico e anche della cattiva alimentazione e delle malattie non fronteggiabili con i farmaci di oggi. Insomma le donne fino a non molto tempo fa erano impegnate in gravidanze piuttosto ravvicinate per tutto l’arco della loro vita fertile  e nella predicazione questo non era considerato un comportamento irresponsabile, anche se indubbiamente nei ceti popolari la presenza di numerosi figli comportava un impoverimento della famiglia a livelli che oggi non si arriva nemmeno a immaginare. Ad esempio non era scontato che ci fosse un letto per ogni persona. Ora, da noi, nemmeno nelle famiglie che ideologicamente danno più importanza al numero dei figli, alla cosiddetta “fecondità” del matrimonio, oggi si arriva, in genere, alla decina di figli. E’ chiaro quindi che l’idea di “genitorialità sostenibile” ha fatto molta strada anche tra i cattolici italiani. Come si arriva poi ad attuare in concreto un programma del genere è un altro problema: astensione totale, astensione periodica secondo metodi “naturali” di regolazione della fertilità, contraccezione.  In ambito cattolico ci sono diverse iniziative in cui, a livello scientifico e di divulgazione, ci si occupa dei metodi ammessi dalla nostra dottrina morale per limitare il numero delle gravidanze. Un corso in materia c’è, ad esempio, al Policlinico Gemelli di Roma. Ma i metodi naturali si basano sul presupposto di un ciclo mestruale piuttosto regolare. Quando esso in concreto non sussiste, l'uso di quei metodi può apparire simile ad una specie di "roulette russa". Scherzosamente a tal proposito si parla di "figli di Ogino-Knaus".
 L’idea di “programmare” di avere un numero di figli minore che nel passato ha preso molto piede in Italia a partire dagli anni ’70 del secolo scorso ed era ed è collegata anche al movimento che, su scala mondiale, tende a migliorare le condizioni di vita delle donne. Infatti era principalmente su di loro che si abbatteva il carico di famiglie molto numerose. Nella predicazione questa è spesso considerata come una forma di “egoismo”. Recentemente poi sono stati introdotti argomenti di tipo demografico. Si teme, ad esempio, che ad un certo punto i popoli tradizionalmente cattolici si estinguano  o che siano subissati dai fedeli di altre religioni, come l’Islam, più prolifici. In questo si dà per scontato una cosa che non lo è, almeno nell’Europa contemporanea, vale  a dire che i figli seguano le religioni dei genitori.
 Ci sono oggi nella nostra collettività religiosa movimenti che specificamente si impegnano ad avere molti figli e collegano questa scelta alla loro fede. Non è sempre facile la coesistenza in una medesima comunità con persone che hanno fatto una scelta diversa, viste come infedeli o comunque come meno fedeli. Penso che si debba dare molta importanza al fatto che certe cose siano il frutto di scelte consapevoli  e responsabili. Infatti, e ciò non emerge con molta chiarezza in certa predicazione, per quanto la natura determini molto di noi, non è consigliabile, neppure in un’ottica di fede, farsene schiavi. Non tutto ciò che c’è nella natura, comunque la si voglia considerare, è buono, tanto  è vero che in molte cose cerchiamo di staccarcene, affrancandoci dai nostri istinti. Questo è appunto ciò che, in fondo, distingue gli animati umani dai viventi ai quali ci riferiamo chiamandoli “animali”.
  Penso tuttavia che nemmeno si debba disprezzare, da parte di coloro che decidono per una diverso programma di vita, la scelta di quelli che vogliono essere più prolifici e vivono ciò come manifestazione di una generosità di tipo religioso. E’ ciò che accadde storicamente nei rapporti tra inglesi e irlandesi, laddove i primi, in prevalenza anglicani, accusavano (con un po' di invidia forse) gli altri, in prevalenza cattolici, di essere solo dei lussuriosi per il fatto che avevano molti più figli, perché facevano liberamente all'amore, incoraggiati dai loro preti.
 Mario Ardigò  - Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli.


sabato 5 maggio 2012

Dal film Il Settimo Sigillo - discorsi del cavaliere

Un cavaliere di ritorno da una Crociata si ferma, sulla via verso il suo  castello, in una chiesetta nella campagna. I luoghi che attraversa sono colpiti da una pestilenza. Dopo essersi soffermato in preghiera davanti un Crocifisso,  il cavaliere si avvicina ad una grata, al di là della quale intravede un confessore, con indosso un saio nero, con il cappuccio che gli nasconde il volto. Al posto del confessore c’è la Morte, con la quale il cavaliere ha da poco iniziato una partita a scacchi.

Il cavaliere:       Vorrei confessarmi, ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini d’incubo, nate dai miei sogni e dalle mie fantasie.
La Morte           Non credi che sarebbe meglio morire?
Il cavaliere        E’ vero…
La Morte           Perché non smetti di lottare?
Il cavaliere        E’ l’ignoto che m’atterrisce.
La Morte           Il terrore è figlio del buio …
Il cavaliere        Che sia impossibile sapere … Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? … Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me, sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? … Mi ascolti?...
La Morte           Certo…
Il cavaliere        Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza … voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto, e voglio che mi parli! …
La Morte           Il suo silenzio non ti parla?
Il cavaliere        Lo chiamo e lo invoco … e se egli non risponde, io penso che non esiste…
La Morte           Forse è così, forse non esiste…
Il cavaliere        Allora la vita non è che un vuoto senza fine! Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza…
La Morte           Molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose.
Il cavaliere        Ma verrà il giorno in cui si troveranno all’estremo limite della vita…
La Morte           Sì, sull’orlo dell’abisso…
Il cavaliere        Lo so … Lo so ciò che dovrebbero fare! Dovrebbero intagliare nella loro paura un’immagine alla quale dare poi il nome di Dio.
La Morte           Sei molto agitato…
Il cavaliere        Stamane è venuta da me la Morte; abbiamo iniziato una partita a scacchi … col tempo che guadagnerò sistemerò una faccenda che mi sta a cuore.
La Morte           E di che si tratta?
Il cavaliere        Ho passato la vita a far la guerra, ad andare a caccia, ad agitarmi, a parlare senza senno, senza ragione … un vuoto. E lo dico senza amarezza e senza vergognarmene, perché lo so che la vita della maggior parte della gente è tale. Ma ora voglio utilizzare il respiro che mi sarà concesso per un’azione utile.
La Morte           Per questo hai sfidato a scacchi la morte?
Il cavaliere        Sì, conosce il gioco molto bene, ma fino a questo momento io non ho perso una pedina.
La Morte           E credi davvero che alla fine riuscirai a batterla?

più avanti

Durante una sosta per riposare e per consumare un po’ di latte e delle fragole con il suo scudiero e con due saltimbanchi, marito e moglie, conosciuti per via.

Il cavaliere        La fede è una pena così dolorosa … è come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai per quanto lo si invochi…

Dialoghi dal film Il Settimo sigillo – 1957 – regista: Ingmar Bergman

post  di Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.

venerdì 4 maggio 2012

Dal presidente: Storie di Azione Cattolica (5). Azione Cattolica e fascismo

Dal presidente: Storie di Azione Cattolica (5)
Azione Cattolica e fascismo

  L’incipit del volumetto è perentorio: «Fra l’Azione Cattolica ed il Fascismo ci fu sempre una irriducibile incompatibilità di carattere. Nel campo morale, come in quello politico». Lo afferma Giuseppe Dalla Torre, protagonista dell’Azione Cattolica prima veneta e poi nazionale, che per quarant’anni, dal 1920 al 1960, fu direttore del L’Osservatore Romano, avendo riscosso la fiducia di quattro Papi: Benedetto XV, Pio XI, Pio XII e Giovanni XXIII. Il Partito Nazionale Fascista, per la sua concezione totalitaria della politica, realizzò una strategia politica di avvolgimento e strangolamento dell’associazionismo giovanile e sociale preesistente. «Così s’era aperto il passo ai Balilla e agli Avanguardisti, al C.O.N.I., ai Dopolavoro, passando di conseguenza alla soppressione degli Esploratori, delle Associazioni sportive e dei teatri cattolici. Ben più: ad effettuare il più rigoroso accentramento sindacale ed economico furono sacrificate le Unioni professionali, il cooperativismo, il credito, specialmente quello rurale, vastissimo e benefico». Ma, malgrado tutto, l’Azione Cattolica resisteva, le sue fila non si scioglievano, né calavano gli iscritti. Il saggio ricostruisce i contrasti, dapprima in punta di fioretto, poi via via più espliciti e violenti tra il regime e la chiesa, particolarmente in coincidenza e successivamente alla firma del Concordato del 1929. Si arriva infine ai disordini e agli scontri fisici del maggio del1931, quando i mazzieri fascisti tentano di imporre fisicamente la chiusura delle sedi dell’AC seguendo “l’ordine di scioglimento immediato di tutte le associazioni giovanili le quali non facessero direttamente capo al Partito Nazionale Fascista e all’Opera Nazionale Balilla”. Le vicende successive sono note. Dalla Torre mette a disposizione dei lettori le sue osservazioni di protagonista direttamente coinvolto e una ricca documentazione.

(Giuseppe Dalla Torre, Azione Cattolica e fascismo, Editrice AVE, 1964, pagine 148)

mercoledì 2 maggio 2012

Questione sociale, democrazia di popolo, principi di fede

Questione sociale, democrazia di popolo, principi di fede

“Hora ruit”: non v’ha più tempo né modo per una funzione intermedia coordinatrice: ognuno deve schierarsi di qua o di là dei due campi ed accettare rispettivamente l’ordinamento esclusivo di una classe di fronte all’altra e tenersi pronto  alla battaglia … questa condizione di scissura e di lotta è un realtà immanente e indeclinabile in parecchi luoghi e in parecchie nazioni … Tutto dovrà persuadere che non si vuole convertire la lotta per il diritto in uno stato permanente di guerra: bensì di accettarla come un mezzo di transizione che prepari lo stato normale”
Qui sta la differenza fra i cattolici che il pubblico chiama “conservatori”, e gli altri che passano col nome di “democratici”.
 Questi soltanto, a differenza dei primi, credono giunto uno di quei momenti di “palingenesi storica” per cui la Chiesa insinua i germi della ricostruzione sociale nei primi elementi delle masse popolari, ed i cui procedimenti pertanto presentano necessariamente alcunché di “straordinario ed eccezionale”. Tale è veramente il proposito di “salvare il popolo per mezzo del popolo”.
 La ricomposizione insomma dell’ordine  sociale cristiano per mezzo del popolo non sembra in questo stesso momento difficile. Ma a due condizioni però – in prima che i cattolici predichino altro ai proletari, che accanto alla democrazia socialistica, illusoria, iniqua, impossibile, vi ha una “democrazia cristiano-cattolica”, possibile, ragionevole, storica, adatta a tutte le loro legittime aspirazioni;  - e che ulteriormente i cattolici stessi “prendano in mano la causa del popolo”, di tale democrazia affrettando l’avvento.

Giuseppe Toniolo, in  La Democrazia Cristiana, 1900

 La grave crisi economica e finanziaria globale che ha coinvolto anche l’Italia, come altri stati dell’Europa Occidentale, mette in rilievo drammaticamente le sofferenze delle masse lavoratrici, minacciate di perdita dell’occupazione o costrette spesso a ripiegare su occupazioni precarie.
  Frequentemente i loro problemi sono accumunati a quelli degli imprenditori o di altri settori professionali. E’ senz’altro vero che anche per queste categorie diminuiscono le occasioni di profitto, ma la loro condizione è assai diversa da quella di coloro per i quali il salario mensile è ciò che separa dalla condizione di miseria. Quando si parla di sacrifici da fare in quest’ora triste, è quindi essenzialmente ai salariati che ci si intende riferire.
 Bisogna anche considerare che negli anni passati la redditività dei capitali investiti nella finanza e nell’industria è stata sempre molto alta, nonostante gli alti e bassi dei cicli economici. L’organizzazione contemporanea dell’impresa capitalistica è strutturata inoltre per sganciare rapidamente i capitali investiti e i profitti dalle aziende che cadono in crisi. Fondamentalmente queste ultime, alle prime avvisaglie serie di problemi di lungo corso, possono essere come svuotate, lasciando sul territorio solo le loro spoglie, tra le quali anche, in un certo senso, i salariati. Le risorse si involano per tempo verso la società capogruppo, di solito organizzata come un’impresa finanziaria – la società  “cassaforte” di un gruppo industriale -. Sul campo rimangono immobili che sono di proprietà altrui, attrezzature e macchinari che, quando non sono obsoleti od ormai inutilizzabili, si scoprono anch’essi di proprietà altrui e debiti, cui corrispondono spesso crediti divenuti ormai inesigibili, in particolare quelli dei lavoratori dipendenti.
 Tutto questo accade in una situazione in cui le capacità operative degli stati  di intervenire con finalità perequative, innanzi tutto attraverso lo strumento fiscale, si sono  molto ridotte, perché si vuole limitare il loro potere di prelevare risorse dai sistemi economici da loro governati. Infatti i produttori cercano sempre di trasferire sui clienti l’onere dell’aumentato carico fiscale e gli altri oneri di legge (come quelli della contribuzione per costituire una posizione previdenziale per i salariati)  nella forma di un aumento dei prezzi dei prodotti, fatto che determina una riduzione della competitività di tali prodotti sul mercato. Qualora poi questo meccanismo di trasferimento non funzioni più e si vada pertanto a ridurre in modo consistente la redditività dei capitali investiti, viene attuata la soluzione dello sganciamento dal territorio e della delocalizzazione, trasferendo le attività d’impresa in altri luoghi dove la remunerazione del capitale  è maggiore. Ovviamente un salariato non si può “sganciare” con la medesima facilità. In epoche passate in Italia lo si fece emigrando all’estero. E’ ciò che stanno facendo le genti dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che giungono da noi ricercando opportunità più favorevoli.
 Se noi cerchiamo in merito un orientamento nei primi scritti della nostra comunità di fede, quelli che riteniamo fondamentali per il nostro orientamento etico, non lo troviamo facilmente. Essi infatti risalgono a tempi in cui l’organizzazione del lavoro era molto diversa dalla nostra. Ad esempio era ammesso e largamente praticato lo schiavismo. Eppure nel corso della bimillenaria storia della nostra confessione religiosa certi principi sono stati proclamati. Essi hanno risentito del clima culturale e sociale  dei tempi in cui furono espressi. Non troviamo quindi una linea univoca. All’origine ci viene riferito di forme comunitarie di condivisione dei beni: non si tratta di un’organizzazione che però si è generalizzata. L’idea di una comune fraternità ha fatto ritenere giusta una qualche maggiore giustizia distributiva, tanto che, fin dalle origini, il soccorso ai bisognosi fu sentito come un obbligo morale importante. Tuttavia, quando il cristianesimo, ormai ben strutturato ideologicamente, si pose il problema di intervenire nell’organizzazione politica, esso di solito venne a consacrare i poteri costituiti, di tipo monarchico, e poi monarchico-feudale, che accettarono la nuova fede. Essi pretendevano di signoreggiare i sottoposti, cose e persone, in maniera assoluta. Gli stessi vertici della nostra comunità religiosa si strutturarono in quel modo e, nel secondo millennio, con un forte accentramento  nell’organizzazione romana. Al lusso e allo splendore della vita dei pochi, ai vertici, corrispondeva la penuria e spesso la miseria dei più. Secoli, secoli, secoli … passarono così. La storia del mondo  fu la storia di quelle monarchie assolute. Di essa ci parlano ancora i grandi edifici fatti costruire in quelle epoche e che sono giunti fino a noi.  
 Nell’Ottocento in Europa cominciarono a diffondersi ideologie che avevano maggiore considerazione per le masse dominate, sia a base nazionalista, come quella del nostro Mazzini, sia a base socialista. Esse insidiarono l’ordine monarchico feudale. I vertici della nostra confessione si schierarono con quest’ultimo. Non così tutta la base dei fedeli e, in particolare, tutto il basso clero. Si sviluppò un vivace sindacalismo cristiano, del quale ad un certo si diede atto nella nota enciclica Rerum Novarum del papa Leone 13°, del 1891.
 Al socialismo rivoluzionario si contrappose, come soluzione per elevare la condizione delle masse dominate, l’ideale democratico, realizzato negli Stati Uniti d’America. Mentre la conciliazione tra le soluzioni socialiste, in particolare quelle marxiste, e i principi di fede si presentò presto come assai problematica, non così quella tra democrazia e quei medesimi principi. Gli Stati Uniti d’America, in cui tali principi furono posti a base dell’etica comunitaria, nella forma di una vera e propria religione civile, lo dimostrarono chiaramente. I vertici romani della nostra confessione religiosa espressero, fino alla metà del secolo scorso un orientamento differente. Aggravato poi dalla circostanza che in Italia l’unità nazionale si dovette conseguire contro di loro. Ancora all’inizio del Novecento fu condannata l’idea di una democrazia cristiana. E il Toniolo, nel  febbraio del 1914,  si determinò a scrivere al papa Pio 10°, con animo accorato, una lettera  per scongiurare un intervento pontificio contro il sindacalismo bianco, all’epoca molto attivo nelle rivendicazioni  dei contadini. In essa si legge, tra l’altro:
Conviene correggere  eventuali traviamenti in proposito, ma guai ad arrestare  un movimento organico di classi autonome e cristiane al centro della nostra società. … Si avvertano pure i pericoli del movimento professionale, ma non si scoraggi per carità, è l’unica speranza che rimanga. Che direbbero i vescovi belgi ed i padri Vermeersch e Rutten? Che cosa  i vescovi olandesi e Aalberse decorato testé a Roma, che salvarono i cattolici dal calvinismo e dal socialismo insieme! E in Germania le unioni professionali non furono il fulcro su cui si levò il cattolicismo dalla secolare servitù protestante? E in Italia l’importanza delle unioni professionali va forse  più che altrove studiata come mezzo di salvezza della fede nelle moltitudini entro i nostri congressi cattolici, con tutti gi avvedimenti per cui fossero mezzi di armonia e non di guerra … Noi abbiamo perduto frattanto le classi popolari industriali ed ora che le direttive pontificie sarebbero più facilmente accolte e seguite, non rischiamo di perdere le classi campagnole.
 Noi oggi abbiamo un po’ perso  il senso della tragicità della situazione in cui i cattolici italiani vissero per circa un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, durante il quale sembrò che essere per l’elevazione delle masse popolari mediante la democrazia significasse disobbedire al vertice religioso romano ed essere eretici o apostati. E di solito si sorvola con disinvoltura sulla dura polemica antimodernista degli inizi del Novecento, che fece vittime anche tra sinceri credenti come Romolo Murri, prete, ed Ernesto Buonaiuti, prete. E’ un grande merito storico del movimento laicale italiano essere riusciti, in particolare nel corso del Novecento, ad affrancare la nostra confessione religiosa dall’ostilità verso la democrazia e dalla soggezione alle tentazioni reazionarie.
 Un aspetto molto problematico dell’azione sociale a base religiosa può essere costituito dalla difficoltà di accettare l’idea del conflitto di classe, le dinamiche sociali conflittuali. Ne fu espressione l’ingenuo ideale corporativo che troviamo nell’enciclica Rerum Novarum, a cui fece in qualche modo eco l’astuto corporativismo mussoliniano, strumento di asservimento dei ceti storicamente sottoposti. Di fatto, il timore di bruschi cambiamenti nell’organizzazione della società ha determinato spesso la preferenza dei nostri vertici religiosi per accomodamenti e compromessi con i potenti del momento. Anche la storica, e tuttora in fondo  perdurante, loro diffidenza per la democrazia di popolo, quella del suffragio universale,  ha le stesse basi. Eppure in una condizione di obiettiva ingiustizia, non è moralmente sostenibile, alla luce delle nostre idealità religiose, propendere per una posizione mediana e di conservazione. Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia, sosteneva il politico democristiano cileno Rodomiro Tomic (lo ricordava frequentemente Paolo Giuntella). La stabilità di una società, se non la si vuole fondata solo sull’arbitrio e la violenza, deve basarsi sul perseguimento della giustizia con metodo democratico.  Occorre quindi prendere posizione e agire di conseguenza. E ancor prima formulare un pensiero che orienti l’azione, rendendola consapevole delle reali dinamiche sociali, anche di conflitto, e capace di ideare il nuovo per corrispondere alle esigenze dei tempi. Quest’ultimo è certamente un compito proprio dei fedeli laici. Ma, ad esempio, coloro che se ne assunsero l’onere nell’ultimo decennio del regime fascista trovarono viva ispirazione in un sacerdote illuminato come il giovane Montini e in altri come lui.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli