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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

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giovedì 30 agosto 2018

Casa nostra, casa loro. Ci invadono per rubarci casa nostra?

Casa nostra, casa loro. Ci invadono per rubarci casa nostra?

  Vorrei tranquillizzare chi legge: le nostre case non sono minimamente minacciate dagli attuali fenomeni migratori. Infatti la gente che arriva da fuori, come quella sbarcata da Nave Diciotti, non vuole rubarcele o rubarci in casa, ma collaborare con noi. Condivide i nostri stessi valori. Condanna i ladri e il furto. Consentire la collaborazione ci renderà più ricchi. Ma si tratta di molto  di più. La nostra felicità dipende dalla qualità delle relazioni umane. Una singola persona può cambiarci la vita in meglio. Più siamo, più possibilità di felicità ci sarà, come ha scoperto quel ministro scandinavo xenofobo che si è innamorato di un'immigrata iraniana e ha mandato a quel paese la politica xenofoba, tenendosi il suo amore.
  Qual è il compito della politica? È quello di organizzare la collaborazione. È questo di cui ai tempi nostri non si è capaci in misura sufficiente, adeguata alle necessità. E non lo si è perché per vincere le elezioni e conquistare il potere politico, è più semplice ottenere, non dico il consenso vero, ma che la gente tracci un segno su una certa casella della scheda elettorale, facendo leva sulle paure degli elettori, ad esempio sostenendo che gli immigrati ci stanno invadendo per rubarci  casa, invece di restarsene a casa loro e di accoglierci lì di buon grado come civilizzatori. Per alcuni questo basta. Però in questo modo la società va male e nostre paure si concretizzano. Infatti, poiché il mondo, e in particolare la sua economia, è molto più integrato di un tempo, tanto che noi, che vorremmo lasciare gli altri a casa loro, in realtà sentiamo la necessità di andare in casa d'altri perché ci sono cose di cui abbiamo bisogno. In questo momento, ad esempio, sto indossando una maglietta fatta in Cambogia, in Indocina, dall'altra parte del globo. È stata comprata nel mercatino rionale a due passi di casa mia. L'ha venduta un italiano.
  Le più forti migrazioni verso l'Europa occidentale quindi che verso l'Itala, sono state quelle dall'Europa  orientale. Prima tra noi e loro c'era una barriera efficacissima, che il primo ministro britannico Churchill definì cortina di ferro.   Nell'estate del 1989 tutto cominciò  a cambiare, con una grande migrazione dall'Europa orientale a quella occidentale. Per quale via? Pensate un po': attraverso l'Ungheria, che fu il primo stato dell'Europa orientale a spalancare le frontiere, consentendo in particolare il transito verso l'Austria. E Viktor Orban (l'attuale primo ministro di quello stato, che propone di  bloccare le migrazioni,  di costruire muri alle frontiere e di realizzare una democrazia illiberale),come ricordato ieri sul quotidiano che leggo, proprio quell'estate iniziò la sua carriera politica con un discorso alla cerimonia di commemorazione della morte di Imre Nagy, vittima dell'invasione (vera) del 1956 da parte del Patto di Varsavia, l'alleanza tra l'Unione Sovietica e altri stati comunisti del'Europa orientale,  discorso in cui chiedeva l'apertura delle frontiere e la libertà. Di fronte a quelle migrazioni, che si fecero più intense negli anni '90, noi Europei occidentali potevamo decidere di mantenere la cortina di ferro, ma sarebbe stata una scelta miope, perché le migrazioni (non invasioni) sarebbero comunque continuate, ma dall'altra parte avremmo continuato ad avere dei nemici. Si organizzò invece l'unione e la collaborazione. Tutti se ne avvantaggiarono, in particolare perché cessò la minaccia di una guerra totale e distruttiva, ma in particolare se ne avvantaggiarono quelli dell'Europa orientale che ancora oggi sono i membri UE che beneficiano maggiormente dei contributi degli stati UE più ricchi, compresi quelli dell'Italia. Ora vorrebbero prendere le redini della UE per beneficiarne maggiormente, mentre gli altri, i più ricchi, nel tempo si sono fatti più tirchi, di più corte vedute (anche noi italiani vorremmo ora pagare di meno alla UE). Sottolineo inoltre che noi italiani siamo tra gli stati UE che più hanno beneficiato della libertà di lavorare in altri stati UE, perché siamo ancora un paese di migranti, con un flusso in uscita di circa 150.000 persone all'anno,in gran parte giovani. L'inclusione dell'Europa orientale fu favorita  da una cultura dell'inclusione che era molto forte tra i cristiano-democratici europei, in particolare per l'azione di un papa fascinoso come Il polacco Karol Wojtyla. Un ruolo determinante ebbe il cristiano-democratico tedesco Helmut Kohl, al quale è succeduta Angela Merkel. Fu lui a condurre cruciali trattative con i sovietici, quando ancora mantenevano imponenti corpi d'armata negli stati dell'Europa orientale che si erano liberati dal loro dominio.
  Ecco, oggi manca una analoga cultura dell'inclusione e così non si riesce a organizzare bene il mondo nuovo che offre tante possibilità di bene, a coperte relazioni più intense e l'avvicinamento culturale tra i popoli. È questo che ci minaccia. Quella cultura va recuperata a partire dalle realtà di prossimità. Lo si sta facendo,ad esempio, nelle parrocchie italiane. Bisogna cercare di ragionare in grande, come è richiesto dai problemi di oggi, elevandoci, ad esempio, dalla prospettiva, scusate la franchezza!, un po' bambinesca del casa nostra / casa loro.
Mario Ardigò - Azione cattolica in San Clemente papa- Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 28 agosto 2018

Nave Diciotti

Nave Diciotti
Nei giorni scorsi si è molto parlato del caso degli stranieri soccorsi in mare, tra le coste italiane e quelle africane, e imbarcati su Nave Diciotti, un pattugliatore della nostra Guardia Costiera. Erano in gran parte eritrei e stavano cercando di raggiungere l'Europa. È stato ordinato di tenerli sua nave in attesa di individuare il porto dove sbarcarli. La legge, art.10 ter del testo unico sull'immigrazione, richiedeva imfatti che fossero sbarcati per le procedure amministrative successive. Contemporaneamente sono stati attivati contatti presso l'Unione Europea con altri stati europei per ottenere che le procedure di verifica della loro posizione di immigrati, per decidere chi aveva diritto a rimanere e chi no, fossero svolte anche altri stati europei. Potevano rimanere i minorenni e coloro che avevano diritto di asilo o protezione per gravi problemi presso gli stati di provenienza o comunque in serio pericolo. Si voleva raggiungere quell'accordo di redistribuzione prima di sbarcare gli stranieri. Di solito le richieste di asilo e protezione di eritrei sono accolte al 90%, a causa delle condizioni politiche dell'Eritrea, stato nel quale le libertà civili non sono riconosciute nella misura in cui gli europei ritengono debbano esserlo. In genere la redistribuzione degli eritrei ai quali sono stati riconosciuti asilo e protezione non incontra difficoltà, anche presso stati non membri dell'Unione Europea come la Svizzera, purché si proceda alle pratiche amministrative previste dalle nostre norme sull'immigrazione. Nel caso degli stranieri imbarcati su  Nave Diciotti  si è però deciso di ottenere un accordo di redistribuzione prima di svolgerle. L'attesa si è prolungata per dieci giorni con gli stranieri sulla nave militare. In sede di Unione Europea non si è trovato un accordo di redistribuzione immediata. Ad un certo punto sono iniziate indagini penali per verificare se fosse legale trattenere gli stranieri sulla nave al di fuori di un'ipotesi di legge e senza un provvedimento di un giudice, in violazione dell'art, 13 della Costituzione. Due sono gli elementi più importanti: se, durante la permanenza sulla nave, gli stranieri abbiano subito una limitazione della libertà non consentita dalla legge o se si si trattato di un'attesa come quella dei passeggeri in aeroporto, e chi abbia dato, al vertice, l'ordine di non sbarcarli. È stata data notizia ch quest'ultimo sarebbe stato un ministro e capo politico molto influente oggi. Dopo poche ore tutti gli stranieri sono stati sbarcati e, dopo le procedure di legge, si sono facilmente raggiunte anche intese di redistribuzione. Della gran parte degli stranieri sbarcati si è però fatta carico la Chiesa Cattolica italiana, in spirito di fraternità. Si tratta in gran parte di eritrei cristiani. Da tempo era già attivo un corridoio umanitario di emigrazione dall'Eritrea, con la collaborazione dell'associazionismo cattolico.
 Ora avvampano le polemiche politiche su quel ministro e il suo partito,che si propongono di bloccare del tutto l'immigrazione irregolare, respingendo subito gli irregolari. Vi è infatti chi sostiene che si debba, prima di respingere, individuare i minori e chi ha diritto ad asilo o protezione. Ci sono divergenze di vedute anche sulla destinazione dei respingimenti. Le leggi nazionali prevedono che, nei casi di stranier soccorsi in mare, avvengano verso gli stati dei quali gli stranieri sono cittadini; in ambienti governativi si appare preferire l'orientamento di rimandarli o riportarli negli stati dai quali il loro viaggio marittimo verso le nostre coste è iniziato, come nel caso dei passeggeri giunti in aereo, in nave, in treno o in pullman dopo aver acquistato il biglietto e trovati alla dogana senza passaporto e visto dove richiesto.
   Ritengo però sbagliato personalizzare e considerare solo o prevalentemente il bilancio spicciolo per i partiti della vicenda.
  Erano in questione valori costituzionali, non questo o quel partito o questo o quel politico.
  Noi, popolo, nella nostra coscienza, come ci poniamo di fronte ad essi?
  Tu che leggi, a prescindere da come ti manifesti in società, nella verità della tua coscienza, veramente, di fronte a fatti come quelli dei giorni scorsi, non ti sei mai sorpreso a pensare "rimandiamoli subito a casa loro!"?  E questo, magari, uscendo da Messa, la domenica dopo aver recitato il Padre nostro e fatto la Comunione. Non parlo per sentito dire.
  Stacchiamoci dalla vicenda giudiziaria, che avrà il suo corso, ma che, a questo punto, conta molto meno di come ciascuno di noi si pone davanti ai valori costituzionali implicati nel caso della Nave Diciotti. Sono valori, li chiamiamo valori. Perché? Ci fanno più ricchi, più ricchi in quanto migliori. Ci piace essere buoni. Ma oggi possiamo pensare che sia diventato un lusso che non possiamo più permetterci. È così o non è così?
  Chi ha dato l'ordine?, ci si è chiesti nelle indagini, si è letto sui giornali. Tu ed io, noi popolo. La responsabilità politica è collettiva. In democrazia tutti si è responsabili di tutto. Di fronte al tribunale della storia siamo tu ed io, noi popolo. Che rispondiamo? Chi sarà il nostro avvocato? chiese Wojtyla in una storica omelia a Sarajevo,in Bosnia, dopo la fine del massacro bellico. E diede un insegnamento che è quello che ancora nei giorni scorsi  i vescovi italiani hanno dato, a coloro che hanno orecchie per udire.
  La fraternità è un valore importante. Fino a che punto ci crediamo? Decidersi per la fraternità universale è una di quelle scelte fondamentali della vita. E se poi non ci sentiamo di farla, da chi andremo, noi italiani che, per fraternità, ci siamo decisi per l'unità nazionale, perché da divisi non eravamo popolo ed eravamo "calpesti e derisi"? Questo è Mazzini. "Dio e popolo" faceva scrivere sul tricolore, vale a dire popolo fondato su valori, l'unico modo in cui si può esserlo.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro Valli

sabato 18 agosto 2018

Sensibilità di sistema

  Il pensiero  sociale ispirato ai valori di fede, del quale è parte la dottrina sociale, ci spinge a conquistare  una sensibilità di sistema. Il sistema è qualsiasi cosa che si compone di più parti che agendo unite svolgono una funzione. Si può trattare di un pensiero o di materia e, in quest'ultimo caso di una struttura che si trova in natura o di una costruzione umana. Il nostro corpo e la nostra mente sono considerati sistemi di sistemi, sistemi composti di molti altri sistemi. La dottrina sociale è un sistema di sistemi. Il ponte crollato lo scorso 14 agosto a Genova era un sistema di sistemi. Le società umane sono sistemi di sistemi. I sistemi sociali sono in gran parte costruzioni umane, ma la natura vi ha una parte importante. Vi sono infatti limiti naturali, di specie, biologici, alle organizzazioni sociali, in particolare alle relazioni che le caratterizzano. Questi limiti riguardano anche la nostra capacità di comprendere i sistemi costitutivi della realtà, ma anche i sistemi puramente pensati, come accade nelle scienze matematiche. I limiti tendono a confinarci, ma il pensiero tende a superarli. "Pensare è varcare frontiere" (Ernst Bloch - 1885/1977). Col pensiero ci spingiamo oltre i confini del conosciuto: verso ciò che sappiamo di non sapere. Ma non è tutto. È stato osservato che si va molto più in là, ad immaginare ciò che ancora non sappiamo di non sapere. La teologia, nella nostra fede, è qualcosa di simile. Cerca di sistematizzare ciò che ancora neppure sappiamo di non sapere, ragiona, ad esempio, nel presupposto che tutto ciò che esiste sia sistema e che sia tratto verso un compimento beato, oltre l'incessante distruzione e le successive metamorfosi (cambiamenti), che osserviamo in natura. La dottrina sociale è considerata parte della teologia. Il pensiero sociale è più vasto e comprende anche ragionamenti sociologici, economici, giuridici, politici ed etici. Il pensiero sociale non è solo quello degli specialisti in una qualche disciplina in esso implicata: ognuno di noi, nel farsi un'idea del mondo in cui vive, ne esprime una versione. Quello dei più competenti ha l'autorità che deriva dal l'approfondimento scientifico, condotto con metodo rigoroso e nella consapevolezza dei risultati raggiunti dalla comunità dei sapienti. La dottrina sociale è quella parte del pensiero sociale insegnato dai Papi e dai vescovi con l'autorità loro riconosciuta in religione: al di fuori dell'ambito religioso la sua autorità si basa sugli stessi presupposti di quella degli altri sapienti.
  La dottrina sociale spinge i fedeli alla sensibilità di sistema di cui dicevo. Questo richiede innanzi tutto lo sforzo di capire. Esso costa fatica, perché si tratta di andare contro le apparenze e, soprattutto, di rendersi realisticamente conto di come funzionano le cose. Se si considerano solo dal proprio limitato punto di vista, è difficile capire. Si dice che "nessun uomo è un'isola" (ad esempio il monaco Thomas Merton - 1915/1968). A volte, però, ragioniamo come se lo fossimo. La dottrina sociale ci avverte: in tutto il mondo c'è un'unica famiglia umana. Se arriva da noi qualcuno dall'altra parte del mondo, dovremmo quindi trattarlo come un fratello, soprattutto  se chiede aiuto. Se non ne siamo capaci, che succede? Ad esempio, potremmo ritenere che non ce n'è abbastanza neppure per noi e che, quindi, dobbiamo respingere per non soccombere noi stessi. Accogliere ci potrebbe sembrare troppo oneroso. In questo modo, però, ci avverte la dottrina sociale, mettiamo in pericolo la stabilità del sistema costituito dalla famiglia umana. Che succede quando un sistema diventa instabile? Accade che esso si muove, cercando un diverso punto di equilibrio. È quello che è accaduto l'altro giorno a Genova. Lì si è mosso un sistema materiale che era anche una costruzione umana: era stato pensato, prima di essere costruito. Negli anni aveva manifestato dei problemi nella sua struttura. Quelli che abitavano sotto sentivano cadere detriti e polveri. Le verifiche periodiche inducevano il sospetto di un deterioramento dei materiali. Opere di manutenzione erano state realizzate e altre erano progettate. Ma ci si era resi conto che era proprio il sistema di costruzione ad aver creato, già dopo pochi decenni all'inaugurazione dell'opera, dei problemi. La manutenzione, anche molto incisiva,sarebbe stata sufficiente? Forse non avrebbe impedito di dover limitare o addirittura interrompere il traffico stradale, Gli esperti sono al lavoro per stabilirlo. Ora però, con il senno del poi, dopo il crollo, ci si chiede anche se non si sarebbe potuto pensare di mettere fuori servizio il ponte, distruggerlo e ricostruirlo con le tecniche contemporanee, tanto più avanzate di quelle di cinquant'anni fa, quelle che hanno consentito,ad esempio, la costruzione del nuovo grandioso ponte sospeso tra Europa e Asia a Istanbul, inaugurato nel 2016 dopo tre anni di lavori con la partecipazione anche di imprese italiane. Ma  sembrava che i costi fossero eccessivi e probabilmente si è tenuto conto anche del disagio degli utenti, che sarebbero stati costretti per qualche anno a tempi di percorrenza molto più lunghi,  lungo strade alternative, e di coloro che abitavano proprio sotto il ponte da ricostruire, costretti a cambiare casa. Oggi, a disastro avvenuto, si comincia a pensare diversamente. È possibile che negli anni scorsi non si sia avuta una sufficiente sensibilità di sistema, immaginando che realisticamente c'era la possibilità di un crollo.
  La decisone sulla sorte di quel ponte richiedeva competenze specialistiche che sono proprie solo di una ristrettissima classe di specialisti. Da quello che ho letto in questi giorni sui quotidiani, nessuno di essi aveva messo in guardia il gestore dell'autostrada e le pubbliche amministrazioni in vario modo competenti prospettando un pericolo di un crollo catastrofico. Diverso è il caso negli affari sociali. Qui l'esperienza storica anche della gente comune spiega che accade quando si prendono certe decisioni politiche. Allontanandosi il ricordo di certi eventi tragici, occorre però ravvivare e trasmettere la memoria  di certe esperienze storiche. La lettura dei radiomessaggi del 1941 e del 1944 del papa Eugenio Pacelli, in religione Pio 12^, che ho pubblicato nei giorni scorsi espongono le cause della Seconda guerra mondiale (1939-1945), che possiamo considerare come un gigantesco crollo di sistemi sociali. Gli italiani,salvo i "governanti", si limitarono a subire obbedendo? Non fu così. Si era in un regime autocratico e totalitario quando, nel 1940, venne presa la decisione di impegnare il Regno d'Italia nella guerra, una guerra d'aggressione estesasi infine contro l'Unione Sovietica. Certo. Ma negli anni precedenti il consenso alla politica del fascismo mussoliniano, che proponeva la rigenerazione degli italiani mediante la guerra, mettendo i fucili in mano finanche ai bambini, era stato molto vasto, anche tra i cattolici. Questo è il risultato, ad esempio, esposto nella storiografia di Renzo De Felice (1929-1996).
  Ai nostri giorni, in tutta Europa si sta decidendo se accogliere o respingere la gente in difficoltà che arriva da noi da varie parti del mondo, in particolare dall'Europa orientale non ancora accolta nell'Unione Europea, dall'Africa, dall'Asia e dall'America Latina. Sta prevalendo la decisione di respingere, anche a costo di lasciare in pericolo la vita di chi sta spostando. In particolare, questa scelta in Italia riguarda gli africani che arrivano attraverso il Mar mediterraneo dalle vicine coste libiche e tunisine. Il consenso popolare sulle politiche di respingimento è vastissimo da noi è sembra che riguardi anche parte notevole dei cattolici. La dottrina sociale ci spinge ad approfondire e ci mette in guardia: su questa strada si creeranno nuovamente le condizioni di una guerra. È infatti qualche giorno fa dalla politica di governo è venuta la proposta della reintroduzione del servizio militare di leva. Non va considerata una proposta bizzarra, bensì conseguente con ciò che si sta prospettando. Ad esempio, anni fa i capi del nostro esercito stimarono che un nostro intervento militare Libia avrebbe richiesto non meno di cinquantamila militari, che l'Italia non potrebbe ricavare sottraendo le truppe agli impegni che abbiamo con la NATO, l'alleanza militare che da sempre sta fronteggiando prevalentemente le minacce dall'Europa orientale, dove attualmente la Russia appare in fase espansiva e sostiene un conflitto in Ucraina.
  Ci possiamo considerare negli affari sociali un po' come negli anni che hanno preceduto il crollo del ponte genovese. Stiamo prendendo collettivamente la decisione giusta? Lo si fa, sembra, a ragion veduta, come  si sente dire spesso alla gente. Non potremo, quindi, se le cose andranno male, liberarci gettando la colpa addosso sui politici che oggi sono più quotati e hanno anche responsabilità di governo. Stiamo facendo i calcoli giusti? Siamo veramente disposti ad accettare le conseguenze dell'esclusione sociale scelta per proteggerci? Abbiamo sufficiente consapevolezza di sistema?
  Oggi ho dato un'occhiata alla bella T-shirt che indosso, comprato al mercatino rionale sotto casa mia. Ho scoperto che è stata fatta in Cambogia. L'ho pagata pochi euro. Mani di persone dall'altra parte del mondo, in un posto nel quale negli anni '70 si è combattuta una feroce guerra tra Occidentali e Asiatici, hanno lavorato per me, una volta tornata la pace. Il mio benessere ora dipende anche dalla pace di laggiù. Tutto è collegato,tutto è sistema.
Mario Ardigò- Azione cattolica in San Clemente papà - Roma, Monte Sacro, Valli
 

venerdì 17 agosto 2018

Il radiomessaggio del papa Pio 12^ del 1 settembre 1944

 Il 1 settembre 1944, nel quinto anniversario della guerra mondiale, la Santa Sede diffuse un importantissimo radiomessaggio, prefigurando un nuovo ordinamento mondiale di pace dopo la conclusione del conflitto, che manifestava di essere nella sua fase finale, estremamente sanguinosa. In Italia era in corso la guerra di Resistenza contro ciò che rimaneva del regime fascista e l'occupante tedesco. Le forze che si riconoscevano nella Democrazia Cristiana, fondata due anni prima, combattevano con forze di altro orientamento ideologico,in particolare socialista e comuniste. A livello mondiale, la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti d'America erano alleati con la comunista Unione Sovietica. Roma era stata conquistata nel marzo 1944 da forze angloamericane e da altre forze loro alleate. In quella fase della guerra le forze armate del Regno d'Italia combattevano in tale schieramento. Nel centro e nord Italia era stato costituito un nuovo stato fascista, la Repubblica sociale italiana.
 Con il radiomessaggio che segue, diffuso sotto l'autorità del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12^, si sollecitò e approvò la collaborazione tra forze politiche di diverso orientamento ideologico per la costruzione di un nuovo ordinamento mondiale di pace. Il tema verrà ripreso vent'anni dopo nell'enciclica La pace in terra - Pacem in terris (1963) del papa Angelo Roncalli, in religione Giovanni 23^.
 Gli storici ritengono che il radiomessaggio del 1 settembre 1944 sia stato scritto da Giovanni Battista Montini, che all'epoca lavorava come sostituto nella Segreteria di Stato, l'ufficio della Santa Sede che cura i rapporti politici, e che poi regnò con il nome di Paolo 6^ dal 1963 al 1978. Esso sarebbe stato rivisto e corretto in alcune parti dal papa Pacelli. Evidenzio che i documenti della dottrina sociale contemporanea del Papato, quella inaugurata nel 1891 con l'enciclica Le novità- Rerum novarum dal papa Vincenzo Giacchino Pecci - Leone 13^, sono stati scritti a più mani, con la supervisione dei Papi, che vi contribuirono direttamente secondo la competenza specialistica o pastorale. Gli storici non hanno avuto ancora accesso a tutti i documenti degli archivi della Santa Sede che potrebbero confermare l'attribuzione al Montini di tutti i radiomessaggi della Santa Sede tra il 1941 e il 1944, di argomento prettamente politico, diffusi sotto l'autorità del papa Pacelli e a suo nome. Le argomentazioni in essi svolte corrispondono al pensiero del Montini, in particolare orientato secondo quelli dei filosofi francesi Jacques Maritain e Maurice Blondel. Ho ricavato queste informazioni dalla mia comprensione del libro di Fulvio De Giorgi, Mons. Montini - Chiesa cattolica e scontri di civiltà nella prima metà del Novecento,Il Mulino, 2012,€28,00, che consiglio a chi abbia un diploma di scuola secondaria superiore (richiede infatti la conoscenza di dettagli di storia contemporanea che si conseguono nell'ultimo anno delle superiori),
Mario Ardigò- Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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RADIOMESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PIO XII
NEL V ANNIVERSARIO DALL'INIZIO DELLA GUERRA MONDIALE

Venerdì, 1° settembre 1944



I. La difesa della civiltà cristiana

Oggi, al compiersi del quinto anno dallo scoppio della guerra, la umanità, mentre si volge indietro a rimirare il cammino di lagrime e di sangue affannosamente percorso in questo fosco quinquennio di storia, inorridisce dinanzi all’abisso di miseria, in cui lo spirito della violenza e il predominio della forza l’hanno precipitata, e pur senza lasciarsi abbattere dal ricordo del passato, ricerca ansiosamente le cause di una così funesta catastrofe spirituale e materiale, risoluta a prendere ogni più efficace rimedio contro il ripetersi, in altre forme, della immane tragedia.

Scossi dal cumulo di tante rovine, molti animi onesti si ridestano come da un sogno angoscioso, bramosi di trovare anche in altri campi — fino ad ora mutuamente separati e lontani — collaboratori, compagni di via e di lotta, per la grande opera di ricostruzione di un mondo scalzato nelle sue fondamenta e dilacerato nella sua più intima compagine.

Nulla certamente di più naturale, nulla di più opportuno, nulla — supposte le indispensabili cautele — di più doveroso!

Per quanti si gloriano del nome cristiano e professano la fede in Cristo con una condotta di vita inviolabilmente conforme alle sue leggi, questa disposizione e prontezza di animo a lavorare in comune, nello spirito di una vera solidarietà fraterna, non obbediscono soltanto all’obbligo morale del retto adempimento dei doveri civili; essa si eleva alla dignità di un postulato della coscienza sorretta e guidata dall’amore di Dio e del prossimo, cui aggiungono vigore i segni ammonitori del momento presente e la intensità dello sforzo richiesto per la salvezza dei popoli.

Il quadrante della storia segna oggi un’ora grave, decisiva, per tutta l’umanità.

Un mondo antico giace in frantumi. Veder sorgere al più presto da quelle rovine un nuovo mondo, più sano, giuridicamente meglio ordinato, più in armonia con le esigenze della natura umana: tale è l’anelito dei popoli martoriati.

Quali saranno gli architetti che disegneranno le linee essenziali del nuovo edificio, quali i pensatori che daranno ad esso l’impronta definitiva?

Ai dolorosi e funesti errori del passato succederanno forse altri non meno deplorevoli, e il mondo oscillerà indefinitamente da un estremo all’altro? ovvero si arresterà il pendolo, grazie all’azione di saggi reggitori di popoli, su direzioni e soluzioni che non contraddicano al diritto divino e non contrastino con la coscienza umana e soprattutto cristiana?

Dalla risposta a questa domanda dipende la sorte della civiltà cristiana nell’Europa e nel mondo. Civiltà che, lungi dal portare ombra o pregiudizio a tutte le forme peculiari e così svariate di vivere civile nelle quali si manifesta l’indole propria di ciascun popolo, s’innesta in esse e vi ravviva i più alti princìpi etici: la legge morale scritta dal Creatore nei cuori degli uomini (Cf. Rom., 2, 15), il diritto di natura derivante da Dio, i diritti fondamentali e la intangibile dignità della persona umana; e per meglio piegare le volontà alla loro osservanza, infonde nei singoli uomini, in tutto il popolo e nella convivenza delle nazioni quelle energie superiori, che nessun potere umano vale anche soltanto lontanamente a conferire, mentre, a somiglianza delle forze della natura, preserva dai germi velenosi che minacciano l’ordine morale, di cui impedisce la rovina.

Così avviene che la civiltà cristiana, senza soffocare né indebolire gli elementi sani delle più varie culture native, nelle cose essenziali le armonizza, creando in tal guisa una larga unità di sentimenti e di norme morali — fondamento saldissimo di vera pace, di giustizia sociale e di amore fraterno fra tutti i membri della grande famiglia umana.

Gli ultimi secoli hanno veduto, con una di quelle evoluzioni piene di contraddizioni di cui la storia è scaglionata, da un lato, sistematicamente minati i fondamenti stessi della civiltà cristiana, dall’altro, invece, il patrimonio di essa diffondersi pur sempre attraverso tutti i popoli. L’Europa e gli altri continenti vivono ancora, in diverso grado, delle forze vitali e dei princìpi, che la eredità del pensiero cristiano ha loro trasmessi quasi come in una spirituale trasfusione di sangue.

Alcuni giungono a dimenticare questo prezioso patrimonio, a trascurarlo, perfino a ripudiarlo; ma il fatto di quella successione ereditaria rimane. Un figlio può ben rinnegare sua madre; egli non cessa perciò di essere a lei unito biologicamente e spiritualmente. Così anche i figli, allontanatisi e straniatisi dalla casa paterna, sentono pur sempre, talvolta inconsapevolmente, come voce del sangue, l’eco di quella eredità cristiana, che spesso nei propositi e nelle azioni li preserva dal lasciarsi interamente dominare e guidare dalle false idee, a cui essi, volutamente o di fatto, aderiscono.

La chiaroveggenza, la dedizione, il coraggio, il genio inventivo, il sentimento di carità fraterna di tutti gli spiriti retti ed onesti determineranno in quale misura e fino a qual grado sarà dato al pensiero cristiano di mantenere e di sorreggere l’opera gigantesca della restaurazione della vita sociale, economica ed internazionale in un piano non contrastante col contenuto religioso e morale della civiltà cristiana.

Perciò a tutti i Nostri figli e figlie nel vasto mondo, come anche a coloro che, pur non appartenendo alla Chiesa, si sentono uniti con Noi in quest’ora di determinazioni forse irrevocabili, rivolgiamo l’urgente esortazione di ponderare la straordinaria gravità del momento e di considerare come, al di sopra di ogni collaborazione con altre divergenti tendenze ideologiche e forze sociali, suggerita talora da motivi puramente contingenti, la fedeltà al patrimonio della civiltà cristiana e la sua strenua difesa contro le correnti atee ed anticristiane è la chiave di volta, che mai non può essere sacrificata, a nessun vantaggio transitorio, a nessuna mutevole combinazione.

Questo invito, che confidiamo troverà un’eco favorevole in milioni di anime sulla terra, tende principalmente ad una leale ed efficace collaborazione in tutti quei campi, nei quali la creazione di un più retto ordinamento giuridico si manifesta come particolarmente richiesta dalla stessa idea cristiana. Ciò vale in modo speciale per quel complesso di formidabili problemi, che riguardano la costituzione di un ordine economico e sociale più rispondente all’eterna legge divina e più conforme alla dignità umana. In esso il pensiero cristiano ravvisa come elemento sostanziale la elevazione del proletariato, la cui risoluta e generosa attuazione apparisce ad ogni vero seguace di Cristo non solo come un progresso terreno, ma anche come l’adempimento di un obbligo morale.

II. Alcuni aspetti della questione economica e sociale

Dopo anni amari d’indigenza, di restrizioni e soprattutto di angosciosa incertezza, gli uomini attendono, al termine della guerra, un profondo e definitivo miglioramento di così tristi condizioni.

Le promesse di uomini di Stato, le molteplici concezioni e proposte di dotti e di tecnici, hanno suscitato fra le vittime di un malsano ordinamento economico e sociale una illusoria aspettazione di palingenesi totale del mondo, un’esaltata speranza di un regno millenario di universale felicità.

Tale sentimento offre un terreno favorevole alla propaganda dei programmi più radicali, dispone gli spiriti a una ben comprensibile, ma irragionevole e ingiustificata impazienza, che nulla si ripromette da organiche riforme e tutto aspetta da sovvertimenti e da violenze.

Di fronte a queste tendenze estreme il cristiano, che seriamente medita sui bisogni e le miserie del suo tempo, rimane nella scelta dei rimedi fedele alle norme che l’esperienza, la sana ragione e l’etica sociale cristiana additano come i fondamenti e i princìpi di ogni giusta riforma.

Già il Nostro immortale Predecessore Leone XIII nella sua celebre Enciclica Rerum novarum enunciò il principio che per ogni retto ordine economico e sociale « deve porsi come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata ».

Se è vero che la Chiesa ha sempre riconosciuto « il diritto naturale di proprietà e di trasmissione ereditaria dei propri beni » (Enciclica Quadragesimo anno), non è tuttavia men certo che questa proprietà privata è in particolar modo il frutto naturale del lavoro, il prodotto di una intensa attività dell’uomo, che l’acquista grazie alla sua energica volontà di assicurare e sviluppare con le sue forze l’esistenza propria e quella della sua famiglia, di creare a sé e ai suoi un campo di giusta libertà, non solo economica, ma anche politica, culturale e religiosa.

La coscienza cristiana non può ammettere come giusto un ordinamento sociale che o nega in massima o rende praticamente impossibile o vano il diritto naturale di proprietà, così sui beni di consumo come sui mezzi di produzione.

Ma essa non può nemmeno accettare quei sistemi, che riconoscono il diritto della proprietà privata secondo un concetto del tutto falso, e sono quindi in contrasto col vero e sano ordine sociale.

Perciò là dove, per esempio, il « capitalismo » si basa sopra tali erronee concezioni e si arroga sulla proprietà un diritto illimitato, senza alcuna subordinazione al bene comune, la Chiesa lo ha riprovato come contrario al diritto di natura.

Noi vediamo infatti la sempre crescente schiera dei lavoratori trovarsi sovente di fronte a quegli eccessivi concentramenti di beni economici che, nascosti spesso sotto forme anonime, riescono a sottrarsi ai loro doveri sociali e quasi mettono l’operaio nella impossibilità di formarsi una sua proprietà effettiva.

Vediamo la piccola e media proprietà scemare e svigorirsi nella vita sociale, serrata e costretta com’è ad una lotta difensiva sempre più dura e senza speranza di buon successo.

Vediamo, da un lato, le ingenti ricchezze dominare l’economia privata e pubblica, e spesso anche l’attività civile; dall’altro, la innumerevole moltitudine di coloro che, privi di ogni diretta o indiretta sicurezza della propria vita, non prendono più interesse ai veri ed alti valori dello spirito, si chiudono alle aspirazioni verso una genuina libertà, si gettano al servigio di qualsiasi partito politico, schiavi di chiunque prometta loro in qualche modo pane e tranquillità. E la esperienza ha dimostrato di quale tirannia in tali condizioni anche nel tempo presente sia capace la umanità.

Difendendo dunque il principio della proprietà privata, la Chiesa persegue un alto fine etico-sociale. Essa non intende già di sostenere puramente e semplicemente il presente stato di cose, come se vi vedesse la espressione della volontà divina, né di proteggere per principio il ricco e il plutocrate contro il povero e non abbiente: tutt’altro! Fin dalle origini, essa è stata la tutrice del debole oppresso contro la tirannia dei potenti e ha patrocinato sempre le giuste rivendicazioni di tutti i ceti dei lavoratori contro ogni iniquità. Ma la Chiesa mira piuttosto a far sì che l’istituto della proprietà privata sia tale quale deve essere secondo i disegni della sapienza divina e le disposizioni della natura: un elemento dell’ordine sociale, un necessario presupposto delle iniziative umane, un impulso al lavoro a vantaggio dei fini temporali e trascendenti della vita, e quindi della libertà e della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che fin dal principio gli assegnò a sua utilità un dominio sulle cose materiali.

Togliete al lavoratore la speranza di acquistare qualche bene in proprietà personale; quale altro stimolo naturale potreste voi offrirgli per incitarlo a un lavoro intenso, al risparmio, alla sobrietà, mentre oggi non pochi uomini e popoli, avendo tutto perduto, nulla più hanno se non la loro capacità di lavoro? O si vuol forse perpetuare l’economia di guerra per la quale in alcuni Paesi il pubblico potere ha in mano tutti i mezzi di produzione e provvede per tutti e a tutto, ma con la sferza di una dura disciplina? Ovvero si vorrà soggiacere alla dittatura di un gruppo politico, che disporrà, come classe dominante, dei mezzi di produzione, ma insieme anche del pane, e quindi della volontà di lavoro dei singoli?

La politica sociale ed economica dell’avvenire, l’attività ordinatrice dello Stato, dei Comuni, degl’istituti professionali, non potranno conseguire durevolmente il loro alto fine, che è la vera fecondità della vita sociale e il normale rendimento della economia nazionale, se non rispettando e tutelando la funzione vitale della proprietà privata nel suo valore personale e sociale. Quando la distribuzione della proprietà è un ostacolo a questo fine — ciò che non necessariamente né sempre è originato dalla estensione del patrimonio privato —, lo Stato può nell’interesse comune intervenire per regolarne l’uso, od anche, se non si può equamente provvedere in altro modo, decretare la espropriazione, dando una conveniente indennità. Per lo stesso scopo la piccola e la media proprietà nell’agricoltura, nelle arti e nei mestieri, nel commercio e nell’industria debbono essere garantite e promosse; le unioni cooperative debbono assicurare loro i vantaggi della grande azienda; dove la grande azienda ancor oggi si manifesta maggiormente produttiva, deve essere offerta la possibilità di temperare il contratto di lavoro con un contratto di società (Cf. Enciclica Quadragesimo anno).

Né si dica che il progresso tecnico si oppone a tale regime e spinge nella sua corrente irresistibile tutta l’attività verso aziende ed organizzazioni gigantesche, di fronte alle quali un sistema sociale fondato sulla proprietà privata dei singoli deve ineluttabilmente crollare. No; il progresso tecnico non determina, come un fatto fatale e necessario, la vita economica. Esso si è fin troppo spesso docilmente chinato dinanzi alle esigenze dei calcoli egoistici avidi di accrescere indefinitamente i capitali; perché dunque non si piegherebbe anche dinanzi alla necessità di mantenere e di assicurare la proprietà privata di tutti, pietra angolare dell’ordine sociale? Anche il progresso tecnico, come fatto sociale, non deve prevalere al bene generale, ma essere invece a questo ordinato e subordinato.

Al termine di questa guerra, che ha sconvolto tutte le attività della vita umana e le ha lanciate verso nuovi sentieri, il problema della futura configurazione. dell’ordine sociale farà sorgere una lotta ardente fra le varie tendenze, in mezzo alla quale la concezione sociale cristiana ha l’ardua, ma anche nobile missione di mettere in evidenza e di mostrare teoricamente e praticamente ai seguaci di altre dottrine come in questo campo, così importante per il pacifico sviluppo della umana convivenza, i postulati della vera equità e i princìpi cristiani possono unirsi in uno stretto connubio generatore di salvezza e di bene per quanti sanno rinunziare ai pregiudizi e alle passioni e prestare orecchio agli insegnamenti della verità. Noi abbiamo fiducia che i Nostri fedeli figli e figlie del mondo cattolico, araldi della idea sociale cristiana, contribuiranno — anche a prezzo di notevoli rinunzie — all’avanzamento verso quella giustizia sociale, di cui debbono aver fame e sete tutti i veri discepoli di Cristo.

III. Pensieri di carità

L’esortazione alla vigilanza e alla prontezza di tutti i cristiani per gl’immani doveri di un avvenire, che sembra ormai prossimo, non deve farCi perdere di vista le acute angustie del presente. Né alcuno si meraviglierà se, pur abbracciando di eguale amore tutti i popoli della terra, la Nostra sollecitudine in questo campo e in questo momento si porta in una maniera speciale verso l’Italia e Roma.

Le dirette operazioni di guerra, che hanno sconvolto gran parte del suolo italico, sono ora lontane anche dalla Eterna Città. Ma le conseguenze dirette e indirette del conflitto sono ben lungi dall’esser cessate. L’Urbe, che Maria, « Salus populi romani », Madre del Divino Amore, protesse nell’ora del pericolo, non risuona più del rombo delle battaglie. Ma la lotta contro la miseria, contro la fame, la disoccupazione, il disagio economico, ha raggiunto in molte regioni d’Italia una estensione tale che richiede, massime in vista dell’inverno, un pronto ed efficace rimedio.

Nessuno ignora come di fatto nelle grandi guerre alle dure necessità di carattere militare si dia ordinariamente la precedenza sopra ogni diverso riguardo e considerazione. D’altra parte, chiunque non si lasci guidare da particolari tendenze, ma rifletta sulla imperiosa esigenza di provvedere insieme ai bisogni essenziali della vita civile, ammetterà e riconoscerà le funeste influenze e i danni che la sistematica requisizione, asportazione o distruzione di preziosi mezzi di trasporto hanno cagionato al rifornimento di viveri sufficienti e acquistabili a prezzo ragionevole. Ognuno altresì comprende come questo stato anormale, unito con la egualmente vasta distruzione, requisizione o asportazione di potenti mezzi di produzione, abbia provocato una paralisi nella vita economica, le cui ripercussioni materiali e spirituali sulla popolazione divengono ogni giorno più sintomatiche e minacciose.

Non sterili accuse porteranno rimedio a tanto male, ma la sincera e generosa collaborazione di quanti hanno possibilità e autorità per servire agli interessi del Paese. Non è forse desiderabile che cooperino al bene comune persone probe, oneste, sperimentate, franche e immuni da qualsiasi macchia di delitti o di reali abusi, anche se nel passato si trovarono in altro campo politico, il che spianerebbe altresì la via alla unione degli animi?

Nessun popolo, accasciato sotto il peso di sciagure fisiche e morali, può risollevarsi da solo, con le proprie forze, dalla sua prostrazione.

Ma d’altra parte nessun popolo, giustamente geloso del suo onore, si adatterebbe ad attendere il suo risorgimento unicamente dall’aiuto altrui, e non in pari tempo dallo sforzo della propria volontà e delle proprie energie.

Perciò Noi, conoscendo la profonda miseria in cui sono cadute estese regioni d’Italia, innanzi tutto ricordiamo a coloro, i quali nel Paese stesso posseggono ampie scorte e abbondante raccolto di viveri, l’obbligo di non sottrarli, per avidità di maggiori guadagni, a quelli che languiscono di fame, memori dei tremendi castighi dal Giudice eterno minacciati a chi è senza pietà per il fratello sofferente. Invochiamo poi dai popoli, la cui capacità economica non è stata sostanzialmente danneggiata dalla guerra, di porgere alla popolazione d’Italia, nei limiti del possibile e senza pregiudizio di quanto è dovuto anche ad altre Nazioni egualmente indigenti, quei soccorsi, di cui ha bisogno specialmente nel periodo iniziale della sua rinascita.

Di buon animo riconosciamo ciò che è stato fatto — e sappiamo che ancor più s’intende di fare — in tal senso dalle Potenze alleate, come altresì volentieri apprezziamo gli sforzi compiuti dalle Autorità italiane. Niuno più di Noi, — cui le cure dell’Apostolico Ministero mettono più facilmente in grado di conoscere i dolori dei poveri e degli oppressi, — sente nel cuore intima gratitudine verso quanti, in Italia e all’estero, — Governi, Episcopato, Clero, laici, — hanno cooperato e cooperano a così nobile scopo. Se purtroppo non Ci è stato fin qui possibile di ottenere l’uso di motovelieri o di altre navi per il trasporto di generi alimentari e per il ritorno di profughi alle loro terre, abbiamo tuttavia la fiducia di conseguire prossimamente altri mezzi per arrecare sollievo a numerose sventure. E come per il passato, così anche per il futuro serberemo profonda riconoscenza verso quanti Ci metteranno in condizione di attenuare la dolorosa sproporzione fra la esiguità delle Nostre proprie risorse e la grandezza incommensurabile dei più urgenti bisogni.

Noi salutiamo in questa prestazione di soccorsi da popolo a popolo, già iniziata durante la guerra e pur nei ristretti limiti che questa consente, il ridestarsi di un senso di generosità, non meno umanamente elevato che politicamente saggio; senso, che nel calore della lotta e nell’appassionata affermazione dei contrastanti interessi può bensì affievolirsi, ma non interamente estinguersi, e che, fondato com’è sulla natura stessa e sulla concezione cristiana della vita, dovrà poi tornare pienamente in onore, non appena la spada avrà compiuto la dura opera sua.

IV. Pensieri di pace

Nulla senza dubbio Noi più ardentemente desideriamo che di vedere quanto prima splendere il giorno in cui, cessato il fragore delle armi, saranno ridate a tanta parte della umanità torturata, e quasi all’estremo limite delle sue forze fisiche e morali, pace, sicurezza e prosperità.

Innumerevoli cuori sospirano questo giorno, come i naufraghi il sorgere della stella mattutina. Molti nondimeno avvertono fin da ora che il passaggio dalla tempesta violenta alla grande tranquillità della pace può essere ancora penoso ed amaro; comprendono che le tappe del cammino dalla cessazione delle ostilità allo stabilimento di condizioni normali di vita possono nascondere più gravi difficoltà che non si pensi. È perciò tanto più necessario che un forte sentimento di solidarietà risorga fra i popoli, al fine di rendere più rapido e duraturo il risanamento del mondo.

Già nel Nostro discorso natalizio del 1939 Noi auspicavamo la creazione di organizzazioni internazionali che, evitando le lacune e le deficienze del passato, fossero realmente atte a preservare la pace, secondo i princìpi della giustizia e della equità, contro ogni possibile minaccia per il futuro. Poiché oggi alla luce di tante terribili esperienze l’aspirazione verso un simile nuovo istituto universale di pace richiama sempre più l’attenzione e le cure degli uomini di Stato e dei popoli, Noi volentieri esprimiamo il Nostro compiacimento e formiamo l’augurio che la sua concreta attuazione corrisponda veramente nella più larga misura all’altezza del fine, che è il mantenimento, a vantaggio di tutti, della tranquillità e della sicurezza nel mondo.

Ma niuno forse tanto ansiosamente invoca la fine del conflitto e il rinascere della mutua concordia fra le Nazioni quanto i milioni di prigionieri e d’internati civili, costretti dalla guerra a mangiare il duro pane della cattività o del lavoro forzato in terra straniera. Il dolore per la protratta lontananza dalle madri, dalle spose, dai figli, per la lunga separazione da tutte le persone e le cose amate, li strugge e li consuma, e desta in loro un vivo senso di schianto e di abbandono, di cui può farsi una idea soltanto chi sappia penetrare nell’intima angoscia dei loro cuori. E poiché questa guerra, con ciò che ad essa è necessariamente o arbitrariamente connesso, ha condotto alla più ingente e tragica migrazione di popoli che la storia conosca, sarà opera di alta umanità, di chiaroveggente giustizia e di sapienza ordinatrice, se a questi infelici non si farà attendere oltre i limiti dello stretto necessario la già troppo a lungo ritardata liberazione.

Una tale risoluzione, che naturalmente non escluderebbe alcune cautele giudicate forse indispensabili, sarebbe per tanti miseri un primo raggio di sole nella oscurissima notte, il simbolico annunziatore di una nuova era, in cui con la crescente distensione degli animi tutte le Nazioni amanti della pace, grandi e piccole, potenti e deboli, vincitrici e vinte, avranno parte, non meno ai diritti e ai doveri, che ai benefici di una vera civiltà.

La spada può e talvolta, purtroppo, deve aprire la via verso la pace.

L’ombra della spada può gravare anche sul tragitto dalla cessazione delle ostilità alla conclusione formale della pace.

La minaccia della spada può apparire inevitabile, entro i limiti giuridicamente necessari e moralmente giustificabili, anche dopo la conclusione della  pace, per tutelare l’osservanza dei giusti obblighi e prevenire tentativi di nuovi conflitti.

Ma l’anima di una pace degna di questo nome, il suo spirito vivificatore, non può essere che uno solo: una giustizia che con imparziale misura a tutti dà ciò che ad ognuno è dovuto e da tutti esige ciò a cui ognuno è obbligato, una giustizia che non dà tutto a tutti, ma a tutti dà amore e a nessuno fa torto, una giustizia che è figlia della verità e madre di sana libertà e di sicura grandezza.

*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VI,
  Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1944 - 1° marzo 1945, pp. 121-132
  Tipografia Poliglotta Vaticana

lunedì 13 agosto 2018

Civiltà dell'amore

1. Nel  prossimo ottobre sarà proclamato santo Giovanni Battista Montini. Regnò in religione con il nome di Paolo 6^ dal 1963 al 1978. Fu prete, arcivescovo di Milano e infine Papa. Lo si ricorda in genere come Papa, ma per l'Italia fu molto importante anche il tempo precedente del suo ministero, e non solo di quello che svolse a Roma dal 1937 nella Curia pontificia, nell'ufficio chiamato Segreteria di stato, che è quello che gestisce i rapporti politici del Papato. Dal 1925, come assistente ecclesiastico degli universitari di Azione Cartolica radunati nella FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana, e poi dal 1933, promuovendo la costituzione del Movimento Laureati di Azione Cattolica (al quale si transitava dopo laureati provenendo dalla FUCI) e seguendone da vicino le attività e i principali esponenti, si occupò della formazione di una nuova classe dirigente politica che seguisse e diffondesse in società la dottrina sociale. In Italia si era nel dominio del regime fascista mussoliniano, che si proponeva di accentrare l'azione di formazione politica ad ogni livello, fin dai bambini. Dal 1929, l'anno in cui concluse con il Papato gli accordi che vengono chiamati Patti Lateranensi lasció alla Chiesa cattolica la sola attività di formazione religiosa. L'Azione Cartolica andò fascistizzandosi, salvo che nei casi della FUCI e del Movimento Laureati. Nello spirito della "Conciliazione", la pacificazione con il Regno d'Italia mediata dal Mussolini a risoluzione della controversia aperta nel 1870 con la conquista militare di Roma e la soppressione dello Stato Pontificio, il piccolo regno dei papi nell'Italia centrale, il Papà Achille Ratti, regnante come Pio 11^, spinse i cattolici italiani a collaborare con le istituzioni sociali del fascismo. Lo fece con l'enciclica "Il Quarantennale - Quadragesimo anno, in occasione dei quarant'anni della prima enciclica "sociale" dell'era contemporanea, la Le novità - Rerum Novarum, diffusa nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone 13^. Il lavoro di Montini tra gli universitari e i laureati di Azione Cattolica si inserì in questo quadro delineato dall'enciclica Il quarantennale, ma non ebbe presente l'epoca contemporanea, bensì una società radicalmente nuova, di tipo rivoluzionario rispetto all'ordinamento politico promosso dal fascismo italiano, conforme alla civiltà dell'amore delineata dalla dottrina sociale. Quest'ultima, in quanto parte della teologia cattolica, non veniva ritenuta esclusa dal divieto di azione politica autonoma contenuto nel Concordato, la parte dei Patti Lateranensi che riguardava l'azione sociale della Chiesa italiana.
2. L'idea di una civiltà dell'amore, espressione cara a Giovanni Battista Montini, si è articolata, nel corso della Seconda guerra mondiale (1939-1945), nella riflessione sulla democrazia, oggetto del radiomessaggio natalizio del 1944. Si era, a quell'epoca, in una fase del conflitto diversa da quella che l'aveva caratterizzato nel 1941, quando nel radiomessaggio natalizio di quell'anno cominciò ad essere proposta la visione di un nuovo ordinamento internazionale, capace di garantire una pace giusta e duratura, duratura perché giusta, e di prevenire una "terza" guerra mondiale. Le dinamiche belliche si stavano rapidamente volgendo al peggio per la Germania, l'Italia e i loro alleati. La fine della guerra iniziava a manifestarsi vicina. Decisivi erano stati la travolgente controffensiva delle armate dell'Unione Sovietica e, nel dicembre del 1941, l'intervento degli Stati Uniti D'America, grande potenza industriale rimasta sostanzialmente immune dalle distruzioni belliche, salvo che nella loro estrema propaggine occidentale costituita dall'arcipelago delle isole Hawaii, duramente bombardato dal l'aviazione giapponese il 7 dicembre 1941.
  All'epoca del radiomessaggio natalizio del 1941 le armate della Germania e dei suoi alleati europei,  tra i quali l'Italia, erano arrivate molto vicine a Mosca, la capitale dell'Unione sovietica. In Africa, l'Italia aveva perso la sua colonia in Etiopia, conquistata dalle forze britanniche nel primo amo dopo l'entrata in guerra dell'Italia, e cercava di resistere. Il Giappone aveva appena attaccato gli Stati Uniti d'America, distruggendone la grande base navale di Pearl Harbour, nelle Hawaii.
  Nel radiomessaggio natalizio del 1941 era stato prefigurato un nuovo ordine mondiale, nella prospettiva della fine della guerra, che appariva ancora lontana. Non qualsiasi pace, si sosteneva, poteva prevenire la ripresa del conflitto, in una nuova guerra mondiale, ma solo quella basata su alcuni grandi principi umanitari, espressione anche di valori di fede, ma, in definitiva, universali.
 Occorreva, innanzi tutto, una convergenza su di essa delle potenze del mondo, vale a dire un complesso di accordi internazionali che li avessero ad oggetto. Ma era necessaria anche un'istituzione internazionale in grado di garantire il rispetto dei patti.
 Il nuovo ordine doveva radicarsi nella giustizia sociale, non sull'arbitrio della forza, sulla legge del più forte. Le nazioni maggiori dovevano impegnarsi a rinunciare a fare schiave quelle più piccole. Dovevano  essere assicurati spazi di libertà, e prima di tutto di espressione culturale, ad ogni minoranza, combattendone l'esclusione sociale. Doveva essere istituito un sistema di equa distribuzione delle risorse, correggendo le dinamiche di mercato e, in particolare, quelle di sfruttamento delle parti più deboli. Bisognava contrastare la corsa agli armamenti e la volontà di espandersi aggredendo.
 La religione non doveva essere combattuta, perché proprio dall'eclissi dei valori religiosi era originato il processo sociale che aveva causato il disastroso conflitto mondiale.
  Ma quale poteva essere l'agente politico del cambiamento e del consolidamento di quel nuovo ordine internazionale? La dottrina sociale, nel passato e anche nel 1941, si rivolgeva essenzialmente alla classe politica di governo delle nazioni, ai "governanti", formulando loro un appello di natura etica. Eppure quei politici avevano deluso. La grande novità del radiomessaggio natalizio del 1944 fu quella di prendere in considerazione i processi democratici come agenti politici di un ordinamento internazionale stabilmente pacifico.
3. Dalle origini e fino al 1939 la dottrina sociale aveva riguardato fondamentalmente la giustizia sociale dell'ordinamento interno degli stati, in particolare per comporre pacificamente il conflitto tra capitalisti e quelli che, con terminologia socialista, venivano definiti "proletari"; oggi diremmo tra imprenditori dell'economia di mercato e lavoratori dipendenti inquadrati nelle loro aziende. Dal '39, invece, al manifestarsi dei chiari segni politici di una guerra imminente, il Papato cominciò a proporre una prospettiva di giustizia sociale più ampia, a livello mondiale, quella della pace globale, in particolare con  un radiomessaggio diffuso il 24 agosto 1939. Questa sensibilità era stata molto sviluppata nel pensiero del filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973), del quale Giovanni Battista Montini, ottimo conoscitore della lingua francese, fu traduttore e divulgatore in Italia, in particolare negli ambienti degli universitari e dei laureati cattolici inquadrati nella FUCI e nel Movimenti dei Laureati cattolici. Maritain individuava le cause degli eventi politici prodottisi in Europa dagli anni '30 in una crisi di civiltà, che per le persone di fede costituiva una sfida da raccogliere. Si trattava, in questa prospettiva, di passare ad una nuova cristianità, dove quella precedente era considerata essenzialmente la medievale.
 Nel radiomessaggio natalizio del 1941, le cause del conflitto mondiale in corso venivano individuate nella volontà di potenza e di dominio che aveva prodotto un ordine internazionale prontato a principi opposti a quelli  che nel documento venivano proposti per fondare una pace mondiale duratura. Nel radiomessaggio natalizio del 1944, l'agente politico in grado di realizzare un diverso ordinamento venne individuato nella democrazia. In passato era stato individuato con la cristianità sotto la guida del Papato.
 Se, manifestatisi i primi segni premonitori della guerra, avessero funzionato veramente ordinamenti politici democratici, si osservò, dando modo alle masse, le prime vittime dei conflitti, di contribuire a determinare la politica internazionale, non si sarebbe caduti nel dominio delle forze politiche che avevano scatenato la guerra. Il radiomessaggio natalizio del 1944 può essere considerato la base per una teologia della democrazia, che però non mi pare essere mai stata sviluppata in cattolico. Per quanto me so, ma un competente potrebbe correggermi, per la teologia cattolica la democrazia è stata, e rimane, essenzialmente un problema. Fino al '44 il pensiero democratico ispirato a valori religiosi fu sospettato di indisciplina e finanche di eresia. La condanna dell'idea di una democrazia cristiana, si abbatté sui cattolici nel 1901, ad opera dello stesso Papà della Le novità - Rerum novarum,   Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13^, con l'enciclica Le gravi preoccupazioni sui problemi sociali - Graves de comuni re. L'ideologia politica di questa enciclica venne ribaltata con il radiomessaggio natalizio del 1944, diffuso sotto l'autorità del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione dal 1939 come Pio 12^.
  Il radiomessaggio natalizio del 1944 aprì la strada, in particolare in Italia e in Germania, alla restaurazione di democrazie diverse da quelle liberali del passato, in particolare per essere basate si grandi valori di giustizia sociale ispirati anche dalla dottrina sociale, e comunque al pensiero sociale cristiano. E quindi poi alla fondazione di partiti democratici cristiani. Quello italiano, denominato Democrazia Cristiana, fu fondato ancora durante il regime fascista nell'autunno del 1942 e successivamente vide, specialmente dall'estate dell'anno successivo, il sempre più ampio coinvolgimento di elementi provenienti dalla FUCI e dal Movimento Laureati, quindi delle generazioni di intellettuali formatesi alla scuola di Montini.
 Per ragioni storiche, quelli tedeschi ebbero sempre la caratteristica di essere più accomodanti verso il sistema economico capitalista, collocandosi alla destra democratica dello schieramento politico. Quello  italiano, per l'intesa collaborazione con il partito socialista e con quello comunista nelle fasi politiche e belliche della Resistenza contro ciò che rimaneva del regime fascista mussoliniano e contro gli occupanti tedeschi, tra il settembre 1943 e l'aprile 1945, si collocò invece al centro dello schieramento politico, ma con una particolare attenzione verso le sollecitazioni provenienti da sinistra. Secondo la definizione data dal democristiano Alcide De Gasperi, tra i fondatori del partito e tra i suoi principali esponenti, segretario politico del partito dal  tra il 1943 e il 1944 e tra il '53 e il '54, Presidente del Consiglio dei ministri dal 1946 al 1953, la Democrazia Cristiana italiano era un partito di centro che "guardava" verso sinistra. In realtà, in quel partito, che gli storici preferiscono oggi considerare come una federazione di partiti di diverso orientamento rispetto al sistema economico capitalista e alla misura dell'intervento pubblico nella società, e in particolare  ell'economia, era presente, e, lo rimase sino all'ultimo, nel 2002, dopo la ridenominazione in Partito Popolare Italiano nel '94, una vera e propria sinistra con caratteristiche socialiste. Essa fu molto importante nel promuovere, già dal secondo dopoguerra, ma più intensità mente degli anni Sessanta, con partiti espressione del socialismo italiano, in particolare in varie fasi di emergenza nazionale come quella tra il '73 e il 1980, dovuta a problemi economici e all'intensificazione delle azioni criminali di gruppi terroristici e di altre forme di lotta politica armata.  In questo periodo si collocano le morti di Aldo Moro, uno degli universitari formatosi nella FUCI  rimodellata sotto la guida di Montini e ispiratore dei governi di unità nazionale sostenuti con varie formule dal partito Comunista Italiano alla fine degli anni '70, e di Montini, divenuto Papa nel '63 con il nome di Paolo 6^. Le morti di Moro e di Montini segnano l'inizio dell'ultima fase del partito cristiano nella quale esso parve assumere una connotazione progressivamente più simile a un partito moderato di tipo europeo, con meno agganci con la dottrina sociale. Questo anche per la progressiva distanziazione, nel corso degli anni '70, dell'Azione Cattolica in attuazione della sua riforma secondo i principi del Concilio Varicano 2^ (1962-1965). Fu questa la fase storica nella quale l'Azione Cattolica perse progressivamente le caratteristiche di Partito del Papa, quindi di braccio politico del papato in Italia, quale era stata costituita con gli statuti del 1906. Questo cambiamento, che fu effetto del riconoscimento dell'autonomia del laicato nell'azione sociale, viene paradossalmente definito "scelta religiosa" e, in realtà, fu una riforma politica, vale a dire l'acquisizione dell'autonomia politica dell'associazione dal Papato. Questo comportò, di conseguenza, anche la distinzione più marcata dall'azione politica della Democrazia cristiana, sorta dall'alleanza politica tra i cattolici democratici e il Papato per radicare la nuova democrazia italiana, evoluzione del Partito del Papato in Partito cristiano, secondo l'intuizione di Alcide De Gasperi e Giovanni Battista Montini. In questo quadro di collaborazione politica l'Azione Cattolica aveva svolto, del resto in linea con la missione delle origini, a inizio Novecento, il ruolo di agente di formazione politica di massa, anche per la costante selezione di quadri dirigenti per il partito.
4. Il pensiero democratico, per ciò che so, non mi sembra essere stato mai veramente metabolizzato dalla teologia cattolica, vale a dire che non se ne sono mai esplicitate le  profonde radici culturali nei valori religiosi, che sono considerati prevalentemente in tensione con quelli democratici. Per un non specialista, per una persona colta che però non è una teologa, ma che ha avvicinato la teologia solo ad un primo livello di comprensione (definizione di un tipo di "uditore della Parola" riconducibile all'insegnamento del teologo Kark Rahner (1904-1984) ), lo stato della questione puô essere capito agevolmente in base all'inquadramento che ne dá il Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale ne presenta la comprensione da parte del Magistero all'epoca in cui fu pubblicato, il 1992 (da allora non ha subito modifiche sul punto), vale a dire risalente a 16 anni fa.
 Nella teologia del Magistero, alla quale quella degli specialisti cattolici tende in genere ad allinearsi, è sempre stata circondata dal sospetto di essere quel regime politico in cui i valori fondamentali sono nelle mani delle maggioranze politiche e, potendo sempre essere "rinegoziati" politicamente e messi ai voti, perdono il carattere di assolutezza che la dottrina vorrebbe assicurare loro. Questa era l'opinione di antichi filosofi greci, in particolare la si trova nel pensiero di Aristotele (4^ secolo dell'era antica), che ebbe grande influenza su quello del filosofo cristiano Tommaso d'Aquino (vissuto nel Duecento), il cui sistema filosofico fu proclamato, con l'enciclica Dell'Eterno Padre [il Figlio Unigenito] - Aeternis Patris diffusa nel 1879 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13^, come la dottrina filosofica "più sana e conforme al Magistero", venendo in tal modo ufficializzato quasi come filosofia del Magistero. Ma le democrazie dell'antica Grecia, quelle sulle quali ragionarono i filosofi di quelle società, erano profondamente diverse da quelle contemporanee e, anzi, secondo gli attuali criteri, non potrebbero nemmeno essere considerate vere democrazie. Infatti, nelle democrazie dell'antica Grecia,e in particolare in quella sviluppatasi nella città di Atene, che ebbe grande prestigio culturale tra tutte,la grande maggioranza delle persone, gli schiavi, le donne, i ragazzi, erano escluse dalla politica. E dei rimanenti cittadini maschi liberi dal lavoro, solo una minoranza, calcolata dagl storici in circa un migliaio di uomini, partecipava alle assemblee politiche. Ma il potere reale di governo era nelle mani di poche influenti famiglie, che poi organizzavano proprie fazioni tra i cittadini attivi in politica.
  In quelle democrazie il lavoro era considerato come un ostacolo alla partecipazione alla politica mediante l'approfondimento dialogico, vale a dire il confronto dialettico tra le idee. Chi lavorava non poteva dedicare alla politica, intesa in quella maniera, sufficiente tempo e quindi, in definitiva, non la "faceva".
  Nelle democrazie contemporanee sisono invece assunti tra i principi fondamentali, sottratti al dominio delle maggioranze politiche, la liberazione dal lavoro schiavo e l'elevazione dei lavoratori alla partecipazione politica, con l'impegno di rimuovere gli impedimenti alla sua realizzazione.
  Ma sono anche molti altri i valori fondamentali che non possono essere messi ai voti: ad esempio quello dell'eguaglianza in dignità tra le persone umane, a prescindere dalla loro cittadinanza. Tali valori fondamentali hanno natura propriamente religiosa, perché sono proclamati e perseguiti a prescindere da come effettivamente vanno le cose nel mondo e delle convenienze del momento.
   Contro un regime politico che li contrastasse, giungendo ad imporsi politicamente, con la violenza ma anche mediante una deliberazione a maggioranza, sarebbe lecita, e anzi doverosa, la resistenza. Questo è un principio della dottrina sociale molto antico, che troviamo affermato già nelle Scritture originate dall'esperienza religiosa delle nostre prime comunità di fede, dove troviamo l'insegnamento che si deve obbedire ai comandamenti religiosi anche se contrastanti con la volontà degli uomini.
  Le democrazie contemporanee non sono fondate sul principio di maggioranza, ma su quello di giustizia sociale, che comanda di dare a ciascuno il suo secondo il principio dell'equa è ragionevole distribuzione delle risorse e del l'uguaglianza in dignità. Si tratta di un principio sottratto alla decisione delle maggioranze politiche. L'area politica delle decisioni a maggioranza è quindi delimitata da quella dei principi sottratti a tale metodo di scelta. In questi limiti le decisioni a maggioranza sono conformi al principio di rispetto della dignità delle persone, in quanto sarebbe irragionevole, sotto questo profilo, il dominio di una minoranza.
 La parola "democrazia" deriva dalle parole del greco antico che significano "popolo" e "potere", ma non va intesa come tirannia del popolo, nel senso di potere che non incontri altri limiti che nel principio di maggioranza. Va inteso invece come "potere mediante la partecipazione del popolo" o "per il popolo", vale a dire potere che riconosce nei diritti del popolo, vale a dire di tutti, collettivi, dei limiti non arbitrariamente superabili e,comunque, quanto a quelli fondamentali, invalicabili, e, in particolare, con riferimento a quelli che rientrano nell'idea di giustizia sociale, tra i quali quelli alla vita, alla libertà e alla dignità personale, ad un benessere condiviso in linea con la ricchezza della società, alla formazione culturale e personale, al soccorso solidale nelle difficoltà della vita, alla partecipazione politica. La formula che troviamo nel primo articolo della nostra Costituzione, e con termini simili anche in altre costituzioni, secondo la quale "la sovranità appartiene al popolo", significa, in realtà, la soppressione della sovranità, come potere illimitato, che non ne riconosce altri superiori a sè, tanto che, sempre in quel l'articolo della nostra Costituzione, si proclama che la sovranitá popolare deve essere esercitata nei "limiti" della Costituzione stessa, tra i quali quelli dei valori fondamentali in essa inclusi.
  Solo fondandosi sulla giustizia sociale la democrazia può essere potere mediante il popolo e per il popolo, perchè essa è affidata, prima che alla volontà, alla responsabilità di moltitudini e, per non escludere arbitrariamente, deve essere giusta. 
  Gli antichi monarchi assoluti potevano essere ingiusti perché, proponendosi come misura della giustizia, quindi veramente sovrani, si sottraevano al giudizio, almeno fino ad un atto rivoluzionario che li spodestasse, o fino a che un altro monarca ne abbattesse il potere inglobandone lo "stato", vale a dire territorio e sudditi. Questo è il processo che si sviluppò quando il Regno d'Italia abbattè militarmente nel 1870 lo Stato pontificio, con capitale Roma. La questione romana che ne conseguì derivò dal fatto, inusuale in casi simili, che il Papato continuò ad esercitare un regno religioso nel quale si pretendeva sovrano, quindi misura della giustizia, venendo riconosciuto come tale in sede internazionale e dallo stesso regno invasore. Essa segnò pesantemente i processi democratici in Italia, già dal 1864 e fino al 1912, vietando ai cattolici la partecipazione alle elezioni politiche nazionali. Condizionò  il giudizio negativo sulla democrazia ispirata a valori di fede, superato solo nel 1944.
  Non può esistere, invece, una democrazia che accetti la legge dell'ingiustizia, sottraendosi al giudizio e alla correzione, perché l'ingiustizia fatta legge, anche se deliberata a maggioranza, è incompatibile con la democrazia.  Democrazia è ingiustizia sociale sono in radicale conflitto. La seconda può esistere, in democrazia, solo come malattia da sanare, e la democrazia deve esserne la cura o usurpa il nome di democrazia. 
 L'ingiustizia ha basi sociali, non è un fenomeno della natura come le tempeste e i terremoti, ma anche la giustizia le ha: queste basi hanno nome di democrazia.
 La democrazia globale, quella delineata dall'attuale dottrina sociale a partire dal 1941, è in tensione verso l'agápe della fede, quella forma di convivenza benevola dov'è nessuno è escluso, ognuno ha un posto vicino agli altri e la loro solidarietà. È l'immagine di un bel convito tra amici, al quale tutta l'umanità è invitata. Una democrazia così intesa è lo strumento per far progredire le società umane verso quella civiltà dell'amore di cui parlava Montini.
  Ecco quindi le basi, democrazia / agàpe, che i competenti potrebbero sviluppare per organizzare in termini religiosi una teologia della democrazia.
  Ma i valori di natura religiosa rilevanti per l'organizzazione sociale non sarebbero più al sicuro se affidati ad autocrati illuminati da luce soprannaturale? Questa era l'idea della prima dottrina sociale, prima del riconoscimento di spazi di autonomia sempre più vasti a chi in società lavora. In realtà, trattando di governo della società ci si riferisce alla politica, materia nella quale gli autocrati religiosi non hanno storicamente brillato. Una civiltà dell'amore non può essere comandata, ma deve essere prima interiorizzata e largamente condivisa. Questo è il metodo democratico.
  I valori ci sovrastano e sovrastano anche gli autocrati religiosi, i quali,al più, possono accreditarsene come interpreti qualificati. Nella comune sottomissione ai valori può realizzarsi l'autentica "conciliazione" tra società religiosa e civile, senza che la prima ne risulti immiserita in quanto strumentalizzata e avviando la seconda verso forme democratiche sempre più estese, inclusive e intense sulla via dell'agàpe, di una civiltà universale dell'amore.
Mario Ardigò (14-8-18)
  





giovedì 9 agosto 2018

PAPA FRANCESCO UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 1° agosto 2018

PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 1° agosto 2018

Catechesi sui Comandamenti.
«Non avrai altri dei di fronte a me»

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Abbiamo ascoltato il primo comandamento del Decalogo: «Non avrai altri dei di fronte a me» (Es 20,3). E’ bene soffermarsi sul tema dell’idolatria, che è di grande portata e attualità.
Il comando vieta di fare idoli (1)  o immagini  (2) di ogni tipo di realtà: (3) tutto, infatti, può essere usato come idolo. Stiamo parlando di una tendenza umana, che non risparmia né credenti né atei. Per esempio, noi cristiani possiamo chiederci: quale è veramente il mio Dio? E’ l’Amore Uno e Trino oppure è la mia immagine, il mio successo personale, magari all’interno della Chiesa? «L’idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo. Rimane una costante tentazione della fede. Consiste nel divinizzare ciò che non è Dio» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2113).
Che cos’è un “dio” sul piano esistenziale? È ciò che sta al centro della propria vita e da cui dipende quello che si fa e si pensa.[4] Si può crescere in una famiglia nominalmente cristiana ma centrata, in realtà, su punti di riferimento estranei al Vangelo.[5]L’essere umano non vive senza centrarsi su qualcosa. Allora ecco che il mondo offre il “supermarket” degli idoli, che possono essere oggetti, immagini, idee, ruoli. Per esempio, anche la preghiera. Noi dobbiamo pregare Dio, il nostro Padre. Ricordo una volta che ero andato in una parrocchia nella diocesi di Buenos Aires per celebrare una Messa e poi dovevo fare le cresime in un’altra parrocchia a distanza di un kilometro. Sono andato, camminando, e ho attraversato un parco, bello. Ma in quel parco c’erano più di 50 tavolini ciascuno con due sedie e la gente seduta una davanti all’altra. Che cosa si faceva? I tarocchi. Andavano lì “a pregare” l’idolo. Invece di pregare Dio che è provvidenza del futuro, andavano lì perché leggevano le carte per vedere il futuro. Questa è una idolatria dei nostri tempi. Io vi domando: quanti di voi siete andati a farvi Leggere le carte per vedere il futuro? Quanti di voi, per esempio, siete andati a farvi leggere le mani per vedere il futuro, invece di pregare Il Signore? Questa è la differenza: il Signore è vivo; gli altri sono idoli, idolatrie che non servono.
Come si sviluppa un’idolatria? Il comandamento descrive delle fasi: «Non ti farai idolo né immagine […]. / Non ti prostrerai davanti a loro / e non li servirai» (Es 20,4-5).
La parola “idolo” in greco deriva dal verbo “vedere”.[6] Un idolo è una “visione” che tende a diventare una fissazione, un’ossessione. L’idolo è in realtà una proiezione di sé stessi negli oggetti o nei progetti. Di questa dinamica si serve, ad esempio, la pubblicità: non vedo l’oggetto in sé ma percepisco quell’automobile, quello smartphone, quel ruolo – o altre cose – come un mezzo per realizzarmi e rispondere ai miei bisogni essenziali. E lo cerco, parlo di quello, penso a quello; l’idea di possedere quell’oggetto o realizzare quel progetto, raggiungere quella posizione, sembra una via meravigliosa per la felicità, una torre per raggiungere il cielo (cfr Gen 11,1-9), e tutto diventa funzionale a quella meta.
Allora si entra nella seconda fase: «Non ti prostrerai davanti a loro». Gli idoli esigono un culto, dei rituali; ad essi ci si prostra e si sacrifica tutto. In antichità si facevano sacrifici umani agli idoli, ma anche oggi: per la carriera si sacrificano i figli, trascurandoli o semplicemente non generandoli; la bellezza chiede sacrifici umani. Quante ore davanti allo specchio! Certe persone, certe donne quanto spendono per truccarsi?! Anche questa è un’idolatria. Non è cattivo truccarsi; ma in modo normale, non per diventare una dea. La bellezza chiede sacrifici umani. La fama chiede l’immolazione di sé stessi, della propria innocenza e autenticità. Gli idoli chiedono sangue. Il denaro ruba la vita e il piacere porta alla solitudine. Le strutture economiche sacrificano vite umane per utili maggiori. Pensiamo a tanta gente senza lavoro. Perché? Perché a volte capita che gli imprenditori di quell’impresa, di quella ditta, hanno deciso di congedare gente, per guadagnare più soldi. L’idolo dei soldi. Si vive nell’ipocrisia, facendo e dicendo quel che gli altri si aspettano, perché il dio della propria affermazione lo impone. E si rovinano vite, si distruggono famiglie e si abbandonano giovani in mano a modelli distruttivi, pur di aumentare il profitto. Anche la droga è un idolo. Quanti giovani rovinano la salute, persino la vita, adorando quest’idolo della droga.
Qui arriva il terzo e più tragico stadio: «…e non li servirai», dice. Gli idoli schiavizzano. Promettono felicità ma non la danno; e ci si ritrova a vivere per quella cosa o per quella visione, presi in un vortice auto-distruttivo, in attesa di un risultato che non arriva mai.
Cari fratelli e sorelle, gli idoli promettono vita, ma in realtà la tolgono. Il Dio vero non chiede la vita ma la dona, la regala. Il Dio vero non offre una proiezione del nostro successo, ma insegna ad amare. Il Dio vero non chiede figli, ma dona suo Figlio per noi. Gli idoli proiettano ipotesi future e fanno disprezzare il presente; il Dio vero insegna a vivere nella realtà di ogni giorno, nel concreto, non con illusioni sul futuro: oggi e domani e dopodomani camminando verso il futuro. La concretezza del Dio vero contro la liquidità degli idoli. Io vi invito a pensare oggi: quanti idoli ho o qual è il mio idolo preferito? Perché riconoscere le proprie idolatrie è un inizio di grazia, e mette sulla strada dell’amore. Infatti, l’amore è incompatibile con l’idolatria: se un qualcosa diventa assoluto e intoccabile, allora è più importante di un coniuge, di un figlio, o di un’amicizia. L’attaccamento a un oggetto o a un’idea rende ciechi all’amore. E così per andare dietro agli idoli, a un idolo, possiamo persino rinnegare il padre, la madre, i figli, la moglie, lo sposo, la famiglia … le cose più care. L’attaccamento a un oggetto o a un’idea rende ciechi all’amore. Portate questo nel cuore: gli idoli ci rubano l’amore, gli idoli ci rendono ciechi all’amore e per amare davvero bisogna esseri liberi da ogni idolo.
Qual è il mio idolo? Toglilo e buttalo dalla finestra!



[1] Il termine Pesel indica «un’immagine divina originariamente scolpita in legno o in pietra, e soprattutto in metallo» (L. Koehler - W. Baumgartner, The Hebrew and Aramaic Lexicon of the Old Testament, vol. 3, p. 949).
[2] Il termine Temunah ha un significato molto ampio, riconducibile a “somiglianza, forma”; quindi, il divieto è assai ampio e queste immagini possono essere di ogni tipo (cfr L. Koehler - W. Baumgartner, Op. cit., vol. 1, p. 504).
[3] Il comando non vieta le immagini in sé – Dio stesso comanderà a Mosè di realizzare i cherubini d’oro sul coperchio dell’arca (cfr Es 25,18) e un serpente di bronzo (cfr Nm 21,8) – ma vieta di adorarle e servirle, cioè l’intero processo di deificazione di qualcosa, non la sola riproduzione.
[4] La Bibbia Ebraica si riferisce alle idolatrie cananee col termine Baal, che significa “signoria, relazione intima, realtà da cui si dipende”. L’idolo è ciò che spadroneggia, prende il cuore e diventa perno della vita (cfr Theological Lexicon of the Old Testament, vol. 1, 247-251).
[5] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2114: «L’idolatria è una perversione del senso religioso innato nell’uomo. L’idolatra è colui che “riferisce la sua indistruttibile nozione di Dio a chicchessia anziché a Dio” (Origene, Contra Celsum, 2, 40)».
[6] L’etimologia del greco eidolon, derivata da eidos, è dalla radice weid che significa vedere (cfr Grande Lessico dell’Antico Testamento, Brescia 1967, vol. III, p. 127).


RADIOMESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PIO XII - Mercoledì, 24 dicembre 1941

RADIOMESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PIO XII 
Mercoledì, 24 dicembre 1941(1)

Nell'alba e nella luce che rifulge previa alla festa del Santo Natale, attesa sempre con vivo anelito di gioia soave e penetrante, mentre ogni fronte si prepara a curvarsi e ogni ginocchio a piegarsi in adorazione davanti all'ineffabile mistero della misericordiosa bontà di Dio, che nella sua carità infinita volle dare, quale dono più grande e augusto, all'umanità il suo Figliuolo Unigenito; il Nostro cuore, diletti figli e figlie, sparsi sulla faccia della terra, si dilata a voi, e, pur non obliando la terra, si eleva e si profonda nel cielo.
La stella, indicatrice della culla del neonato Redentore, da venti secoli ancora splende meravigliosa nel cielo della Cristianità. Si agitino pure le genti, e le nazioni congiurino contro Dio e contro il suo Messia (cf. Sal 2,1-2): attraverso le bufere del mondo umano la stella non conobbe, non conosce né conoscerà tramonti; il passato, il presente e l'avvenire sono suoi. Essa ammonisce a mai non disperare: splende sopra i popoli, quand'anche sulla terra, come su oceano mugghiante per tempesta, si addensino i cupi turbini, generatori di stragi e di miserie. La sua luce è luce di conforto, di speranza, di fede incrollabile, di vita e certezza nel trionfo finale del Redentore, che traboccherà, quale torrente di salvezza, nella pace interiore e nella gloria per tutti quelli che, elevati all'ordine soprannaturale della grazia, avranno ricevuto il potere di farsi figli di Dio, perché nati da Dio.
Onde Noi, che, in questi amari tempi di sconvolgimenti guerreschi, siamo straziati dei vostri strazi e doloranti dei vostri dolori, Noi che viviamo come voi sotto il gravissimo incubo di un flagello, dilaniante un terzo anno ancora l'umanità, nella vigilia di tanta solennità amiamo di rivolgervi con commosso cuore di padre la parola, per esortarvi a restar saldi nella fede, e per comunicarvi il conforto di quella verace, esuberante e trasumanante speranza e certezza, che si irradiano dalla culla del neonato Salvatore.
Per vero, diletti figli, se il nostro occhio non mirasse più su della materia e della carne, appena è che troverebbe qualche ragione di conforto. Diffondono, sì, le campane il lieto messaggio del Natale, si illuminano chiese e oratori, le armonie religiose rallegrano gli spiriti, tutto è festa e ornamento nei sacri templi; ma la umanità non cessa dal dilaniarsi in una guerra sterminatrice. Nei sacri riti echeggia sulle labbra della Chiesa la mirabile antifona: «Rex pacificus magnificatus est, cuius vultum desiderat universa terra»;(2) ma essa risuona in stridente contrasto con avvenimenti, che rombano per piani e per monti con fracasso pieno di spavento, devastano terre e case per estese regioni, e gettano milioni di uomini e le loro famiglie nell'infelicità, nella miseria e nella morte. Certo, ammirevoli sono i molteplici spettacoli di indomato valore nella difesa del diritto e del suolo natìo; di serenità nel dolore; di anime che vivono come fiamme di olocausto per il trionfo della verità e della giustizia. Ma pure con angoscia che Ci preme l'animo pensiamo e, come sognando, guardiamo ai terribili scontri di armi e di sangue di quest'anno che volge al tramonto; alla infelice sorte dei feriti e dei prigionieri; alle sofferenze corporali e spirituali, alle stragi, alle distruzioni e rovine che la guerra aerea porta e rovescia su grandi e popolose città, su centri e vasti territori industriali, alle dilapidate ricchezze degli Stati, ai milioni di gente, che l'immane conflitto e la dura violenza vengono gettando nella miseria e nell'inedia.
E mentre il vigore e la salute di larga parte di gioventù, che andava maturando, si vengono scuotendo per le privazioni imposte dal presente flagello, vanno per contro salendo ad altezze vertiginose le spese e i gravami di guerra, che, originando contrazione delle forze produttive nel campo civile e sociale, non possono non dar fondamento alle ansie di coloro che volgono l'occhio preoccupato verso l'avvenire. L'idea della forza soffoca e perverte la norma del diritto. Rendete possibile e offrite porta aperta a individui e gruppi sociali o politici di ledere i beni e la vita altrui; lasciate che anche tutte le altre distruzioni morali turbino e accendano l'atmosfera civile a tempesta; e voi vedrete le nozioni di bene e di male, di diritto e d'ingiustizia perdere i loro acuti contorni, smussarsi, confondersi e minacciare di scomparire. Chi in virtù del ministero pastorale ha la via di penetrare nei cuori, sa e vede qual cumulo di dolori e di ansietà inenarrabili s'aggravi e si amplifichi in molte anime, ne scemi la brama e la gioia di lavorare e di vivere; ne soffochi gli spiriti e li renda muti e indolenti, sospettosi e quasi senza speranza in faccia agli eventi e ai bisogni: turbamenti d'animo che nessuno può prendere alla leggiera, se tiene a cuore il vero bene dei popoli, e desidera promuovere un non lontano ritorno a condizioni normali e ordinate di vita e di azione. Davanti a tale visione del presente, nasce un'amarezza che invade il petto, tanto più in quanto non appare oggi aperto alcun sentiero d'intesa tra le parti belligeranti, i cui reciproci scopi e programmi di guerra sembrano essere in contrasto inconciliabile.
Quando si indagano le cause delle odierne rovine, davanti a cui l'umanità, che le considera, resta perplessa, si ode non di rado affermare che il cristianesimo è venuto meno alla sua missione. Da chi e donde viene siffatta accusa? Forse da quegli apostoli, gloria di Cristo, da quegli eroici zelatori della fede e della giustizia, da quei pastori e sacerdoti, araldi del cristianesimo, i quali attraverso persecuzioni e martirii ingentilirono la barbarie e la prostrarono devota all'altare di Cristo, iniziarono la civiltà cristiana, salvarono le reliquie della sapienza e dell'arte di Atene e di Roma, adunarono i popoli nel nome cristiano, diffusero il sapere e la virtù, elevarono la croce sopra i pinnacoli aerei e le volte delle cattedrali, immagini del cielo, monumenti di fede e di pietà, che ancora ergono il capo venerando fra le rovine dell'Europa? No: il Cristianesimo, la cui forza deriva da Colui che è via, verità e vita, e sta e starà con esso fino alla consumazione dei secoli, non è venuto meno alla sua missione; ma gli uomini si sono ribellati al Cristianesimo vero e fedele a Cristo e alla sua dottrina; si sono foggiati un cristianesimo a loro talento, un nuovo idolo che non salva, che non ripugna alle passioni della concupiscenza della carne, all'avidità dell'oro e dell'argento che affascina l'occhio, alla superbia della vita; una nuova religione senz'anima o un'anima senza religione, una maschera di morto cristianesimo, senza lo spirito di Cristo; e hanno proclamato che il Cristianesimo è venuto meno alla sua missione!
Scaviamo in fondo alla coscienza della società moderna, ricerchiamo la radice del male: dove essa alligna? Senza dubbio anche qui non vogliamo tacere la lode dovuta alla saggezza di quei Governanti, che o sempre favorirono o vollero e seppero rimettere in onore, con vantaggio del popolo, i valori della civiltà cristiana nei felici rapporti fra Chiesa e Stato, nella tutela della santità del matrimonio, nella educazione religiosa della gioventù. Ma non possiamo chiudere gli occhi alla triste visione del progressivo scristianamento individuale e sociale, che dalla rilassatezza del costume è trapassato all'indebolimento e all'aperta negazione di verità e di forze, destinate a illuminare gl'intelletti sul bene e sul male, a corroborare la vita familiare, la vita privata, la vita statale e pubblica. Un'anemia religiosa, quasi contagio che si diffonda, ha così colpito molti popoli di Europa e del mondo e fatto nell'anime un tal vuoto morale, che nessuna rigovernatura religiosa o mitologia nazionale e internazionale varrebbe a colmarlo. Con parole e con azioni e con provvedimenti, da decenni e secoli, che mai di meglio o di peggio si seppe fare se non strappare dai cuori degli uomini, dalla puerizia alla vecchiezza, la fede in Dio, Creatore e Padre di tutti, rimuneratore del bene e vindice del male, snaturando l'educazione e l'istruzione, combattendo e opprimendo con ogni arte e mezzo, con la diffusione della parola e della stampa, con l'abuso della scienza e del potere, la religione e la Chiesa di Cristo?
Travolto lo spirito nel baratro morale con lo straniarsi da Dio e dalla pratica cristiana, altro non rimaneva se non che pensieri, propositi, avviamenti, stima delle cose, azione e lavoro degli uomini si rivolgessero e mirassero al mondo materiale, affannandosi e sudando per dilatarsi nello spazio, per crescere più che mai oltre ogni limite nella conquista delle ricchezze e della potenza, per gareggiare di velocità nel produrre più e meglio ogni cosa che l'avanzamento o il progresso materiale pareva richiedere. Di qui, nella politica, il prevalere di un impulso sfrenato verso l'espansione e il mero credito politico incurante della morale; nell'economia il dominare delle grandi e gigantesche imprese e associazioni; nella vita sociale il riversarsi e pigiarsi delle schiere di popolo in gravosa sovrabbondanza nelle grandi città e nei centri d'industria e di commercio, con quella instabilità che consegue e accompagna una moltitudine di uomini, i quali mutano casa e residenza, paese e mestiere, passioni e amicizie. 
Ne nacque allora che i rapporti reciproci della vita sociale presero un carattere puramente fisico e meccanico. Con dispregio di ogni ragionevole ritegno e riguardo l'impero della costrizione esterna, il nudo possesso del potere si sovrappose alle norme dell'ordine, reggitore della convivenza umana, le quali, emanate da Dio, stabiliscono quali relazioni naturali e soprannaturali intercorrano fra il diritto e l'amore verso gl'individui e la società. La maestà e la dignità della persona umana e delle particolari società venne mortificata, avvilita e soppressa dall'idea della forza che crea il diritto; la proprietà privata divenne per gli uni un potere diretto verso lo sfruttamento dell'opera altrui, negli altri generò gelosia, insofferenza e odio; e l'organizzazione, che ne seguiva, si convertì in forte arma di lotta per far prevalere interessi di parte. In alcuni Paesi, una concezione dello Stato atea o anticristiana con i suoi vasti tentacoli avvinse a sé talmente l'individuo da quasi spogliarlo d'indipendenza, non meno nella vita privata che nella pubblica.
Chi potrà oggi meravigliarsi se tale radicale opposizione ai principi della cristiana dottrina venne infine a tramutarsi in ardente cozzo di tensioni interne ed esterne, così da condurre a sterminio di vite umane e distruzione di beni, quale lo lediamo e a cui assistiamo con profonda pena? Funesta conseguenza e frutto delle condizioni sociali ora descritte, la guerra, lungi dall'arrestarne l'influsso e lo svolgimento, lo promuove, lo accelera e amplia, con tanto maggior rovina, quanto più essa dura, rendendo la catastrofe ancor più generale.
Dalla Nostra parola contro il materialismo dell'ultimo secolo e del tempo presente male argomenterebbe chi ne deducesse una condanna del progresso tecnico. No; Noi non condanniamo ciò che è dono di Dio, il quale, come ci fa sorgere il pane dalle zolle della terra, nelle viscere più profonde del suolo nei giorni della creazione del mondo nascose tesori di fuoco, di metalli, di pietre preziose da scavarsi dalla mano dell'uomo per i suoi bisogni, per le sue opere, per il suo progresso. La Chiesa, madre di tante Università d'Europa, che ancora esalta e aduna i più arditi maestri delle scienze, scrutatori della natura, non ignora però che di ogni bene e della stessa libertà del volere si può far un uso degno di lode e di premio ovvero di biasimo e di condanna. Così è avvenuto che lo spirito e la tendenza, con cui fu spesso usato il progresso tecnico, fanno sì che, all'ora che volge, la tecnica debba espiare il suo errore ed esser quasi punitrice di se stessa, creando strumenti di rovina, che distruggono oggi ciò che ieri essa ha edificato.
Di fronte alla vastità del disastro, originato dagli errori indicati, non si offre altro rimedio, se non il ritorno agli altari, a' pie' dei quali innumerevoli generazioni di credenti attingevano già la benedizione e l'energia morale per il compimento dei propri doveri; alla fede, che illuminava individui e società e insegnava i diritti e i doveri spettanti a ciascuno; alle sagge e incrollabili norme di un ordine sociale, le quali nel terreno nazionale, come in quello internazionale, ergono un'efficace barriera contro l'abuso della libertà, non altrimenti che contro l'abuso del potere. Ma il richiamo a queste benefiche sorgenti ha da risonare alto, persistente, universale, nell'ora in cui il vecchio ordinamento sarà per scomparire e cedere il passo e il posto a un nuovo.
La futura ricostruzione potrà presentare e dare preziosa facoltà di promuovere il bene, non scevra anche di pericoli di cadere in errori, e con gli errori favorire il male; ed esigerà serietà prudenti e matura riflessione, non solo per la gigantesca arduità dell'opera, ma ancora per le gravi conseguenze che, qualora fallisse, cagionerebbe nel campo materiale e spirituale; esigerà intelletti di larghe vedute e volontà di fermi propositi, uomini coraggiosi e operosi, ma, sopra tutto e avanti tutto, coscienze, le quali nei disegni, nelle deliberazioni e nelle azioni siano animate e mosse e sostenute da un vivo senso di responsabilità, e non rifuggano dall'inchinarsi davanti alle sante leggi di Dio; perché, se con la vigoria plasmatrice nell'ordine materiale non si accoppierà somma ponderatezza e sincero proposito nell'ordine morale, si verificherà senza dubbio la sentenza di S. Agostino: «Bene currunt, sed in via non currunt. Quanto plus currunt, plus errant, quia a via recedunt».(3)
Né sarebbe la prima volta che uomini, i quali stanno nell'aspettazione di cingersi del lauro di vittorie guerresche, sognassero di dare al mondo un nuovo ordinamento, additando nuove vie, a loro parere, conducenti al benessere, alla prosperità e al progresso. Ma ogni qualvolta cedettero alla tentazione d'imporre la loro costruzione contro il dettame della ragione, della moderazione, della giustizia e della nobile umanità, si trovarono caduti e stupiti a contemplare i ruderi di speranze deluse e di progetti abortiti. Onde la storia insegna che i trattati di pace, stipulati con spirito e condizioni contrastanti sia con i dettami morali sia con una genuina saggezza politica, mai non ebbero vita, se non grama e breve, mettendo così a nudo e testimoniando un errore di calcolo, umano senza dubbio, ma non per questo meno esiziale. 
Ora le rovine di questa guerra sono troppo ingenti, da non dovervisi aggiungere anche quelle di una pace frustrata e delusa; e perciò ad evitare tanta sciagura, conviene che con sincerità di volere e di energia, con proposito di generoso contributo, vi cooperino, non solo questo o quel partito, non solo questo o quel popolo, ma tutti i popoli, anzi l'intera umanità. È un'intrapresa universale di bene comune, che richiede la collaborazione della Cristianità, per gli aspetti religiosi e morali del nuovo edificio che si vuol costruire.
Facciamo quindi uso di un Nostro diritto o, meglio, adempiamo un Nostro dovere, se oggi, alla vigilia del Santo Natale, divina aurora di speranza e di pace per il mondo, con l'autorità del Nostro ministero apostolico e il caldo incitamento del Nostro cuore, richiamiamo l'attenzione e la meditazione dell'universo intero sui pericoli che insidiano e minacciano una pace, la quale sia acconcia base di un vero nuovo ordinamento e risponda all'aspettazione e ai voti dei popoli per un più tranquillo avvenire.
Tale nuovo ordinamento, che tutti i popoli anelano di veder attuato, dopo le prove e le rovine di questa guerra, ha da essere innalzato sulla rupe incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata dal Creatore stesso per mezzo dell'ordine naturale e da Lui scolpita nei cuori degli uomini con caratteri incancellabili; legge morale, la cui osservanza deve venir inculcata e promossa dall'opinione pubblica di tutte le Nazioni e di tutti gli Stati con tale unanimità di voce e di forza, che nessuno possa osare di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante.
Quale faro splendente, essa deve coi raggi dei suoi principi dirigere il corso dell'operosità degli uomini e degli Stati, i quali avranno da seguirne le ammonitrici, salutari e proficue segnalazioni, se non vorranno condannare alla bufera e al naufragio ogni lavoro e sforzo per stabilire un nuovo ordinamento. Riassumendo pertanto e integrando quel che in altre occasioni fu da Noi esposto, insistiamo anche ora su alcuni presupposti essenziali di un ordine internazionale, che, assicurando a tutti i popoli una pace giusta e duratura, sia feconda di benessere e di prosperità.
1. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto per la lesione della libertà, dell'integrità e della sicurezza di altre Nazioni, qualunque sia la loro estensione territoriale o la loro capacità di difesa. Se è inevitabile che i grandi Stati, per le loro maggiori possibilità e la loro potenza, traccino il cammino per la costituzione di gruppi economici fra essi e le azioni più piccole e deboli; è nondimeno incontestabile - come per tutti, nell'ambito dell'interesse generale - il diritto di queste al rispetto della loro libertà nel campo politico, alla efficace custodia di quella neutralità nelle contese fra gli Stati, che loro spetta secondo il gius naturale e delle genti, alla tutela del loro sviluppo economico, giacchè soltanto in tal guisa potranno conseguire adeguatamente il bene comune, il benessere materiale e spirituale del proprio popolo.
2. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto per la oppressione aperta o subdola delle peculiarità culturali e linguistiche delle minoranze nazionali, per l'impedimento e la contrazione delle loro capacità economiche, per la limitazione o l'abolizione della loro naturale fecondità. Quanto più coscienziosamente la competente autorità dello Stato rispetta i diritti delle minoranze, tanto più sicuramente ed efficacemente può esigere dai loro membri il leale compimento dei doveri civili, comuni agli altri cittadini.
3. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto per i ristretti calcoli egoistici, tendenti ad accaparrarsi le fonti economiche e le materie di uso comune, in maniera che le Nazioni, meno favorite dalla natura, ne restino escluse. Al qual riguardo Ci è di somma consolazione il vedere affermarsi la necessità di una partecipazione di tutti ai beni della terra anche presso quelle Nazioni, che nell'attuazione di questo principio apparterrebbero alla categoria di coloro «che danno» e non di quelli «che ricevono». Ma è conforme a equità che una soluzione di tale questione, decisiva per l'economia del mondo, avvenga metodicamente e progressivamente con le necessarie garanzie, e tragga ammaestramento dalle mancanze e dalle omissioni del passato. Se nella futura pace non si venisse ad affrontare coraggiosamente questo punto, rimarrebbe nelle relazioni tra i popoli una profonda e vasta radice germogliante amari contrasti ed esasperate gelosie, che finirebbero col condurre a nuovi conflitti. Decorre però osservare come la soddisfacente soluzione di questo problema strettamente vada connessa con un altro cardine fondamentale di un nuovo ordinamento, del quale parliamo nel punto seguente.
4. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto - una volta eliminati i più pericolosi focolai di conflitti armati - per una guerra totale né per una sfrenata corsa agli armamenti. Non si deve permettere che la sciagura di una guerra mondiale con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni e perturbazioni morali si rovesci per la terza volta sopra la umanità. La quale perché venga tutelata lungi da tale flagello, è necessario che con serietà e onestà si proceda a una limitazione progressiva e adeguata degli armamenti. Lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli crea un pericolo per la conservazione della tranquillità e della pace dei popoli, e consiglia di scendere a un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive.
Conforme poi alla misura, in cui il disarmo venga attuato, sono da stabilirsi mezzi appropriati, onorevoli per tutti ed efficaci, per ridonare alla norma Pacta sunt servanda, «i patti devono essere osservati», la funzione vitale e morale, che le spetta nelle relazioni giuridiche fra gli Stati. Tale norma, che nel passato ha subìto crisi preoccupanti e innegabili infrazioni, ha trovato contro di sé una quasi insanabile sfiducia tra i vari popoli e i rispettivi reggitori. Perché la fiducia reciproca rinasca devono sorgere istituzioni, le quali, acquistandosi il generale rispetto, si dedichino al nobilissimo ufficio, sia di garantire il sincero adempimento dei trattati, sia di promuoverne, secondo i principi di diritto e di equità, opportune correzioni o revisioni.
Non Ci nascondiamo il cumulo di difficoltà da superarsi, e la quasi sovrumana forza di buona volontà richiesta a tutte le parti, perché convengano a dare felice soluzione alla doppia impresa qui tracciata. Ma questo lavoro comune è talmente essenziale per una pace duratura, che nulla deve rattenere gli uomini di Stato responsabili dall'intraprenderlo e cooperarvi con le forze di un buon volere, il quale, guardando al bene futuro, vinca i dolorosi ricordi di tentativi non riusciti nel passato, e non si lasci atterrire dalla conoscenza del gigantesco vigore, che si domanda per tale opera.
5. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto per la persecuzione della religione e della Chiesa. Da una fede viva in un Dio personale trascendente si sprigiona una schietta e resistente vigoria morale che informa tutto il corso della vita; perché la fede non è solo una virtù ma la porta divina per la quale entrano nel tempio dell'anima tutte le virtù, e si costituisce quel carattere forte e tenace che non vacilla nei cimenti della ragione e della giustizia. Ciò vale sempre; ma molto più ha da splendere quando così dall'uomo di Stato, come dall'ultimo dei cittadini si esige il massimo di coraggio e di energia morale per ricostruire una nuova Europa e un nuovo mondo sulle rovine, che il conflitto mondiale con la sua violenza, con l'odio e la scissione degli animi ha accumulate. Quanto alla questione sociale in particolare, che al finir della guerra si presenterà più acuta, i Nostri Predecessori e anche Noi stessi abbiamo segnato norme di soluzione; le quali però convien considerare che potranno seguirsi nella loro interezza e dare pieno frutto solo se uomini di Stato e popoli, datori di lavoro e operai, siano animati dalla fede in un Dio personale, legislatore e vindice, a cui devono rispondere delle loro azioni. Perché, mentre l'incredulità, che si accampa contro Dio, ordinatore dell'universo, è la più pericolosa nemica di un giusto ordine nuovo, ogni uomo, invece, credente in Dio ne è un potente fautore e paladino. Chi ha fede in Cristo, nella sua divinità, nella sua legge, nella sua opera di amore e di fratellanza fra gli uomini, porterà elementi particolarmente preziosi alla ricostruzione sociale; a maggior ragione, più ve ne porteranno gli uomini di Stato, se si dimostreranno pronti ad aprire largamente le porte e spianare il cammino alla Chiesa di Cristo, affinché, libera e senza intralci, mettendo le sue soprannaturali energie a servigio dell'intesa tra i popoli e della pace, possa cooperare col suo zelo e col suo amore all'immenso lavoro di risanare le ferite della guerra.
Ci riesce perciò inspiegabile come in alcune regioni disposizioni molteplici attraversino la via al messaggio della fede cristiana, mentre concedono ampio e libero passo a una propaganda che la combatte. Sottraggono la gioventù alla benefica influenza della famiglia cristiana e la estraniano dalla Chiesa; la educano in uno spirito avverso a Cristo, instillandovi concezioni, massime e pratiche anticristiane; rendono ardua e turbata l'opera della Chiesa nella cura delle anime e nelle azioni di beneficenza; disconoscono e rigettano il suo morale influsso sull'individuo e la società: determinazioni tutte che lungi dall'essere state mitigate o abolite nel corso della guerra, sono andate sotto non pochi riguardi inasprendosi. Che tutto questo, e altro ancora, possa essere continuato tra le sofferenze dell'ora presente è un triste segno dello spirito con cui i nemici della Chiesa impongono ai fedeli, in mezzo a tutti gli altri non lievi sacrifici, anche il peso angoscioso di un'ansia d'amarezza, gravante sulle coscienze.
Noi amiamo, Ce n'è testimonio Dio, con uguale affetto tutti i popoli senza alcuna eccezione; e per evitare anche solo l'apparenza di essere mossi da spirito di parte, Ci siamo imposti finora il massimo riserbo; ma le disposizioni contro la Chiesa e gli scopi, che esse perseguano, sono tali da sentirci obbligati in nome della verità a pronunziare una parola, anche perché non ne nasca, per disavventura, smarrimento tra i fedeli.
Noi guardiamo oggi, diletti figli, all'Uomo-Dio, nato in una grotta per risollevare l'uomo a quella grandezza, dond'era caduto per sua colpa, per ricollocarlo sul trono di libertà, di giustizia e d'onore, che i secoli degli dei falsi gli avevano negato. Il fondamento di quel trono sarà il Calvario; il suo ornamento non sarà l'oro o l'argento, ma il sangue di Cristo, sangue divino che da venti secoli scorre sul mondo e imporpora le gote della sua Sposa, la Chiesa, e, purificando, consacrando, santificando, glorificando i suoi figli, diventa candore di cielo.
O Roma cristiana, quel sangue è la tua vita: per quel sangue tu sei grande e illumini della tua grandezza anche i ruderi e le rovine della tua grandezza pagana, e purifichi e consacri i codici della sapienza giuridica dei pretori e dei Cesari. Tu sei madre di una giustizia più alta e più umana, che onora te, il tuo seggio e chi ti ascolta. Tu sei faro di civiltà, e la civile Europa e il mondo ti devono quanto di più sacro e di più santo, quanto di più saggio e di più onesto esalta i popoli e fa bella la loro storia. Tu sei madre di carità: i tuoi fasti, i tuoi monumenti, i tuoi ospizi, i tuoi monasteri e i tuoi conventi, i tuoi eroi e le tue eroine, i tuoi araldi e i tuoi missionari, le tue età e i tuoi secoli con le loro scuole e le loro università testimoniano i trionfi della tua carità, che tutto abbraccia, tutto soffre, tutto spera, tutto opera per farsi tutto a tutti, tutti confortare e sollevare, tutti sanare e chiamare alla libertà donata all'uomo da Cristo, e tranquillare tutti in quella pace, che affratella i popoli, e di tutti gli uomini, sotto qualunque cielo, qualunque lingua o costume li distingua, fa una sola famiglia, e del mondo una patria comune.
Da questa Roma, centro, rocca e maestra del Cristianesimo, città più per Cristo che per i Cesari eterna nel tempo, Noi, mossi dal desiderio ardente e vivissimo del bene dei singoli popoli e dell'intera umanità, a tutti rivolgiamo la Nostra voce, pregando e scongiurando che non tardi il giorno che in tutti i luoghi, dove oggi l'ostilità contro Dio e Cristo trascina gli uomini alla rovina temporale ed eterna, prevalgano maggiori conoscenze religiose e nuovi propositi; il giorno, in cui sulla culla del nuovo ordinamento dei popoli risplenda la stella di Betlemme, annunziatrice di un nuovo spirito che muova a cantare con gli angeli: Gloria in excelsis Deo, e a proclamare, come dono alfine largito dal cielo, a tutte le genti: Pax hominibus bonae voluntatis. Spuntata l'aurora di quel giorno, con qual gaudio Nazioni e Reggitori, sgombro l'animo dai timori di insidie e di riprese di conflitti, trasformeranno le spade, laceratrici d'umani petti, in aratri, solcanti, al sole della benedizione divina, il fecondo seno della terra, per strapparle un pane, bagnato sì di sudore, ma non più di sangue e di lacrime!
In tale attesa e con questa anelante preghiera sulle labbra, mandiamo il Nostro saluto e la benedizione Nostra a tutti i Nostri figli dell'universo intero. Scenda la Nostra benedizione più larga su quelli - sacerdoti, religiosi e laici - che soffrono pene e angustie per la loro fede: scenda anche su quelli che, pur non appartenendo al corpo visibile della Chiesa cattolica, sono a Noi vicini per la fede in Dio e in Gesù Cristo, e con Noi concordano sopra l'ordinamento e gli scopi fondamentali della pace; scenda con particolare palpito d'affezione su quanti gemono nella tristezza, nella dura ambascia dei travagli di quest'ora. Sia scudo a quanti militano sotto le armi; farmaco ai malati e ai feriti; conforto ai prigionieri, agli espulsi dalla terra natìa, ai lontani dal domestico focolare, ai deportati in terre straniere, ai milioni di miseri che lottano a ogni ora contro gli spaventosi morsi della fame. Sia balsamo a ogni dolore e sventura; sia sostegno e consolazione a tutti i miseri e bisognosi i quali aspettano una parola amica, che versi nei loro cuori forza, coraggio, dolcezza di compassione e di aiuto fraterno. Riposi infine la Nostra benedizione su quelle anime e quelle mani pietose, che con inesauribile generoso sacrificio Ci hanno dato di che potere, sopra le strettezze dei Nostri mezzi, asciugare le lacrime, lenire la povertà di molti, specialmente dei più poveri e derelitti tra le vittime della guerra, facendo in tal modo sperimentare come la bontà e benignità di Dio, la cui somma e ineffabile rivelazione è il Bambino del presepe che della sua povertà volle farci ricchi, mai non cessano, per volger di tempi e sciagure, di esser vive e operanti nella Chiesa.
A tutti impartiamo con profondo amore paterno dalla pienezza del Nostro cuore la Benedizione Apostolica.

(1) PIO PP. XII, Radiomessaggio Nell'alba e nella luce nella vigilia del Natale 1941, [A tutti i popoli del mondo], 24 dicembre 1941: AAS 34(1942), pp, 10-21.
Superare le degenerazioni e le involuzioni della nostra civiltà riscoprendo i valori evangelici su cui fondare un nuovo ordine mondiale.
(2) In Nativitate Domini, in I Vesp., antiph. 1.

(3) Sermo 141, c. 4: PL 83, 777.