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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

domenica 30 settembre 2018

L’etica nella ricchezza


L’etica nella ricchezza

  L’idea di ricchezza è relativa. Ricchi, rispetto a chi?
  Nelle società umane c’è sempre qualcuno che è più ricco. Rispetto ai più ricchi ci si può immaginare come poveri. Ma c’è chi ha meno. E anche molto meno. Però c’è difficoltà a riconoscersi ricchi rispetto a chi ha meno. Al più si riconosce di stare bene. Non si vorrebbe porre un limite etico alla possibilità di arricchirsi, riconoscendosi già ricchi. E anche il presupposto, in quanto ricchi confessi, di doveri etici di soccorrere chi ha meno. Questa etica che ci è un po’ d’impaccio ha specifica base nella nostra fede, nella dottrina sociale diffusa fin dalle origini. La troviamo espressa in diverse narrazioni evangeliche. Rientra, quindi, nei fondamenti.
  Anche in economia e in sociologia si affronta il tema della povertà. Ci si occupa di chi sta peggio. Se la povertà è molto diffusa diventa un problema sociale e politico. A seconda dei vari sistemi politici, un certo livello di povertà viene considerato fisiologico. Ma, oltre un certo limite, la gente comincia ad agitarsi e cerca di fare pressione su chi tiene i cordoni della borsa. Inoltre, essere ricchi in mezzo a tanta gente che sta male è meno piacevole. Il benessere e la felicità sono in larga parte  prodotti sociali, nel senso che non basta possedere, ma occorre avere un certo tipo di relazioni con gli altri. Dunque, se ci sono troppi poveri in giro, anche i ricchi finiscono per essere meno felici. La ricchezza isola: si ha il timore di perderla e, innanzi tutto, che gli altri si avvicinino solo per sottrarne un po’ con la scusa dell’amicizia. Anche la povertà estrema, come la malattia grave, isola: i problemi sono troppo seri e incidono sulla possibilità di trovare amici.  Chi si trova ai livelli intermedi trova piacere nel dare e ottenere solidarietà: insieme ci si fa forza e l’amicizia dà quel calore umano che dà senso alla vita. Per quanto si abbia meno di altri, c’è qualcosa da condividere. Ci si mette intorno ad una tavola, in un lieto convito, e si divide ciò che si ha. Questa immagine è al centro della nostra fede. La nostra Messa è la rappresentazione di una cena.
    Anche l’idea di povertà è relativa. La considerano tale anche gli economisti. In una società povera, come ancora ve ne sono nel mondo, basta poco per essere considerati persone che  stanno bene. Nelle società europee, che sono ricche, ci si serve, per definirla, dell’idea di benessere, prendendo come riferimento un certo tenore di vita, che varia di area in area, che lo consente. Si considera però che c’è un certo livello di reddito al di sotto del quale non si riesce ad avere accesso a beni essenziali: non è più solo questione di benessere,  non si riesce più, ad esempio, ad alimentarsi in maniera sufficiente o a curarsi per malattie banali. A quel punto non resta che tendere la mano e aspettare che qualcun altro la riempia di qualcosa. Si parla allora di povertà estrema o addirittura assoluta. Le cause della povertà estrema? Dipende innanzi tutto da dove si nasce. C’è quello che gli economisti indicano come rendita da cittadinanza. Se si nasce in certi posti dell’Africa si parte male. La guerra è tra le prime cause di povertà. Poi ci sono le malattie e la vecchiaia, e spesso i vecchi sono anche molto  malati. Per la gente valida al lavoro che vive  in posti non travagliati dalla guerra, la prima causa della povertà è il sistema economico, che crea scarti e non fa parti giuste. La gente che arriva sulle nostra coste provenendo dalla vicina Africa, traversando il mare su precarie imbarcazioni, è, di solito, in condizioni di povertà estrema. I 150.000 che ogni anni migrano dall’Italia verso l’estero, in gran parte verso stati dell’Unione Europea, sono spesso in condizioni di povertà relativa. La migrazione  è una strategia che viene naturale a chi sta peggio, perché combattere le cause sociali (guerre, caratteristiche del sistema economico) o naturali (malattia, vecchiaia, cataclismi naturali) è molto difficile e richiederebbe, innanzi tutto, di associarsi e lottare (rischiando in questo la vita e il poco altro che si ha); si cerca allora di trasferirsi verso i posti più ricchi, in modo da condividere quella  rendita di cittadinanza.  I nostri avi partirono tutti dall’Africa centro-orientale: ce lo confermano le indagini genetiche. La vita delle comunità umane, fin dai tempi preistorici, è un’infinita serie di migrazioni. Al punto che oggi nessuno può dirsi veramente autoctono, come se fosse spuntato dalla terra dove abita.
  Il Maestro, nella sua vita da uomo tra noi, iniziò il suo ministero…tra i malati? Tra i poveri? No. Provvedendo il vino ad un pranzo di nozze. La dimensione conviviale è stata, così, sempre molto importante nella nostra prospettiva di fede. Poi si occupò di soccorrere i malati e, addirittura, i morti. La comunità che si era radunata intorno a lui sembra che si occupasse anche dei poveri. Ce n’è traccia nell’episodio evangelico nel quale una donna impiegò un unguento prezioso per il Maestro. E’ scritto (Marco 14,4-5) che ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: «Perché tutto questo spreco di olio profumato?. Si poteva benissimo vendere quest'olio a più di trecento denari e darli ai poveri!». Il Maestro diede inoltre quest’insegnamento ad un tale che voleva fare di più della semplice osservanza della legge: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».  Se ne faceva, sostanzialmente, una questione etica per chi in società stava meglio. L’ingiustizia veniva considerata cattiva, ma, a parte la direttiva di essere misericordiosi, non troviamo indicazioni di riforma sociale o, addirittura, di azioni sociali da parte di chi in società stava peggio. Si era in un sistema politico, quello dominato dagli antichi romani, in cui fatti del genere erano accaduti. Proprio qui nella nostra zona, a Montesacro, si era avuta una rivolta plebea, di chi in società stava peggio. Le indicazioni religiose per un governo giusto le traiamo in gran parte dal Primo Testamento, quello che narra della antichità ebraiche. Del resto il Maestro non volle mai rinnegarlo. Eppure a una cosa del genere si è ripetutamente pensato nella nostra storia religiosa: di limitarsi al Vangelo, sconfessando l’antico ebraismo. Una posizione duramente condannata dal Magistero. Troviamo un biasimo del genere nell’enciclica Con viva ansia  del papa Achille Ratti -  Pio 11° - (1937), sull’azione politica del nazionalsocialismo tedesco: «Solo cecità e caparbietà possono far chiudere gli occhi davanti ai tesori di salutari insegnamenti, nascosti nell’Antico Testamento. Chi quindi vuole banditi dalla Chiesa e dalla scuola la storia biblica e i saggi insegnamenti dell’Antico Testamento, bestemmia la parola di Dio, bestemmia il piano della salute dell’Onnipotente ed erige a giudice dei piani divini un angusto e ristretto pensar umano. Egli rinnega la fede in Gesù Cristo, apparso nella realtà della sua carne, il quale prese natura umana da un popolo, che doveva poi configgerlo in croce. Non comprende nulla del dramma mondiale del Figlio di Dio, il quale oppose al misfatto dei suoi crocifissori, qual sommo sacerdote, l’azione divina della morte redentrice, e fece così trovare all’Antico Testamento il suo compimento, la sua fine e la sua sublimazione nel Nuovo Testamento.».
  Il problema della povertà è, dunque, anche religioso. Storicamente lo si è affrontato, in genere, rassegnandosi all’esistenza della povertà, e per la verità anche dell’estrema ricchezza, che a lungo è stata quella dei prìncipi sovrani. Le istituzioni religiose, memori dell’insegnamento del Maestro, hanno  in genere organizzato attività per soccorrere i poveri e i malati. Ma la critica sociale non fu, in genere, apprezzata dai più ricchi. Un esempio di critica sociale è la figura di Francesco d’Assisi, che l’espresse con gesti clamorosi, ottenendo la simpatia di potenti prìncipi religiosi del suo tempo, che gliela conservarono a condizione che si manifestasse loro sottomesso. Certe cose, in definitiva, finirono per diventare da frati. E questo anche se importanti azioni caritative vennero promosse da laici. Mancava però la convinzione che fosse doveroso rimediare alle cause sociali  della povertà. Si raccomandava di lenirla. Ci si convinse di dover fare più di questo dalla metà del secolo scorso, al termine di uno sviluppo ideale iniziato a metà dell’Ottocento, nella stessa linea di pensiero che si proponeva di indagare come prevenire future guerre totali. Si passò dal considerare la povertà e le guerre come fenomeni naturali, contro cui c’era poco da fare, a prodotti di cause sociali, quindi riformabili. Si cominciò a considerare come possibile, mediante riforme sociali, l’abolizione  della povertà, così come delle guerre totali ,andando oltre il semplice lenirla con azioni caritative. Nella nostra confessione, la riflessione fu molto approfondita durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965):
«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre « ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc 4,18), « a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10)», così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. 
[Dalla Costituzione dogmatica Luce per le genti n.8]
   L’arrivo di tanta gente in condizione di povertà estrema ai tempi nostri ci preoccupa. Il sistema economico non sembra in grado di prendersi cura di tutti quelli che sono così, e c’è una certa insofferenza anche per quelli che stanno un po’ meglio, ma che mancano di molto di ciò che dà una condizione minima di benessere. Si vorrebbe imitare lo stile di vita dei più ricchi, o comunque trovarsi con quelli che hanno qualcosa da condividere.Si guarda a quelli e si finisce per acquisire una mentalità da ricchi, anche se si è solo gente che sta bene. Si teme che, dovendo dividere con altri la misericordia sociale, non ce ne sarà più abbastanza, all'occorrenza, per noi che c’eravamo prima (l’unico vero titolo preferenziale che rivendichiamo).  I più ricchi ci ammoniscono: se tocchiamo il sistema economico, verremo a rimetterci anche noi, perdendo quello che ancora abbiamo. Se ci manteniamo disciplinati al nostro posto, facendo quello che si vuole da noi, qualcosa arriverà anche a noi. Così siamo scoraggiati dal prendere parte a un’azione di riforma sociale. Ci spingono, invece, a scagliarci contro i nuovi arrivati, presentati come concorrenti. Si scopre però che, anche solo per cercare di sovvenire alle esigenze di  chi tra noi sta peggio, non potendo riformare il sistema economico, occorre fare debiti, cercando soldi a caro prezzo proprio con gli strumenti del sistema economico che sta respingendo molti ed è insofferente di chi è stato scartato, in sostanza peggiorando la situazione. O si deve cercare di  tagliare altre prestazioni sociali. La coperta della previdenza sociale sembra troppo corta per coprire tutte le esigenze. Guerre tra chi in società sta peggio! Non c’è più quella che negli scorsi anni Settanta veniva definita politica dei redditi, e che si attuava, secondo quanto espressamente previsto dalla nostra Costituzione, aumentando nella misura del necessario l’imposizione fiscale sulle  le quote di maggiore ricchezza sociale, di chi era stato maggiormente favorito da quella  rendita di cittadinanza  di cui dicevo, che è un prodotto sociale, ad esempio dei livelli di istruzione e salute assicurati mediante servizi pubblici, pagati da tutti. Anzi: si vuole ridurre  le tasse  a chi in società ha più beneficiato dell’aumento dei guadagni garantito dal sistema economico anche nelle fasi recessive, dalle quali il capitale, la ricchezza investita in attività produttive, può rapidamente sganciarsi, lasciando lavoratori disoccupati e macerie di aziende. Questo è un problema politico. Ma come la mettiamo con quello religioso?
  Come la mettiamo, in coscienza,  con la mentalità da ricchi impenitenti che abbiamo acquisito anche se ricchi non siamo? Con la difficoltà a condividere? Si  è divenuti insofferenti alla stessa dottrina sociale. Il Papa, in fondo, è uno di quei grilli parlanti  che vorremmo appiccicare al muro. Ci piacerebbe che insegnasse come qualche altro di prima, che immaginiamo più accondiscendente verso chi sta meglio. Ma quando mai i Papi hanno insegnato qualcosa di diverso da ora in materia di ricchi e di poveri? Il Papa scrive, ma non sempre abbiamo tempo e voglia di leggere e, poi, preferiamo fare di testa nostra, pensando di sapere come va il mondo e che vada bene come va, visto che non ci va tanto male.  Eppure, mai come ora, la dottrina sociale ci sta spiegando come vanno veramente le cose, le vere cause sociali dei mali sociali che ci affliggono. E’ perché si avvale anche di scienziati sociali di valore.
 Non risuonano più, nella nostra coscienza, certi tremendi moniti:
«Ma guai a coloro che in questo tremendo momento non assurgono alla piena coscienza della loro responsabilità per la sorte dei popoli, che alimentano odi e conflitti fra le genti, che edificano la loro potenza sulla ingiustizia, che opprimono e straziano gl'inermi e gl'innocenti (cfr. Ier. 22, 13); ecco che l'ira di Dio verrà sopra di loro sino alla fine (cfr. I Thess. 2, 16)!»
[dal Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1943, nel 4° anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale]
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli




sabato 29 settembre 2018

Dottrina sociale 1937-1945 in materia di organizzazione sociale e politica. Discorsi e radiomessaggi del papa Eugenio Pacelli - Pio 12° - tra il 1939 e il 1945, contenenti dottrina sociale in materia di organizzazione sociale e politica. L’enciclica Con viva Ansia del papa Achille Ratti - Pio 11° - (1937), sull’azione politica del nazionalsocialismo tedesco.



Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna. Secondo questo criterio va giudicato il principio: « Diritto è ciò che è utile alla nazione ». Certo a questo principio può darsi un senso giusto, se si intende che ciò che è moralmente illecito non può essere mai veramente vantaggioso al popolo. Persino l’antico paganesimo ha riconosciuto che, per essere giusta, questa frase dovrebbe essere capovolta e suonare: «Non vi è mai alcunché di vantaggioso, se in pari tempo non è moralmente buono, e non perché è vantaggioso è moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche vantaggioso ». Questo principio, staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra tra le nazioni; nella vita nazionale poi misconosce, nel confondere interesse e diritto, il fatto fondamentale che l’uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato della comunità, che avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l’esercizio. Disprezzando questa verità, si perde di vista che il vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto mediante la natura dell’uomo con il suo armonico equilibrio fra diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della società determinato dalla stessa natura umana. 
[dalla   Lettera enciclica  Mit brennender sorge  -   Con viva ansia, diffusa il 14 marzo 1937 dal papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°]

Ma guai a coloro che in questo tremendo momento non assurgono alla piena coscienza della loro responsabilità per la sorte dei popoli, che alimentano odi e conflitti fra le genti, che edificano la loro potenza sulla ingiustizia, che opprimono e straziano gl'inermi e gl'innocenti (cfr. Ier. 22, 13); ecco che l'ira di Dio verrà sopra di loro sino alla fine (cfr. I Thess. 2, 16)!
[dal Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1943, nel 4° anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale]



Discorsi e radiomessaggi del papa Eugenio Pacelli - Pio 12° - tra il 1939 e il 1945, contenenti dottrina sociale in materia di organizzazione sociale e politica. L’enciclica Con viva Ansia  del papa Achille Ratti -  Pio 11° - (1937), sull’azione politica del nazionalsocialismo tedesco.
[dal sito WEB http://w2.vatican.va/content/vatican/it.html della Santa Sede]

 Torna attuale di questi tempi la dottrina sociale in materia di organizzazione sociale e politica diffusa dai papi Achille Ratti - Pio 11° - ed Eugenio Pacelli - Pio 12°- tra il 1937 e il 1945. La ripropongo, traendola dal sito WEB http://w2.vatican.va/content/vatican/it.html della Santa Sede, ripromettendomi di commentarla, anche traendo spunti da letture che vado facendo in questi giorni.
  I documenti compongono un libretto di 95 pagine che potrebbe utilmente essere adottato come libro di testo per un gruppo parrocchiale di approfondimento della dottrina sociale composto di persone che abbiano concluso almeno il ciclo di studi della scuola media superiore. Per intenderli occorre avere sotto mano il libro di storia dell’ultimo anno delle superiori.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

Indice
1937
14 marzo 1937 -  Lettera enciclica  Mit brennender sorge  -   Con viva ansia del papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°;
1939
24 agosto 1939 - Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°,  rivolto ai governanti ed ai popoli
nell'imminente pericolo della guerra;
24 dicembre 1939 - Discorso del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come  Pio 12°, al Sacro collegio e alla Prelatura Romana in occasione della Vigilia del Natale 1939
1941
1 giugno 1941 -Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, in occasione della Pentecoste del 1941, nel 50° anniversario dell’enciclica «Rerum novarum» (1891), diffuso nella solennità di Pentecoste;
24 dicembre 1941 - Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio XII nella Vigilia del natale 1941;
1942
24 dicembre 1942 Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, in occasione della Vigilia del Natale 1942;
1943
1943
1 settembre 1943  Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, nel 4° anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale;
24 dicembre 1943
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo intero in occasione della Vigilia del Natale 1943;
1944
1 settembre 1944 - Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1944 nel 5° anniversario dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale;
24 dicembre 1944 - Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo interno in occasione della Viglia del Natale 1944;
1945
9 maggio 1945
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Ecco alfine terminata», in occasione della fine in Europa della Seconda guerra mondiale;
2 giugno 1945 - Discorso del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Nell’accogliere», ai Cardinali che gli avevano presentato gli auguri per la festa di Sant’Eugenio;
24 dicembre 1945
Discorso del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Negli ultimi sei anni», diffuso in occasione della Vigilia del Natale 1945.

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1937

14 marzo 2017
Lettera enciclica  Mit brennender sorge  -   Con viva ansia
del papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°

Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e agli altri Ordinari di Germania aventi pace e comunione con la Sede Apostolica.
Il Papa Pio XI. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Con viva ansia e con stupore sempre crescente veniamo osservando da lungo tempo la via dolorosa della Chiesa e il progressivo acuirsi dell’oppressione dei fedeli ad essa rimasti devoti nello spirito e nell’opera; e tutto ciò in quella terra e in mezzo a quel popolo, a cui S. Bonifacio portò un giorno il luminoso e lieto messaggio di Cristo e del Regno di Dio.
Tale Nostra ansia non è stata alleviata dalle relazioni che i Reverendissimi Rappresentanti dell’Episcopato, conforme al loro dovere, Ci fecero secondo verità, visitandoCi durante la Nostra infermità. Accanto a molte notizie, che Ci furono di consolazione e conforto, sulla lotta sostenuta dai loro fedeli a causa della religione, non poterono, nonostante l’amore al loro popolo e alla loro patria e la cura di esprimere un giudizio ben ponderato, passare sotto silenzio innumerevoli altri avvenimenti tristi e riprovevoli. Quando Noi udimmo le loro relazioni, con profonda gratitudine verso Dio potemmo esclamare con l’Apostolo dell’amore: «Non ho gioia più grande di quando sento che i miei figli camminano nella verità »(1). Ma la franchezza che si addice alla grave responsabilità delNostro ministero Apostolico, e la decisione di presentare davanti a voi e all’intero mondo cristiano la realtà in tutta la sua crudezza esigono anche che aggiungiamo: Non abbiamo maggiore ansia né più crudele afflizione pastorale di quando sentiamo che molti abbandonano il cammino della verità(2).
1. IL CONCORDATO
Quando Noi, Venerabili Fratelli, nell’estate del 1933, a richiesta del governo del Reich, accettammo di riprendere le trattative per un Concordato, in base ad un progetto elaborato già vari anni prima, e addivenimmo così ad un solenne accordo, che riuscì di soddisfazione a voi tutti, fummo mossi dalla doverosa sollecitudine di tutelare la libertà della missione salvifica della Chiesa in Germania e di assicurare la salute delle anime ad essa affidate, e in pari tempo dal sincero desiderio di rendere un servizio d’interesse capitale al pacifico sviluppo e al benessere del popolo tedesco.
Nonostante molte e gravi preoccupazioni, pervenimmo allora, non senza sforzo, alla determinazione di non negare il Nostro consenso. Volevamo risparmiare ai Nostri fedeli, ai Nostri figli e alle Nostre figlie della Germania, secondo le umane possibilità, le tensioni e le tribolazioni che, in caso contrario, si sarebbero dovute con certezza aspettare, date le condizioni dei tempi. E volevamo dimostrare col fatto, a tutti, che Noi, cercando solo Cristo e ciò che appartiene a Cristo, non rifiutiamo ad alcuno, se egli stesso non la respinga, la mano pacifica della Madre Chiesa.
Se l’albero di pace, da Noi piantato in terra tedesca con puro intento, non ha prodotto i frutti, da Noi bramati nell’interesse del vostro popolo, non ci sarà alcuno al mondo intero, che abbia occhi per vedere e orecchi per sentire, il quale potrà dire ancor oggi la colpa essere della Chiesa e del suo Capo Supremo. L’esperienza degli anni trascorsi mette in luce le responsabilità, e svela macchinazioni, che già dal principio non si proposero altro scopo se non una lotta fino all’annientamento. Nei solchi, in cui Ci eravamo sforzati di gettare la semenza della vera pace, altri sparsero — come l’inimicus homo della Sacra Scrittura(3) — la zizzania della sfiducia, della discordia, dell’odio, della diffamazione, di un’avversione profonda, occulta e palese, contro Cristo e la sua Chiesa, scatenando una lotta che si alimentò in mille fonti diverse, e si servì di tutti i mezzi. Su di essi e solamente su di essi, e sui loro protettori, occulti o palesi, ricade la responsabilità se all’orizzonte della Germania apparisce, non l’arcobaleno della pace, ma il nembo minaccioso delle dissolvitrici lotte religiose.
Venerabili Fratelli, Noi non Ci siamo stancati di far presente ai reggitori, responsabili delle sorti della vostra nazione, le conseguenze che sarebbero necessariamente derivate dalla tolleranza, o peggio ancora dal favoreggiamento di quelle correnti. Abbiamo fatto di tutto per difendere la santità della parola solennemente data, la inviolabilità degli obblighi volontariamente contratti, contro teorie e pratiche, le quali, se ufficialmente ammesse, avrebbero dovuto spegnere ogni fiducia e svalutare intrinsecamente ogni parola data, anche per l’avvenire. Se verrà il momento di esporre agli occhi del mondo questi Nostri sforzi, tutti i ben pensanti sapranno dove sono da cercare i tutori della pace e dove i suoi perturbatori. Chiunque abbia conservato nel suo animo un residuo di amore per la verità, e nel suo cuore anche un’ombra del senso di giustizia, dovrà ammettere che negli anni difficili e gravi di vicende, susseguitisi al Concordato, ciascuna delle Nostre parole e delle Nostre azioni ebbe per norma la fedeltà degli accordi sanciti. Ma dovrà anche riconoscere, con stupore e con intima ripulsa, come dall’altra parte si sia eretto a norma ordinaria lo svisare arbitrariamente i patti, l’eluderli, lo svuotarli e finalmente il violarli più o meno apertamente.
La moderazione da Noi finora mostrata, nonostante tutto ciò, non Ci è stata suggerita da calcoli di interessi terreni né tanto meno da debolezza, ma semplicemente dalla volontà di non strappare, insieme con la zizzania, anche qualche buona pianta; dalla decisione di non pronunziare pubblicamente un giudizio, prima che gli animi fossero maturi per riconoscerne l’ineluttabilità; dalla determinazione di non negare definitivamente la fedeltà di altri alla parola data, prima che il duro linguaggio della realtà avesse strappato i veli, con cui si è saputo e si cerca anche adesso mascherare, secondo un piano prestabilito, l’attacco contro la Chiesa. Anche oggi, che la lotta aperta contro le scuole confessionali, tutelate dal Concordato, e l’annientamento della libertà di voto per coloro che hanno diritto all’educazione cattolica, manifestano, in un campo particolarmente vitale per la Chiesa, la tragica serietà della situazione e una non mai vista pressione spirituale dei fedeli, la sollecitudine paterna per il bene delle anime Ci consiglia di non lasciare senza considerazione le prospettive, per quanto scarse, che possano ancora sussistere, di un ritorno alla fedeltà dei patti e ad una intesa permessa dalla Nostra coscienza.
Seguendo le preghiere dei Reverendissimi Membri dell’Episcopato non Ci stancheremo anche nel futuro di difendere il diritto leso presso i reggitori del vostro popolo, incuranti del successo o dell’insuccesso del momento, ubbidienti solo alla Nostra coscienza e al Nostro ministero pastorale, e non cesseremo di opporCi ad una mentalità, che cerca, con aperta od occulta violenza, di soffocare il diritto, autenticato da documenti.
Lo scopo però della presente lettera, Venerabili Fratelli, è un altro. Come voi ci avete visitato amabilmente durante la Nostra infermità, così Noi ci rivolgiamo oggi a voi e, per mezzo vostro, ai fedeli cattolici della Germania, i quali, come tutti i figli sofferenti e perseguitati, stanno molto vicini al cuore del Padre comune. In questa ora, in cui la loro fede viene provata, come vero oro, nel fuoco della tribolazione e della persecuzione, insidiosa o aperta, ed essi sono accerchiati da mille forme di organizzata compressione della libertà religiosa, in cui l’impossibilità di aver informazioni, conformi a verità, e di difendersi con mezzi normali, molto li opprime, hanno un doppio diritto ad una parola di verità e d’incoraggiamento morale da parte di Colui, al cui primo predecessore il Salvatore diresse quella parola densa di significato: « Io ho pregato per te, affinché la tua debolezza non vacilli, e tu a tua volta corrobora i tuoi fratelli »(4).
2. GENUINA FEDE IN DIO
E anzitutto, Venerabili Fratelli, abbiate cura che la fede in Dio, primo e insostituibile fondamento di ogni religione, rimanga pura e integra nelle regioni tedesche. Non si può considerare come credente in Dio colui che usa il nome di Dio retoricamente, ma solo colui che unisce a questa venerata parola una vera e degna nozione di Dio.
Chi, con indeterminatezza panteistica, identifica Dio con l’universo, materializzando Dio nel mondo e deificando il mondo in Dio, non appartiene ai veri credenti.
Né è tale chi, seguendo una sedicente concezione precristiana dell’antico germanesimo, pone in luogo del Dio personale il fato tetro e impersonale, rinnegando la sapienza divina e la sua provvidenza, la quale « con forza e dolcezza domina da un’estremità all’altra del mondo »(5) e tutto dirige a buon fine. Un simile uomo non può pretendere di essere annoverato fra i veri credenti.
Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi e, divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme.
Rivolgete, Venerabili Fratelli, l’attenzione all’abuso crescente, che si manifesta in parole e per iscritto, di adoperare il tre volte santo nome di Dio quale etichetta vuota di senso per un prodotto più o meno arbitrario di ricerca o aspirazione umana, e adoperatevi che tale aberrazione incontri tra i vostri fedeli la vigile ripulsa che merita. Il nostro Dio è il Dio personale, trascendente, onnipotente, infinitamente perfetto, uno nella trinità delle persone e trino nell’unità della essenza divina, creatore dell’universo, signore, re e ultimo fine della storia del mondo, il quale non ammette né può ammettere altre divinità accanto a sé.
Questo Dio ha dato i suoi comandamenti in maniera sovrana: comandamenti indipendenti da tempo e spazio, da regione e razza. Come il sole di Dio splende indistintamente su tutto il genere umano, così la sua legge non conosce privilegi né eccezioni. Governanti e governati, coronati e non coronati, grandi e piccoli, ricchi e poveri dipendono ugualmente dalla sua parola. Dalla totalità dei suoi diritti di Creatore promana essenzialmente la sua esigenza ad un’ubbidienza assoluta da parte degli individui e di qualsiasi società. E tale esigenza all’ubbidienza si estende a tutte le sfere della vita, nelle quali le questioni morali richiedono l’accordo con la legge divina e con ciò stesso l’armonizzazione dei mutevoli ordinamenti umani col complesso degli immutabili ordinamenti divini.
Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla cui grandezza le nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua(6).
I Vescovi della Chiesa di Cristo « preposti a quelle cose che riguardano Dio »(7) devono vigilare perché non si affermino tra i fedeli tali perniciosi errori, ai quali sogliono tener dietro pratiche ancora più perniciose. Appartiene al loro sacro ministero di fare tutto il possibile, affinché i comandamenti di Dio siano considerati e praticati quali obbligazioni inconcusse di una vita morale e ordinata, sia privata sia pubblica; i diritti della maestà divina, il nome e la parola di Dio non vengano profanati(8); le bestemmie contro Dio in parole, scritti e immagini, numerose talvolta come l’arena del mare, vengano ridotte al silenzio, e di fronte allo spirito caparbio e insidioso di coloro, che negano, oltraggiano e odiano Dio, non si illanguidisca mai la preghiera espiatrice dei fedeli, la quale sale ad ogni ora come incenso all’Altissimo, trattenendone la mano punitrice.
Noi ringraziamo, Venerabili Fratelli, voi, i vostri sacerdoti e tutti i fedeli che nella difesa dei diritti della divina Maestà contro un provocante neopaganesimo, appoggiato, purtroppo, spesso da personalità influenti, avete adempiuto e adempite il vostro dovere di cristiani. Questo ringraziamento è particolarmente intimo e unito ad una riconoscente ammirazione per coloro i quali, nel compimento di questo loro dovere, si sono resi degni di sopportare per la causa di Dio sacrifici e dolori.
3. GENUINA FEDE IN GESÙ CRISTO
La fede in Dio non si manterrà, a lungo andare, pura e incontaminata, se non si appoggerà nella fede in Gesù Cristo. «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui il Figlio lo vuole rivelare »(9). «Questa è la vita eterna; che essi riconoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo »(10). A nessuno dunque è lecito dire: io credo in Dio, e ciò è sufficiente per la mia religione. La parola del Salvatore non lascia posto a scappatoie di simil genere: « Chi rinnega il Figlio non ha neanche il Padre; chi riconosce il Figlio ha anche il Padre »(11).
In Gesù Cristo, incarnato Figlio di Dio, è apparsa la pienezza della rivelazione divina: « In varie maniere e in diverse forme, Dio un giorno parlò ai padri per mezzo dei profeti. Nella pienezza dei tempi ha parlato a noi per mezzo del Figlio »(12). I libri santi dell' Antico Testamento sono tutti parola di Dio, parte organica della sua rivelazione. Conforme allo sviluppo graduale della rivelazione, su di essi si posa il crepuscolo del tempo che doveva preparare il pieno meriggio della redenzione. In alcune parti si narra dell’imperfezione umana, della sua debolezza e del peccato, come non può accadere diversamente, quando si tratta di libri di storia e di legislazione. Oltre a innumerevoli cose alte e nobili, essi parlano della tendenza superficiale e materiale, che appariva a varie riprese nel popolo dell’antico patto, depositario della rivelazione e delle promesse di Dio. Ma per ogni occhio, non accecato dal pregiudizio o dalla passione, non può che risplendere ancora più luminosamente, nonostante la debolezza umana, di cui parla la storia biblica, la luce divina del cammino della salvezza, che trionfa alla fine su tutte le debolezze e i peccati.
E proprio su questo sfondo, spesso cupo, la pedagogia della salute eterna si allarga in prospettive, le quali nello stesso tempo dirigono, ammoniscono, scuotono, sollevano e rendono felici. Solo cecità e caparbietà possono far chiudere gli occhi davanti ai tesori di salutari insegnamenti, nascosti nell’Antico Testamento. Chi quindi vuole banditi dalla Chiesa e dalla scuola la storia biblica e i saggi insegnamenti dell’Antico Testamento, bestemmia la parola di Dio, bestemmia il piano della salute dell’Onnipotente ed erige a giudice dei piani divini un angusto e ristretto pensar umano. Egli rinnega la fede in Gesù Cristo, apparso nella realtà della sua carne, il quale prese natura umana da un popolo, che doveva poi configgerlo in croce. Non comprende nulla del dramma mondiale del Figlio di Dio, il quale oppose al misfatto dei suoi crocifissori, qual sommo sacerdote, l’azione divina della morte redentrice, e fece così trovare all’Antico Testamento il suo compimento, la sua fine e la sua sublimazione nel Nuovo Testamento.
La rivelazione culminata nell’Evangelo di Gesù Cristo è definitiva e obbligatoria per sempre, non ammette appendici di origine umana e, ancora meno, succedanei o sostituzioni di « rivelazioni » arbitrarie, che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza. Da che Cristo, l’Unto del Signore, ha compiuto l’opera di redenzione, infrangendo il dominio del peccato e meritandoci la grazia di diventare figli di Dio, da allora non è stato dato agli uomini alcun altro nome sotto il cielo, per diventare beati, se non il nome di Gesù(13). Anche se un uomo identifichi in sé ogni sapere, ogni potere e tutta la possanza materiale della terra, non può gettare fondamento diverso, da quello che Cristo ha gettato(14). Colui quindi che con sacrilego misconoscimento delle diversità essenziali tra Dio e la creatura, tra l’Uomo-Dio e il semplice uomo, osasse di porre accanto a Cristo o, ancora peggio, sopra di Lui o contro di Lui, un semplice mortale, fosse anche il più grande di tutti i tempi, sappia che è un profeta di chimere, a cui si applica spaventosamente la parola della Scrittura: « Colui, che abita nel cielo, ride di loro »(15).
4. GENUINA FEDE NELLA CHIESA
La fede in Gesù Cristo non resterà pura e incontaminata, se non sarà sostenuta e difesa dalla fede nella Chiesa, colonna e fondamento della verità(16). Cristo stesso, Dio benedetto in eterno, ha innalzato questa colonna della fede; il suo comandamento di ascoltare la Chiesa(17) e di sentire, attraverso le parole e i comandamenti della Chiesa, le sue parole stesse e i suoi stessi comandamenti(18), vale per gli uomini di tutti i tempi e di tutte le regioni. La Chiesa, fondata dal Salvatore, è unica per tutti i popoli e per tutte le nazioni, e sotto la sua volta, la quale si inarca come il firmamento sull’universo intero, trovano posto e asilo tutti i popoli e tutte le lingue, e possono svolgersi tutte le proprietà, qualità, missioni e compiti, che sono stati assegnati da Dio, creatore e salvatore, agli individui e alle società umane. L’amore materno della Chiesa è tanto largo da vedere nello sviluppo, conforme al volere di Dio, di tali peculiarità e compiti particolari, piuttosto la ricchezza delle varietà che il pericolo di scissioni; gode dell’elevato livello spirituale degli individui e dei popoli, scorge con gioia e alterezza materna nelle loro genuine attuazioni frutti di educazione e di progresso, che benedice e promuove, ogni qualvolta lo può secondo verità. Ma sa pure che a questa libertà son segnati limiti dal comandamento della divina maestà, che ha voluto e fondato questa Chiesa come unità inseparabile nelle sue parti essenziali. Chi attenta a questa inscindibile unità toglie alla sposa di Cristo uno dei diademi, con cui Dio stesso l’ha coronata; sottomette l’edificio divino che posa su fondamenta eterne, al riesame e alla trasformazione da parte di architetti, ai quali il Padre Celeste non ha concesso alcun potere.
La divina missione, che la Chiesa compie tra gli uomini e deve compiere per mezzo di uomini, può essere dolorosamente oscurata dall’umano, talvolta troppo umano, che, in certi tempi, ripullula quasi zizzania in mezzo al grano del regno di Dio. Chi conosce la parola del Salvatore sopra gli scandali e coloro che li danno, sa come la Chiesa e ciascun individuo deve giudicare su ciò che fu ed è peccato. Ma chi, fondandosi su questi lamentevoli contrasti tra fede e vita, tra parola e azione, tra il contegno esteriore e l’interno sentire di alcuni — e fossero anche molti — pone in oblio, o coscientemente passa sotto silenzio, l’immenso capitale di genuino sforzo verso la virtù, lo spirito di sacrificio, l’amore fraterno, l’eroismo di santità in tanti membri della Chiesa, manifesta una cecità ingiusta e riprovevole. E quando poi si vede che quella rigida misura, con cui egli giudica la odiata Chiesa, viene messa da canto se si tratta di altre società, a lui vicine per sentimento o interesse, allora riesce evidente che, ostentandosi colpito nel suo presunto senso di purezza, si appalesa simile a coloro i quali, secondo la tagliente parola del Salvatore, osservano la pagliuzza nell’occhio del fratello, ma non scorgono la trave nel proprio. Altrettanto meno pura è l’intenzione di coloro i quali pongono a scopo della loro vocazione proprio quel che vi è di umano nella Chiesa, talvolta facendone persino un losco affare, e sebbene la potestà di colui che è insignito della dignità ecclesiastica, posando in Dio, non sia dipendente dalla sua elevatezza umana e morale, non vi è epoca alcuna, né individuo, né società che non debba esaminarsi onestamente la coscienza, purificarsi inesorabilmente, rinnovarsi profondamente nel sentire e nell’operare. Nella Nostra Enciclica sopra il Sacerdozio, in quella sull’Azione Cattolica, abbiamo con implorante insistenza attirato l’attenzione di tutti gli appartenenti alla Chiesa, e soprattutto degli Ecclesiastici, dei Religiosi e dei laici, i quali collaborano nell’apostolato, al sacro dovere di mettere fede e condotta in quell’armonia richiesta dalla legge di Dio e domandata con instancabile insistenza dalla Chiesa. Anche oggi Noi ripetiamo con gravità profonda: non basta essere annoverati nella Chiesa di Cristo, bisogna essere in spirito e verità membri vivi di questa Chiesa. E tali sono solamente coloro che stanno nella grazia del Signore e continuamente camminano alla sua presenza, sia nell’innocenza sia nella penitenza sincera e operosa. Se l’Apostolo delle genti, « il vaso di elezione », teneva il suo corpo sotto la sferza della mortificazione affinché, dopo aver predicato agli altri, non venisse egli stesso riprovato, può darsi forse per quelli, nelle cui mani è posta la custodia e l’incremento del regno di Dio, via diversa da quella dell’intima unione dell’apostolato e della santificazione propria? Solo così si mostrerà agli uomini di oggi, e in prima linea agli oppositori della Chiesa, che il sale della terra e il lievito del Cristianesimo non sono diventati inefficaci, ma sono potenti e pronti a portare rinnovamento spirituale e ringiovanimento a coloro che sono nel dubbio e nell’errore, nell’indifferenza e nello smarrimento spirituale, nel rilassamento della fede e nella lontananza da Dio, di cui essi — l’ammettano o lo neghino — hanno più bisogno che mai. Una Cristianità, in cui tutti i membri vigilino su se stessi, che espella ogni tendenza a ciò che è puramente esteriore e mondano, si attenga seriamente ai comandamenti di Dio e della Chiesa, e si mantenga quindi nell’amore di Dio e nella solerte carità verso il prossimo, potrà e dovrà essere esempio e guida al mondo profondamente infermo, che cerca sostegno e direzione, se non si vuole che sopravvenga un immane disastro o un indescrivibile decadimento.
Ogni riforma genuina e duratura ha avuto propriamente origine dal santuario, da uomini infiammati e mossi dall’amore di Dio e del prossimo; i quali, per la loro grande generosità nel rispondere ad ogni appello di Dio e nel metterlo in pratica anzitutto in se stessi, cresciuti in umiltà e con la sicurezza di chi è chiamato da Dio, hanno illuminato e rinnovato i loro tempi. Dove lo zelo di riforma non scaturì dalla pura sorgente dell’integrità personale, ma fu effetto dell’esplosione di impulsi passionali, invece di illuminare ottenebrò, invece di costruire distrusse, e fu sovente punto di partenza di errori ancora più funesti dei danni, a cui si volle o si pretese portare rimedio. Certamente lo spirito di Dio spira dove vuole(19), dalle pietre può suscitare gli esecutori dei suoi disegni(20), e sceglie gli strumenti della sua volontà secondo i suoi piani, non secondo quelli degli uomini. Ma Egli, che ha fondato la Chiesa e l’ha chiamata in vita nella Pentecoste, non spezza la struttura fondamentale della salutare istituzione, da Lui stesso voluta. Chi è mosso dallo spirito di Dio ha perciò stesso un contegno esteriore ed interiore rispettoso verso la Chiesa, nobile frutto dell’albero della Croce, dono dello Spirito della Pentecoste al mondo bisognoso di guida.
Nelle vostre contrade, Venerabili Fratelli, si elevano voci in coro sempre più forte, che incitano ad uscire dalla Chiesa, e sorgono banditori, i quali, per la loro posizione ufficiale, cercano di risvegliare l’impressione che tale distacco dalla Chiesa, e conseguentemente l’infedeltà verso Cristo Re, sia una testimonianza particolarmente persuasiva e meritoria della loro fedeltà al regime presente. Con pressioni, occulte e palesi, con intimidazioni, con prospettive di vantaggi economici, professionali, civili o d’altra specie, l’attaccamento alla fede dei cattolici, e specialmente di alcune classi di funzionari cattolici, viene sottoposto ad una violenza tanto illegale quanto inumana. Con commozione paterna Noi sentiamo e soffriamo profondamente con coloro che hanno pagato a sì caro prezzo il loro attaccamento a Cristo e alla Chiesa; ma si è ormai giunti a un tal punto, che è in giuoco il fine ultimo e più alto, la salvezza o la perdizione; e quindi unico cammino di salute per il credente resta la via di un generoso eroismo. Quando il tentatore e l’oppressore gli si accosterà con le insinuazioni traditrici di uscire dalla Chiesa, allora egli non potrà che contrapporgli, anche a prezzo dei più gravi sacrifici terreni, la parola del Salvatore: «Allontànati da me, o Satana, perché sta scritto: adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo servirai »(21). Alla Chiesa invece rivolgerà queste parole: O tu, che sei madre mia fin dai giorni della mia fanciullezza, mio conforto in vita, mia avvocata in morte, si attacchi la lingua al mio palato, se io, cedendo a terrene lusinghe o minacce, dovessi tradire il mio voto battesimale. A coloro poi, i quali si lusingassero di potere conciliare con l’esterno abbandono della Chiesa la fedeltà interiore ad essa, sia di monito severo la parola del Salvatore: « Chi mi rinnega davanti agli uomini, lo rinnegherò davanti al Padre mio, che è nei cieli »(22).
5. GENUINA FEDE NEL PRIMATO
La fede nella Chiesa non si manterrà pura e incontaminata, se non sarà appoggiata nella fede al primato del Vescovo di Roma. Nello stesso momento in cui Pietro, prevenendo agli altri apostoli e discepoli, professò la sua fede in Cristo, Figlio del Dio vivente, l’annunzio della fondazione della sua Chiesa, dell’unica Chiesa, su Pietro, la roccia(23), fu la risposta di Cristo, che lo ricompensò della sua fede e di averla professata. La fede in Cristo, nella Chiesa e nel Primato stanno perciò in un sacro legame di interdipendenza. Un’autorità genuina e legale è dappertutto un vincolo di unità e una sorgente di forza, un presidio contro lo sfaldamento e la disgregazione, una garanzia dell’avvenire. E ciò si verifica nel senso più alto e nobile, dove, come nel caso della Chiesa, a tale autorità venne promessa l’assistenza soprannaturale dello Spirito Santo e il suo appoggio invincibile. Se persone, che non sono neanche unite nella fede in Cristo, vi adescano e vi lusingano col fantasma di una « chiesa tedesca nazionale », sappiate ciò non essere altro se non un rinnegamento dell’unica Chiesa di Cristo, un apostasia manifesta dal mandato di Cristo di evangelizzare tutto il mondo, che solo una Chiesa universale può attuare. Lo sviluppo storico di altre chiese nazionali, il loro irrigidimento spirituale, il loro soffocamento e asservimento da parte dei poteri laici mostrano la desolante sterilità, che colpisce con ineluttabile sicurezza il tralcio separatosi dal ceppo vitale della Chiesa. Colui che a questi erronei sviluppi fin da principio oppone il suo vigile e irremovibile no, rende un servizio non solo alla purezza della sua fede ma anche alla sanità e forza vitale del suo popolo.
6. NESSUNA ADULTERAZIONE DI NOZIONI E TERMINI SACRI
Venerabili Fratelli, abbiate un occhio particolarmente vigile, quando nozioni religiose vengono svuotate del loro contenuto genuino e applicate a significati profani.
Rivelazione, in senso cristiano, significa la parola di Dio agli uomini. Usare questo stesso termine per suggestioni provenienti dal sangue e dalla razza, per le irradiazioni della storia di un popolo, è, in ogni caso, causare disorientamento. Tali false monete non meritano di passare nel tesoro linguistico di un fedele cristiano.
La fede consiste nel tener per vero ciò che Dio ha rivelato e mediante la Chiesa impone di credere: è « dimostrazione di cose che non si vedono »(24). La fiducia gioiosa e altera sull’avvenire del proprio popolo, cosa cara ad ognuno, significa ben altra cosa che la fede in senso religioso. L’usare l’una per l’altra, il volere sostituire l’una con l’altra e pretendere con ciò di essere riconosciuto come « credente » da un convinto cristiano, è un vuoto gioco di parole, una consapevole confusione di termini, o anche peggio.
L’immortalità, in senso cristiano, è la sopravvivenza dell’uomo dopo la morte terrena, come individuo personale, per l’eterna ricompensa o per l’eterno castigo. Chi con la parola immortale non vuole indicare altro che una sopravvivenza collettiva nella continuità del proprio popolo, per un avvenire di indeterminata durata in questo mondo, perverte e falsifica una delle verità fondamentali della fede cristiana e scuote le fondamenta di qualsiasi concezione religiosa, la quale richiede un ordinamento morale universale. Chi non vuole essere cristiano dovrebbe almeno rinunziare a volere arricchire il lessico della sua miscredenza col patrimonio linguistico cristiano.
Il peccato originale è la colpa ereditaria, propria, sebbene non personale, di ciascuno dei figli di Adamo, che in lui hanno peccato(25), è perdita della grazia, e conseguentemente della vita eterna, con la concupiscenza che ciascuno deve soffocare e domare per mezzo della grazia, della penitenza, della lotta e dello sforzo morale. La passione e morte del Figlio di Dio hanno redento il mondo dal maledetto retaggio del peccato e della morte. La fede in queste verità, fatte oggi bersaglio del basso scherno dei nemici di Cristo nella vostra patria, appartiene all’inalienabile deposito della religione cristiana.
La croce di Cristo, anche se il suo solo nome sia diventato per molti follia e scandalo(26), resta per il cristiano il segno sacrosanto della redenzione, il vessillo di grandezza e di forza morale. Nella sua ombra viviamo, nel suo bacio moriamo; sul nostro sepolcro starà come annunziatrice della nostra fede, testimonio della nostra speranza, protesa verso la vita eterna.
L’umiltà nello spirito del Vangelo e la implorazione dell’aiuto di Dio si accordano bene con la propria dignità, con la fiducia in sé e coll’eroismo. La Chiesa di Cristo, che in tutti i tempi, fino a quelli a noi vicinissimi, conta più confessori e martiri eroici di qualsiasi altra società morale, non ha certo bisogno di ricevere da tali campi insegnamento sul sentimento e l’azione eroica. Nel rappresentare stoltamente l’umiltà cristiana come avvilimento e meschinità, la ripugnante superbia di questi innovatori rende irrisoria soltanto se stessa.
Grazia, in senso largo, può chiamarsi ciò che proviene alla creatura dal Creatore. Grazia, nel senso proprio cristiano della parola, comprende però le gratificazioni soprannaturali dell’amore divino, la degnazione e l’opera per cui mezzo Dio eleva l’uomo a quella intima comunione della sua vita, che il Nuovo Testamento chiama figliolanza di Dio: «Vedete quale grande amore il Padre ci ha mostrato: noi ci chiamiamo figli di Dio, e siamo realmente tali »(27). Il ripudio di questa elevazione soprannaturale alla grazia, a causa di una pretesa peculiarità del carattere tedesco, è un errore, un’aperta dichiarazione di guerra ad una verità fondamentale del Cristianesimo. L’equiparare la grazia soprannaturale coi doni della natura significa violentare il linguaggio, creato e santificato dalla religione. I pastori e i custodi del popolo di Dio faranno bene a opporsi a questo furto sacrilego e a questo lavoro di traviamento degli spiriti.
7. DOTTRINA E ORDINE MORALE
Sulla fede in Dio genuina e pura si fonda la moralità del genere umano. Tutti i tentativi di staccare la dottrina dell’ordine morale dalla base granitica della fede, per ricostruirla sulla sabbia mobile di norme umane, portano, tosto o tardi, individui e nazioni al decadimento morale. Lo stolto, che dice nel suo cuore: « non c’è Dio », si avvierà alla corruzione morale(28). E questi stolti, che presumono di separare la morale dalla religione, sono oggi divenuti legione. Non si accorgono, o non vogliono accorgersi, che col bandire l’insegnamento confessionale, ossia chiaro e determinato, dalle scuole e dall’educazione, coll’impedirgli di contribuire alla formazione della società e della vita pubblica, si percorrono sentieri di impoverimento e di decadenza morale. Nessun potere coercitivo dello Stato, nessun ideale puramente terreno, per quanto grande e nobile, potrà sostituire a lungo andare i più profondi e decisivi stimoli, che provengono dalla fede in Dio e in Gesù Cristo. Se a chi è chiamato ai più ardui cimenti, al sacrificio del suo piccolo io in bene della comunità, si toglie il sostegno morale che gli viene dall’eterno e dal divino, dalla fede elevante e consolatrice in Colui che premia ogni bene e punisce ogni male, allora il risultato finale per innumerevoli uomini non sarà l’adesione al dovere, ma piuttosto la diserzione. L’osservanza coscienziosa dei dieci comandamenti di Dio e dei precetti della Chiesa, i quali ultimi non sono altro che regolamenti derivati dalle norme del Vangelo, è per ogni individuo una incomparabile scuola di disciplina organica, di rinvigorimento morale e di formazione di carattere. È una scuola che esige molto; ma non oltre le forze. Dio misericordioso, quando ordina come legislatore: « tu devi », dà colla sua grazia la possibilità di eseguire il suo comando. Il lasciare quindi inutilizzate energie morali di così potente efficacia, o sbarrar coscientemente ad esse il cammino nel campo dell’istruzione popolare, è opera da irresponsabili, che tende a produrre deficienza religiosa nel popolo. Il connettere la dottrina morale con opinioni umane, soggettive e mutevoli nel tempo, invece di ancorarle nella santa volontà dell’eterno Dio e nei suoi comandamenti, significa spalancare le porte alle forze dissolvitrici. Perciò il promuovere l’abbandono delle eterne direttive di una dottrina morale per la formazione delle coscienze, per la nobilitazione di tutti i campi della vita e di tutti gli ordinamenti, è attentato peccaminoso contro l’avvenire del popolo, i cui tristi frutti amareggeranno le generazioni future.
8. RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO NATURALE
È una caratteristica nefasta del tempo presente il volere distaccare, non solo la dottrina morale, ma anche le fondamenta del diritto e della sua amministrazione dalla vera fede in Dio e dalle norme della rivelazione divina. Il nostro pensiero si rivolge qui a quello che si suole chiamare diritto naturale, che il dito dello stesso Creatore impresse nelle tavole del cuore umano(29), e che la ragione umana sana e non ottenebrata da peccati e passioni può in esse leggere. Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell’adempimento. Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna. Secondo questo criterio va giudicato il principio: « Diritto è ciò che è utile alla nazione ». Certo a questo principio può darsi un senso giusto, se si intende che ciò che è moralmente illecito non può essere mai veramente vantaggioso al popolo. Persino l’antico paganesimo ha riconosciuto che, per essere giusta, questa frase dovrebbe essere capovolta e suonare: «Non vi è mai alcunché di vantaggioso, se in pari tempo non è moralmente buono, e non perché è vantaggioso è moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche vantaggioso »(30). Questo principio, staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra tra le nazioni; nella vita nazionale poi misconosce, nel confondere interesse e diritto, il fatto fondamentale che l’uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato della comunità, che avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l’esercizio. Disprezzando questa verità, si perde di vista che il vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto mediante la natura dell’uomo con il suo armonico equilibrio fra diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della società determinato dalla stessa natura umana. La società è voluta dal Creatore come mezzo per il pieno sviluppo delle facoltà individuali e sociali, di cui l’uomo ha da valersi, ora dando ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri. Anche quei valori più universali e più alti che possono essere realizzati, non dall’individuo, ma solo dalla società, hanno per volontà del Creatore come ultimo scopo l’uomo e il suo sviluppo e perfezionamento naturale e soprannaturale. Chi si allontana da questo ordine, scuote i pilastri su cui riposa la società, e ne pone in pericolo la tranquillità, la sicurezza e l’esistenza.
Il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che ad essa conviene. Quelle leggi, che sopprimono o rendono difficile la professione e la pratica di questa fede, sono in contrasto col diritto naturale.
I genitori coscienziosi e consapevoli della loro missione educativa hanno prima di ogni altro il diritto essenziale alla educazione dei figli, loro donati da Dio, secondo lo spirito della vera fede e in accordo con i suoi princìpi e le sue prescrizioni. Leggi, o altre simili disposizioni, le quali non tengono conto nella questione scolastica della volontà dei genitori o la rendono inefficace colle minacce o colla violenza, sono in contraddizione col diritto naturale e nella loro intima essenza immorali.
La Chiesa, la cui missione è di custodire ed interpretare il diritto naturale, non può fare altro che dichiarare essere effetto di violenza, e quindi prive di ogni valore giuridico, le iscrizioni scolastiche avvenute in un recente passato in una atmosfera di notoria mancanza di libertà.
9. ALLA GIOVENTÙ
Rappresentanti di Colui che nell’Evangelo disse ad un giovane: « Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti »(31), Noi indirizziamo una parola particolarmente paterna alla gioventù.
Da mille bocche viene oggi ripetuto al vostro orecchio un Evangelo che non è stato rivelato dal Padre celeste; migliaia di penne scrivono a servizio di una larva di cristianesimo, che non è il Cristianesimo di Cristo. Tipografia e radio vi inondano giornalmente con produzioni di contenuto avverso alla fede e alla Chiesa, e, senza alcun riguardo e rispetto, assaltano ciò che per voi deve essere sacro e santo. Sappiamo che moltissimi tra voi, a causa dell’attaccamento alla fede e alla Chiesa e dell’appartenenza ad associazioni religiose, tutelate dal Concordato, hanno dovuto e devono attraversare periodi tenebrosi di misconoscimento, di sospetto, di vituperio, di accusa di antipatriottismo, di molteplici danni nella loro vita professionale e sociale. E ben sappiamo come molti ignoti soldati di Cristo si trovano nelle vostre file, che con cuore affranto, ma a testa alta, sopportano la loro sorte e trovano conforto solo nel pensiero che soffrono contumelie nel nome di Gesù(32).
Ed oggi, che incombono nuovi pericoli e nuove tensioni, Noi diciamo a questa gioventù: « Se alcuno vi volesse annunziare un Evangelo diverso da quello che avete ricevuto sulle ginocchia di una pia madre, dalle labbra di un padre credente, dall’insegnamento di un educatore fedele a Dio e alla sua Chiesa, costui sia anatema »(33). Se lo Stato organizza la gioventù in associazione nazionale obbligatoria per tutti, allora, salvi sempre i diritti delle associazioni religiose, i giovani hanno il diritto ovvio e inalienabile, e con essi i genitori responsabili di loro dinanzi a Dio, di esigere che questa associazione sia mondata da ogni tendenza ostile alla fede cristiana e alla Chiesa, tendenza che sino al recentissimo passato, anzi presentemente, stringe i genitori credenti in un insolubile conflitto di coscienza, poiché essi non possono dare allo Stato ciò che viene loro richiesto in nome dello Stato, senza togliere a Dio ciò che appartiene a Dio.
Nessuno pensa di porre alla gioventù tedesca pietre di inciampo sul cammino, che dovrebbe condurre all’attuazione di una vera unità nazionale e fomentare un nobile amore per la libertà e una incrollabile devozione alla patria. Quello contro cui Noi Ci opponiamo, e Ci dobbiamo opporre, è il contrasto voluto e sistematicamente inasprito, mediante il quale si separano queste finalità educative da quelle religiose. Perciò Noi diciamo a questa gioventù: cantate i vostri inni di libertà, ma non dimenticate che la vera libertà è la libertà dei figli di Dio. Non permettete che la nobiltà di questa insostituibile libertà scompaia nei ceppi servili del peccato e della concupiscenza. A chi canta l’inno della fedeltà alla patria terrena non è lecito divenire transfuga e traditore con l’infedeltà al suo Dio, alla sua Chiesa e alla sua patria eterna. Vi parlano molto di grandezza eroica, contrapponendola volutamente e falsamente all’umiltà e alla pazienza evangelica; ma perché vi nascondono che si dà anche un eroismo nella lotta morale? e che la conservazione della purezza battesimale rappresenta un’azione eroica, che dovrebbe essere apprezzata meritevolmente nel campo sia religioso sia naturale? Vi parlano delle fragilità umane nella storia della Chiesa; ma perché vi nascondono le grandi gesta, che l’accompagnarono attraverso i secoli, i santi che essa ha prodotto, il vantaggio che provenne alla cultura occidentale dall’unione vitale tra questa Chiesa e il vostro popolo? Vi parlano molto di esercizi sportivi, i quali, usati secondo una ben intesa misura, danno una gagliardia fisica, che è un beneficio per la gioventù. Ma ad essi viene assegnata oggi spesso un’estensione, che non tiene conto né della formazione integrale e armonica del corpo e dello spirito, né della conveniente cura della vita di famiglia, né del comandamento di santificare il giorno del Signore. Con un’indifferenza, che confina col disprezzo, si toglie al giorno del Signore il suo carattere sacro e raccolto, che corrisponde alla migliore tradizione tedesca. Attendiamo fiduciosi dai giovani tedeschi cattolici che essi, nel difficile ambiente delle organizzazioni obbligatorie dello Stato, rivendichino esplicitamente il loro diritto a santificare cristianamente il giorno del Signore, che la cura di irrobustire il corpo non faccia loro dimenticare la loro anima immortale, che non si lascino sopraffare dal male e cerchino piuttosto di vincere il male col bene(34), che quale loro altissima e nobilissima meta ritengano quella di conquistare la corona della vittoria nello stadio della vita eterna(35).
10. AI SACERDOTI E AI RELIGIOSI
Una parola di particolare riconoscimento, di incoraggiamento, di esortazione rivolgiamo ai sacerdoti della Germania, ai quali, in sottomissione ai loro Vescovi, spetta il compito, in tempi difficili e circostanze dure, di mostrare al gregge di Cristo i retti sentieri con la dottrina e con l’esempio, con la dedizione quotidiana, con la pazienza apostolica. Non vi stancate, figli diletti e partecipi dei divini misteri, di seguire l’eterno sommo sacerdote Gesù Cristo nel suo amore e nel suo ufficio di buon samaritano. Camminate ognora in condotta immacolata davanti a Dio, in incessante disciplinatezza e perfezionamento, in amore misericordioso verso quanti sono a voi affidati, specialmente i pericolanti, i deboli e i vacillanti. Siate guida ai fedeli, appoggio ai titubanti, maestri ai dubbiosi, consolatori degli afflitti, disinteressati soccorritori e consiglieri per tutti. Le prove e le sofferenze, per cui il vostro popolo è passato nel periodo del dopoguerra, non sono trascorse senza lasciar tracce nella sua anima. Vi hanno lasciato tensione e amarezze, che solo lentamente potranno guarirsi ed essere superate nello spirito di un amore disinteressato e operante. Questo amore, che è l’armatura indispensabile dell’apostolo, specialmente nel mondo presente, agitato e sconvolto, Noi lo desideriamo e lo imploriamo per voi da Dio in misura copiosa. L’amore apostolico, se non vi farà dimenticare, vi farà almeno perdonare molte immeritate amarezze, che sul vostro cammino di sacerdoti e di pastori di anime sono più numerose che in qualsiasi altro tempo. Quest’amore intelligente e misericordioso verso gli erranti e gli stessi oltraggiatori non significa peraltro, né può per nulla significare, rinunzia a proclamare, a far valere e a difendere coraggiosamente la verità e ad applicarla liberamente alla realtà che vi circonda. Il primo e il più ovvio dono di amore del sacerdote al mondo è di servire la verità, tutta intera la verità, smascherare e confutare l’errore, qualunque sia la sua forma o il suo travestimento. La rinunzia a ciò sarebbe non solo un tradimento verso Dio e la vostra santa vocazione, ma un delitto nei riguardi del vero benessere del vostro popolo e della vostra patria. A tutti quelli che hanno mantenuto verso i loro Vescovi la fedeltà promessa nell’ordinazione, a quelli i quali nell’adempimento del loro ufficio pastorale hanno dovuto e devono sopportare dolori e persecuzioni — e alcuni sino ad essere incarcerati e mandati ai campi di concentramento, — vada il ringraziamento e l’encomio del Padre della Cristianità. E il Nostro ringraziamento paterno si estende ugualmente ai religiosi di ambo i sessi: un ringraziamento congiunto ad una partecipazione intima per il fatto che, in seguito a misure contro gli Ordini e le Congregazioni religiose, molti sono stati strappati dal campo di un’attività benedetta e a loro cara. Se alcuni hanno mancato e si sono mostrati indegni della loro vocazione, i loro falli, condannati anche dalla Chiesa, non diminuiscono i meriti della stragrande maggioranza di essi, che con disinteresse e povertà volontaria si sono sforzati di servire con piena dedizione il loro Dio e il loro popolo. Lo zelo, la fedeltà, lo sforzo di perfezionarsi, l’operosa carità verso il prossimo e la prontezza soccorritrice di quei religiosi, la cui attività si svolge nella cura pastorale, negli ospedali e nella scuola, sono e restano un glorioso contributo al benessere privato e pubblico, a cui un tempo futuro più tranquillo renderà giustizia più che il turbolento presente. Noi abbiamo fiducia che i superiori delle comunità religiose piglieranno argomento dalle difficoltà e prove presenti per implorare dall’Onnipotente nuovo rigoglio e nuova fertilità sul loro duro campo di lavoro, per mezzo di uno zelo raddoppiato, di una vita spirituale approfondita, di una santa serietà conforme alla loro vocazione e di una genuina disciplina regolare.
11. AI FEDELI LAICI
Davanti ai Nostri occhi sta l’immensa schiera dei Nostri diletti figli e figlie, a cui le sofferenze della Chiesa in Germania e le proprie nulla hanno tolto della loro dedizione alla causa di Dio, nulla del loro tenero affetto verso il Padre della Cristianità, nulla della loro ubbidienza verso i Vescovi e i sacerdoti, nulla della gioiosa prontezza di rimanere anche in futuro, qualunque cosa avvenga, fedeli a ciò che essi hanno creduto e che hanno ricevuto in prezioso retaggio dagli avi. Con cuore commosso inviamo loro il Nostro paterno saluto.
E in primo luogo ai membri delle associazioni cattoliche, che strenuamente e a prezzo di sacrifici spesso dolorosi si sono mantenuti fedeli a Cristo, e non sono stati mai disposti a cedere quei diritti che una solenne Convenzione aveva autenticamente garantito alla Chiesa e a loro. Un saluto particolarmente cordiale va anche ai genitori cattolici. I loro diritti e i loro doveri nell’educazione dei figli, da Dio loro donati, stanno, al momento presente, nel punto cruciale di una lotta, della quale appena si può immaginarne altra più grave. La Chiesa di Cristo non può cominciare a gemere e a deplorare solo quando gli altari vengono spogliati e mani sacrileghe mandano in fiamme i santuari. Quando si cerca di profanare il tabernacolo dell’anima del fanciullo, santificata dal battesimo, con un’educazione anticristiana, quando viene strappata da questo vivo tempio di Dio la fiaccola della fede e viene posta in suo luogo la falsa luce di un succedaneo della fede, che non ha più nulla in comune con la fede della Croce, allora la profanazione spirituale del tempio è vicina ed è dovere di ogni credente di scindere chiaramente la sua responsabilità da quella della parte contraria e la sua coscienza da qualsiasi peccaminosa collaborazione a tale nefasta distruzione. E quanto più i nemici si sforzano di negare od orpellare i loro tetri disegni, tanto più necessaria è una diffidenza oculata e una vigilanza diffidente, stimolata da un’amara esperienza. La formalistica conservazione di un’istruzione religiosa, e per di più controllata e inceppata da gente incompetente, nell’ambiente di una scuola, la quale in altri rami dell’istruzione lavora sistematicamente e astiosamente contro la stessa religione, non può mai presentare titolo giustificativo al fedele cristiano, perché liberamente acconsenta a una tal sorta di scuola, deleteria per la religione. Sappiamo, diletti genitori cattolici, che non è il caso di parlare, riguardo a voi, di un tale consenso e sappiamo che una libera votazione segreta tra voi equivarrebbe ad uno schiacciante plebiscito in favore della scuola confessionale. E perciò non Ci stancheremo neanche nell’avvenire di rinfacciare francamente alle autorità responsabili l’illegalità delle misure violente prese finora, e il dovere di permettere la libera manifestazione della volontà. Intanto non vi dimenticate di ciò: nessuna potestà terrena può sciogliervi dal vincolo di responsabilità voluto da Dio, che unisce voi con i vostri figli. Nessuno di quelli che oggi opprimono il vostro diritto all’educazione e pretendono sostituirsi a voi nei vostri doveri di educatori, potrà rispondere per voi al Giudice eterno, quando egli vi rivolgerà la domanda: « dove sono coloro che io vi ho dati ? » possa ciascuno di voi essere in grado di rispondere: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dati »(36).
* * *
Venerabili Fratelli! Siamo certi che le parole, che Noi rivolgiamo a voi, e per mezzo vostro ai cattolici del Reich germanico, in quest’ora decisiva troveranno nel cuore e nelle azioni dei Nostri fedeli figlioli un’eco corrispondente alla sollecitudine amorosa del Padre Comune. Se vi è cosa che Noi imploriamo dal Signore con particolare fervore, essa è che le Nostre parole pervengano anche all’orecchio e al cuore di quelli che hanno già cominciato a lasciarsi prendere dalle lusinghe e dalle minacce dei nemici di Cristo e del suo santo Vangelo, e li facciano riflettere.
Abbiamo pesato ogni parola di questa Enciclica sulla bilancia della verità e insieme dell’amore. Non volevamo con silenzio inopportuno esser colpevoli di non aver chiarito la situazione, né con rigore eccessivo di aver indurito il cuore di quelli che, essendo sottoposti alla Nostra responsabilità pastorale, non sono meno oggetto del Nostro amore, perché ora camminano sulle vie dell’errore e si sono allontanati dalla Chiesa. Anche se molti di questi, conformatisi alle abitudini del nuovo ambiente, non hanno se non parole di infedeltà, di ingratitudine, e persino di ingiuria, per la casa paterna abbandonata e per il padre stesso, anche se dimenticano quanto prezioso sia ciò di cui essi hanno fatto getto, verrà il giorno in cui il raccapriccio che essi sentiranno della lontananza da Dio e della loro indigenza spirituale graverà su questi figli oggi perduti, e il rimpianto nostalgico li ricondurrà a Dio, che allietò la loro giovinezza, e alla Chiesa, la cui mano materna loro insegnò il cammino verso il Padre celeste. L’affrettare quest’ora è l’oggetto delle nostre incessanti preghiere.
Come altre epoche della Chiesa, anche questa sarà preannunciatrice di nuovi progressi e di purificazione interiore, quando la fortezza della professione della fede e la prontezza nell’affrontare i sacrifici da parte dei fedeli di Cristo saranno abbastanza grandi da contrapporre alla forza materiale degli oppressori della Chiesa l’adesione incondizionata alla fede, l’inconcussa speranza ancora nell’eterno, la forza travolgente di amore operoso. Il sacro tempo della Quaresima e di Pasqua, che predica raccoglimento e penitenza e fa rivolgere lo sguardo del cristiano più che mai alla Croce, ma insieme anche allo splendore del Risorto, sia per tutti e per ciascuno di voi un’occasione che saluterete con gioia e sfrutterete con ardore, per riempire tutto l’animo dello spirito eroico paziente e vittorioso che si irradia dalla Croce di Cristo. Allora i nemici di Cristo — di ciò siamo sicuri — che vaneggiano sulla scomparsa della Chiesa, riconosceranno che troppo presto hanno giubilato e troppo presto hanno voluto seppellirla. Allora verrà il giorno, in cui, invece dei prematuri inni di trionfo dei nemici di Cristo, si eleverà al cielo dai cuori e dalle labbra dei fedeli il «Te Deum » della liberazione: un «Te Deum » di ringraziamento all’Altissimo, un «Te Deum » di giubilo, perché il popolo tedesco, anche nei suoi membri erranti, avrà ritrovato il cammino del ritorno alla religione, con una fede purificata dal dolore, piegherà di nuovo il ginocchio dinanzi al Re del tempo e dell’eternità, Gesù Cristo, e si accingerà in lotta contro i rinnegati e i distruttori dell’occidente cristiano, in armonia con tutti gli uomini ben pensanti delle altre nazioni, a compiere la missione, che gli hanno assegnato i piani dell’Eterno.
Egli, che scruta i cuori e i reni(37), Ci è testimonio che Noi non abbiamo aspirazione più intima che quella del ristabilimento di una vera pace tra la Chiesa e lo Stato in Germania. Ma se, senza colpa Nostra, la pace non verrà, la Chiesa di Dio difenderà i suoi diritti e le sue libertà, in nome dell’Onnipotente, il cui braccio anche oggi non si è abbreviato. Pieni di fiducia in Lui « non cessiamo di pregare e di invocare »(38), per voi, figli della Chiesa, affinché i giorni della tribolazione vengano accorciati e voi siate trovati fedeli nel dì della prova; anche ai persecutori e agli oppressori possa il Padre di ogni luce e di ogni misericordia concedere l’ora del ravvedimento per sé e per i molti che insieme con loro hanno errato ed errano.
Con questa implorazione nel cuore e sulle labbra, Noi impartiamo, quale pegno del divino aiuto, quale appoggio nelle vostre decisioni difficili e piene di responsabilità, quale corroboramento nella lotta, quale conforto nel dolore, a Voi vescovi, pastori del vostro fedele popolo, ai sacerdoti, ai religiosi, agli apostoli laici dell’Azione Cattolica e a tutti i vostri diocesani, e non ultimi agli ammalati e ai prigionieri, con amore paterno la Benedizione Apostolica.
Dato in Vaticano, nella Domenica di Passione, 14 marzo 1937.
 PIUS PP. XI 


(1) III Io., 4.
(2) II Petr., 2, 2.
(3) Matth., 13, 25.
(4) Luc., 22, 32.
(5) Sap., 8, 1.
(6) Isaia, 40, 15.
(7) Hebr., 5, 1.
(8) Tit., 2, 5.
(9) Matth., 11, 27.
(10) Io., 17, 3.
(11) I Io., 2, 23.
(12) Hebr., I, 1 ss.
(13) Acta, IV, 12.
(14) I Cor., 3, 11.
(15) Ps. 2, 4.
(16) I Tim., 3, 15.
(17) Matth., XVIII, 17.
(18) Luc., X, 16.
(19) Io., 3, 8.
(20) Matth., 3, 93 Luc., 3, 8.
(21) Matth., 4, 10; Luc., 4, 8.
(22) Luc., 12, 9.
(23) Matth., 16, 18.
(24) Hebr., 11, 1.
(25) Rom., 5, 12.
(26) I Cor., 1, 23.
(27) I Io., 3, 1.
(28) Ps. 13, 1 ss.
(29) Rom., 2, 14 ss.
(30) CiceroDe officiis, 3, 30.
(31) Matth., 19,17.
(32) Acta, 5, 41.
(33) Gal., 1, 9.
(34) Rom., 12, 21.
(35) I Cor., 9, 24 s.
(36) Io., 18, 9.
(37) Ps. 7, 10.
(38) Coloss., 1, 9.


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1939
24 agosto 1939
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°,  rivolto ai governanti ed ai popoli
nell'imminente pericolo della guerra*

A tutto il mondo.
Un’ora grave suona nuovamente per la grande famiglia umana; ora di tremende deliberazioni, delle quali non può disinteressarsi il Nostro cuore, non deve disinteressarsi la Nostra Autorità spirituale, che da Dio Ci viene, per condurre gli animi sulle vie della giustizia e della pace.
Ed eccoCi con voi tutti, che in questo momento portate il peso di tanta responsabilità, perché a traverso la Nostra ascoltiate la voce di quel Cristo da cui il mondo ebbe alta scuola di vita e nel quale milioni e milioni di anime ripongono la loro fiducia in un frangente in cui solo la sua parola può signoreggiare tutti i rumori della terra.
EccoCi con voi, condottieri di popoli, uomini della politica e delle armi, scrittori, oratori della radio e della tribuna, e quanti altri avete autorità sul pensiero e l’azione dei fratelli, responsabilità delle loro sorti.
Noi, non d’altro armati che della parola di Verità, al disopra delle pubbliche competizioni e passioni, vi parliamo nel nome di Dio, da cui ogni paternità in cielo ed in terra prende nome (Eph., III, 15), — di Gesù Cristo, Signore Nostro, che tutti gli uomini ha voluto fratelli, — dello Spirito Santo, dono di Dio altissimo, fonte inesausta di amore nei cuori.
Oggi che, nonostante le Nostre ripetute esortazioni e il Nostro particolare interessamento, più assillanti si fanno i timori di un sanguinoso conflitto internazionale; oggi che la tensione degli spiriti sembra giunta a tal segno da far giudicare imminente lo scatenarsi del tremendo turbine della guerra, rivolgiamo con animo paterno un nuovo e più caldo appello ai Governanti e ai popoli: a quelli, perché, deposte le accuse, le minacce, le cause della reciproca diffidenza, tentino di risolvere le attuali divergenze coll’unico mezzo a ciò adatto, cioè con comuni e leali intese: a questi, perché, nella calma e nella serenità, senza incomposte agitazioni, incoraggino i tentativi pacifici di chi li governa.
È con la forza della ragione, non con quella delle armi, che la Giustizia si fa strada. E gl’imperi non fondati sulla Giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale tradisce quelli stessi che così la vogliono.
Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo.
Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare. Trattando con buona volontà e con rispetto dei reciproci diritti si accorgeranno che ai sinceri e fattivi negoziati non è mai precluso un onorevole successo.
E si sentiranno grandi — della vera grandezza — se imponendo silenzio alle voci della passione, sia collettiva che privata, e lasciando alla ragione il suo impero, avranno risparmiato il sangue dei fratelli e alla patria rovine.
Faccia l’Onnipotente che la voce di questo Padre della famiglia cristiana, di questo Servo dei servi, che di Gesù Cristo porta, indegnamente sì, ma realmente tra gli uomini, la persona, la parola, l’autorità, trovi nelle menti e nei cuori pronta e volenterosa accoglienza.
Ci ascoltino i forti, per non diventar deboli nella ingiustizia. Ci ascoltino i potenti, se vogliono che la loro potenza sia non distruzione, ma sostegno per i popoli e tutela a tranquillità nell’ordine e nel lavoro.
Noi li supplichiamo per il sangue di Cristo, la cui forza vincitrice del mondo fu la mansuetudine nella vita e nella morte. E supplicandoli, sappiamo e sentiamo di aver con Noi tutti i retti di cuore; tutti quelli che hanno fame e sete di Giustizia — tutti quelli che soffrono già, per i mali della vita, ogni dolore. Abbiamo con Noi il cuore delle madri, che batte col Nostro; i padri, che dovrebbero abbandonare le loro famiglie; gli umili, che lavorano e non sanno; gli innocenti, su cui pesa la tremenda minaccia; i giovani, cavalieri generosi dei più puri e nobili ideali. Ed è con Noi l’anima di questa vecchia Europa, che fu opera della fede e del genio cristiano. Con Noi l’umanità intera, che aspetta giustizia, pane, libertà, non ferro che uccide e distrugge. Con Noi quel Cristo, che dell’amore fraterno ha fatto il Suo comandamento, fondamentale, solenne; la sostanza della sua Religione, la promessa della salute per gli individui e per le Nazioni.
Memori infine che le umane industrie a nulla valgono senza il divino aiuto, invitiamo tutti a volgere lo sguardo in Alto ed a chiedere con fervide preci al Signore che la sua grazia discenda abbondante su questo mondo sconvolto, plachi le ire, riconcilii gli animi e faccia risplendere l’alba di un più sereno avvenire. In questa attesa e con questa speranza impartiamo a tutti di cuore la Nostra paterna Benedizione.
Benedictio Dei Omnipotentis Patris et Filii et Spiritus Sancti descendat super vos et maneat semper.

24 dicembre 1939
Discorso del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come  Pio 12°, al Sacro collegio e alla Prelatura Romana in occasione della Vigilia del Natale 1939

Agli eminentissimi Cardinali,
agli eccellentissimi Vescovi e
ai Prelati della Curia Romana.

In questo giorno di santa e soave letizia, Venerabili Fratelli e diletti Figli, in cui l’ansia del Nostro spirito, proteso nell’aspettazione dell’avvento divino, sta per appagarsi nella dolcissima contemplazione del mistero della nascita del Redentore, Ci riesce quasi preludio di tanto gaudio l’intima gioia di vedere adunati intorno a Noi i membri del Sacro Collegio e della Prelatura Romana, e di accogliere dalle eloquenti labbra dell’eminente, amato e da tutti venerato Cardinale Decano, i sentimenti così squisitamente affettuosi e gli auguri, che — accompagnati e resi sublimi dall’ala delle fervide preghiere innalzate al celeste Bambino — Ci vengono offerti da tanti cuori fedeli e devoti in questa gioconda solennità del Santo Natale, prima del ciclo dell’anno liturgico e prima festa natalizia del Nostro Pontificato.
Il Nostro spirito si eleva con voi da questo mondo verso una sfera spirituale vivida della gran luce della fede; con voi si esalta, con voi gioisce, con voi si profonda nella sacra rimembranza del mistero e sacramento dei secoli, recondito e palese nella grotta di Betlemme, culla della redenzione di tutte le genti, rivelazione della pace fra il cielo e la terra, della gloria di Dio nel più alto dei cieli e di pace in terra agli uomini di buona volontà, inizio di un nuovo corso dei secoli, che adoreranno questo divino mistero, gran dono di Dio e gaudio della terra universa. Esultiamo, diremo a voi tutti con le parole del grande Nostro Predecessore il santo Pontefice Leone Magno: «Exultemus in Domino, dilectissimi, et spirituali iucunditate laetemur, quia illuxit nobis dies redemptionis novae, reparationis antiquae, felicitatis aeternae. Reparatur enim nobis salutis nostrae annua revolutione sacramentum, ab initio promissum, in fine redditum, sine fine mansurum, in quo dignum est nos erectis sursum cordibus divinum adorare mysterium, ut, quod magno Dei munere agitur, magnis Ecclesiae gaudiis celebretur » (S. Leon. M., Sermo XXII. In Nativ. Dom. II, Cap. I, PL, 54, col. 193-194).
Nella celebrazione di questo divino mistero la gioia dei nostri cuori si leva in alto, si fa spirituale, si radica nel soprannaturale e tende al soprannaturale, volando a Dio con l’eccelsa espressione della preghiera della Chiesa: « ut inter mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia » (or. Dom. IV post Pasch.). In mezzo all’urto e al tumulto delle varie vicende del mondo, il vero gaudio si rifugia nell’imperturbabilità dello spirito, nella quale, quasi in torre incrollabile alle bufere, con fiducia in Dio si affissa, e si unisce con Cristo, principio e cagione di ogni gioia e di ogni grazia. Non è forse questo il sacramento del re dell’anime nostre, del Dio Infante del presepio di Betlemme? Quando questo segreto regale trapassa e si annida nelle anime, allora la fede, la speranza e l’amore si sublimano nell’estasi dell’Apostolo delle genti che grida al mondo: «Vivo, già non io; vive in me Cristo » (Gal., 2, 20). Nel trasumanarsi dell’uomo in Cristo, Cristo stesso veste di sé l’uomo, umiliandosi fino a lui per sollevarlo fino a sé in quel gaudio del suo nascimento ch’è perenne festa natalizia, a cui la liturgia della Chiesa non è mai che cessi in ogni stagione di richiamarci, invitarci ed esortarci, affinché in noi si avveri la promessa di Lui che il nostro cuore gioirà, e nessuno ci toglierà la nostra allegrezza (Io., 16, 22).
La luce celeste di questa gioia e di questo conforto sostiene la fiducia di coloro in cui vive e splende; né può venir oscurata o turbata da alcun affanno o fatica, da alcuna ansietà o sofferenza che salga o rumoreggi di quaggiù, simile a quella
«… lodoletta che in aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
dell’ultima dolcezza che la sazia ». (Par., XX, 73).
Dove altri si sbigottiscono, dove le amare acque dell’afflizione e della disperazione sommergono i pusillanimi, le anime in cui vive Cristo possono tutto, e si elevano, sopra i disordini e le bufere del mondo, con sempre eguale coraggio e ardore, al cantico degli ordinamenti, delle giustificazioni e delle magnificenze di Dio. Sotto le tempeste, si sentono maggiori dei turbini, della terra che calcano e dei mari che solcano, più che per il loro spirito immortale, per l’elevazione dei loro cuori verso Dio, « Sursum corda », per la loro preghiera e unione con Dio, « Habemus ad Dominum ».
E verso Dio, misericordioso e onnipotente, Venerabili Fratelli e diletti Figli, Noi leviamo il Nostro sguardo e la Nostra supplica, come la migliore e più efficace espressione della Nostra gratitudine per i vostri fervidi voti natalizi, i quali son pure una preghiera innalzata al Padre celeste, « da cui viene ogni ottima grazia e ogni perfetto dono » (Iac., 1, 17). Faccia Egli che, in questa unione di preghiera, ognuno di voi ottenga, presso il presepio dell’Unigenito suo Figlio fatto carne e tra noi abitante quella « mensuram bonam et confertam et coagitatam et supereffluentem » di gioia natalizia, cui Egli solo può largire; sicché, corroborati e alleviati da tanto gaudio, possiate generosamente e virilmente, da soldati di Cristo, proseguire il cammino vostro attraverso il deserto della vita terrena fino a quel tramonto, in cui dinanzi all’anelo vostro sguardo risplenda nell’aurora dell’eternità il monte del Signore, e in ciascuno di voi, rinato a novella vita di gaudio indefettibile, si compia la preghiera natalizia della Chiesa « di contemplare con fiducia come giudice quell’Unigenito, che ora accogliamo con gioia qual Redentore » (Orat. in Vig. Nat.).
Ma in quest’ora, in cui la vigilia del Santo Natale Ci procura la dolce letizia della vostra presenza, all’allegrezza si mesce e rivive in Noi, e senza dubbio non meno in voi, il mesto ricordo del glorioso Nostro Predecessore di s. m. (così piamente rievocato dal Venerabile Nostro Fratello il Cardinale Decano) e delle parole — è scorso solo un anno — parole indimenticabili, solenni e gravi, prorompenti dal profondo del suo cuore paterno, che voi con Noi ascoltaste, compresi di accoramento, come il «Nunc dimittis » del santo vegliardo Simeone; parole risonate in quest’aula, in pari vigilia, pregne del peso del presentimento, per non dire della visione presaga, di vicina sventura; parole di deprecante ammonimento, di eroico sacrificio di sé, i cui affocati accenti ancor oggi inteneriscono gli animi nostri.
L’indicibile sciagura della guerra, che Pio XI con profondo estremo cordoglio prevedeva, e con l’indomabile energia del suo nobile, altissimo spirito voleva con tutti i mezzi far lontana dalle contese delle nazioni, si è scatenata ed ormai è tragica realtà. Innanzi al suo rumoreggiare una immensa amarezza inonda l’animo Nostro, mesto e pensoso che il Santo Natale del Signore, del Principe della pace, debba oggi celebrarsi tra il funesto, funereo rombar dei cannoni, sotto il terrore di bellici ordigni volanti, in mezzo alle minacce e alle insidie dei navigli armati. E poiché sembra che il mondo abbia posto in dimenticanza il pacificante messaggio di Cristo, la voce della ragione, la fratellanza cristiana, abbiamo dovuto purtroppo assistere a una serie di atti inconciliabili sia colle prescrizioni del diritto internazionale positivo, che coi princípi del diritto naturale e cogli stessi più elementari sentimenti di umanità, atti i quali mostrano in quale caotico circolo vizioso si avvolge il senso giuridico sviato da pure considerazioni utilitarie. In questa categoria rientrano: la premeditata aggressione contro un piccolo, laborioso e pacifico popolo, col pretesto di una minaccia né esistente né voluta e nemmeno possibile; — le atrocità (da qualsiasi parte commesse) e l’uso illecito di mezzi di distruzione anche contro non combattenti e fuggiaschi, contro vecchi, donne e fanciulli; — il disprezzo della dignità, della libertà e della vita umana, da cui derivano atti che gridano vendetta al cospetto di Dio: « vox sanguinis fratris tui clamat ad me de terra » (Gen., 4, 10); la sempre più estesa e metodica propaganda anticristiana e persino atea, massime fra la gioventù.
A preservare la Chiesa e la sua missione tra gli uomini da ogni contatto con tale spirito anticristiano Ci sprona il Nostro dovere, che è anche intima e sacra  volontà, di Padre e Maestro di verità; e perciò rivolgiamo calda e insistente esortazione soprattutto ai ministri del Santuario e ai « distributori dei misteri di Dio », perché siano sempre avveduti ed esemplari nell’insegnamento e nella pratica dell’amore, e mai non dimentichino che nel regno di Cristo non vi è precetto più inviolabile né più fondamentale e sacro del servigio della verità e del vincolo dell’amore.
Con viva e angosciosa ansia Ci è forza purtroppo contemplare manifeste ai Nostri occhi le rovine spirituali, che si vengono accumulando a causa di una larga colluvie d’idee, la quale, più o meno volutamente o velatamente ottenebra e deforma la verità negli animi di tanti individui e popoli, travolti o no nella guerra; onde pensiamo quale immenso lavoro sarà necessario, — quando il mondo, stanco dal guerreggiarsi, vorrà ristabilire la pace —, per abbattere le mura ciclopiche dell’avversione e dell’odio, che nel calore della lotta sono state innalzate.
Consapevoli degli eccessi, a cui aprono la via e sospingono ineluttabilmente dottrine e opere di una politica non curante della legge di Dio, Noi, come ben sapete, allorché i contrasti divennero minacciosi, con tutto l’ardore del Nostro animo tentammo fino all’ultimo di evitare il peggio e di persuadere gli uomini, nelle cui mani era la forza e sulle cui spalle gravava una pesante responsabilità, di recedere da un conflitto armato e risparmiare al mondo imprevedibili sciagure. Gli sforzi nostri e quelli venuti da altre parti influenti e rispettate non fu vero che sortissero l’effetto sperato, soprattutto perché apparve irremovibile la profonda sfiducia, ingigantitasi negli animi durante gli ultimi anni, la quale aveva elevate insormontabili barriere spirituali tra i popoli.
Non erano insolubili i problemi, che si agitavano fra le nazioni; ma quella sfiducia, originata da una serie di circostanze particolari, impediva, quasi con forza irresistibile, che più ormai si prestasse fede alla efficacia di eventuali promesse e alla durata e vitalità di possibili convenzioni. Il ricordo della vita effimera e contrastata di simili trattative od accordi finì col paralizzare ogni sforzo per promuovere una soluzione pacifica.
Non Ci rimase, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che ripetere col Profeta: « Expectavimus pacem, et non est bonum, et tempus curationis, et ecce turbatio » (Ier., 14, 19) e adoperarCi intanto ad alleviare, per quanto è da Noi, le sventure derivanti dalla guerra, sebbene tale azione sia non poco impedita dalla impossibilità, non ancora superata, di portare il soccorso della carità cristiana in regioni, ove più vivo ed urgente se ne sentirebbe il bisogno. Con inesprimibile angoscia da quattro mesi veniamo osservando questa guerra, iniziata e proseguita in così insolite circostanze, far cumuli di tragiche rovine. E se finora — eccettuato il suolo insanguinato della Polonia e della Finlandia — il numero delle vittime può considerarsi inferiore a quel che si temeva, la somma di dolori e di sacrifici è giunta a tal punto da incutere viva ansietà in chi si preoccupa del futuro stato economico, sociale e spirituale dell’Europa, e non dell’Europa soltanto. Quanto più il mostro della guerra si procaccia, inghiotte e si aggiudica i mezzi materiali, che inesorabilmente vengono tutti messi al servizio delle necessità guerresche, d’ora in ora crescenti, tanto più acuto diventa per le nazioni, direttamente o indirettamente colpite dal conflitto, il pericolo di una, vorremmo dire, anemia perniciosa, e si affaccia l’incalzante domanda: come potrà, a guerra finita, una economia esausta o estenuata trovare i mezzi per la ricostruzione economica e sociale, tra difficoltà che d’ogni lato saranno enormemente aumentate, e delle quali le forze e le arti del disordine, che si tengono in agguato, cercheranno di valersi, nella speranza di poter dare all’Europa cristiana il colpo decisivo?
Simili considerazioni del presente e dell’avvenire debbono tener sopra pensiero, pur nella febbre della lotta, i governanti e la parte sana di ogni popolo, e muoverla e spingerla a esaminarne gli effetti e a riflettere sugli scopi e sulle finalità giustificabili della guerra.
E pensiamo che coloro i quali con occhio vigile mirino queste gravi previsioni e considerino con mente pacata i sintomi che in molte parti del mondo accennano a tale evoluzione degli eventi, si terranno, nonostante la guerra e le sue dure necessità, interiormente disposti a definire, al momento opportuno e propizio, chiaramente, per quanto li riguarda, i punti fondamentali di una pace giusta e onorevole, né rifiuterebbero senz’altro le trattative, qualora se ne presentasse l’occasione con le necessarie garanzie e cautele.
1° Un postulato fondamentale di una pace giusta e onorevole è assicurare il diritto alla vita e all’indipendenza di tutte le nazioni, grandi e piccole, potenti e deboli. La volontà di vivere d’una nazione non deve mai equivalere alla sentenza di morte per un’altra. Quando questa uguaglianza di diritti sia stata distrutta o lesa o posta in pericolo, l’ordine giuridico esige una riparazione, la cui misura e estensione non è determinata dalla spada o dall’arbitrio egoistico, ma dalle norme di giustizia e di reciproca equità.
2° Affinché l’ordine, in tal modo stabilito, possa avere tranquillità e durata, cardini di una vera pace, le nazioni devono venir liberate dalla pesante schiavitù della corsa agli armamenti e dal pericolo che la forza materiale, invece di servire a tutelare il diritto, ne divenga tirannica violentatrice. Conclusioni di pace, che non attribuissero fondamentale importanza ad un disarmo mutuamente consentito, organico, progressivo, sia nell’ordine pratico che in quello spirituale, e non curassero di attuarlo lealmente, rivelerebbero, presto o tardi, la loro inconsistenza e mancanza di vitalità.
3° In ogni riordinamento della convivenza internazionale, sarebbe conforme alle massime dell’umana saggezza che da tutte le parti in causa si deducessero le conseguenze dalle lacune o dalle deficienze del passato; e nel creare o ricostituire le istituzioni internazionali, che hanno una missione tanto alta, ma in pari tempo così difficile e piena di gravissime responsabilità, si dovrebbero tener presenti le esperienze che sgorgassero dall’inefficacia o dal difettoso funzionamento di simili anteriori iniziative. E poiché alla debolezza umana è così malagevole, si sarebbe tentati di dire, quasi impossibile, di tutto prevedere e tutto assicurare al momento delle trattative di pace, quando torna difficile l’esser scevri di passione e d’amarezza, la costituzione di giuridiche istituzioni, che servano a garantire la leale e fedele attuazione delle convenzioni e, in caso di riconosciuto bisogno, a rivederle e correggerle, è d’importanza decisiva per una onorevole accettazione di un trattato di pace e per evitare arbitrarie e unilaterali lesioni e interpretazioni delle condizioni dei trattati medesimi.
4° In particolare, un punto, che dovrebbe attirare l’attenzione, se si vuole un migliore ordinamento dell’Europa, riguarda i veri bisogni e le giuste richieste delle nazioni e dei popoli, come pure delle minoranze etniche; richieste le quali, se non bastano sempre a fondare uno stretto diritto, quando siano in vigore trattati riconosciuti e sanciti o altri titoli giuridici, che vi si oppongano, meritano tuttavia un benevolo esame, per venire loro incontro in vie pacifiche e anche, ove apparisca necessario, per mezzo di una equa, saggia e concorde revisione dei trattati. Ricondotto così un vero equilibrio tra le nazioni, e ricostituite le basi di una mutua fiducia, si allontanerebbero molti incentivi a ricorrere alla violenza.
5° Ma anche i regolamenti migliori e più compiuti saranno imperfetti e condannati in definitiva all’insuccesso, se quei che dirigono le sorti dei popoli, e i popoli stessi, non si lasciano penetrare sempre più da quello spirito, da cui solo può provenire vita, autorità e obbligazione alla lettera morta dei paragrafi negli ordinamenti internazionali; da quel senso, cioè, di intima e acuta responsabilità che misura e pondera gli statuti umani secondo le sante e incrollabili norme del diritto divino; da quella fame e sete di giustizia, che è proclamata come beatitudine nel Sermone della Montagna e che ha come naturale presupposto la giustizia morale; da quell’amore universale, che è il compendio e il termine più proteso dell’ideale cristiano e per ciò getta un ponte anche verso coloro, i quali non hanno il bene di partecipare alla stessa nostra fede.
Non misconosciamo quanto gravi siano le difficoltà che si frappongono al conseguimento dei fini, da Noi tracciati in grandi linee, per fondare, porre in atto e conservare una giusta pace internazionale. Ma se mai vi fu scopo degno del concorso degli spiriti nobili e generosi, se mai sorse ardimento di crociata spirituale, in cui con nuova verità risonasse il grido « Dio lo vuole », è veramente quest’altissimo scopo e questa crociata e lotta di cuori puri e magnanimi, ingaggiata per ricondurre i popoli dalle torbide cisterne di interessi materiali ed egoistici alla fonte viva del diritto divino, il quale solo è potente a dare quella moralità, nobiltà e stabilità, di cui troppo e troppo a lungo si è sentito il difetto e il bisogno con grave iattura delle nazioni e dell’umanità.
A questi ideali, che sono in pari tempo i fini reali di una vera pace nella giustizia e nell’amore, Noi aspettiamo e speriamo che tutti quelli i quali a Noi sono uniti col vincolo della fede, ciascuno al suo posto e entro i limiti della sua missione, tengano aperta la mente e il cuore; affinché, quando l’uragano della guerra sia sul cessare e disperdersi, sorgano, presso tutti i popoli e le nazioni, spiriti preveggenti e puri, animati dal coraggio che sappia e valga ad opporre al tenebroso istinto di bassa vendetta la severa e nobile maestà della giustizia, sorella dell’amore e compagna di ogni verace saggezza.
Di questa giustizia, che sola vale a creare la pace e assicurarla, Noi, e con Noi quanti ascoltano la Nostra voce, non ignoriamo dove ci è dato trovare il sublime esemplare, l’intimo impulso e la sicura promessa. «Transeamus usque Bethlehem, et videamus » (Luc., 2, 15). Andiamo a Betlemme. Ivi troveremo giacente nel presepio il nato « Sole della giustizia, Cristo Dio nostro », e al suo fianco la Vergine Madre, « specchio della giustizia » e « regina della pace », col santo custode Giuseppe, « l’uomo giusto ». Gesù è l’Aspettato delle genti. I profeti lo additarono, e ne cantarono i futuri trionfi: « et vocabitur nomen eius Admirabilis, Consiliarius, Deus, Fortis, Pater futuri saeculi, Princeps pacis » (Is., 9, 6).
Alla nascita di questo celeste Bambino, un altro Principe della pace sedeva sulle sponde del Tevere e aveva con solenni cerimonie dedicato un’Ara Pacis Augustae, le cui meravigliose ma infrante reliquie, sepolte già sotto le rovine di Roma, hanno levato il capo in mezzo alla nostra età. Su quell’altare Augusto sacrificò a dèi che non salvano. Ma è lecito pensare che il vero Dio ed eterno Principe della pace, che pochi anni dopo discese fra gli uomini, abbia esaudito l’anelito di quel tempo per la pace e che la pace augustea sia stata quasi una figura di quella pace soprannaturale, che Egli solo può dare ed in cui ogni vera pace terrestre è necessariamente compresa, di quella pace conquistata, non col ferro, ma col legno della culla di questo Infante Signore della pace, e col legno della sua futura croce di morte, irrorata del suo sangue, sangue non di odio e rancore, ma di amore e perdono.
Andiamo dunque a Betlemme, alla grotta del nato Re della pace, cantata sulla sua culla dalle schiere degli Angeli; e genuflessi dinanzi a Lui, in nome di questa umanità inquieta e sconvolta, in nome degli innumerevoli, senza distinzione di popolo e di nazione, che sanguinano e muoiono, o sono piombati nel pianto e nella miseria, o hanno perduto la patria, rivolgiamoGli la nostra invocazione di pace e concordia, di aiuto e di salvezza con le parole, che la Chiesa pone in questi giorni sulle labbra dei suoi figli: «O Emmanuel, Rex et legifer noster, exspectatio Gentium et salvator earum, veni ad salvandum nos, Domine, Deus noster » (Brev. rom.).
Mentre in questa preghiera effondiamo la nostra insaziata aspirazione verso una pace nello spirito di Cristo, Mediatore di pace fra il cielo e la terra, con la sua benignità e umanità apparsa in mezzo a noi, ed esortiamo caldamente i fedeli cristiani ad associare con le Nostre intenzioni anche i loro sacrifici e le loro preghiere, impartiamo, Venerabili Fratelli e diletti Figli, a voi e a tutti quelli che portate nel vostro cuore, a tutti gli uomini di buona volontà, che si trovano sulla faccia della terra, specialmente ai sofferenti, agli angustiati, ai perseguitati, ai prigionieri, agli oppressi di ogni regione e Paese, con immutato affetto, come pegno di grazie e di consolazioni e conforti celesti, l’Apostolica Benedizione.
Alla fine di questo Nostro discorso non vogliamo privarCi della gioia di annunziarvi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, essere giunto stamane dalla Delegazione Apostolica di Washington un telegramma, della cui parte introduttiva ed essenziale teniamo a darvi lettura:
«Il Signor Presidente, chiamato stamane Monsignor Spellman, Arcivescovo di New York, dopo un colloquio con lui, lo ha inviato a me insieme al Signor Berle, Assistant Secretary of State, consegnando una lettera per Sua Santità, che qui trascrivo, secondo il desiderio dello stesso Signor Presidente, letteralmente. In essa il Signor Presidente stabilisce di nominare un rappresentante del Presidente con rango di Ambasciatore straordinario, ma senza titolo formale, presso la Santa Sede. Questo rappresentante sarà l’onorevole Myron Taylor, che partirà per Roma fra circa un mese. La notizia sarà resa di pubblica ragione domani ufficialmente ».
Segue il testo della lettera in lingua inglese, che sarà pubblicato sull’Osservatore Romano.
È un annunzio natalizio che non poteva giungerCi più gradito, giacché esso rappresenta, da parte dell’eminente Capo di una così grande e potente Nazione, un valido e promettente contributo alle Nostre sollecitudini, sia per il conseguimento di una pace giusta ed onorevole, come per una più efficace e larga opera intesa ad alleviare le sofferenze delle vittime della guerra. Perciò teniamo ad esprimere qui per questo atto nobile e generoso del Signor Presidente Roosevelt le Nostre felicitazioni e il Nostro grato animo.


*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, I,
  Primo anno di Pontificato, 2 marzo 1939 - 1° marzo 1940, pp. 435-445
  Tipografia Poliglotta Vaticana


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1941
Pentecoste 1941  - 1 giugno 1941
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, in occasione della Pentecoste del 1941, nel 50° anniversario dell’enciclica «Rerum novarum» (1891), diffuso il 1-6-1941, nella solennità di Pentecoste
  
La solennità della Pentecoste, glorioso natale della Chiesa di Cristo, è all'animo Nostro, diletti figli dell'universo intero, un dolce e propizio invito fecondo di alto ammonimento, per indirizzarvi, tra le difficoltà e i contrasti dei tempi presenti, un messaggio di amore d'incoraggiamento e di conforto. Vi parliamo in un momento, in cui tutte le energie e forze fisiche e intellettuali di una porzione sempre crescente dell'umanità stanno, in misura e con ardore non mai prima conosciuti, tese sotto la ferrea inesorabile legge di guerra: e da altre parlanti antenne volano accenti pregni di esasperazione e di acrimonia, di scissione e di lotta.
Ma le antenne del Colle Vaticano, della terra consacrata a centro intemerato della Buona Novella e della sua benefica diffusione nel mondo dal martirio e dal sepolcro del primo Pietro, non possono trasmettere se non parole che s'informano e si animano dello spirito consolatore della predica, di cui alla prima Pentecoste per la voce di Pietro risonò e si commosse Gerusalemme; spirito di ardente amore apostolico, spirito che non sente brama più viva e gioia più santa di quella di tutti condurre, amici e nemici, ai piedi del Crocifisso del Golgota, al sepolcro del glorificato Figlio di Dio e Redentore del genere umano, per convincere tutti che solo in lui, nella verità da lui insegnata, nell'amore di lui, benefacendo e sanando tutti, dimostrato e vissuto fino a far sacrificio di sé per la vita del mondo, si può trovare verace salvezza e duratura felicità per gl'individui e per i popoli.
[3] In quest'ora, gravida di eventi in potere del consiglio divino, che regge la storia delle nazioni e veglia sulla Chiesa, è per Noi gioia e soddisfazione intima, nel far sentire a voi, diletti figli, la voce del Padre comune, il chiamarvi quasi ad una breve e universale adunata cattolica, affinché possiate sperimentalmente provare nel vincolo della pace la dolcezza delcor unum e dell' anima una, (Cf At 4,32.) che cementava, sotto l'impulso dello Spirito divino, la comunità di Gerusalemme nel dì della Pentecoste. Quanto più le condizioni, originate dalla guerra, rendono in molti casi difficile un contatto diretto e vivo tra il Sommo Pastore e il suo gregge, con tanta maggior gratitudine salutiamo il rapidissimo ponte di unione, che il genio inventivo dell'età nostra lancia in un baleno attraverso l'etere collegando oltre monti, mari e continenti ogni angolo della terra. E ciò che per molti è arma di lotta, si trasforma per Noi in strumento provvidenziale di apostolato operoso e pacifico, che attua e innalza a un significato nuovo la parola della Scrittura: «In omnem terram exivit sonus eorum; et in fines orbis terrae verba eorum» (Sal 18,5; Rm 10,18). Così pare che si rinnovi il gran miracolo della Pentecoste, quando le diverse genti dalle regioni di altre lingue convenute in Gerusalemme ascoltavano nel loro idioma la voce di Pietro e degli Apostoli. Con sincero compiacimento Ci serviamo oggi di un tal mezzo meraviglioso, per attirare l'attenzione del mondo cattolico sopra una ricorrenza, meritevole di essere a caratteri d'oro segnata nei fasti della Chiesa: sul cinquantesimo anniversario, cioè, della pubblicazione, avvenuta il 15 maggio 1891, della fondamentale enciclica socialeRerum novarum di Leone XIII. 
Mosso dalla convinzione profonda che alla Chiesa compete non solo il diritto, ma ancora il dovere di pronunziare una parola autorevole sulle questioni sociali, Leone XIII diresse al mondo il suo messaggio. Non già che egli intendesse di stabilire norme sul lato puramente pratico, diremmo quasi tecnico, della costituzione sociale; perché ben sapeva e gli era evidente - e il nostro predecessore di s. m. Pio XI lo ha dichiarato or è un decennio nella sua enciclica commemorativaQuadragesimo anno - che la Chiesa non si attribuisce tale missione. Nell'ambito generale del lavoro, allo sviluppo sano e responsabile di tutte le energie fisiche e spirituali degl'individui e alle loro libere organizzazioni si apre un vastissimo campo di azione multiforme, dove il pubblico potere interviene con una sua azione integrativa e ordinativa, prima per mezzo delle corporazioni locali e professionali, e infine per forza dello Stato stesso, la cui superiore e moderatrice autorità sociale ha l'importante ufficio di prevenire i perturbamenti di equilibrio economico sorgenti dalla pluralità e dai contrasti degli egoismi concorrenti, individuali e collettivi.
E' invece inoppugnabile competenza della Chiesa, in quel lato di ordine sociale dove si accosta ed entra a toccare il campo morale, il giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in accordo con l'ordine immutabile, che Dio creatore e redentore ha manifestato per mezzo del diritto naturale e della rivelazione: doppia manifestazione, alla quale si richiama Leone XIII nella sua enciclica. E con ragione: perché i dettami del diritto naturale e le verità della rivelazione promanano per diversa via, come due rivi d'acque non contrarie, ma concordi, dalla medesima fonte divina; e perché la Chiesa, custode dell'ordine soprannaturale cristiano, in cui convergono natura e grazia, ha da formare le coscienze, anche le coscienze di coloro, che sono chiamati a trovare soluzioni per i problemi e i doveri imposti dalla vita sociale. Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s'insinua anche il bene o il male nelle anime, vale a dire, se gli uomini chiamati tutti ad essere vivificati dalla grazia di Cristo, nelle terrene contingenze del corso della vita respirino il sano e vivido alito della verità e della virtù morale o il bacillo morboso e spesso letale dell'errore della depravazione. Dinnanzi a tale considerazione e previsione come potrebbe esser lecito alla Chiesa, madre tanto amorosa e sollecita del bene dei suoi figli, di rimanere indifferente spettatrice dei loro pericoli, tacere o fingere di non vedere e ponderare condizioni sociali che, volutamente o no, rendono ardua o praticamente impossibile una condotta di vita cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore?
Consapevole di tale gravissima responsabilità Leone XIII, indirizzando la sua enciclica al mondo, additava alla coscienza cristiana gli errori e i pericoli della concezione di un socialismo materialista, le fatali conseguenze di un liberalismo economico, spesso inconscio o dimentico o sprezzante dei doveri sociali; ed esponeva con magistrale chiarezza e mirabile precisione i principi convenienti e acconci a migliorare - gradatamente e pacificamente - le condizioni materiali e spirituali dell'operaio.
Che se, diletti figli, oggi, dopo un cinquantennio dalla pubblicazione dell'enciclica, voi Ci domandate fino a qual segno e misura l'efficacia della sua parola corrispose alle nobili intenzioni, ai pensieri ricchi di verità, ai benefici indirizzi intesi e suggeriti dal suo sapiente Autore, sentiamo di dovervi rispondere: proprio per rendere a Dio onnipotente, dal fondo dell'animo Nostro, umili grazie per il dono, che, or sono cinquant'anni, largì alla Chiesa con quell'enciclica del suo vicario in terra, e per lodarlo del soffio dello Spirito rinnovatore, che per essa, da allora in modo sempre crescente, effuse sull'umanità intera. Noi, in questa solennità della Pentecoste, Ci siamo proposti di rivolgervi la Nostra parola.
Già il nostro Predecessore Pio XI esaltò nella prima parte della sua enciclica commemorativa la splendida messe, cui aveva maturata la Rerum novarum, germe fecondo, donde si svolse una dottrina sociale cattolica, che offrì ai figli della Chiesa, sacerdoti e laici, ordinamenti e mezzi per una ricostruzione sociale, esuberante di frutti; sicché per lei sorsero nel campo cattolico numerose e varie istituzioni benefiche e fiorenti centri di reciproco soccorso in favore proprio e d'altrui. Quale prosperità materiale e naturale, quali frutti spirituali e soprannaturali, non sono provenuti agli operai e alle loro famiglie dalle unioni cattoliche! Quanto efficace e opportuno al bisogno non si è dimostrato il contributo dei sindacati e delle associazioni in pro del ceto agricolo e medio per sollevarne le angustie, assicurarne la difesa e la giustizia, e in tal modo, mitigando le passioni, preservare da turbamenti la pace sociale!
Né questo fu tutto il vantaggio. L'enciclica Rerum novarum, accostandosi al popolo, che abbracciava con stima e amore, penetrò nei cuori e nelle menti della classe operaia e vi infuse sentimento cristiano e dignità civile; a segno tale che la potenza dell'attivo suo influsso venne, con lo scorrere degli anni, così efficacemente esplicandosi e diffondendosi, da far diventare le sue norme quasi comune patrimonio della famiglia umana. E mentre lo Stato, nel secolo decimonono, per soverchio esaltamento di libertà, considerava come suo scopo esclusivo il tutelare la libertà con il diritto, Leone XIII lo ammonì essere insieme suo dovere l'applicarsi alla provvidenza sociale, curando il benessere del popolo intero e di tutti i suoi membri, particolarmente dei deboli e diseredati, con larga politica sociale e con creazione di un diritto del lavoro. Alla sua voce rispose un'eco potente; ed è sincero debito di giustizia riconoscere i progressi, che la sollecitudine delle autorità civili di molte nazioni hanno procurato alla condizione dei lavoratori. Onde ben fu detto che la Rerum novarumdivenne la Magna Charta dell'operosità sociale cristiana.
Intanto trascorreva un mezzo secolo, che ha lasciato solchi profondi e tristi fermenti nel terreno delle nazioni e delle società.
Le questioni, che i mutamenti e rivolgimenti sociali e soprattutto economici offrivano a un esame morale dopo la Rerum novarum sono state con penetrante acutezza trattate dal Nostro immediato Predecessore nella enciclica Quadragesimo anno. Il decennio che la seguì non fu meno ricco degli anni anteriori per sorprese nella vita sociale ed economica, e ha versate le irrequiete e oscure sue acque nel pelago di una guerra, che può avere imprevedibili flutti urtanti l'economia e la società.
Quali problemi e quali assunti particolari, forse del tutto nuovi, presenterà alla sollecitudine della Chiesa la vita sociale dopo il conflitto che mette a fronte tanti popoli, l'ora presente rende difficile designare e antivedere. Tuttavia, se il futuro ha radice nel passato, se l'esperienza degli ultimi anni Ci è maestra per l'avvenire, Noi pensiamo di servirci dell'odierna commemorazione per dare ulteriori principi direttivi morali sopra tre fondamentali valori della vita sociale ed economica; e ciò faremo animati dallo stesso spirito di Leone XIII e svolgendo le sue vedute veramente, più che profetiche, presaghe dell'insorgente processo sociale dei tempi. Questi tre valori fondamentali, che s'intrecciano, si saldano e si aiutano a vicenda, sono: l'uso dei beni materiali, il lavoro, la famiglia. 
L'Enciclica Rerum novarum espone sulla proprietà e sul sostentamento dell'uomo principi, i quali col tempo nulla hanno perduto del nativo loro vigore e, oggi dopo cinquant'anni, conservano ancora e profondono vivificante la loro intima fecondità. Sopra il loro punto fondamentale, Noi stessi abbiamo richiamata l'attenzione comune nella Nostra enciclicaSertum laetitiae, diretta ai Vescovi degli Stati Uniti dell'America del Nord: punto fondamentale, che consiste, come dicemmo, nell'affermazione della inderogabile esigenza «che i beni, da Dio creati per tutti gli uomini, equamente affluiscano a tutti, secondo i principi della giustizia e della carità».
Ogni uomo, quale vivente dotato di ragione, ha infatti dalla natura il diritto fondamentale di usare dei beni materiali della terra, pur essendo lasciato alla volontà umana e alle forme giuridiche dei popoli di regolarne più particolarmente la pratica attuazione. Tale diritto individuale non può essere in nessun modo soppresso, neppure da altri diritti certi e pacifici sui beni materiali. Senza dubbio l'ordine naturale, derivante da Dio, richiede anche la proprietà privata e il libero reciproco commercio dei beni con scambi e donazioni, come pure la funzione regolatrice del potere pubblico su entrambi questi istituti. Tutto ciò nondimeno rimane subordinato allo scopo naturale dei beni materiali, e non potrebbe rendersi indipendente dal diritto primo e fondamentale, che a tutti ne concede l'uso; ma piuttosto deve servire a farne possibile l'attuazione in conformità con il suo scopo. Così solo si potrà e si dovrà ottenere che proprietà e uso dei beni materiali portino alla società pace feconda e consistenza vitale, non già costituiscano condizioni precarie, generatrici di lotte e gelosie, e abbandonate in balia dello spietato giuoco della forza e della debolezza.
Il diritto originario sull'uso dei beni materiali, per essere in intima connessione con la dignità e con gli altri diritti della persona umana, offre ad essa con le forme sopra indicate una base materiale sicura, di somma importanza per elevarvi al compimento dei suoi doveri morali. La tutela di questo diritto assicurerà la dignità personale dell'uomo, e gli agevolerà l'attendere e il soddisfare in giusta libertà a quella somma di stabili obbligazioni e decisioni, di cui è direttamente responsabile verso il Creatore.
Spetta invero all'uomo il dovere del tutto personale di conservare e ravviare a perfezionamento la sua vita materiale e spirituale, per conseguire lo scopo religioso e morale, che Dio ha assegnato a tutti gli uomini e dato loro quale norma suprema, sempre e in ogni caso obbligante, prima di tutti gli altri doveri.
Tutelare l'intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere. Non è forse questo che porta con sé il significato genuino del bene comune, che lo Stato è chiamato a promuovere? Da qui nasce che la cura di un tal bene comune non importa un potere tanto esteso sui membri della comunità, che in virtù di esso sia concesso all'autorità pubblica di menomare lo svolgimento dell'azione individuale sopra descritta, decidere sull'inizio o (escluso il caso di legittima pena) sul termine della vita umana, determinare a proprio talento la maniera del suo movimento fisico, spirituale, religioso e morale in contrasto con i personali doveri e diritti dell'uomo, e a tale intento abolire o privare d'efficacia il diritto naturale ai beni materiali. Dedurre tanta estensione di potere dalla cura del bene comune vorrebbe dire travolgere il senso stesso del bene comune e cadere nell'errore di affermare che il proprio scopo dell'uomo sulla terra è la società, che la società è fine a se stessa, che l'uomo non ha altra vita che l'attende fuori di quella che si termina quaggiù.
Anche l'economia nazionale, com'è frutto dell'attività di uomini che lavorano uniti nella comunità statale, così ad altro non mira che ad assicurare senza interrompimento le condizioni materiali, in cui possa svilupparsi pienamente la vita individuale dei cittadini. Dove ciò, e in modo duraturo si ottenga, un popolo sarà, a vero dire, economicamente ricco, perché il benessere generale e, per conseguenza, il diritto personale di tutti all'uso dei beni terreni viene in tal modo attuato conformemente all'intento voluto dal Creatore.
Dal che, diletti figli, vi tornerà agevole scorgere che la ricchezza economica di un popolo non consiste propriamente nell'abbondanza dei beni, misurata secondo un computo puro e pretto materiale del loro valore, bensì in ciò che tale abbondanza rappresenti e porga realmente ed efficacemente la base materiale bastevole al debito sviluppo personale dei suoi membri. Se una simile giusta distribuzione dei beni non fosse attuata o venisse procurata solo imperfettamente, non si raggiungerebbe il vero scopo dell'economia nazionale; giacché, per quanto soccorresse una fortunata abbondanza di beni disponibili, il popolo, non chiamato a parteciparne, non sarebbe economicamente ricco, ma povero. Fate invece che tale giusta distribuzione sia effettuata realmente e in maniera durevole, e vedrete un popolo, anche disponendo di minori beni, farsi ed essere economicamente sano.
Questi concetti fondamentali, riguardanti la ricchezza e la povertà dei popoli, Ci sembra particolamente opportuno porre innanzi alla vostra considerazione oggi, quando si è inclinati a misurare e giudicare tale ricchezza e povertà con bilance e con criteri semplicemente quantitativi, sia dello spazio, sia della ridondanza dei beni. Se invece si pondera rettamente lo scopo dell'economia nazionale, allora esso diverrà luce per gli sforzi degli uomini di Stato e dei popoli e li illuminerà a incamminarsi spontaneamente per una via, che non esigerà continui gravami in beni e in sangue, ma donerà frutti di pace e di benessere generale.
Con l'uso dei beni materiali voi stessi, diletti figli, comprendete come viene a congiungersi il lavoro. La Rerum novaruminsegna che due sono le proprietà del lavoro umano: esso è personale ed è necessario. E' personale, perché si compie con l'esercizio delle particolari forze dell'uomo: è necessario, perché senza di esso non si può procurare ciò che è indispensabile alla vita, mantenere la quale è un dovere naturale, grave, individuale.
Al dovere personale del lavoro imposto dalla natura corrisponde e consegue il diritto naturale di ciascun individuo a fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli: tanto altamente è ordinato per la conservazione dell'uomo l'impero della natura.
Ma notate che tale dovere e il relativo diritto al lavoro viene imposto e concesso all'individuo in primo appello dalla natura, e non già dalla società, come se l'uomo altro non fosse che un semplice servo o funzionario della comunità. Dal che segue che il dovere e il diritto a organizzare il lavoro del popolo appartengono innanzi tutto agli immediati interessati: datori di lavoro e operai. Che se poi essi non adempiano il loro compito o ciò non possano fare per speciali straordinarie contingenze, allora rientra nell'ufficio dello Stato l'intervento nel campo e nella divisione e nella distribuzione del lavoro, secondo la forma e la misura che richiede il bene comune rettamente inteso.
Ad ogni modo, qualunque legittimo e benefico intervento statale nel campo del lavoro vuol esser tale da salvarne e rispettarne il carattere personale, sia in linea di massima, sia, nei limiti del possibile, per quel che riguarda l'esecuzione. E questo avverrà, se le norme statali non aboliscano né rendano inattuabile l'esercizio di altri diritti e doveri ugualmente personali: quali sono il diritto al vero culto di Dio; al matrimonio; il diritto dei coniugi, del padre e della madre a condurre la vita coniugale e domestica; il diritto a una ragionevole libertà nella scelta dello stato e nel seguire una vera vocazione; diritto quest'ultimo personale, se altro mai, dello spirito dell'uomo ed eccelso, quando gli si accostino i diritti superiori e imprescindibili di Dio e della Chiesa, come nella scelta e nell'esercizio delle vocazioni sacerdotali e religiose. 
Secondo la dottrina della Rerum novarum, la natura stessa ha intimamente congiunto la proprietà privata con l'esistenza dell'umana società e con la sua vera civiltà, e in grado eminente con l'esistenza e con lo sviluppo della famiglia. Un tal vincolo appare più che apertamente; non deve forse la proprietà privata assicurare al padre di famiglia la sana libertà, di cui ha bisogno, per poter adempiere i doveri assegnatigli dal Creatore, concernenti il benessere fisico, spirituale e religioso della famiglia?
Nella famiglia la nazione trova la radice naturale e feconda della sua grandezza e potenza. Se la proprietà privata ha da condurre al bene della famiglia, tutte le norme pubbliche, anzitutto quelle dello Stato che ne regolano il possesso, devono non solo rendere possibile e conservare tale funzione - funzione nell'ordine naturale sotto certi rapporti superiore a ogni altra - ma ancora perfezionarla sempre più. Sarebbe infatti innaturale un vantato progresso civile, il quale - o per la sovrabbondanza di carichi o per soverchie ingerenze immediate - rendesse vuota di senso la proprietà privata, togliendo praticamente alla famiglia e al suo capo la libertà di perseguire lo scopo da Dio assegnato al perfezionamento della vita familiare.
Fra tutti i beni che possono esser oggetto di proprietà privata nessuno è più conforme alla natura, secondo l'insegnamento della Rerum novarum, di quanto è il terreno, il podere, in cui abita la famiglia, e dai cui frutti trae interamente o almeno in parte il di che vivere. Ed è nello spirito della Rerum novarum l'affermare che, di regola, solo quella stabilità, che si radica in un proprio podere, fa della famiglia la cellula vitale più perfetta e feconda della società, riunendo splendidamente con la sua progressiva coesione le generazioni presenti e future. Se oggi il concetto e la creazione di spazi vitali è al centro delle mete sociali e politiche, non si dovrebbe forse, avanti ogni cosa, pensare allo spazio vitale della famiglia e liberarla dai legami di condizione, che non permettono neppure la formazione dell'idea di un proprio casolare?
Il nostro pianeta con tanti estesi oceani e mari e laghi, con monti e piani coperti di neve e di ghiacci eterni, con grandi deserti e terre inospite e sterili, non è pur scarso di regioni e luoghi vitali abbandonati al capriccio vegetativo della natura e ben confacentesi alla coltura della mano dell'uomo, ai suoi bisogni e alle sue operazioni civili; e più di una volta è inevitabile che alcune famiglie, di qua o di là emigrando, si cerchino altrove una nuova patria. Allora, secondo l'insegnamento della Rerum novarum, va rispettato il diritto della famiglia ad uno spazio vitale. Dove questo accadrà, l'emigrazione raggiungerà il suo scopo naturale, che spesso convalida l'esperienza, vogliamo dire la distribuzione più favorevole degli uomini sulla superficie terrestre, acconcia a colonie di agricoltori; superficie che Dio creò e preparò per uso di tutti. Se le due parti, quella che concede di lasciare il luogo natio e quella che ammette i nuovi venuti, rimarranno lealmente sollecite di eliminare quanto potrebbe essere d'impedimento al nascere e allo svolgersi di una verace fiducia tra il paese di emigrazione e il paese d'immigrazione, tutti i partecipanti a tale tramutamento di luoghi e di persone ne avranno vantaggio: le famiglie riceveranno un terreno che sarà per loro terra patria nel vero senso della parola; le terre di densi abitanti resteranno alleggerite e i loro popoli si creeranno nuovi amici in territori stranieri; e gli Stati che accolgono gli emigrati guadagneranno cittadini operosi. Così le nazioni che danno e gli Stati che ricevono, in pari gara, contribuiranno all'incremento del benessere umano e al progresso dell'umana cultura.
[26] Sono questi, diletti figli, i principi, le concezioni e le norme, con cui Noi vorremmo cooperare fin da ora alla futura organizzazione di quell'ordine nuovo, che dall'immane fermento della presente lotta il mondo si attende e si augura che nasca, e nella pace e nella giustizia tranquilli i popoli. Che resta a Noi, se non nello spirito di Leone XIII e nell'intento dei suoi nobili ammonimenti e fini, esortarvi a proseguire e promuovere l'opera, che la precedente generazione dei vostri fratelli e delle sorelle vostre hanno con si ardimentoso animo fondata? Non si spenga in mezzo a voi o si faccia fioca la voce insistente dei due pontefici delle encicliche sociali, che altamente addita ai credenti nella rigenerazione soprannaturale dell'umanità il dovere morale di cooperare all'ordinamento della società e, in special modo della vita economica, accendendo all'azione non meno coloro i quali a tale vita partecipano che lo Stato stesso. Non è forse ciò un sacro dovere per ogni cristiano? Non vi sgomentino, diletti figli, le esterne difficoltà, né vi disanimi l'ostacolo del crescente paganesimo della vita pubblica. Non vi traggano in inganno i fabbricatori di errori e di malsane teorie, tristi correnti non d'incremento, ma piuttosto di disfacimento e di corrompimento della vita religiosa; correnti, le quali pretendono che, appartenendo la redenzione all'ordine della grazia soprannaturale ed essendo perciò esclusiva opera di Dio, non abbisogna della nostra cooperazione sulla terra. Oh misera ignoranza dell'opera di Dio! « Dicentes enim se esse, sapientes, stulti facti sunt» (Rm 1,22).
Quasi che la prima efficacia della grazia non fosse di corroborare i nostri sforzi sinceri per adempiere ogni di i comandi di Dio, come individui e come membri della società; quasi che da due millenni non viva e perseveri nell'anima della Chiesa il senso della responsabilità collettiva di tutti per tutti, onde furono e sono mossi gli spiriti fino all'eroismo caritativo dei monaci agricoltori, dei liberatori di schiavi, dei sanatori d'infermi, dei portatori di fede, di civiltà e di scienza a tutte le età e a tutti i popoli, per creare condizioni sociali che solo valgono per rendere a tutti possibile e agevole una vita degna dell'uomo e del cristiano. Ma voi, consci e convinti di tale sacra responsabilità, non siate mai in fondo all'anima vostra paghi di quella generale mediocrità pubblica in cui il comune degli uomini non possa, se non con atti eroici di virtù, osservare i divini precetti inviolabili sempre e in ogni caso.
Se tra il proposito e l'attuazione apparve talvolta evidente la sproporzione; se vi furono falli, comuni del resto a ogni umana attività; se diversità di pareri nacquero sulla via seguita o da seguirsi, tutto ciò non ha da far cadere d'animo o rallentare il vostro passo o suscitare lamenti o accuse; né può far dimenticare il fatto consolante che dall'ispirato messaggio del pontefice della Rerum novarum scaturì vivida e limpida una sorgente di spirito sociale forte, sincero, disinteressato; una sorgente la quale, se oggi potrà venire in parte coperta da una valanga di eventi diversi e più forti, domani, rimosse le rovine di questo uragano mondiale, all'iniziarsi il lavoro di ricostruzione di un nuovo ordine sociale, implorato degno di Dio e dell'uomo, infonderà nuovo gagliardo impulso e nuova onda di rigoglio e crescimento in tutta la fioritura della cultura umana. Custodite la nobile fiamma di spirito sociale fraterno, che, or è mezzo secolo, riaccese nei cuori dei vostri padri la face luminosa e illuminante della parola di Leone XIII: non lasciate né permettete che manchi d'alimento e, sfavillando ai vostri commemorativi ossequi, muoia, spenta da una ignava, schiva e guardinga indifferenza verso i bisogni dei più poveri tra i nostri fratelli, o travolta nella polvere e nel fango dal turbinante soffio dello spirito anticristiano o non cristiano. Nutritela, ravvivatela, elevatela, dilatatela questa fiamma; portatela ovunque viene a voi un gemito di affanno, un lamento di miseria, un grido di dolore; rinfocatela sempre nuovamente con l'ardenza di amore attinto al Cuore del Redentore, a cui il mese che oggi si inizia è consacrato. Andate a quel cuore divino, mite e umile, rifugio per ogni conforto nella fatica e nel peso dell'azione: è il cuore di colui, che a ogni opera genuina e pura, compiuta nel suo nome e nel suo spirito, in favore dei sofferenti, degli angustiati, degli abbandonati dal mondo e dei diseredati di ogni bene e fortuna, ha promesso l'eterna ricompensa beatificante: Voi benedetti del Padre mio. Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l'avete fatto a me! 
Festa di Pentecoste del 1941
PIO PP. XII  


24 dicembre 1941
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio XII nella Vigilia del natale 1941
Mercoledì, 24 dicembre 1941(1)

Nell'alba e nella luce che rifulge previa alla festa del Santo Natale, attesa sempre con vivo anelito di gioia soave e penetrante, mentre ogni fronte si prepara a curvarsi e ogni ginocchio a piegarsi in adorazione davanti all'ineffabile mistero della misericordiosa bontà di Dio, che nella sua carità infinita volle dare, quale dono più grande e augusto, all'umanità il suo Figliuolo Unigenito; il Nostro cuore, diletti figli e figlie, sparsi sulla faccia della terra, si dilata a voi, e, pur non obliando la terra, si eleva e si profonda nel cielo.
La stella, indicatrice della culla del neonato Redentore, da venti secoli ancora splende meravigliosa nel cielo della Cristianità. Si agitino pure le genti, e le nazioni congiurino contro Dio e contro il suo Messia (cf. Sal 2,1-2): attraverso le bufere del mondo umano la stella non conobbe, non conosce né conoscerà tramonti; il passato, il presente e l'avvenire sono suoi. Essa ammonisce a mai non disperare: splende sopra i popoli, quand'anche sulla terra, come su oceano mugghiante per tempesta, si addensino i cupi turbini, generatori di stragi e di miserie. La sua luce è luce di conforto, di speranza, di fede incrollabile, di vita e certezza nel trionfo finale del Redentore, che traboccherà, quale torrente di salvezza, nella pace interiore e nella gloria per tutti quelli che, elevati all'ordine soprannaturale della grazia, avranno ricevuto il potere di farsi figli di Dio, perché nati da Dio.
Onde Noi, che, in questi amari tempi di sconvolgimenti guerreschi, siamo straziati dei vostri strazi e doloranti dei vostri dolori, Noi che viviamo come voi sotto il gravissimo incubo di un flagello, dilaniante un terzo anno ancora l'umanità, nella vigilia di tanta solennità amiamo di rivolgervi con commosso cuore di padre la parola, per esortarvi a restar saldi nella fede, e per comunicarvi il conforto di quella verace, esuberante e trasumanante speranza e certezza, che si irradiano dalla culla del neonato Salvatore.
Per vero, diletti figli, se il nostro occhio non mirasse più su della materia e della carne, appena è che troverebbe qualche ragione di conforto. Diffondono, sì, le campane il lieto messaggio del Natale, si illuminano chiese e oratori, le armonie religiose rallegrano gli spiriti, tutto è festa e ornamento nei sacri templi; ma la umanità non cessa dal dilaniarsi in una guerra sterminatrice. Nei sacri riti echeggia sulle labbra della Chiesa la mirabile antifona: «Rex pacificus magnificatus est, cuius vultum desiderat universa terra»;(2) ma essa risuona in stridente contrasto con avvenimenti, che rombano per piani e per monti con fracasso pieno di spavento, devastano terre e case per estese regioni, e gettano milioni di uomini e le loro famiglie nell'infelicità, nella miseria e nella morte. Certo, ammirevoli sono i molteplici spettacoli di indomato valore nella difesa del diritto e del suolo natìo; di serenità nel dolore; di anime che vivono come fiamme di olocausto per il trionfo della verità e della giustizia. Ma pure con angoscia che Ci preme l'animo pensiamo e, come sognando, guardiamo ai terribili scontri di armi e di sangue di quest'anno che volge al tramonto; alla infelice sorte dei feriti e dei prigionieri; alle sofferenze corporali e spirituali, alle stragi, alle distruzioni e rovine che la guerra aerea porta e rovescia su grandi e popolose città, su centri e vasti territori industriali, alle dilapidate ricchezze degli Stati, ai milioni di gente, che l'immane conflitto e la dura violenza vengono gettando nella miseria e nell'inedia.
E mentre il vigore e la salute di larga parte di gioventù, che andava maturando, si vengono scuotendo per le privazioni imposte dal presente flagello, vanno per contro salendo ad altezze vertiginose le spese e i gravami di guerra, che, originando contrazione delle forze produttive nel campo civile e sociale, non possono non dar fondamento alle ansie di coloro che volgono l'occhio preoccupato verso l'avvenire. L'idea della forza soffoca e perverte la norma del diritto. Rendete possibile e offrite porta aperta a individui e gruppi sociali o politici di ledere i beni e la vita altrui; lasciate che anche tutte le altre distruzioni morali turbino e accendano l'atmosfera civile a tempesta; e voi vedrete le nozioni di bene e di male, di diritto e d'ingiustizia perdere i loro acuti contorni, smussarsi, confondersi e minacciare di scomparire. Chi in virtù del ministero pastorale ha la via di penetrare nei cuori, sa e vede qual cumulo di dolori e di ansietà inenarrabili s'aggravi e si amplifichi in molte anime, ne scemi la brama e la gioia di lavorare e di vivere; ne soffochi gli spiriti e li renda muti e indolenti, sospettosi e quasi senza speranza in faccia agli eventi e ai bisogni: turbamenti d'animo che nessuno può prendere alla leggiera, se tiene a cuore il vero bene dei popoli, e desidera promuovere un non lontano ritorno a condizioni normali e ordinate di vita e di azione. Davanti a tale visione del presente, nasce un'amarezza che invade il petto, tanto più in quanto non appare oggi aperto alcun sentiero d'intesa tra le parti belligeranti, i cui reciproci scopi e programmi di guerra sembrano essere in contrasto inconciliabile.
Quando si indagano le cause delle odierne rovine, davanti a cui l'umanità, che le considera, resta perplessa, si ode non di rado affermare che il cristianesimo è venuto meno alla sua missione. Da chi e donde viene siffatta accusa? Forse da quegli apostoli, gloria di Cristo, da quegli eroici zelatori della fede e della giustizia, da quei pastori e sacerdoti, araldi del cristianesimo, i quali attraverso persecuzioni e martirii ingentilirono la barbarie e la prostrarono devota all'altare di Cristo, iniziarono la civiltà cristiana, salvarono le reliquie della sapienza e dell'arte di Atene e di Roma, adunarono i popoli nel nome cristiano, diffusero il sapere e la virtù, elevarono la croce sopra i pinnacoli aerei e le volte delle cattedrali, immagini del cielo, monumenti di fede e di pietà, che ancora ergono il capo venerando fra le rovine dell'Europa? No: il Cristianesimo, la cui forza deriva da Colui che è via, verità e vita, e sta e starà con esso fino alla consumazione dei secoli, non è venuto meno alla sua missione; ma gli uomini si sono ribellati al Cristianesimo vero e fedele a Cristo e alla sua dottrina; si sono foggiati un cristianesimo a loro talento, un nuovo idolo che non salva, che non ripugna alle passioni della concupiscenza della carne, all'avidità dell'oro e dell'argento che affascina l'occhio, alla superbia della vita; una nuova religione senz'anima o un'anima senza religione, una maschera di morto cristianesimo, senza lo spirito di Cristo; e hanno proclamato che il Cristianesimo è venuto meno alla sua missione!
Scaviamo in fondo alla coscienza della società moderna, ricerchiamo la radice del male: dove essa alligna? Senza dubbio anche qui non vogliamo tacere la lode dovuta alla saggezza di quei Governanti, che o sempre favorirono o vollero e seppero rimettere in onore, con vantaggio del popolo, i valori della civiltà cristiana nei felici rapporti fra Chiesa e Stato, nella tutela della santità del matrimonio, nella educazione religiosa della gioventù. Ma non possiamo chiudere gli occhi alla triste visione del progressivo scristianamento individuale e sociale, che dalla rilassatezza del costume è trapassato all'indebolimento e all'aperta negazione di verità e di forze, destinate a illuminare gl'intelletti sul bene e sul male, a corroborare la vita familiare, la vita privata, la vita statale e pubblica. Un'anemia religiosa, quasi contagio che si diffonda, ha così colpito molti popoli di Europa e del mondo e fatto nell'anime un tal vuoto morale, che nessuna rigovernatura religiosa o mitologia nazionale e internazionale varrebbe a colmarlo. Con parole e con azioni e con provvedimenti, da decenni e secoli, che mai di meglio o di peggio si seppe fare se non strappare dai cuori degli uomini, dalla puerizia alla vecchiezza, la fede in Dio, Creatore e Padre di tutti, rimuneratore del bene e vindice del male, snaturando l'educazione e l'istruzione, combattendo e opprimendo con ogni arte e mezzo, con la diffusione della parola e della stampa, con l'abuso della scienza e del potere, la religione e la Chiesa di Cristo?
Travolto lo spirito nel baratro morale con lo straniarsi da Dio e dalla pratica cristiana, altro non rimaneva se non che pensieri, propositi, avviamenti, stima delle cose, azione e lavoro degli uomini si rivolgessero e mirassero al mondo materiale, affannandosi e sudando per dilatarsi nello spazio, per crescere più che mai oltre ogni limite nella conquista delle ricchezze e della potenza, per gareggiare di velocità nel produrre più e meglio ogni cosa che l'avanzamento o il progresso materiale pareva richiedere. Di qui, nella politica, il prevalere di un impulso sfrenato verso l'espansione e il mero credito politico incurante della morale; nell'economia il dominare delle grandi e gigantesche imprese e associazioni; nella vita sociale il riversarsi e pigiarsi delle schiere di popolo in gravosa sovrabbondanza nelle grandi città e nei centri d'industria e di commercio, con quella instabilità che consegue e accompagna una moltitudine di uomini, i quali mutano casa e residenza, paese e mestiere, passioni e amicizie. 
Ne nacque allora che i rapporti reciproci della vita sociale presero un carattere puramente fisico e meccanico. Con dispregio di ogni ragionevole ritegno e riguardo l'impero della costrizione esterna, il nudo possesso del potere si sovrappose alle norme dell'ordine, reggitore della convivenza umana, le quali, emanate da Dio, stabiliscono quali relazioni naturali e soprannaturali intercorrano fra il diritto e l'amore verso gl'individui e la società. La maestà e la dignità della persona umana e delle particolari società venne mortificata, avvilita e soppressa dall'idea della forza che crea il diritto; la proprietà privata divenne per gli uni un potere diretto verso lo sfruttamento dell'opera altrui, negli altri generò gelosia, insofferenza e odio; e l'organizzazione, che ne seguiva, si convertì in forte arma di lotta per far prevalere interessi di parte. In alcuni Paesi, una concezione dello Stato atea o anticristiana con i suoi vasti tentacoli avvinse a sé talmente l'individuo da quasi spogliarlo d'indipendenza, non meno nella vita privata che nella pubblica.
Chi potrà oggi meravigliarsi se tale radicale opposizione ai principi della cristiana dottrina venne infine a tramutarsi in ardente cozzo di tensioni interne ed esterne, così da condurre a sterminio di vite umane e distruzione di beni, quale lo lediamo e a cui assistiamo con profonda pena? Funesta conseguenza e frutto delle condizioni sociali ora descritte, la guerra, lungi dall'arrestarne l'influsso e lo svolgimento, lo promuove, lo accelera e amplia, con tanto maggior rovina, quanto più essa dura, rendendo la catastrofe ancor più generale.
Dalla Nostra parola contro il materialismo dell'ultimo secolo e del tempo presente male argomenterebbe chi ne deducesse una condanna del progresso tecnico. No; Noi non condanniamo ciò che è dono di Dio, il quale, come ci fa sorgere il pane dalle zolle della terra, nelle viscere più profonde del suolo nei giorni della creazione del mondo nascose tesori di fuoco, di metalli, di pietre preziose da scavarsi dalla mano dell'uomo per i suoi bisogni, per le sue opere, per il suo progresso. La Chiesa, madre di tante Università d'Europa, che ancora esalta e aduna i più arditi maestri delle scienze, scrutatori della natura, non ignora però che di ogni bene e della stessa libertà del volere si può far un uso degno di lode e di premio ovvero di biasimo e di condanna. Così è avvenuto che lo spirito e la tendenza, con cui fu spesso usato il progresso tecnico, fanno sì che, all'ora che volge, la tecnica debba espiare il suo errore ed esser quasi punitrice di se stessa, creando strumenti di rovina, che distruggono oggi ciò che ieri essa ha edificato.
Di fronte alla vastità del disastro, originato dagli errori indicati, non si offre altro rimedio, se non il ritorno agli altari, a' pie' dei quali innumerevoli generazioni di credenti attingevano già la benedizione e l'energia morale per il compimento dei propri doveri; alla fede, che illuminava individui e società e insegnava i diritti e i doveri spettanti a ciascuno; alle sagge e incrollabili norme di un ordine sociale, le quali nel terreno nazionale, come in quello internazionale, ergono un'efficace barriera contro l'abuso della libertà, non altrimenti che contro l'abuso del potere. Ma il richiamo a queste benefiche sorgenti ha da risonare alto, persistente, universale, nell'ora in cui il vecchio ordinamento sarà per scomparire e cedere il passo e il posto a un nuovo.
La futura ricostruzione potrà presentare e dare preziosa facoltà di promuovere il bene, non scevra anche di pericoli di cadere in errori, e con gli errori favorire il male; ed esigerà serietà prudenti e matura riflessione, non solo per la gigantesca arduità dell'opera, ma ancora per le gravi conseguenze che, qualora fallisse, cagionerebbe nel campo materiale e spirituale; esigerà intelletti di larghe vedute e volontà di fermi propositi, uomini coraggiosi e operosi, ma, sopra tutto e avanti tutto, coscienze, le quali nei disegni, nelle deliberazioni e nelle azioni siano animate e mosse e sostenute da un vivo senso di responsabilità, e non rifuggano dall'inchinarsi davanti alle sante leggi di Dio; perché, se con la vigoria plasmatrice nell'ordine materiale non si accoppierà somma ponderatezza e sincero proposito nell'ordine morale, si verificherà senza dubbio la sentenza di S. Agostino: «Bene currunt, sed in via non currunt. Quanto plus currunt, plus errant, quia a via recedunt».(3)
Né sarebbe la prima volta che uomini, i quali stanno nell'aspettazione di cingersi del lauro di vittorie guerresche, sognassero di dare al mondo un nuovo ordinamento, additando nuove vie, a loro parere, conducenti al benessere, alla prosperità e al progresso. Ma ogni qualvolta cedettero alla tentazione d'imporre la loro costruzione contro il dettame della ragione, della moderazione, della giustizia e della nobile umanità, si trovarono caduti e stupiti a contemplare i ruderi di speranze deluse e di progetti abortiti. Onde la storia insegna che i trattati di pace, stipulati con spirito e condizioni contrastanti sia con i dettami morali sia con una genuina saggezza politica, mai non ebbero vita, se non grama e breve, mettendo così a nudo e testimoniando un errore di calcolo, umano senza dubbio, ma non per questo meno esiziale. 
Ora le rovine di questa guerra sono troppo ingenti, da non dovervisi aggiungere anche quelle di una pace frustrata e delusa; e perciò ad evitare tanta sciagura, conviene che con sincerità di volere e di energia, con proposito di generoso contributo, vi cooperino, non solo questo o quel partito, non solo questo o quel popolo, ma tutti i popoli, anzi l'intera umanità. È un'intrapresa universale di bene comune, che richiede la collaborazione della Cristianità, per gli aspetti religiosi e morali del nuovo edificio che si vuol costruire.
Facciamo quindi uso di un Nostro diritto o, meglio, adempiamo un Nostro dovere, se oggi, alla vigilia del Santo Natale, divina aurora di speranza e di pace per il mondo, con l'autorità del Nostro ministero apostolico e il caldo incitamento del Nostro cuore, richiamiamo l'attenzione e la meditazione dell'universo intero sui pericoli che insidiano e minacciano una pace, la quale sia acconcia base di un vero nuovo ordinamento e risponda all'aspettazione e ai voti dei popoli per un più tranquillo avvenire.
Tale nuovo ordinamento, che tutti i popoli anelano di veder attuato, dopo le prove e le rovine di questa guerra, ha da essere innalzato sulla rupe incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata dal Creatore stesso per mezzo dell'ordine naturale e da Lui scolpita nei cuori degli uomini con caratteri incancellabili; legge morale, la cui osservanza deve venir inculcata e promossa dall'opinione pubblica di tutte le Nazioni e di tutti gli Stati con tale unanimità di voce e di forza, che nessuno possa osare di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante.
Quale faro splendente, essa deve coi raggi dei suoi principi dirigere il corso dell'operosità degli uomini e degli Stati, i quali avranno da seguirne le ammonitrici, salutari e proficue segnalazioni, se non vorranno condannare alla bufera e al naufragio ogni lavoro e sforzo per stabilire un nuovo ordinamento. Riassumendo pertanto e integrando quel che in altre occasioni fu da Noi esposto, insistiamo anche ora su alcuni presupposti essenziali di un ordine internazionale, che, assicurando a tutti i popoli una pace giusta e duratura, sia feconda di benessere e di prosperità.
1. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto per la lesione della libertà, dell'integrità e della sicurezza di altre Nazioni, qualunque sia la loro estensione territoriale o la loro capacità di difesa. Se è inevitabile che i grandi Stati, per le loro maggiori possibilità e la loro potenza, traccino il cammino per la costituzione di gruppi economici fra essi e le azioni più piccole e deboli; è nondimeno incontestabile - come per tutti, nell'ambito dell'interesse generale - il diritto di queste al rispetto della loro libertà nel campo politico, alla efficace custodia di quella neutralità nelle contese fra gli Stati, che loro spetta secondo il gius naturale e delle genti, alla tutela del loro sviluppo economico, giacchè soltanto in tal guisa potranno conseguire adeguatamente il bene comune, il benessere materiale e spirituale del proprio popolo.
2. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto per la oppressione aperta o subdola delle peculiarità culturali e linguistiche delle minoranze nazionali, per l'impedimento e la contrazione delle loro capacità economiche, per la limitazione o l'abolizione della loro naturale fecondità. Quanto più coscienziosamente la competente autorità dello Stato rispetta i diritti delle minoranze, tanto più sicuramente ed efficacemente può esigere dai loro membri il leale compimento dei doveri civili, comuni agli altri cittadini.
3. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto per i ristretti calcoli egoistici, tendenti ad accaparrarsi le fonti economiche e le materie di uso comune, in maniera che le Nazioni, meno favorite dalla natura, ne restino escluse. Al qual riguardo Ci è di somma consolazione il vedere affermarsi la necessità di una partecipazione di tutti ai beni della terra anche presso quelle Nazioni, che nell'attuazione di questo principio apparterrebbero alla categoria di coloro «che danno» e non di quelli «che ricevono». Ma è conforme a equità che una soluzione di tale questione, decisiva per l'economia del mondo, avvenga metodicamente e progressivamente con le necessarie garanzie, e tragga ammaestramento dalle mancanze e dalle omissioni del passato. Se nella futura pace non si venisse ad affrontare coraggiosamente questo punto, rimarrebbe nelle relazioni tra i popoli una profonda e vasta radice germogliante amari contrasti ed esasperate gelosie, che finirebbero col condurre a nuovi conflitti. Decorre però osservare come la soddisfacente soluzione di questo problema strettamente vada connessa con un altro cardine fondamentale di un nuovo ordinamento, del quale parliamo nel punto seguente.
4. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto - una volta eliminati i più pericolosi focolai di conflitti armati - per una guerra totale né per una sfrenata corsa agli armamenti. Non si deve permettere che la sciagura di una guerra mondiale con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni e perturbazioni morali si rovesci per la terza volta sopra la umanità. La quale perché venga tutelata lungi da tale flagello, è necessario che con serietà e onestà si proceda a una limitazione progressiva e adeguata degli armamenti. Lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli crea un pericolo per la conservazione della tranquillità e della pace dei popoli, e consiglia di scendere a un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive.
Conforme poi alla misura, in cui il disarmo venga attuato, sono da stabilirsi mezzi appropriati, onorevoli per tutti ed efficaci, per ridonare alla norma Pacta sunt servanda, «i patti devono essere osservati», la funzione vitale e morale, che le spetta nelle relazioni giuridiche fra gli Stati. Tale norma, che nel passato ha subìto crisi preoccupanti e innegabili infrazioni, ha trovato contro di sé una quasi insanabile sfiducia tra i vari popoli e i rispettivi reggitori. Perché la fiducia reciproca rinasca devono sorgere istituzioni, le quali, acquistandosi il generale rispetto, si dedichino al nobilissimo ufficio, sia di garantire il sincero adempimento dei trattati, sia di promuoverne, secondo i principi di diritto e di equità, opportune correzioni o revisioni.
Non Ci nascondiamo il cumulo di difficoltà da superarsi, e la quasi sovrumana forza di buona volontà richiesta a tutte le parti, perché convengano a dare felice soluzione alla doppia impresa qui tracciata. Ma questo lavoro comune è talmente essenziale per una pace duratura, che nulla deve rattenere gli uomini di Stato responsabili dall'intraprenderlo e cooperarvi con le forze di un buon volere, il quale, guardando al bene futuro, vinca i dolorosi ricordi di tentativi non riusciti nel passato, e non si lasci atterrire dalla conoscenza del gigantesco vigore, che si domanda per tale opera.
5. Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto per la persecuzione della religione edella Chiesa. Da una fede viva in un Dio personale trascendente si sprigiona una schietta e resistente vigoria morale che informa tutto il corso della vita; perché la fede non è solo una virtù ma la porta divina per la quale entrano nel tempio dell'anima tutte le virtù, e si costituisce quel carattere forte e tenace che non vacilla nei cimenti della ragione e della giustizia. Ciò vale sempre; ma molto più ha da splendere quando così dall'uomo di Stato, come dall'ultimo dei cittadini si esige il massimo di coraggio e di energia morale per ricostruire una nuova Europa e un nuovo mondo sulle rovine, che il conflitto mondiale con la sua violenza, con l'odio e la scissione degli animi ha accumulate. Quanto alla questione sociale in particolare, che al finir della guerra si presenterà più acuta, i Nostri Predecessori e anche Noi stessi abbiamo segnato norme di soluzione; le quali però convien considerare che potranno seguirsi nella loro interezza e dare pieno frutto solo se uomini di Stato e popoli, datori di lavoro e operai, siano animati dalla fede in un Dio personale, legislatore e vindice, a cui devono rispondere delle loro azioni. Perché, mentre l'incredulità, che si accampa contro Dio, ordinatore dell'universo, è la più pericolosa nemica di un giusto ordine nuovo, ogni uomo, invece, credente in Dio ne è un potente fautore e paladino. Chi ha fede in Cristo, nella sua divinità, nella sua legge, nella sua opera di amore e di fratellanza fra gli uomini, porterà elementi particolarmente preziosi alla ricostruzione sociale; a maggior ragione, più ve ne porteranno gli uomini di Stato, se si dimostreranno pronti ad aprire largamente le porte e spianare il cammino alla Chiesa di Cristo, affinché, libera e senza intralci, mettendo le sue soprannaturali energie a servigio dell'intesa tra i popoli e della pace, possa cooperare col suo zelo e col suo amore all'immenso lavoro di risanare le ferite della guerra.
Ci riesce perciò inspiegabile come in alcune regioni disposizioni molteplici attraversino la via al messaggio della fede cristiana, mentre concedono ampio e libero passo a una propaganda che la combatte. Sottraggono la gioventù alla benefica influenza della famiglia cristiana e la estraniano dalla Chiesa; la educano in uno spirito avverso a Cristo, instillandovi concezioni, massime e pratiche anticristiane; rendono ardua e turbata l'opera della Chiesa nella cura delle anime e nelle azioni di beneficenza; disconoscono e rigettano il suo morale influsso sull'individuo e la società: determinazioni tutte che lungi dall'essere state mitigate o abolite nel corso della guerra, sono andate sotto non pochi riguardi inasprendosi. Che tutto questo, e altro ancora, possa essere continuato tra le sofferenze dell'ora presente è un triste segno dello spirito con cui i nemici della Chiesa impongono ai fedeli, in mezzo a tutti gli altri non lievi sacrifici, anche il peso angoscioso di un'ansia d'amarezza, gravante sulle coscienze.
Noi amiamo, Ce n'è testimonio Dio, con uguale affetto tutti i popoli senza alcuna eccezione; e per evitare anche solo l'apparenza di essere mossi da spirito di parte, Ci siamo imposti finora il massimo riserbo; ma le disposizioni contro la Chiesa e gli scopi, che esse perseguano, sono tali da sentirci obbligati in nome della verità a pronunziare una parola, anche perché non ne nasca, per disavventura, smarrimento tra i fedeli.
Noi guardiamo oggi, diletti figli, all'Uomo-Dio, nato in una grotta per risollevare l'uomo a quella grandezza, dond'era caduto per sua colpa, per ricollocarlo sul trono di libertà, di giustizia e d'onore, che i secoli degli dei falsi gli avevano negato. Il fondamento di quel trono sarà il Calvario; il suo ornamento non sarà l'oro o l'argento, ma il sangue di Cristo, sangue divino che da venti secoli scorre sul mondo e imporpora le gote della sua Sposa, la Chiesa, e, purificando, consacrando, santificando, glorificando i suoi figli, diventa candore di cielo.
O Roma cristiana, quel sangue è la tua vita: per quel sangue tu sei grande e illumini della tua grandezza anche i ruderi e le rovine della tua grandezza pagana, e purifichi e consacri i codici della sapienza giuridica dei pretori e dei Cesari. Tu sei madre di una giustizia più alta e più umana, che onora te, il tuo seggio e chi ti ascolta. Tu sei faro di civiltà, e la civile Europa e il mondo ti devono quanto di più sacro e di più santo, quanto di più saggio e di più onesto esalta i popoli e fa bella la loro storia. Tu sei madre di carità: i tuoi fasti, i tuoi monumenti, i tuoi ospizi, i tuoi monasteri e i tuoi conventi, i tuoi eroi e le tue eroine, i tuoi araldi e i tuoi missionari, le tue età e i tuoi secoli con le loro scuole e le loro università testimoniano i trionfi della tua carità, che tutto abbraccia, tutto soffre, tutto spera, tutto opera per farsi tutto a tutti, tutti confortare e sollevare, tutti sanare e chiamare alla libertà donata all'uomo da Cristo, e tranquillare tutti in quella pace, che affratella i popoli, e di tutti gli uomini, sotto qualunque cielo, qualunque lingua o costume li distingua, fa una sola famiglia, e del mondo una patria comune.
Da questa Roma, centro, rocca e maestra del Cristianesimo, città più per Cristo che per i Cesari eterna nel tempo, Noi, mossi dal desiderio ardente e vivissimo del bene dei singoli popoli e dell'intera umanità, a tutti rivolgiamo la Nostra voce, pregando e scongiurando che non tardi il giorno che in tutti i luoghi, dove oggi l'ostilità contro Dio e Cristo trascina gli uomini alla rovina temporale ed eterna, prevalgano maggiori conoscenze religiose e nuovi propositi; il giorno, in cui sulla culla del nuovo ordinamento dei popoli risplenda la stella di Betlemme, annunziatrice di un nuovo spirito che muova a cantare con gli angeli: Gloria in excelsis Deo, e a proclamare, come dono alfine largito dal cielo, a tutte le genti: Pax hominibus bonae voluntatis. Spuntata l'aurora di quel giorno, con qual gaudio Nazioni e Reggitori, sgombro l'animo dai timori di insidie e di riprese di conflitti, trasformeranno le spade, laceratrici d'umani petti, in aratri, solcanti, al sole della benedizione divina, il fecondo seno della terra, per strapparle un pane, bagnato sì di sudore, ma non più di sangue e di lacrime!
In tale attesa e con questa anelante preghiera sulle labbra, mandiamo il Nostro saluto e la benedizione Nostra a tutti i Nostri figli dell'universo intero. Scenda la Nostra benedizione più larga su quelli - sacerdoti, religiosi e laici - che soffrono pene e angustie per la loro fede: scenda anche su quelli che, pur non appartenendo al corpo visibile della Chiesa cattolica, sono a Noi vicini per la fede in Dio e in Gesù Cristo, e con Noi concordano sopra l'ordinamento e gli scopi fondamentali della pace; scenda con particolare palpito d'affezione su quanti gemono nella tristezza, nella dura ambascia dei travagli di quest'ora. Sia scudo a quanti militano sotto le armi; farmaco ai malati e ai feriti; conforto ai prigionieri, agli espulsi dalla terra natìa, ai lontani dal domestico focolare, ai deportati in terre straniere, ai milioni di miseri che lottano a ogni ora contro gli spaventosi morsi della fame. Sia balsamo a ogni dolore e sventura; sia sostegno e consolazione a tutti i miseri e bisognosi i quali aspettano una parola amica, che versi nei loro cuori forza, coraggio, dolcezza di compassione e di aiuto fraterno. Riposi infine la Nostra benedizione su quelle anime e quelle mani pietose, che con inesauribile generoso sacrificio Ci hanno dato di che potere, sopra le strettezze dei Nostri mezzi, asciugare le lacrime, lenire la povertà di molti, specialmente dei più poveri e derelitti tra le vittime della guerra, facendo in tal modo sperimentare come la bontà e benignità di Dio, la cui somma e ineffabile rivelazione è il Bambino del presepe che della sua povertà volle farci ricchi, mai non cessano, per volger di tempi e sciagure, di esser vive e operanti nella Chiesa.
A tutti impartiamo con profondo amore paterno dalla pienezza del Nostro cuore la Benedizione Apostolica.


(1) PIO PP. XII, Radiomessaggio Nell'alba e nella luce nella vigilia del Natale 1941, [A tutti i popoli del mondo], 24 dicembre 1941:AAS 34(1942), pp, 10-21.
Superare le degenerazioni e le involuzioni della nostra civiltà riscoprendo i valori evangelici su cui fondare un nuovo ordine mondiale.
(2In Nativitate Domini, in I Vesp., antiph. 1.
(3) Sermo 141, c. 4: PL 83, 777.


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1942
24 dicembre 1942
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, in occasione della Vigilia del Natale 1942
Giovedì, 24 dicembre 1942(1)

Il Santo Natale e la umanità dolorante
Con sempre nuova freschezza di letizia e di pietà, diletti figli dell'universo intero, ogni anno al ricorrere del Santo Natale, risuona dal presepe di Betlemme all'orecchio dei cristiani, ripercuotendosi dolcemente nei loro cuori, il messaggio di Gesù, Luce in mezzo alle tenebre; un messaggio che illumina con lo splendore di celestiali verità un mondo oscurato da tragici errori, infonde una gioia esuberante e fiduciosa ad un'umanità, angosciata da profonda e amara tristezza, proclama la libertà ai figli d'Adamo, costretti nelle catene del peccato e della colpa, promette misericordia, amore, pace alle schiere infinite dei sofferenti e tribolati, che vedono scomparsa la loro felicità e spezzate le loro energie nella bufera di lotta e di odio dei nostri giorni burrascosi.
E i sacri bronzi, annunziatori di tale messaggio in tutti i continenti, non pur ricordano il dono divino, fatto all'umanità, negli inizi dell'età cristiana; ma annunziano e proclamano anche una consolante realtà presente, realtà come eternamente giovane, così sempre viva e vivificante; realtà della «luce vera, la quale illumina ogni uomo, che viene in questo mondo» e non conosce tramonto. L'Eterno Verbo, via, verità e vita, nascendo nello squallore di una grotta e nobilitando in tal modo e santificando la povertà, così dava inizio alla sua missione di dottrina, di salute e di redenzione del genere umano, e diceva e consacrava una parola, che è ancor oggi la parola di vita eterna, valevole a risolvere i quesiti più tormentosi, insoluti e insolubili da chi vi porti vedute e mezzi effimeri e puramente umani; quesiti i quali si affacciano sanguinanti, esigendo imperiosamente una risposta, al pensiero e al sentimento di una umanità amareggiata ed esacerbata.
Il motto «Misereor super turbam» è per Noi una consegna sacra, inviolabile, valida e impellente in tutti i tempi e in tutte le situazioni umane, com'era la divisa di Gesù; e la Chiesa rinnegherebbe se stessa, cessando di essere madre, se si rendesse sorda al grido angoscioso e filiale, che tutte le classi dell'umanità fanno arrivare al suo orecchio. Essa non intende di prender partito per l'una o l'altra delle forme particolari e concrete, con le quali singoli popoli e Stati tendono a risolvere i problemi giganteschi dell'assetto interno e della collaborazione internazionale, quando esse rispettano la legge divina; ma d'altra parte, «colonna e base della verità» (1 Tm 3,15) e custode, per volontà di Dio e per missione di Cristo, dell'ordine naturale e soprannaturale, la Chiesa non può rinunziare a proclamare davanti ai suoi figli e davanti all'universo intero le inconcusse fondamentali norme, preservandole da ogni travolgimento, caligine, inquinamento, falsa interpretazione ed errore; tanto più che dalla loro osservanza, e non semplicemente dallo sforzo di una volontà nobile e ardimentosa, dipende la fermezza finale di qualsiasi nuovo ordine nazionale e internazionale, invocato con cocente anelito da tutti i popoli. Popoli, di cui conosciamo le doti di valore e di sacrificio, ma anche le angustie e i dolori, e ai quali tutti, senza alcuna eccezione, in quest'ora d'indicibili prove e contrasti, Ci sentiamo legati da profondo e imparziale e imperturbabile amore e da immensa brama di portare loro ogni sollievo e soccorso che in qualsiasi modo sia in Nostro potere.
Rapporti internazionali e ordine interno delle nazioni
L'ultimo Nostro Messaggio natalizio esponeva i principi, suggeriti dal pensiero cristiano, per stabilire un ordine di convivenza e collaborazione internazionale, conforme alle norme divine. Oggi vogliamo soffermarCi, sicuri del consenso e dell'interessamento di tutti gli onesti, con cura particolare e uguale imparzialità sulle norme fondamentali dell'ordine interno degli Stati e dei popoli. Rapporti internazionali e ordine interno sono intimamente connessi, essendo l'equilibrio e l'armonia tra le Nazioni dipendenti dall'interno equilibrio e dalla interna maturità dei singoli Stati nel campo materiale, sociale e intellettuale. Né un solido e imperturbato fronte di pace verso l'esterno risulta possibile di fatto ad attuarsi senza un fronte di pace nell'interno, che ispiri fiducia. Solo, quindi, l'aspirazione verso una pace integrale nei due campi varrà a liberare i popoli dal crudele incubo della guerra, a diminuire o superare gradatamente le cause materiali e psicologiche di nuovi squilibri e sconvolgimenti.
Duplice elemento della pace nella vita sociale
Ogni convivenza sociale, degna di tal nome, come trae origine dalla volontà di pace, così tende alla pace; a quella tranquilla convivenza nell'ordine in cui S. Tommaso, facendo eco al noto detto di S. Agostino,(2) vede l'essenza della pace. Due primordiali elementi reggono quindi la vita sociale: convivenza nell'ordine, convivenza nella tranquillità.
I. Convivenza nell'ordine
L'ordine, base della vita consociata di uomini, di esseri cioè, intellettuali e morali, che tendono ad attuare uno scopo consentaneo alla loro natura, non è una mera estrinseca connessione di parti numericamente diverse; è piuttosto, e ha da essere, tendenza e attuazione sempre più perfetta di una unità interiore, ciò che non esclude le differenze, realmente fondate, e sanzionate dalla volontà del Creatore o da norme soprannaturali.
Una chiara intelligenza dei fondamenti genuini di ogni vita sociale ha un'importanza capitale oggi più che mai, mentre l'umanità, intossicata dalla virulenza di errori e traviamenti sociali, tormentata dalla febbre della discordia di desideri, dottrine e intenti, si dibatte angosciosamente nel disordine, da essa stessa creato, e risente gli effetti della forza distruttrice di idee sociali erronee, le quali dimenticano le norme di Dio o sono ad esse contrarie. E poiché il disordine non può essere superato se non con un ordine, che non sia meramente forzato e fittizio (non altrimenti che l'oscurità coi suoi deprimenti e paurosi effetti non può essere bandita se non dalla luce, e non da fuochi fatui); la salvezza, il rinnovamento e un progressivo miglioramento non può aspettarsi e originarsi se non da un ritorno di larghi e influenti ceti alla retta concezione sociale; un ritorno che richiede una straordinaria grazia di Dio e una volontà incrollabile, pronta e presta al sacrificio, degli animi buoni e lungimiranti. Da questi ceti più influenti e più aperti per penetrare e ponderare la bellezza attraente delle giuste norme sociali, passerà e entrerà poi nelle moltitudini la convinzione della origine vera, divina e spirituale, della vita sociale, spianando in tal modo la via al risveglio, all'incremento e al consolidamento di quelle concezioni morali, senza cui anche le più orgogliose attuazioni rappresenteranno una Babele, i cui abitanti, se pure hanno mura comuni, parlano lingue diverse e contrastanti.
Iddio prima causa ed ultimo fondamento
della vita individuale e sociale
Dalla vita individuale e sociale conviene ascendere a Dio, Prima Causa e ultimo fondamento, come Creatore della prima società coniugale, fonte della società familiare, della società dei popoli e delle nazioni. Rispecchiando pur imperfettamente il suo Esemplare, Dio Uno e Trino, che col mistero dell'Incarnazione redense ed innalzò la natura umana, la vita consociata, nel suo ideale e nel suo fine, possiede al lume della ragione e della rivelazione un'autorità morale ed una assolutezza, travalicante ogni mutar di tempi; e una forza di attrazione, la quale, lungi dall'esser mortificata e scemata da delusioni, errori, insuccessi, muove irresistibilmente gli spiriti più nobili e più fedeli al Signore a riprendere, con rinnovata energia, con nuove conoscenze, con nuovi studi, mezzi e metodi, ciò che in altri tempi e in altre circostanze fu tentato invano.
Sviluppo e perfezionamento della persona umana
Origine e scopo essenziale della vita sociale vuol essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della persona umana, aiutandola ad attuare rettamente le norme e i valori della religione e della cultura, segnati dal Creatore a ciascun uomo e a tutta l'umanità, sia nel suo insieme, sia nelle sue naturali ramificazioni.
Una dottrina o costruzione sociale, che rinneghi tale interna, essenziale connessione con Dio di tutto ciò che riguarda l'uomo, o ne prescinda, segue falso cammino; e mentre costruisce con una mano, prepara con l'altra i mezzi, che presto o tardi insidieranno e distruggeranno l'opera. E quando, misconoscendo il rispetto dovuto alla persona e alla vita a lei propria, non le conceda alcun posto nei suoi ordinamenti, nell'attività legislativa ed esecutiva, lungi dal servire la società, la danneggia; lungi dal promuovere e animare il pensiero sociale e attuarne le aspettative e le speranze, le toglie ogni valore intrinseco, servendosene come di frase utilitaria, la quale incontra in ceti sempre più numerosi risoluta e franca ripulsa.
Se la vita sociale importa unità interiore, non esclude però le differenze, cui suffragano la realtà e la natura. Ma quando si tiene fermo al supremo regolatore di tutto ciò che riguarda l'uomo, Dio, le somiglianze non meno che le differenze degli uomini trovano il posto conveniente nell'ordine assoluto dell'essere, dei valori, e quindi anche della moralità. Scosso invece tale fondamento, si apre tra i vari campi della cultura una pericolosa discontinuità, appare una incertezza e labilità di contorni, di limiti e di valori, talché solo meri fattori esterni, e spesso ciechi istinti, vengono poi a determinare, secondo la dominante tendenza del giorno, a chi spetti il predominio dell'uno o dell'altro indirizzo.
Alla dannosa economia dei passati decenni, durante i quali ogni vita civile venne subordinata allo stimolo del guadagno, succede ora una non meno dannosa concezione, la quale, mentre guarda tutto e tutti sotto l'aspetto politico, esclude ogni considerazione etica e religiosa. Travisamento e traviamento fatali, pregni di conseguenze imprevedibili per la vita sociale, la quale mai non è più vicina alla perdita delle sue più nobili prerogative di quando s'illude di poter rinnegare o dimenticare impunemente l'eterna fonte della sua dignità: Dio.
La ragione, illuminata dalla fede, assegna alle singole persone e particolari società nell'organizzazione sociale un posto fisso e nobile; e sa, per parlare solo del più importante, che tutta l'attività dello Stato, politica ed economica serve per l'attuazione duratura del bene comune; cioè, di quelle esterne condizioni, le quali sono necessarie all'insieme dei cittadini per lo sviluppo delle loro qualità e dei loro uffici, della loro vita materiale, intellettuale e religiosa, in quanto, da un lato, le forze e le energie della famiglia e di altri organismi, a cui spetta una naturale precedenza, non bastano, e, dall'altro, la volontà salvifica di Dio non abbia determinata nella Chiesa un'altra universale società a servizio della persona umana e dell'attuazione dei suoi fini religiosi.
In una concezione sociale, pervasa e sanzionata dal pensiero religioso, l'operosità dell'economia e di tutti gli altri campi della cultura rappresenta una universale nobilissima fucina di attività, ricchissima nella sua varietà, coerente nella sua armonia, dove l'uguaglianza intellettuale e la differenza funzionale degli uomini conseguono il loro diritto ed hanno adeguata espressione; in caso diverso si deprime il lavoro e si abbassa l'operaio.
Ordinamento giuridico della società e suoi scopi
Affinché la vita sociale, quale è voluta da Dio, ottenga il suo scopo, è essenziale un ordinamento giuridico, che le serva di esterno appoggio, di riparo e protezione; ordinamento la cui funzione non è dominare, ma servire, tendere a sviluppare e accrescere la vitalità della società nella ricca molteplicità dei suoi scopi, conducendo verso il loro perfezionamento tutte le singole energie in pacifico concorso e difendendole, con mezzi appropriati ed onesti, contro tutto ciò che è svantaggioso al loro pieno svolgimento. Un tale ordinamento, per garantire l'equilibrio, la sicurezza e l'armonia della società, ha anche il potere di coercizione contro coloro, che solo per questa via possono essere trattenuti nella nobile disciplina della vita sociale; ma proprio nel giusto compimento di questo diritto un'autorità, veramente degna di tal nome, non sarà mai che non senta l'angosciosa responsabilità di fronte all'Eterno Giudice, al cui tribunale ogni falsa sentenza, e soprattutto ogni sconvolgimento delle norme da Dio volute, riceverà la sua immancabile sanzione e condanna. 
Le ultime, profonde, lapidarie, fondamentali norme della società non possono essere intaccate da intervento d'ingegno umano; si potranno negare, ignorare, disprezzare, trasgredire, ma non mai abrogare con efficacia giuridica. Certamente, col tempo che volge, mutano le condizioni di vita; ma non si dà mai manco assoluto, né perfetta discontinuità tra il diritto di ieri e quello di oggi, tra la scomparsa di antichi poteri e costituzioni e il sorgere di nuovi ordinamenti. Ad ogni modo, in qualsiasi cambiamento o trasformazione, lo scopo di ogni vita sociale resta identico, sacro, obbligatorio: lo sviluppo dei valori personali dell'uomo, quale immagine di Dio; e resta l'obbligo di ogni membro dell'umana famiglia di attuare i suoi immutabili fini, qualunque sia il legislatore e l'autorità, a cui ubbidisce. Rimane quindi sempre e non cessa per opposizione alcuna anche il suo inalienabile diritto, da riconoscersi da amici e nemici, ad un ordinamento e una prassi giuridica, che sentano e comprendano esser loro essenziale dovere di servire al bene comune.
L'ordinamento giuridico ha inoltre l'alto e arduo scopo di assicurare gli armonici rapporti sia tra gli individui, sia tra le società, sia anche nell'interno di queste. A ciò si arriverà, se i legislatori si asterranno dal seguire quelle pericolose teorie e prassi, infauste alla comunità e alla sua coesione, le quali traggono la loro origine e diffusione da una serie di postulati erronei. Tra questi è da annoverare il positivismo giuridico, che attribuisce una ingannevole maestà alla emanazione di leggi puramente umane, e spiana la via ad un esiziale distacco della legge dalla moralità; inoltre la concezione, la quale rivendica a particolari nazioni o stirpi o classi l'istinto giuridico, quale ultimo imperativo e inappellabile norma; infine quelle varie teorie, le quali, diverse in sé e procedenti da vedute ideologiche contrastanti, si accordano però nel considerare lo Stato o un ceto, che lo rappresenti, come entità assoluta e suprema, esente da controllo e da critica, anche quando i suoi postulati teorici e pratici sboccano e urtano nell'aperta negazione di dati essenziali della coscienza umana e cristiana.
Chi consideri con occhio limpido e penetrante la vitale connessione tra genuino ordine sociale e genuino ordinamento giuridico, e tenga presente che l'unità interna nella sua multiformità dipende dal predominio di forze spirituali, dal rispetto della dignità umana in sé e negli altri, dall'amore alla società e agli scopi da Dio ad essa segnati, non può meravigliarsi sui tristi effetti di concezioni giuridiche, le quali, allontanatesi dalla via regale della verità, procedono sul terreno labile di postulati materialistici; ma scorgerà subito la improrogabile necessità di un ritorno ad una concezione spirituale ed etica, seria e profonda, riscaldata dal calore di vera umanità e illuminata dallo splendore della fede cristiana, la quale fa mirare nell'ordinamento giuridico una rifrazione esterna dell'ordine sociale, voluto da Dio, luminoso frutto dello spirito umano, anch'esso immagine dello spirito di Dio. 
Su questa concezione organica, la sola vitale, in che la più nobile umanità e il più genuino spirito cristiano fioriscono in armonia, sta scolpita la sentenza della Scrittura, illustrata dal grande Aquinate: «Opus iustitiae pax»,(3) che si applica così al lato interno, come al lato esterno della vita sociale.
Essa non ammette né contrasto, né alternativa: amore o diritto, ma la sintesi feconda: amore e diritto.
Nell'uno e nell'altro, entrambi irradiazioni dello stesso spirito di Dio, sta il programma e il suggello della dignità dello spirito umano; l'uno e l'altro a vicenda s'integrano, cooperano, si animano, si sostengono, si danno la mano nel cammino della concordia e della pacificazione, mentre il diritto spiana la via all'amore, l'amore mitiga il diritto e lo sublima. Entrambi elevano la vita umana in quella atmosfera sociale, dove, pur tra le manchevolezze, gli impedimenti e le durezze di questa terra, si rende possibile una fraterna convivenza. Ma fate che il cattivo spirito di idee materialistiche domini; che la tendenza al potere e al prepotere concentri nelle sue rudi mani le redini degli eventi; voi allora vedrete apparirne ogni giorno più gli effetti disgregatori, scomparire amore e giustizia; tristo preannunzio di minaccianti catastrofi su una società, apòstata da Dio.
II. Convivenza nella tranquillità
Il secondo elemento fondamentale della pace, verso cui tende quasi istintivamente ogni società umana, è la tranquillità. O beata tranquillità, tu non hai nulla di comune con il fissarsi duro e ostinato, tenace e infantilmente caparbio in ciò che è; né con la riluttanza, figlia di ignavia e d'egoismo, a porre la mente nei problemi e nelle questioni, che il volgere dei tempi e il corso delle generazioni coi loro bisogni e col progresso fanno maturare, e traggon seco come improrogabili necessità del presente. Ma per un cristiano, cosciente della sua responsabilità anche verso il più piccolo dei suoi fratelli, non vi è tranquillità infingarda, né si dà fuga, ma lotta, ma azione contro ogni inazione e diserzione nel grande agone spirituale, dove è proposta in palio la costruzione, anzi l'anima stessa della società futura.
Armonia fra tranquillità e operosità
Tranquillità nel senso dell'Aquinate e ardente operosità non contrastano, ma si accoppiano piuttosto in armonia per colui che è compreso della bellezza e della necessità del sostrato spirituale della società, e della nobiltà del suo ideale. E proprio a voi giovani, inclini a volgere le spalle al passato e rivolgere al futuro l'occhio delle aspirazioni e speranze, diciamo, mossi da vivo amore e da paterna sollecitudine: esuberanza e audacia da sé non bastano, se non siano, come bisogna, poste al servizio del bene e di una bandiera immacolata. Vano è l'agitarsi, l'affaticarsi, l'affannarsi senza riposarsi in Dio e nella sua legge eterna. Conviene che siate animati dal convincimento di combattere per la verità, e di farle dedizione delle proprie simpatie ed energie, degli aneliti e dei sacrifici; di combattere per le eterne leggi di Dio, per la dignità della persona umana, e per il conseguimento dei suoi fini. Dove uomini maturi e giovani, sempre ancorati nel mare della eternamente viva tranquillità di Dio, coordinano le diversità di temperamento e di attività in genuino spirito cristiano, là, se l'elemento propulsore si accoppia con l'elemento infrenatore, la differenza naturale tra le generazioni non diverrà mai pericolosa, ma condurrà anzi vigorosamente all'attuazione delle leggi eterne di Dio nel mutevole corso dei tempi e delle condizioni di vita.  
Il mondo operaio
In un campo particolare della vita sociale, dove durante un secolo sorsero movimenti e aspri conflitti, si trova oggi calma, almeno apparente; nel mondo, cioè, vasto e sempre crescente del lavoro, nell'esercito immenso degli operai, dei salariati e dei dipendenti. Se si considera il presente, con le sue necessità belliche, come un dato di fatto, questa tranquillità potrà dirsi esigenza necessaria e fondata; ma se si guarda lo stato odierno dal punto di vista della giustizia, di un legittimo e regolato movimento operaio, la tranquillità non resterà che apparente finché tale scopo non sia raggiunto.
Mossa sempre da motivi religiosi, la Chiesa condannò i vari sistemi del socialismo marxista, e li condanna anche oggi, com'è suo dovere e diritto permanente di preservare gli uomini da correnti e influssi, che ne mettono a repentaglio la salvezza eterna. Ma la Chiesa non può ignorare o non vedere, che l'operaio, nello sforzo di migliorare la sua condizione, si urta contro qualche congegno, che, lungi dall'essere conforme alla natura, contrasta con l'ordine di Dio e con lo scopo, che Egli ha assegnato per i beni terreni. Per quanto fossero e siano false, condannabili e pericolose le vie, che si seguirono; chi, e soprattutto qual sacerdote o cristiano, potrebbe restar sordo al grido, che si solleva dal profondo, e il quale in un mondo di un Dio giusto invoca giustizia e spirito di fratellanza? Ciò sarebbe un silenzio colpevole e ingiustificabile davanti a Dio, e contrario al senso illuminato dell'apostolo, il quale, come inculca che bisogna essere risoluti contro l'errore, sa pure che si vuol essere pieni di riguardo verso gli erranti e con l'animo aperto per intenderne aspirazioni, speranze e motivi.
Dio, benedicendo i nostri progenitori, disse loro: «Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra e soggiogatela» (Gn 1,28). E al primo capo di famiglia diceva poi: «Nel sudore della tua fronte ti ciberai di pane» (Gn 3,19). La dignità della persona umana esige dunque normalmente come fondamento naturale per vivere il diritto all'uso dei beni della terra; a cui risponde l'obbligo fondamentale di accordare una proprietà privata, possibilmente a tutti. Le norme giuridiche positive; regolanti la proprietà privata, possono mutare e accordare un uso più o meno circoscritto; ma se vogliono contribuire alla pacificazione della comunità, dovranno impedire che l'operaio, che è o sarà padre di famiglia, venga condannato ad una dipendenza e servitù economica, inconciliabile con i suoi diritti di persona.
Che questa servitù derivi dal prepotere del capitale privato o dal potere dello Stato, l'effetto non muta; anzi, sotto la pressione di uno Stato, che tutto domina e regola l'intera vita pubblica e privata, penetrando fino nel campo delle concezioni e persuasioni e della coscienza, questa mancanza di libertà può avere conseguenze ancora più gravose, come l'esperienza manifesta e testimonia.
Cinque punti fondamentali
per l'ordine e la pacificazione della società umana
Chi pondera al lume della ragione e della fede i fondamenti e gli scopi della vita sociale, che noi abbiamo tracciati in brevi linee, e li contempla nella loro purezza ed altezza morale e nei loro benefici frutti in tutti i campi, non può non avere la convinzione dei potenti principi di ordine e di pacificazione, che energie rivolte a grandi ideali e risolute ad affrontare gli ostacoli potrebbero regalare, o diciamo meglio, restituire ad un mondo, interiormente scardinato, quando avessero abbattute le barriere intellettive e giuridiche, create da pregiudizi, errori, indifferenza, e da un lungo processo di secolarizzazione del pensiero, del sentimento, dell'azione, che venne a staccare e sottrarre la città terrena dalla luce e dalla forza della città di Dio.
Oggi più che mai scocca l'ora di riparare; di scuotere la coscienza del mondo dal grave torpore, in cui i tossici di false idee, largamente diffuse, l'hanno fatto cadere; tanto più che, in questa ora di sfacelo materiale e morale, la conoscenza della fragilità e della inconsistenza di ogni ordinamento puramente umano è sul disingannare anche coloro, che, in giorni apparentemente felici, non sentivano in sé e nella società la mancanza di contatto coll'eterno, e non la consideravano come un difetto essenziale delle loro costruzioni.
Ciò che chiaro appariva al cristiano, che, profondamente credente, soffriva dell'ignoranza altrui, chiarissimo ci presenta il fragore della spaventosa catastrofe dell'odierno sconvolgimento, che riveste la terribile solennità di un giudizio universale, persino agli orecchi dei tiepidi, degl'indifferenti, degl'inconsiderati: una verità, cioè, antica, che si manifesta tragicamente in forme sempre nuove, e tuona di secolo in secolo, di gente in gente, per bocca del Profeta: «Omnes qui Te derelinquunt, confundentur: recedentes a Te in terra scribentur: quoniam dereliquerunt venam aquarum viventium, Dominum» (Ier 17,13).
Non lamento, ma azione è il precetto dell'ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società. Pervasi da un entusiasmo di crociati, ai migliori e più eletti membri della cristianità spetta riunirsi nello spirito di verità, di giustizia e di amore al grido: Dio lo vuole! pronti a servire, a sacrificarsi, come gli antichi Crociati. Se allora trattavasi della liberazione della terra santificata dalla vita del Verbo di Dio incarnato, si tratta oggi, se possiamo così esprimerci, del nuovo tragitto, superando il mare degli errori del giorno e del tempo, per liberare la terra santa spirituale, destinata a essere il sostrato e il fondamento di norme e leggi immutabili per costruzioni sociali di interna solida consistenza.
Per sì alto fine, dal presepe del Principe della pace, fiduciosi che la sua grazia si diffonda in tutti i cuori, Noi Ci rivolgiamo a voi, diletti figli, che riconoscete e adorate in Cristo il vostro Salvatore, a tutti quelli che sono con noi uniti almeno col vincolo spirituale della fede in Dio, a tutti infine, quanti anelano a liberarsi dai dubbi e dagli errori, bramosi di luce e guida; e vi esortiamo con scongiurante paterna insistenza non solo a comprendere intimamente l'angosciosa serietà di quest'ora, ma anche a meditare le sue possibili aurore benefiche e soprannaturali, e a unirvi e operare insieme per il rinnovamento della società in spirito e verità.
Scopo essenziale di questa Crociata necessaria e santa è che la stella della pace, la stella di Betlemme, spunti di nuovo su tutta l'umanità nel suo rutilante fulgore, nel suo pacificante conforto, qual promessa e augurio di un avvenire migliore più fecondo e più felice.
Vero è che il cammino dalla notte a un luminoso mattino sarà lungo; ma decisivi sono i primi passi sul sentiero, che porta sopra le prime cinque pietre miliari scolpite con bronzeo scalpello le seguenti massime:
1° Dignità e diritti della persona umana
1) Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, concorra da parte sua a ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio; si opponga all'eccessivo aggruppamento degli uomini, quasi come masse senz'anima; alla loro inconsistenza economica, sociale, politica, intellettuale e morale; alla loro mancanza di solidi principi e di forti convinzioni; alla loro sovrabbondanza di eccitazione istintive e sensibili, e alla loro volubilità;
favorisca, con tutti i mezzi leciti, in tutti i campi della vita, forme sociali, in cui sia resa possibile e garantita una piena responsabilità personale, così quanto all'ordine terreno come quanto all'eterno;
sostenga il rispetto e la pratica attuazione dei seguenti fondamentali diritti della persona: il diritto a mantenere e sviluppare la vita corporale, intellettuale e morale, e particolarmente il diritto ad una formazione ed educazione religiosa; il diritto al culto di Dio privato e pubblico, compresa l'azione caritativa religiosa; il diritto, in massima, al matrimonio e al conseguimento del suo scopo, il diritto alla società coniugale e domestica; il diritto di lavorare come mezzo indispensabile al mantenimento della vita familiare; il diritto alla libera scelta dello stato, quindi anche dello stato sacerdotale e religioso; il diritto ad un uso dei beni materiali, cosciente dei suoi doveri e delle limitazioni sociali.
2° Difesa della unità sociale e particolarmente della famiglia
2) Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, rifiuti ogni forma di materialismo, che non vede nel popolo se non un gregge di individui, i quali, scissi e senza interna consistenza, vengono considerati come materia di dominio e di arbitrio;
cerchi di comprendere la società come un'unità interna, cresciuta e maturata sotto il governo della Provvidenza, unità la quale, nello spazio ad essa assegnato e secondo le sue peculiari doti, tende, mediante la collaborazione dei diversi ceti e professioni, agli eterni e sempre nuovi fini della cultura e della religione;
difenda la indissolubilità del matrimonio; dia alla famiglia, insostituibile cellula del popolo, spazio, luce, respiro, affinché possa attendere alla missione di perpetuare nuova vita e di educare i figli in uno spirito, corrispondente alle proprie vere convinzioni religiose; conservi, fortifichi o ricostituisca, secondo le sue forze la propria unità economica, spirituale, morale e giuridica: curi che i vantaggi materiali e spirituali della famiglia vengano partecipati anche dai domestici; pensi a procurare ad ogni famiglia un focolare, dove una vita familiare, sana materialmente e moralmente, riesca a dimostrarsi nel suo vigore e valore; curi che i luoghi di lavoro e le abitazioni non siano così separati, da rendere il capo di famiglia e l'educatore dei figli quasi estraneo alla propria casa; curi soprattutto, che tra scuole pubbliche e famiglia rinasca quel vincolo di fiducia e di mutuo aiuto, che in altri tempi maturò frutti così benefici, e che oggi è stato sostituito da sfiducia colà ove la scuola, sotto l'influsso o il dominio dello spirito materialistico, avvelena e distrugge ciò che i genitori avevano istillato nelle anime dei figli.
3° Dignità e prerogative del lavoro
3) Chi vuole che la stella della pace spunti e resti sulla società, dia al lavoro il posto da Dio assegnatogli fin dal principio. Come mezzo indispensabile al dominio del mondo, voluto da Dio per la sua gloria, ogni lavoro possiede una dignità inalienabile, e in pari tempo un intimo legame col perfezionamento della persona; nobile dignità e prerogativa del lavoro, cui in verun modo non avviliscono la fatica e il peso, che sono da sopportarsi come effetto del peccato originale, in ubbidienza e sommissione alla volontà di Dio.
Chi conosce le grande Encicliche dei Nostri Predecessori e i Nostri precedenti Messaggi non ignora che la Chiesa non esita a dedurre le conseguenze pratiche, derivanti dalla nobiltà morale del lavoro, e ad appoggiarle con tutto il nome della sua autorità. Queste esigenze comprendono, oltre ad un salario giusto, sufficiente alle necessità dell'operaio e della famiglia, la conservazione ed il perfezionamento di un ordine sociale, che renda possibile una sicura, se pur modesta proprietà privata a tutti i ceti del popolo, favorisca una formazione superiore per i figli delle classi operaie particolarmente dotati di intelligenza e di buon volere, promuova la cura e l'attività pratica dello spirito sociale nel vicinato, nel paese, nella provincia, nel popolo e nella nazione, che, mitigando i contrasti di interessi e di classe, toglie agli operai il sentimento della segregazione con l'esperienza confortante di una solidarietà genuinamente umana e cristianamente fraterna.
Il progresso e il grado delle riforme sociali improrogabili dipende dalla potenza economica delle singole nazioni. Solo con uno scambio di forze, intelligente e generoso, tra forti e deboli sarà possibile a compiersi una pacificazione universale in maniera che non restino focolai di incendio e di infezione, da cui potrebbero originarsi nuove sciagure.
Segni evidenti inducono a pensare, che nel fermento di tutti i pregiudizi e i sentimenti di odio, inevitabili ma tristi parti di questa acuta psicosi bellica, non sia spenta nei popoli la coscienza della loro intima reciproca dipendenza nel bene e nel male, che anzi sia divenuta più viva e attiva. Non è forse vero che sempre più chiaramente pensatori profondi vedono, nella rinunzia all'egoismo e all'isolamento nazionale, la via di salvezza generale, pronti come sono a domandare ai loro popoli una parte gravosa di sacrifici, necessari per la pacificazione sociale in altri popoli? Possa questo Nostro Messaggio natalizio, diretto a tutti coloro che sono animati da buona volontà e cuore generoso, incoraggiare e aumentare le schiere della Crociata sociale presso tutte le Nazioni! E voglia Dio concedere alla loro pacifica bandiera la vittoria, di cui è degna la loro nobile intrapresa!
4° Reintegrazione dell'ordinamento giuridico
4) Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla vita sociale, collabori ad una profonda reintegrazione dell'ordinamento giuridico.
Il sentimento giuridico di oggi è spesso alterato e sconvolto dalla proclamazione e dalla prassi di un positivismo e di un utilitarismo ligi e vincolati al servizio di determinati gruppi, ceti e movimenti, i cui programmi tracciano e determinano la via alla legislazione e alla pratica giudiziale.
Il risanamento di questa situazione diventa possibile a ottenersi, quando si ridesti la coscienza di un ordinamento giuridico, riposante nel sommo dominio di Dio e custodita da ogni arbitrio umano; coscienza di un ordinamento che stenda la sua mano protettrice e punitrice anche sugli inobliabili diritti dell'uomo e li protegga contro gli attacchi di ogni potere umano.
Dall'ordinamento giuridico voluto da Dio promana l'inalienabile diritto dell'uomo alla sicurezza giuridica, e con ciò stesso ad una sfera concreta di diritto, protetta contro ogni arbitrario attacco.
Il rapporto dell'uomo verso l'uomo, dell'individuo verso la società, verso l'autorità, verso i doveri civili, il rapporto della società e dell'autorità verso i singoli debbono essere posti sopra un chiaro fondamento giuridico e tutelati, al bisogno, dall'autorità giudiziaria. Ciò suppone:
a) un tribunale e un giudice, che prendano le direttive da un diritto chiaramente formulato e circoscritto;
b) chiare norme giuridiche, che non possano essere stravolte con abusivi richiami ad un supposto sentimento popolare e con mere ragioni di utilità;
c) riconoscimento del principio che anche lo Stato e i funzionari e le organizzazioni da esso dipendenti sono obbligati alla riparazione e al ritiro di misure lesive della libertà, della proprietà, dell'onore, dell'avanzamento e della salute dei singoli. 
5° Concezione dello Stato secondo lo spirito cristiano
5) Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società umana, collabori al sorgere di una concezione e prassi statale, fondate su ragionevole disciplina, nobile umanità e responsabile spirito cristiano;
aiuti a ricondurre lo Stato e il suo potere al servizio della società, al pieno rispetto della persona umana e della sua operosità per il conseguimento dei suoi scopi eterni;
si sforzi e adoperi a sperdere gli errori, che tendono a deviare dal sentiero morale lo Stato e il suo potere e a scioglierli dal vincolo eminentemente etico, che li lega alla vita individuale e sociale, e a far loro rinnegare o ignorare praticamente l'essenziale dipendenza, che li unisce alla volontà del Creatore;
promuova il riconoscimento e la diffusione della verità, che insegna, anche nel campo terreno, come il senso profondo e l'ultima morale e universale legittimità del «regnare» è il «servire».
Considerazioni sulla guerra mondiale e sul rinnovamento della società
Diletti figli! Voglia Dio che, mentre la Nostra voce arriva al vostro orecchio, il vostro cuore sia profondamente scosso ecommosso dalla serietà profonda, dall'ardente sollecitudine, dalla scongiurante insistenza, con cui Noi vi inculchiamo questi pensieri, che vogliono essere un appello alla coscienza universale e un grido di raccolta per tutti quelli che sono pronti a ponderare e misurare la grandezza della loro missione e responsabilità dalla vastità della sciagura universale.
Gran parte della umanità, e, non rifuggiamo dall'affermarlo, anche non pochi di coloro che si chiamano cristiani, entrano in certa guisa nella responsabilità collettiva dello sviluppo erroneo, dei danni e della mancanza di altezza morale della società odierna.
Questa guerra mondiale, e tutto ciò che le si connette, si tratti dei precedenti remoti o prossimi, o dei suoi procedimenti ed effetti materiali, giuridici e morali, che altro rappresenta se non lo sfacelo, inaspettato forse agl'inconsiderati, ma intuito e deprecato da coloro i quali penetravano a fondo col loro sguardo in un ordine sociale, che dietro l'ingannevole volto o la maschera di formole convenzionali nascondeva la sua debolezza fatale e il suo sfrenato istinto di guadagno e di potere?
Ciò che in tempi di pace giaceva compresso, al rompere della guerra scoppiò in una trista serie di azioni, contrastanti con lo spirito umano e cristiano. Le convenzioni internazionali per rendere meno disumana la guerra, limitandola ai combattenti, per regolare le norme dell'occupazione e della prigionia dei vinti, rimasero lettera morta in vari luoghi; e chi mai vede la fine di questo progressivo peggioramento?
Vogliono forse i popoli assistere inerti a così disastroso progresso? o non debbono piuttosto, sulle rovine di un ordinamento sociale, che ha dato prova così tragica della sua inettitudine al bene del popolo, riunirsi i cuori di tutti i magnanimi e gli onesti nel voto solenne di non darsi riposo, finché in tutti i popoli e le nazioni della terra divenga legione la schiera di coloro, che, decisi a ricondurre la società all'incrollabile centro di gravitazione della legge divina, anelano al servizio della persona e della sua comunanza nobilitata in Dio?
Questo voto l'umanità lo deve agl'innumerevoli morti, che giacciono sepolti nei campi di guerra: il sacrificio della loro vitanel compimento del loro dovere è l'olocausto per un nuovo migliore ordine sociale.
Questo voto l'umanità lo deve all'infinita dolente schiera di madri, di vedove e di orfani, che si son veduti strappare la luce, il conforto e il sostegno della loro vita.
Questo voto l'umanità lo deve a quegl'innumerevoli esuli che l'uragano della guerra ha spiantati dalla loro patria e dispersi in terra straniera; i quali potrebbero far lamento col Profeta: «Hereditas nostra versa est ad alienos, domus nostrae ad extraneos» (Ier, Lam. 5,2).
Questo voto l'umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento.
Questo voto l'umanità lo deve alle molte migliaia di non combattenti, donne, bambini, infermi e vecchi, a cui la guerra aerea, - i cui orrori Noi già fin dall'inizio più volte denunziammo, - senza discernimento o con insufficiente esame, ha tolto vita, beni, salute, case, luoghi di carità e di preghiera. 
Questo voto l'umanità lo deve alla fiumana di lagrime e amarezze, al cumulo di dolori e tormenti, che procedono dalla rovina micidiale dell'immane conflitto e scongiurano il cielo, invocando la discesa dello Spirito, che liberi il mondo dal dilagare della violenza e del terrore.
Invocazione al Redentore del mondo
E dove potreste voi deporre con più tranquilla sicurezza e fiducia e con fede più efficace questo voto per il rinnovamento della società, se non ai piedi del «desideratus cunctis gentibus», che giace davanti a noi nel presepio in tutto l'incanto della sua dolce umanità di Pargolo, ma anche nell'attrattiva commovente della sua incipiente missione redentrice? In qual luogo potrebbe questa nobile e santa crociata per la purificazione ed il rinnovamento della società avere consacrazione più espressiva e trovare stimolo più efficace che a Betlemme, dove nell'adorabile mistero dell'incarnazione apparve il nuovo Adamo alle cui fonti di verità e di grazia conviene in ogni modo che l'umanità attinga l'acqua salutare, se non vuole perire nel deserto di questa vita? «De plenitudine eius nos omnes accepimus» (Io 1,16). La sua pienezza di verità e di grazia, come da venti secoli, si riversa anche oggi sull'orbe con forza non diminuita; più potente delle tenebre è la sua luce, il raggio del suo amore più valido dell'agghiacciante egoismo, che rattiene tanti uomini dal crescere ed eccellere nel loro essere migliore. Voi, volontari crociati di una nuova nobile società, alzate il nuovo labaro della rigenerazione morale e cristiana, dichiarate lotta alle tenebre della defezione da Dio, alla freddezza della discordia fraterna; lotta in nome d'una umanità gravemente inferma e da sanare in nome della coscienza cristianamente elevata.
La Nostra benedizione e il Nostro paterno augurio e incoraggiamento sia colla vostra generosa intrapresa, e perduri con tutti coloro che non rifuggono dai duri sacrifici, armi più che il ferro potenti a combattere il male, di cui soffre la società. Sulla vostra crociata per un ideale sociale, umano e cristiano, splenda consolatrice ed incitatrice la stella che brilla sulla grotta di Betlemme, astro augurale e perenne dell'era cristiana. Alla sua vista attinse, attinge e attingerà forza ogni cuore fedele: «Si consistant adversus me castra ... in hoc ego sperabo» (Ps 26,3). Dove questa stella risplende, è Cristo: «Ipso ducente, non errabimus; per ipsum ad ipsum eamus, ut cum nato hodie puero in perpetuum gaudeamus».(4)


(1) PIO PP. XII, Radiomessaggio Con sempre nuova freschezza nella vigilia del Natale 1942, [A tutti i popoli del mondo], 24 dicembre 1942: AAS 35(1943), pp. 9-24.
Il santo Natale e l'umanità dolorante. - Rapporti internazionali e ordine interno delle nazioni. - Duplice elemento della pace nella vita sociale: I. Convivenza nell'ordine (Dio prima causa e ultimo fondamento della vita individuale e sociale; sviluppo e perfezionamento della persona umana; ordinamento giuridico della società e nuovi scopi); II. Convivenza nella tranquillità (armonia fra tranquillità e operosità; il mondo operaio). - Cinque punti fondamentali per l'ordine e la pacificazione della società umana: 1. Dignità e diritti della persona umana; 2. Difesa dell'unità sociale e particolarmente della famiglia; 3. Dignità e prerogativa del lavoro; 4. Reintegrazione dell'ordine giuridico; 5. Concezione dello stato secondo lo spirito cristiano. - Considerazioni sulla guerra mondiale e sul rinnovamento della società. - Invocazione al Redentore del mondo.
(2Summa theol., II-II, q. 29, a. 1 ad 1; S. AUGUSTINUS, De civitate Dei, 1. 19, c. 13, n. 1.
(3Summa theol., II-II, q. 29, a. 3.
(4) S. AUGUSTINUS, Sermo 189, c. 4: PL 38, 1007.
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1943
1 settembre 1943
 Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, nel 4° anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale
Mercoledì, 1° settembre 1943

Si compiono oggi quattro anni dal giorno orrendo che diede inizio alla più formidabile, distruggitrice e devastatrice guerra di tutti i tempi, la cui visione atterrisce chiunque nutra in petto anima e sensi di umanità.
Nel presentimento di così universale sciagura, che minacciava la grande famiglia umana, Noi indirizzammo, pochi giorni avanti lo scoppio delle ostilità, il 24 agosto 1939, ai Governanti e ai popoli un caldo appello e una supplichevole ammonizione : Nulla — dicemmo — è perduto con la pace. Tutto può esser perduto con la guerra !
La Nostra voce giunse agli orecchi, ma non illuminò gli intelletti e non scese nei cuori. Lo spirito della violenza vinse sullo spirito della concordia e della intesa : una vittoria che fu una sconfitta.
Oggi, sulla soglia del quinto anno di guerra, anche coloro, che contavano allora sopra rapide operazioni belliche e una sollecita pace vittoriosa, volgendo lo sguardo a quanto li circonda dentro e fuori della patria, non sentono che dolori e non contemplano che rovine. A molti, i cui orecchi rimasero sordi alle Nostre parole, la tristissima esperienza e lo spettacolo dell'oggi insegnano quanto il Nostro ammonimento e presagio corrispondessero alla realtà futura.
Ispirarono allora le Nostre parole amore imparziale per tutti i popoli senza eccezione e vigile cura per il loro benessere. Lo stesso amore e la stessa cura Ci muovono in quest'ora grave e angosciosa, e mettono sulle Nostre labbra parole che vogliono essere a vantaggio di tutti e di nessuno a danno, mentre istantemente supplichiamo l'Onnipotente Iddio, affinché apra loro la via ai cuori e alle decisioni degli uomini, nelle cui mani sono le sorti dell'afflitta umanità.
Attraverso lotte gigantesche le esteriori vicende della guerra si avvicinano e confluiscono al loro punto culminante.
Mai la esortazione della Scrittura: « Imparate, o giudici della terra! » (Ps. 2, 10), non fu più invocata e urgente che in quest'ora in cui a tutti parla la tragica realtà.
Dappertutto i popoli rientrano in se stessi a meditare, con gli occhi alle rovine. Vera saggezza è incoraggiarli e sostenerli nelle loro prove. Scoraggiarli sarebbe funesto accecamento.
Per ogni terra l'animo dei popoli si aliena dal culto della violenza, e nell'orrida messe di morte e di distruzione ne contempla la meritata condanna.
In tutte le Nazioni cresce l'avversione verso la brutalità dei metodi di una guerra totale, che porta ad oltrepassare qualunque onesto limite e ogni norma di diritto divino ed umano.
Più che mai tormentoso penetra e strugge la mente e il cuore dei popoli il dubbio, se la continuazione della guerra, e di una tale guerra, sia e possa dirsi ancora conforme agl'interessi nazionali, ragionevole e giustificabile di fronte alla coscienza cristiana ed umana.
Dopo tanti trattati infranti, dopo tante convenzioni lacerate, dopo tante promesse mancate, dopo tanti contraddittori cambiamenti nei sentimenti e nelle opere, la fiducia tra le Nazioni è scemata e caduta così profondamente da togliere animo e ardimento a ogni generosa risoluzione.
Perciò Ci rivolgiamo a tutti quelli, cui spetta promuovere l'incontro e l'accordo per la pace, con la preghiera sgorgante dall'intimo e addolorato Nostro cuore, e diciamo loro:
La vera forza non ha da temere di essere generosa. Essa possiede sempre i mezzi per garantirsi contro ogni falsa interpretazione della sua prontezza e volontà di pacificazione e contro altre possibili ripercussioni.
Non turbate né offuscate la brama dei popoli per la pace con atti, che, invece di incoraggiare la fiducia, riaccendono piuttosto gli odi e rinsaldano il proposito di resistenza.
Date a tutte le Nazioni la fondata speranza di una pace degna, che non offenda né il loro diritto alla vita né il loro sentimento di onore.
Fate apparire in sommo grado la leale concordanza tra i vostri principi e le vostre risoluzioni, tra le affermazioni per una pace giusta e i fatti.
Soltanto così sarà possibile di creare una serena atmosfera, nella quale i popoli meno favoriti, in un dato momento, dalle sorti della guerra possano credere al rinascere e al crescere di un nuovo sentimento di giustizia e di comunanza tra le Nazioni, e da questa fede trarre le naturali conseguenze di maggiore fiducia per l'avvenire, senza dover temere di compromettere la conservazione, l'integrità o l'onore del loro Paese.
Benedetti coloro, che con volontà rettilinea aiutano a preparare il terreno, dove germogli e fiorisca, si rafforzi e si maturi il senso della veracità e della giustizia internazionale.
Benedetti coloro — a qualunque gruppo belligerante appartengano — i quali con non meno retto volere e con lo sguardo alla realtà cooperano a superare il punto morto, in cui si arresta oggi la fatale bilancia tra guerra e pace.
Benedetti coloro che mantengono se stessi e i loro popoli liberi dalla stretta di opinioni preconcette, dall'influsso di indomite passioni, di inordinato egoismo, di illegittima sete di potere.
Benedetti coloro che ascoltano le voci supplichevoli delle madri, le quali ai loro figli hanno dato la vita, perché crescessero nella fede e nelle azioni generose, non per uccidere e farsi uccidere; coloro che porgono orecchio alle implorazioni angosciose delle famiglie ferite a morte dalle forzate separazioni, alle grida sempre più insistenti del popolo, il quale, dopo tante sofferenze, privazioni e lutti, non altro chiede per la sua vita che pace, pane, lavoro.
Benedetti infine quanti comprendono che la grande opera di un nuovo e vero ordinamento delle Nazioni non è possibile senza alzare e tenere fisso lo sguardo a Dio, che, reggitore e ordinatore di tutti gli eventi umani, è fonte suprema, custode e vindice di ogni giustizia e di ogni diritto.
Ma guai a coloro che in questo tremendo momento non assurgono alla piena coscienza della loro responsabilità per la sorte dei popoli, che alimentano odi e conflitti fra le genti, che edificano la loro potenza sulla ingiustizia, che opprimono e straziano gl'inermi e gl'innocenti (cfr. Ier. 22, 13); ecco che l'ira di Dio verrà sopra di loro sino alla fine (cfr. I Thess. 2, 16)!
Piaccia al Redentore divino, sulle cui labbra risonarono le parole « Beati i pacifici », illuminare i potenti e i condottieri dei popoli, dirigere i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro deliberazioni, renderli interiormente ed esteriormente vigorosi e saldi contro gli ostacoli, le diffidenze e i pericoli, che intralciano la via alla preparazione e al compimento di una giusta e durevole pace ! La loro saggezza, la loro moderazione, la loro forza di volontà e il vivo sentimento di umanità valgano a far cadere un raggio di conforto sul limitare, bagnato di sangue e di lacrime, del quinto anno di guerra, e dare alle vittime superstiti dell'immane conflitto, curve sotto l'oppressione del dolore, la lieta speranza che l'anno stesso non termini nel segno e nell'oscurità della strage e della distruzione, ma sia principio e aurora di novella vita, di fraterna riconciliazione, di concorde e operosa ricostruzione.
Con tale fiducia impartiamo a tutti i Nostri diletti figli e figlie dell'Orbe cattolico, come a tutti quelli che si sentono a Noi uniti nell'amore e nell'opera per la pace, la Nostra paterna Apostolica Benedizione.


*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, V,
  Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1943 - 1° marzo 1944, pp. 119-122
  Tipografia Poliglotta Vaticana


24 dicembre 1943
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo intero in occasione della Vigilia del Natale 1943
Venerdì, 24 dicembre 1943

NATALE DI GUERRA
Ancora una quinta volta, diletti figli e figlie dell'universo, la grande famiglia cristiana si prepara a celebrare la magnifica solennità della pace e dell'amore, che redime e affratella, in una cupa atmosfera di morte e di odio; anche quest'anno essa sente e sperimenta l'amarezza e l'orrore di un contrasto irreconciliabile tra il dolce messaggio di Betlemme e il feroce accanimento con cui l'umanità si dilania.
Dolorosi erano i passati anni, turbati dal fiero rumoreggiare delle armi ; ma le campane del Natale, sollevando gli animi, risvegliavano e facevano sorgere timide speranze, suscitavano caldi e potenti aneliti verso la pace.
Sventuratamente il mondo, guardandosi intorno, deve ancora contemplare con raccapriccio una realtà di lotta e di rovine che, divenuta di giorno in giorno più estesa e crudele, infrange le sue speranze e con gelida e dura esperienza comprime e soffoca i suoi più ardenti impulsi.
Che vediamo noi infatti se non il conflitto degenerare in quella forma di guerra, che esclude ogni restrizione e riguardo, quasi fosse un portato apocalittico generato da una civiltà, nella quale al progresso sempre crescente della tecnica viene compagno un decrescimento sempre più profondo dello spirito e della moralità; una forma di guerra, che procede senza posa per l'orrenda sua via, e matura stragi tali, che le pagine più insanguinate e spaventose delle epoche passate impallidiscono al suo confronto? Con terrore i popoli hanno dovuto assistere a un nuovo e immenso perfezionamento di mezzi e arti di distruzione, ed essere al tempo stesso spettatori di una decadenza interiore, che dal raffreddamento e sviamento della sensibilità morale va sempre più precipitando verso il fondo della comprensione di ogni sentimento di umanità e di un tale offuscamento della ragione e dello spirito, da verificare le parole della Sapienza : « Tutti erano avvinti da una stessa catena di tenebre » (Sap. 17, 17).
LA LUCE DELL'ASTRO DI BETLEMME
Ma in mezzo a questa notte tenebrosa risplende al fedele la luce dell'astro di Betlemme, che gli addita e illumina il cammino verso Colui, dalla cui pienezza di grazia e di verità noi tutti abbiamo ricevuto (Io. 1, 16); il cammino verso il Redentore, fattosi in questo mondo con la sua venuta essenzialmente Principe di pace, e pace nostra : « Ipse enim est pax nostra » (Eph. 2, 14).
Cristo solo può allontanare i funesti spiriti dell'errore e del peccato, che hanno aggiogato l'umanità ad una tirannica e avvilente schiavitù, asservendola ad un pensiero e ad un volere, dominati e mossi dall'insaziabile bramosia di beni senza limiti.
Cristo solo, che ci ha tolti al triste servaggio della colpa, può insegnare a spianare la via verso una libertà nobile e disciplinata, appoggiata e sostenuta su di una vera rettitudine e consapevolezza morale.
Cristo solo, « sulle cui spalle riposa il dominio » (cfr. Is. 9, 6), con la sua soccorritrice onnipotenza può sollevare e trarre il genere umano dalle angustie senza nome, che lo tormentano nel corso di questa vita, e avviarlo alla felicità.
Un cristiano, che si alimenta e vive della fede in Cristo, nella certezza che Egli solo è la via, la verità e la vita, reca la sua parte delle sofferenze e dei disagi del mondo al presepio del Figlio di Dio, e trova dinanzi al neogenito Bambino una consolazione e un sostegno ignoto al mondo, che gli dà animo e forza a resistere e mantenersi imperterrito, senza accasciarsi o venir meno in mezzo alle prove più tormentose e gravi.
I — AI DELUSI
È triste e doloroso, diletti figli, il pensare che innumerevoli uomini, pur sentendo, nella ricerca di una felicita che li appaghi in questa vita, l'amarezza di fallaci illusioni e penose delusioni, si siano preclusi la via ad ogni speranza, e lontani come vivono dalla fede cristiana, non sappiano rintracciare il cammino verso il presepio e verso quella consolazione, che fa sovrabbondare di gaudio gli eroi della fede in ogni loro tribolazione. Vedono ridotto in frantumi l'edificio di credenze, in cui umanamente ebbero fiducia e posero il loro ideale: ma non fu mai che trovassero quell'unica vera fede, la quale sarebbe valsa a dare loro conforto e rinnovamento di animo. In questo tentennamento intellettuale e morale, sono presi da una deprimente incertezza di spirito e vivono in uno stato d'inerzia che opprime l'anima loro, e che può profondamente intendere e fraternamente compatire solo colui, il quale ha la gioia di vivere nella vivida aura familiare di una fede soprannaturale, travalicante i turbini di tutte le contingenze temporali, per fissarsi nell'eterno.
a) COLORO, CHE POSERO LA LORO FIDUCIA NELLA ESPANSIONE MONDIALE DELLA VITA ECONOMICA
Della schiera di tali amareggiati e delusi non è difficile additare coloro, che posero la loro intera fiducia nella espansione mondiale della vita economica, reputandola sola idonea ad unire insieme in fratellanza i popoli, e ripromettendosi dalla sua grandiosa organizzazione, sempre più perfezionata e affinata, inauditi e insospettati progressi di benessere per il consorzio umano.
Con quanta compiacenza e orgoglio contemplarono l'accrescimento mondiale del commercio, lo scambio, oltrepassante i continenti, di tutti i beni e di tutte le invenzioni e produzioni, il cammino trionfale della diffusa tecnica moderna, superante ogni confine di spazio e di tempo! Oggi invece che sperimentano essi nella realtà? Vedono ormai che questa economia coi suoi giganteschi rapporti e vincoli mondiali e con la sua sovrabbondante divisione e moltiplicazione del lavoro cooperava in mille modi a rendere generale e più grave le crisi della umanità, mentre, non corretta da nessun ritegno morale, e senza sguardo ultraterreno che l'illuminasse, non poteva non terminare in un indegno e umiliante sfruttamento della persona umana e della natura, in una trista e paurosa indigenza da una parte e in una superba e provocante opulenza dall'altra, in un tormentoso e implacabile dissidio tra privilegiati e non abbienti : malaugurati effetti che non sono stati all'ultimo posto nella lunga catena di cause, che hanno condotto all'immensa tragedia odierna.
Non temano di presentarsi cotesti delusi della scienza e della potenza economica al presepio del Figlio di Dio. Che cosa dirà loro il Bambino, che vi è nato e viene adorato da Maria e da Giuseppe, dai Pastori e dagli Angeli? Senza dubbio la. povertà nella stalla di Betlemme è una condizione da Lui scelta puramente per sé, né perciò essa importa alcuna condanna o rifiuto della vita economica in ciò che è necessario all'avanzamento e al perfezionamento fisico e naturale dell'uomo. Ma quella povertà del Signore e Creatore del mondo, da Lui liberamente voluta, che Lo accompagnerà anche nella bottega di Nazareth e in tutto il tempo della sua vita pubblica, significa e manifesta quale padronanza e superiorità Egli avesse sulle cose materiali, indicando così con potente efficacia il naturale ed essenziale ordinamento dei beni terreni alla vita dello spirito e ad una più alta perfezione culturale, morale e religiosa, necessaria all'uomo ragionevole. Coloro, che aspettavano la salute della società dal meccanismo del mercato economico mondiale, sono rimasti così delusi, perché erano divenuti non i signori e i padroni, ma gli schiavi delle ricchezze materiali, alle quali avevano servito, svincolandole dal fine superiore dell'uomo e facendole fine a se stesse.
b) COLORO, CHE RIPOSERO LA FELICITÀ NELLA SCIENZA SENZA Dio
Non altrimenti operarono e pensarono altri delusi del passato, i quali riponevano la felicità e il benessere unicamente in un genere di scienza e di cultura, aliene dal riconoscere il Creatore dell'universo ; quei pionieri e quei seguaci non della vera scienza, che è mirabile riflesso della luce di Dio, ma di una scienza superba, la quale, non dando alcun posto all'opera di un Dio personale, indipendente da ogni limitazione e superiore a tutto ciò che è terreno, si vantava di poter spiegare gli avvenimenti del mondo col solo rigido e deterministico concatenamento di ferree leggi naturali.
Ma una tale scienza non può dare la felicità ed il benessere. L'apostasia dal Verbo divino, per il quale furono fatte tutte le cose, ha condotto l'uomo all'apostasia dallo spirito, così da rendergli arduo il perseguimento di ideali e di scopi altamente intellettuali e morali. Per tal modo la scienza apostata dalla vita spirituale, mentre s'illudeva di aver acquistato piena libertà ed autonomia, rinnegando Dio, si vede oggi punita con un servaggio, che non fu mai più umiliante, essendo divenuta schiava e quasi automatica esecutrice di indirizzi e ordini, che non tengono in alcun conto i diritti della verità e della persona umana. Ciò che a quella scienza parve libertà fu vincolo di umiliazione e di avvilimento; e scoronata com'è, non riprenderà la dignità primitiva, se non con un ritorno al Verbo eterno, fonte di sapienza così follemente abbandonato e dimenticato.
A tale ritorno invita appunto il Figlio di Dio, che è via, verità e vita, via di felicità, verità che sublima, vita che eterna l'uomo; invita in muto penetrante linguaggio, con la sua stessa venuta nel mondo, quei delusi, perché Egli non delude l'anima umana, ma le dà l'impeto che la porta verso di Lui.
 II — AI DESOLATI SENZA SPERANZA
Accanto a coloro, che vivono profondamente sconcertati per il fallimento di indirizzi sociali e intellettuali, largamente seguiti da politici e scienziati, sta la non meno numerosa schiera di quelli, che si trovano in gran disagio e pena per il disfacimento del loro personale e proprio ideale di vita.
a) COLORO, AI QUALI SCOPO DELLA VITA ERA IL LAVORO
È il gran numero di coloro, a cui scopo della vita era il lavoro, e meta delle loro fatiche una comoda esistenza materiale, ma che nella lotta per raggiungere quel fine avevano relegato lontano le considerazioni religiose e trascurato di dare alla loro esistenza un orientamento sano e morale. La guerra li ha strappati da questa consueta e amata attività, che era il pregio e sostegno del vivere loro, li ha divelti dalla loro professione e dalla loro arte, cosicché provano in sé stessi un vuoto pauroso. Che se alcuni possono ancora attendere all'opera loro, la guerra ha imposto condizioni di lavoro e di vita, nelle quali è scomparsa ogni caratteristica personale, viene meno e non è più possibile una vita familiare ordinata, né più si trova quella soddisfazione dell'anima, che fornisce soltanto il lavoro quale è stato nobilitato e voluto da Dio.
O lavoratori, accostatevi al presepio di Gesù ! Non vi paia orrida quella grotta e quel rifugio del Figlio di Dio: non per caso, ma per alto e ineffabile disegno vi troverete soltanto semplici lavoratori: Maria, la Vergine Madre di famiglia lavoratrice, Giuseppe, il Padre di famiglia lavoratore, i pastori custodi dei greggi, e infine i Saggi venuti dall'Oriente; lavoratori della mano, delle vigilie e del pensiero; essi si chinano e adorano il Figlio di Dio, che col suo cosciente e amabile silenzio, più forte della parola, spiega a tutti loro il senso e la virtù del lavoro. Esso non è soltanto travaglio delle membra umane privo di senso e di valore, e nemmeno una umiliante servitù. Il lavoro è servizio di Dio, dono di Dio, vigore e pienezza della vita umana, merito di riposo eterno. Levate e tenete alta la fronte, o lavoratori. Mirate il Figlio di Dio, che col suo eterno Padre creò e ordinò l'universo; e fattosi uomo pari a noi, tolto il peccato, e cresciuto in età, entra nella grande comunanza del lavoro, e nella sua missione salvatrice fatica consumando la sua vita terrena, Egli, Redentore del genere umano, che, con la sua grazia penetrante il nostro essere e operare, eleva e nobilita ogni onesto lavoro, l'alto e il basso, il grande e il piccolo, il gradevole ed il penoso, il materiale e l'intellettuale, ad un valore meritorio e soprannaturale dinanzi a Dio, unendo così ogni processo del multiforme operare umano in una unica costante glorificazione del Padre nel cielo.
b) COLORO, CHE POSERO LA LORO SPERANZA NEL GODIMENTO DELLA VITA TERRENA
Sventurati sono anche coloro che veggono fallita la loro speranza di felicità, sognata e riposta puramente nel godimento della passeggera vita terrena, concepita esclusivamente o come pienezza di energie corporee e bellezza di forme e di persone, o come opulenza e sovrabbondanza di comodità, o come possesso di forza e di potere.
Ma ecco che oggidì, nel turbine della guerra, il vigore e la venustà di tanta gioventù, cresciuta e addestrata nei campi sportivi, si disfanno e sfioriscono negli ospedali militari, e molti giovani vagano, aggirandosi mutilati o infermicci fisicamente e moralmente, per le strade di una patria, desolata e ridotta in un cumulo di rovine in varie città delle migliori sue regioni dai bombardamenti aerei e dalle operazioni belliche.
Se parte della gioventù maschile non ha più forze per faticare e lavorare, le future madri della prossima generazione, forzate come sono a un soverchio lavoro oltre ogni misura e ogni limite di tempo, vanno perdendo la possibilità di fornire al popolo dissanguato quell'incremento sano di corpo e di spirito, che favorisce la vita e l'educazione dei figli, senza cui l'avvenire della patria è minacciato da un triste tramonto.
La penosa irregolarità di lavoro e di vita, lontano da Dio e dalla sua grazia, e dal cattivo esempio allettata e traviata, insinua e prepara un pernicioso rilasciamento dei rapporti coniugali e familiari, cosicché il tossico della lussuria tenta di avvelenare ora molto più di prima la sacra sorgente della vita. Da questi dolorosi fatti e pericoli appare con dura evidenza come, mentre il rinvigorimento della famiglia e del popolo veniva considerato uno dei più nobili propositi in molte nazioni, si diffondono invece e crescono spaventosamente un deperimento fisico e un pervertimento spirituale, che solo un'azione curatrice ed educatrice di varie generazioni potrà lentamente almeno in parte far scomparire. Se il conflitto guerresco ha causato in tanti così vaste rovine di corpo e di spirito, non ha risparmiato gli avidi dell'opulenza e del puro godimento della vita, i quali stanno ora muti e perplessi dinanzi alle distruzioni, sopravvenute anche sopra i loro beni come un uragano devastatore: ricchezze e focolari annientati dal ferro e dal fuoco, vita comoda e di piaceri scomparsa, tragico il presente, l'avvenire con poche speranze e molti timori.
Più triste è la visione che turba e spaventa coloro, i quali aspirarono a possedere forza e predominio : ora contemplano con terrore l'oceano di sangue e di lacrime che bagna il mondo, le tombe e le fosse di cadaveri moltiplicate e sparse su tutte le regioni della terra e le isole dei mari, il lento spegnersi della civiltà, il progressivo scomparire del benessere anche materiale, la distruzione di insignì monumenti e nobilissimi edifici di arte sovrana, che potevano dirsi patrimonio comune del mondo civile, l'acuirsi e l'approfondirsi di odi, che infiammano l'uno contro l'altro i popoli e nulla di bene lasciano sperare per l'avvenire.
III — AI FEDELI 
Il conforto della fede nelle odierne calamità
Venite ora voi, o cristiani, voi, o fedeli, legati da un ineffabile vincolo soprannaturale col Figlio di Dio fattosi piccolo per noi, guidati e santificati dal suo Evangelo, alimentati dalla grazia, frutto della passione e della morte del Redentore. Anche voi sentite il dolore, ma con la speranza di un conforto che viene dalla vostra fede.
Le presenti miserie sono pure le vostre; la guerra distruggitrice visita e tormenta anche voi, i vostri corpi e le vostre anime, i vostri averi e i vostri beni, la vostra casa e il vostro focolare. La morte vi ha spezzato il cuore e inflitte ferite lente a rimarginarsi. Il pensiero a care tombe lontane rimaste forse sconosciute, l'ansietà per gli scomparsi o dispersi, il sospiro bramoso di riabbracciare i vostri amati prigionieri o deportati, vi mettono in una pena che accascia il vostro spirito, mentre un avvenire grave ed oscuro incombe su tutti, genitori e figli, giovani e vecchi.
In ogni giorno, e più che mai in quest'ora, il Nostro cuore di Padre si sente con profondo e immutabile affetto presso a ciascuno di voi, diletti figli e figlie, doloranti e angustiati. Ma tutti i nostri sforzi non possono far cessare d'un tratto questa orrenda guerra. Non ridare la vita ai vostri cari morti. Non ricostruire il vostro focolare distrutto. Non liberarvi pienamente dalle vostre ansietà. Molto meno è in Nostro potere di manifestarvi il futuro, le cui chiavi sono nelle mani di Dio, che governa il processo degli eventi e ne ha segnato il termine pacifico.
Due cose però Noi possiamo e vogliamo compiere. La prima è, che Noi abbiamo fatto e faremo sempre quanto è nelle Nostre forze materiali e spirituali per alleviare le tristi conseguenze della guerra, per i prigionieri, per i feriti, per i dispersi, per i randagi, per i bisognosi. per tutti i sofferenti e i travagliati, di ogni lingua e nazione.
La seconda è, che in questo volgere del tristo tempo di guerra Noi vogliamo che soprattutto ricordiate il gran de conforto che ci ispira la fede, quando c'insegna che la morte e le sofferenze di questa vita terrena perdono la loro dolorosa amarezza per coloro, che possono con tranquilla e serena coscienza far propria la commovente preghiera della Chiesa nella Messa per ì defunti : « Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita viene cambiata, non tolta, e quando è disciolta la dimora di questa abitazione terrena, sta preparata in cielo un'abitazione eterna » (Praef . Miss. pro defunct.). Mentre gli altri, che non hanno speranza, si trovano davanti ad un abisso pauroso, e le loro mani, brancicando alla ricerca di un punto di appoggio, palpano il nulla, non dell'anima loro immortale, ma di una sfumata felicità oltremondana; voi invece, per la grazia e liberalità di Dio misericordioso, oltre la morte certa, « certa moriendi conditio », avete l'ineffabile divina consolazione della promessa d'immortalità, « futurae immortalitatis promissio ».
Da una tal fede voi attingete un'interiore serenità, una fiduciosa fortezza morale, che non soccombono neppure alle più crude sofferenze. Grazia sublime questa e inestimabile privilegio, che dovete ascrivere alla benignità del Salvatore; grazia e privilegio, che esige da voi il rispondervi con azione di esemplare costanza e richiede un apostolato quotidiano, tendente a ridare la fiducia a chi l'ha perduta e ad avviare a salvezza spirituale coloro i quali, come naufraghi nell'oceano delle presenti sciagure, stanno per sommergersi e perire.
Dovere dei cristiani nell'ora presente
Il cammino dell'umanità nella presente confusione d'idee è stato un cammino senza Dio, anzi contro Dio; senza Cristo, anzi contro Cristo. Con ciò non vogliamo né intendiamo offendere gli erranti; essi sono e rimangono nostri fratelli.
Conviene però che anche la cristianità consideri quella parte di responsabilità, che a lei tocca nelle odierne prove. O non hanno forse anche molti cristiani fatto concessioni a quelle false idee e indirizzi della vita, tante volte disapprovati dal magistero della Chiesa?
Ogni tiepidezza e ogni inconsulto patteggiamento col rispetto umano nella professione della fede e delle sue massime; ogni pusillanimità e ondeggiamento tra il bene e il male nella pratica della vita cristiana, nell'educazione dei figli e nel governo della famiglia; ogni peccato occulto o palese; tutto questo, e quel più che si potrebbe aggiungere, è stato ed è un lacrimevole contributo alla sciagura, che oggi sconvolge il mondo. E chi mai avrebbe il diritto di ritenersi senza colpa alcuna? La riflessione sopra voi stessi e le vostre opere e l'umile riconoscimento di tale responsabilità morale vi farà scorgere e sentire nel profondo dell'anima quanto doverosa e santa sia per voi una preghiera e un'azione che plachi e implori la misericordia di Dio e concorra a salvare i fratelli; ridando a Dio quell'onore, che gli fu per tanti decenni negato, conquistando e ottenendo agli uomini quella pace interiore, la quale non si può trovare che col riavvicinamento alla luce spirituale della Grotta di Betlemme.
All'opera, diletti figli!
All'opera dunque e al lavoro, diletti figli! Serrate le vostre file. Non cada il vostro coraggio; non rimanete inerti in mezzo alle rovine. Uscitene fuori alla ricostruzione di un nuovo mondo sociale per Cristo.
Splenda su di voi la stella che guidò il cammino dei Magi a Gesù. Lo spirito, che da Lui emana, nulla ha perduto della sua forza e della sua potenza risanatrice della umanità decaduta. Esso trionfò un giorno sul paganesimo imperante. Perché non dovrebbe trionfare anche oggi, quando pene e delusioni di ogni genere mostrano a tante anime la vanità e i traviamenti dei sentieri finora seguiti nella vita pubblica e privata? Gran numero di intelletti vanno ricercando nuovi ideali politici e sociali, privati e pubblici, istruttivi ed educativi, e provano intima l'ansia di appagare il bisogno del loro cuore. Sia loro guida l'esempio della vostra vita cristiana; l'ardente vostra parola li scuota. Mentre passa la figura di questo mondo, mostrate loro come la vera vita è « che conoscano Te, l'unico vero Dio, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo » (Io. 17, 3).
Invocazione di soccorso
Per il vostro labbro rinasca nei fratelli la conoscenza del Padre celeste, che, anche in tempi di terribile miseria, governa il mondo con sapiente e provvida bontà; sperimentino la tranquilla felicità, che viene da una vita ardente dell'amore di Dio. Ma l'amore di Dio rende l'animo delicatamente sensibile anche ai bisogni dei fratelli, pronto all'aiuto spirituale e materiale, disposto ad ogni rinunzia, affinché rifiorisca nel cuore di tutti l'amore fervido ed attivo.
Oh forza della carità di Cristo! Noi la sentiamo vibrante nella tenerezza del Nostro cuore di Padre, che, ugualmente aperto e teso verso tutti, Ci fa inculcare col grido della Nostra parola l'opera di misericordia e di soccorrevole amore.
Quante volte abbiamo dovuto ripetere con animo straziato l'esclamazione del divino Maestro : « Misereor super turbam », « Ho compassione di questo popolo », e quante volte aggiungere anche Noi : « Non habent quod manducent », « Non hanno che mangiare » (Marc. 8, 2), specialmente guardando a molte regioni devastate e desolate dalla guerra! E non fu mai volta o momento che non sentissimo duramente il contrasto fra le ristrettezze Nostre, non valevoli al soccorso, e la gigantesca estensione del bisogno dei molti, che fanno pervenire a Noi la loro voce supplichevole e il loro doloroso gemito, prima da regioni lontane, e ora sempre più anche dalle vicine.
Di fronte a tale indigenza, ogni giorno crescente, Noi rivolgiamo al mondo cristiano un insistente grido di paterna invocazione di aiuto e di pietà: « Ecce sto ad ostium et pulso », « Ecco che sto alla porta e busso » (Apoc. 3, 20).
E non dubitiamo di rivolgerCi, con quella fiducia che Dio C'ispira, al sentimento umano e cristiano di quei popoli e di quelle Nazioni, a cui la Provvidenza ha risparmiato finora la diretta sofferenza degli orrori della guerra, o che, pur essendo in guerra, vivono ancora in condizioni che permettono ad essi di dare un generoso sfogo al loro intento di misericordia e di porgere aiuto e sostentamento a quelli che, entro i duri disagi del conflitto e senza soccorso esterno, difettano già oggi del necessario e più ne difetteranno nel futuro.
Per una tale invocazione Ci sospinge e Ci sostiene la speranza che essa incontrerà profonda eco nei cuori dei fedeli e di quanti sentono in petto vivo spirito di umanità; mentre, fra gli urti nati e acuiti dal conflitto mondiale, appare in luce sempre più chiara un consolante svolgimento di pensieri e di propositi ; vogliamo dire il risveglio di una solidaria responsabilità dinanzi ai problemi sorti dall'impoverimento generale, originato dalla guerra. Le distruzioni e le devastazioni, che ne sono seguite, esigono imperiosamente per tutta la estensione dei danni avvenuti un'opera di ricostruzione e di soccorso. Gli errori del passato non molto lontano si tramutano per gli spiriti indipendenti e illuminati in ammonizioni, alle quali, così per ragione di prudenza, come per senso di umanità, non è mai che restino sordi. Essi considerano il risanamento spirituale e la restaurazione materiale dei popoli e degli Stati come un insieme organico, nel quale nulla sarebbe più esiziale che il lasciare annidarsi focolari d'infezione, da cui domani potrebbe nascere nuova rovina. Essi sentono che, in un nuovo ordinamento di pace, di diritto e di operosità. non dovrebbero, per il trattamento di alcuni popoli in modo non conforme alla giustizia, all'equità e alla saggezza, sorgere pericoli o rimanere lacune nella struttura della intera organizzazione, che ne metterebbero a repentaglio la consistenza e la stabilità.
Aspettazione di pace
Stretti e fedeli come vogliamo essere alla doverosa imparzialità del Nostro ministero pastorale, esprimiamo il desiderio che i Nostri figli diletti nulla omettano per far trionfare i principi di illuminata ed equanime giustizia e fraternità nelle questioni così fondamentali per la salute degli Stati. È infatti virtù propria degli spiriti saggi e dei veri amici dell'umanità il comprendere che una pace conforme alla dignità dell'uomo e alla coscienza cristiana non è mai che sia una dura imposizione della spada, bensì il frutto di una previdente giustizia e di una responsabile equità verso tutti.
Ma, se nell'aspettazione di una tale pace, che tranquilli il mondo, voi, diletti figli e figlie, continuate a soffrire amaramente nell'anima e nel corpo sotto i colpi dei disagi e della ingiustizia, non dovete però domani macchiare quella pace e rendere ingiustizia con ingiustizia, o forse commettere una ingiustizia anche maggiore.
In questa vigilia natalizia il vostro cuore e la vostra mente si volgano al Fanciullo divino del presepio. Vedete e meditate come in quella grotta abbandonata, esposta al freddo e ai venti, Egli partecipi della vostra povertà e della vostra miseria. Egli, Signore del cielo e della terra e di tutte le ricchezze, per le quali contendono gli uomini. Tutto è suo: eppure quante volte in questi tempi ha dovuto anch'Egli abbandonare chiese e cappelle distrutte, incendiate, crollate o pericolanti ! Forse là, dove la devozione dei vostri antenati Gli aveva dedicato magnifici templi dagli agili archi e dalle volte sublimi, voi non potete offrirgli, in mezzo alle rovine, fuorché una misera dimora in cappella di rifugio o in case private. Noi vi lodiamo e ringraziamo, Sacerdoti e laici, uomini e donne, che non di rado, sprezzando ogni pericolo della vostra vita, avete ricoverato e custodito in luogo sicuro il Signore e Salvatore eucaristico. Il vostro zelo non voleva che si avverasse ancora una volta ciò che fu detto di Cristo: «È venuto nei suoi possessi e i suoi non l'hanno accolto » (Io. I, II). Così il Signore non ha rifiutato di venire in mezzo alla vostra povertà: Egli che già preferì Betlemme a Gerusalemme, la stalla e il presepe al grandioso tempio del Padre suo. Povertà e miseria sono amare, ma diventano dolci se si conserva in sé Iddio, il Figlio di Dio, Gesù Cristo, e la sua grazia e verità. Egli rimane con voi, finché nel vostro cuore vivono la vostra fede, la vostra speranza, il vostro amore, la vostra obbedienza e devozione.
Insieme con voi, diletti figli e figlie, Noi deponiamo le Nostre preghiere ai piedi di Gesù Bambino e imploriamo da Lui che sia questo l'ultimo Natale di guerra e che l'umanità possa celebrare nel nuovo anno la ricorrenza della solennità natalizia, fulgente della luce e del gaudio di una pace veramente cristiana.
PRINCIPI PER UN PROGRAMMA DI PACE
Ed ora voi tutti, che portate la responsabilità, voi tutti, che per disposizione o permissione di Dio, avete nelle vostre mani il potere sopra la sorte del vostro e degli altrui popoli : ascoltate il supplichevole « Erudimini », che dal sanguinoso e rovinoso abisso di questa immane guerra rintrona al vostro orecchio: fremito e ammonimento per tutti, colpo di tromba del futuro giudizio annunziatrice di condanna e di pena per coloro, che fossero sordi alla voce dell'umanità, che è anche la voce di Dio.
I vostri scopi di guerra nella coscienza della vostra forza possono ben aver abbracciato interi paesi e continenti. La questione circa la colpa della presente guerra e la richiesta di riparazioni possono pure indurvi ad alzare la vostra voce. Oggi però le devastazioni, che il conflitto mondiale ha prodotte in tutti i campi della vita, materiali e spirituali, arrivano già a così incomparabile gravezza ed estensione, e il temuto pericolo che con la continuazione della guerra esse crescano in orrori senza nome per ambedue le parti belligeranti, e per quanti, pur ripugnanti, sono stati in essa travolti, appare così fosco e minaccioso al Nostro sguardo, che Noi, per il bene e per la stessa esistenza di tutti e singoli i popoli, vi diciamo e scongiuriamo:
Sollevatevi sopra voi stessi, sopra ogni strettezza di giudizio e di calcolo, sopra ogni vanto di superiorità militare, sopra ogni affermazione unilaterale di diritto e di giusti zia. Riconoscete anche le verità sgradevoli ed educate i vostri popoli a guardarle in faccia con serietà e fortezza.
Vera pace non è il risultato, per così dire, aritmetico di una proporzione di forze, ma, nel suo ultimo e più profondo significato, un'azione morale e giuridica.
Essa non si effettua in realtà senza impiego di forza, e la sua stessa consistenza ha bisogno di appoggiarsi sopra una normale misura di potenza. Ma la funzione propria di questa forza, se vuoi essere moralmente retta, deve servire a protezione e a difesa, non a diminuzione od oppressione del diritto.
Un'ora come la presente — capace non meno di potenti e benefici progressi, che di funesti mancamenti ed errori — non si è forse mai avuta nella storia della umanità.
E quest'ora domanda con voce imperiosa che gli scopi di guerra e i programmi di pace siano dettati dal più alto senso morale. Essi non debbono tendere, come a scopo supremo, se non ad un'opera d'intesa e di concordia fra i popoli belligeranti, un'opera che lasci ad ogni Nazione, cosciente della sua doverosa unione con la intera famiglia degli Stati, la possibilità di associarsi degnamente, senza rinnegare o distruggere sé stessa, alla grande futura azione mondiale di risanamento e di ricostruzione. Naturalmente la conclusione di una tale pace non significherebbe alcun abbandono delle necessarie garanzie e sanzioni di fronte a qualsiasi attentato della forza contro il diritto.
Non pretendete da alcun membro della famiglia dei popoli, anche se piccolo o debole, rinunzie a sostanziali diritti e necessità vitali, che voi stessi, se si dovessero applicare al vostro popolo, giudichereste inattuabili.
Date presto alla umanità ansiosa una pace, che riabiliti il genere umano dinanzi a sé stesso e alla storia. Una pace, sopra la cui culla non guizzino i lampi vendicatori dell'odio, non gl'istinti di una sfrenata volontà di rappresaglia, ma risplenda l'aurora di un nuovo spirito di comunanza mondiale, sorto dal mondiale dolore. Uno spirito di comunanza che, sostenuto dalle indispensabili forze divine della fede cristiana, sarà solo in grado di preservare la umanità, dopo questa infelice guerra, dalla indicibile sciagura di una pace edificata su errati fondamenti, e quindi effimera ed ingannevole.
Animati da questa speranza, Noi con paterno affetto a voi, diletti figli e figlie, soprattutto a coloro, che soffrono in maniera particolarmente dolorosa i disagi e le pene della guerra e hanno bisogno dei divini conforti, e non ultimi a tutti quelli i quali, rispondono alla Nostra invocazione, aprono il cuore all'amore operoso e misericordioso, o, reggendo i destini dei popoli, sono bramosi di tranquillarli con l'olivo di pace, impartiamo, come pegno di abbondanti favori celesti, la Nostra Apostolica Benedizione.


*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, V,
  Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1943 - 1° marzo 1944, pp. 97-99
  Tipografia Poliglotta Vaticana
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1944


1 settembre 1944
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1944 nel 5° anniversario dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale
Venerdì, 1° settembre 1944

I. La difesa della civiltà cristiana
Oggi, al compiersi del quinto anno dallo scoppio della guerra, la umanità, mentre si volge indietro a rimirare il cammino di lagrime e di sangue affannosamente percorso in questo fosco quinquennio di storia, inorridisce dinanzi all’abisso di miseria, in cui lo spirito della violenza e il predominio della forza l’hanno precipitata, e pur senza lasciarsi abbattere dal ricordo del passato, ricerca ansiosamente le cause di una così funesta catastrofe spirituale e materiale, risoluta a prendere ogni più efficace rimedio contro il ripetersi, in altre forme, della immane tragedia.
Scossi dal cumulo di tante rovine, molti animi onesti si ridestano come da un sogno angoscioso, bramosi di trovare anche in altri campi — fino ad ora mutuamente separati e lontani — collaboratori, compagni di via e di lotta, per la grande opera di ricostruzione di un mondo scalzato nelle sue fondamenta e dilacerato nella sua più intima compagine.
Nulla certamente di più naturale, nulla di più opportuno, nulla — supposte le indispensabili cautele — di più doveroso!
Per quanti si gloriano del nome cristiano e professano la fede in Cristo con una condotta di vita inviolabilmente conforme alle sue leggi, questa disposizione e prontezza di animo a lavorare in comune, nello spirito di una vera solidarietà fraterna, non obbediscono soltanto all’obbligo morale del retto adempimento dei doveri civili; essa si eleva alla dignità di un postulato della coscienza sorretta e guidata dall’amore di Dio e del prossimo, cui aggiungono vigore i segni ammonitori del momento presente e la intensità dello sforzo richiesto per la salvezza dei popoli.
Il quadrante della storia segna oggi un’ora grave, decisiva, per tutta l’umanità.
Un mondo antico giace in frantumi. Veder sorgere al più presto da quelle rovine un nuovo mondo, più sano, giuridicamente meglio ordinato, più in armonia con le esigenze della natura umana: tale è l’anelito dei popoli martoriati.
Quali saranno gli architetti che disegneranno le linee essenziali del nuovo edificio, quali i pensatori che daranno ad esso l’impronta definitiva?
Ai dolorosi e funesti errori del passato succederanno forse altri non meno deplorevoli, e il mondo oscillerà indefinitamente da un estremo all’altro? ovvero si arresterà il pendolo, grazie all’azione di saggi reggitori di popoli, su direzioni e soluzioni che non contraddicano al diritto divino e non contrastino con la coscienza umana e soprattutto cristiana?
Dalla risposta a questa domanda dipende la sorte della civiltà cristiana nell’Europa e nel mondo. Civiltà che, lungi dal portare ombra o pregiudizio a tutte le forme peculiari e così svariate di vivere civile nelle quali si manifesta l’indole propria di ciascun popolo, s’innesta in esse e vi ravviva i più alti princìpi etici: la legge morale scritta dal Creatore nei cuori degli uomini (Cf. Rom., 2, 15), il diritto di natura derivante da Dio, i diritti fondamentali e la intangibile dignità della persona umana; e per meglio piegare le volontà alla loro osservanza, infonde nei singoli uomini, in tutto il popolo e nella convivenza delle nazioni quelle energie superiori, che nessun potere umano vale anche soltanto lontanamente a conferire, mentre, a somiglianza delle forze della natura, preserva dai germi velenosi che minacciano l’ordine morale, di cui impedisce la rovina.
Così avviene che la civiltà cristiana, senza soffocare né indebolire gli elementi sani delle più varie culture native, nelle cose essenziali le armonizza, creando in tal guisa una larga unità di sentimenti e di norme morali — fondamento saldissimo di vera pace, di giustizia sociale e di amore fraterno fra tutti i membri della grande famiglia umana.
Gli ultimi secoli hanno veduto, con una di quelle evoluzioni piene di contraddizioni di cui la storia è scaglionata, da un lato, sistematicamente minati i fondamenti stessi della civiltà cristiana, dall’altro, invece, il patrimonio di essa diffondersi pur sempre attraverso tutti i popoli. L’Europa e gli altri continenti vivono ancora, in diverso grado, delle forze vitali e dei princìpi, che la eredità del pensiero cristiano ha loro trasmessi quasi come in una spirituale trasfusione di sangue.
Alcuni giungono a dimenticare questo prezioso patrimonio, a trascurarlo, perfino a ripudiarlo; ma il fatto di quella successione ereditaria rimane. Un figlio può ben rinnegare sua madre; egli non cessa perciò di essere a lei unito biologicamente e spiritualmente. Così anche i figli, allontanatisi e straniatisi dalla casa paterna, sentono pur sempre, talvolta inconsapevolmente, come voce del sangue, l’eco di quella eredità cristiana, che spesso nei propositi e nelle azioni li preserva dal lasciarsi interamente dominare e guidare dalle false idee, a cui essi, volutamente o di fatto, aderiscono.
La chiaroveggenza, la dedizione, il coraggio, il genio inventivo, il sentimento di carità fraterna di tutti gli spiriti retti ed onesti determineranno in quale misura e fino a qual grado sarà dato al pensiero cristiano di mantenere e di sorreggere l’opera gigantesca della restaurazione della vita sociale, economica ed internazionale in un piano non contrastante col contenuto religioso e morale della civiltà cristiana.
Perciò a tutti i Nostri figli e figlie nel vasto mondo, come anche a coloro che, pur non appartenendo alla Chiesa, si sentono uniti con Noi in quest’ora di determinazioni forse irrevocabili, rivolgiamo l’urgente esortazione di ponderare la straordinaria gravità del momento e di considerare come, al di sopra di ogni collaborazione con altre divergenti tendenze ideologiche e forze sociali, suggerita talora da motivi puramente contingenti, la fedeltà al patrimonio della civiltà cristiana e la sua strenua difesa contro le correnti atee ed anticristiane è la chiave di volta, che mai non può essere sacrificata, a nessun vantaggio transitorio, a nessuna mutevole combinazione.
Questo invito, che confidiamo troverà un’eco favorevole in milioni di anime sulla terra, tende principalmente ad una leale ed efficace collaborazione in tutti quei campi, nei quali la creazione di un più retto ordinamento giuridico si manifesta come particolarmente richiesta dalla stessa idea cristiana. Ciò vale in modo speciale per quel complesso di formidabili problemi, che riguardano la costituzione di un ordine economico e sociale più rispondente all’eterna legge divina e più conforme alla dignità umana. In esso il pensiero cristiano ravvisa come elemento sostanziale la elevazione del proletariato, la cui risoluta e generosa attuazione apparisce ad ogni vero seguace di Cristo non solo come un progresso terreno, ma anche come l’adempimento di un obbligo morale.
II. Alcuni aspetti della questione economica e sociale
Dopo anni amari d’indigenza, di restrizioni e soprattutto di angosciosa incertezza, gli uomini attendono, al termine della guerra, un profondo e definitivo miglioramento di così tristi condizioni.
Le promesse di uomini di Stato, le molteplici concezioni e proposte di dotti e di tecnici, hanno suscitato fra le vittime di un malsano ordinamento economico e sociale una illusoria aspettazione di palingenesi totale del mondo, un’esaltata speranza di un regno millenario di universale felicità.
Tale sentimento offre un terreno favorevole alla propaganda dei programmi più radicali, dispone gli spiriti a una ben comprensibile, ma irragionevole e ingiustificata impazienza, che nulla si ripromette da organiche riforme e tutto aspetta da sovvertimenti e da violenze.
Di fronte a queste tendenze estreme il cristiano, che seriamente medita sui bisogni e le miserie del suo tempo, rimane nella scelta dei rimedi fedele alle norme che l’esperienza, la sana ragione e l’etica sociale cristiana additano come i fondamenti e i princìpi di ogni giusta riforma.
Già il Nostro immortale Predecessore Leone XIII nella sua celebre Enciclica Rerum novarum enunciò il principio che per ogni retto ordine economico e sociale « deve porsi come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata ».
Se è vero che la Chiesa ha sempre riconosciuto « il diritto naturale di proprietà e di trasmissione ereditaria dei propri beni » (Enciclica Quadragesimo anno), non è tuttavia men certo che questa proprietà privata è in particolar modo il frutto naturale del lavoro, il prodotto di una intensa attività dell’uomo, che l’acquista grazie alla sua energica volontà di assicurare e sviluppare con le sue forze l’esistenza propria e quella della sua famiglia, di creare a sé e ai suoi un campo di giusta libertà, non solo economica, ma anche politica, culturale e religiosa.
La coscienza cristiana non può ammettere come giusto un ordinamento sociale che o nega in massima o rende praticamente impossibile o vano il diritto naturale di proprietà, così sui beni di consumo come sui mezzi di produzione.
Ma essa non può nemmeno accettare quei sistemi, che riconoscono il diritto della proprietà privata secondo un concetto del tutto falso, e sono quindi in contrasto col vero e sano ordine sociale.
Perciò là dove, per esempio, il « capitalismo » si basa sopra tali erronee concezioni e si arroga sulla proprietà un diritto illimitato, senza alcuna subordinazione al bene comune, la Chiesa lo ha riprovato come contrario al diritto di natura.
Noi vediamo infatti la sempre crescente schiera dei lavoratori trovarsi sovente di fronte a quegli eccessivi concentramenti di beni economici che, nascosti spesso sotto forme anonime, riescono a sottrarsi ai loro doveri sociali e quasi mettono l’operaio nella impossibilità di formarsi una sua proprietà effettiva.
Vediamo la piccola e media proprietà scemare e svigorirsi nella vita sociale, serrata e costretta com’è ad una lotta difensiva sempre più dura e senza speranza di buon successo.
Vediamo, da un lato, le ingenti ricchezze dominare l’economia privata e pubblica, e spesso anche l’attività civile; dall’altro, la innumerevole moltitudine di coloro che, privi di ogni diretta o indiretta sicurezza della propria vita, non prendono più interesse ai veri ed alti valori dello spirito, si chiudono alle aspirazioni verso una genuina libertà, si gettano al servigio di qualsiasi partito politico, schiavi di chiunque prometta loro in qualche modo pane e tranquillità. E la esperienza ha dimostrato di quale tirannia in tali condizioni anche nel tempo presente sia capace la umanità.
Difendendo dunque il principio della proprietà privata, la Chiesa persegue un alto fine etico-sociale. Essa non intende già di sostenere puramente e semplicemente il presente stato di cose, come se vi vedesse la espressione della volontà divina, né di proteggere per principio il ricco e il plutocrate contro il povero e non abbiente: tutt’altro! Fin dalle origini, essa è stata la tutrice del debole oppresso contro la tirannia dei potenti e ha patrocinato sempre le giuste rivendicazioni di tutti i ceti dei lavoratori contro ogni iniquità. Ma la Chiesa mira piuttosto a far sì che l’istituto della proprietà privata sia tale quale deve essere secondo i disegni della sapienza divina e le disposizioni della natura: un elemento dell’ordine sociale, un necessario presupposto delle iniziative umane, un impulso al lavoro a vantaggio dei fini temporali e trascendenti della vita, e quindi della libertà e della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che fin dal principio gli assegnò a sua utilità un dominio sulle cose materiali.
Togliete al lavoratore la speranza di acquistare qualche bene in proprietà personale; quale altro stimolo naturale potreste voi offrirgli per incitarlo a un lavoro intenso, al risparmio, alla sobrietà, mentre oggi non pochi uomini e popoli, avendo tutto perduto, nulla più hanno se non la loro capacità di lavoro? O si vuol forse perpetuare l’economia di guerra per la quale in alcuni Paesi il pubblico potere ha in mano tutti i mezzi di produzione e provvede per tutti e a tutto, ma con la sferza di una dura disciplina? Ovvero si vorrà soggiacere alla dittatura di un gruppo politico, che disporrà, come classe dominante, dei mezzi di produzione, ma insieme anche del pane, e quindi della volontà di lavoro dei singoli?
La politica sociale ed economica dell’avvenire, l’attività ordinatrice dello Stato, dei Comuni, degl’istituti professionali, non potranno conseguire durevolmente il loro alto fine, che è la vera fecondità della vita sociale e il normale rendimento della economia nazionale, se non rispettando e tutelando la funzione vitale della proprietà privata nel suo valore personale e sociale. Quando la distribuzione della proprietà è un ostacolo a questo fine — ciò che non necessariamente né sempre è originato dalla estensione del patrimonio privato —, lo Stato può nell’interesse comune intervenire per regolarne l’uso, od anche, se non si può equamente provvedere in altro modo, decretare la espropriazione, dando una conveniente indennità. Per lo stesso scopo la piccola e la media proprietà nell’agricoltura, nelle arti e nei mestieri, nel commercio e nell’industria debbono essere garantite e promosse; le unioni cooperative debbono assicurare loro i vantaggi della grande azienda; dove la grande azienda ancor oggi si manifesta maggiormente produttiva, deve essere offerta la possibilità di temperare il contratto di lavoro con un contratto di società (Cf. Enciclica Quadragesimo anno).
Né si dica che il progresso tecnico si oppone a tale regime e spinge nella sua corrente irresistibile tutta l’attività verso aziende ed organizzazioni gigantesche, di fronte alle quali un sistema sociale fondato sulla proprietà privata dei singoli deve ineluttabilmente crollare. No; il progresso tecnico non determina, come un fatto fatale e necessario, la vita economica. Esso si è fin troppo spesso docilmente chinato dinanzi alle esigenze dei calcoli egoistici avidi di accrescere indefinitamente i capitali; perché dunque non si piegherebbe anche dinanzi alla necessità di mantenere e di assicurare la proprietà privata di tutti, pietra angolare dell’ordine sociale? Anche il progresso tecnico, come fatto sociale, non deve prevalere al bene generale, ma essere invece a questo ordinato e subordinato.
Al termine di questa guerra, che ha sconvolto tutte le attività della vita umana e le ha lanciate verso nuovi sentieri, il problema della futura configurazione. dell’ordine sociale farà sorgere una lotta ardente fra le varie tendenze, in mezzo alla quale la concezione sociale cristiana ha l’ardua, ma anche nobile missione di mettere in evidenza e di mostrare teoricamente e praticamente ai seguaci di altre dottrine come in questo campo, così importante per il pacifico sviluppo della umana convivenza, i postulati della vera equità e i princìpi cristiani possono unirsi in uno stretto connubio generatore di salvezza e di bene per quanti sanno rinunziare ai pregiudizi e alle passioni e prestare orecchio agli insegnamenti della verità. Noi abbiamo fiducia che i Nostri fedeli figli e figlie del mondo cattolico, araldi della idea sociale cristiana, contribuiranno — anche a prezzo di notevoli rinunzie — all’avanzamento verso quella giustizia sociale, di cui debbono aver fame e sete tutti i veri discepoli di Cristo.
III. Pensieri di carità
L’esortazione alla vigilanza e alla prontezza di tutti i cristiani per gl’immani doveri di un avvenire, che sembra ormai prossimo, non deve farCi perdere di vista le acute angustie del presente. Né alcuno si meraviglierà se, pur abbracciando di eguale amore tutti i popoli della terra, la Nostra sollecitudine in questo campo e in questo momento si porta in una maniera speciale verso l’Italia e Roma.
Le dirette operazioni di guerra, che hanno sconvolto gran parte del suolo italico, sono ora lontane anche dalla Eterna Città. Ma le conseguenze dirette e indirette del conflitto sono ben lungi dall’esser cessate. L’Urbe, che Maria, « Salus populi romani », Madre del Divino Amore, protesse nell’ora del pericolo, non risuona più del rombo delle battaglie. Ma la lotta contro la miseria, contro la fame, la disoccupazione, il disagio economico, ha raggiunto in molte regioni d’Italia una estensione tale che richiede, massime in vista dell’inverno, un pronto ed efficace rimedio.
Nessuno ignora come di fatto nelle grandi guerre alle dure necessità di carattere militare si dia ordinariamente la precedenza sopra ogni diverso riguardo e considerazione. D’altra parte, chiunque non si lasci guidare da particolari tendenze, ma rifletta sulla imperiosa esigenza di provvedere insieme ai bisogni essenziali della vita civile, ammetterà e riconoscerà le funeste influenze e i danni che la sistematica requisizione, asportazione o distruzione di preziosi mezzi di trasporto hanno cagionato al rifornimento di viveri sufficienti e acquistabili a prezzo ragionevole. Ognuno altresì comprende come questo stato anormale, unito con la egualmente vasta distruzione, requisizione o asportazione di potenti mezzi di produzione, abbia provocato una paralisi nella vita economica, le cui ripercussioni materiali e spirituali sulla popolazione divengono ogni giorno più sintomatiche e minacciose.
Non sterili accuse porteranno rimedio a tanto male, ma la sincera e generosa collaborazione di quanti hanno possibilità e autorità per servire agli interessi del Paese. Non è forse desiderabile che cooperino al bene comune persone probe, oneste, sperimentate, franche e immuni da qualsiasi macchia di delitti o di reali abusi, anche se nel passato si trovarono in altro campo politico, il che spianerebbe altresì la via alla unione degli animi?
Nessun popolo, accasciato sotto il peso di sciagure fisiche e morali, può risollevarsi da solo, con le proprie forze, dalla sua prostrazione.
Ma d’altra parte nessun popolo, giustamente geloso del suo onore, si adatterebbe ad attendere il suo risorgimento unicamente dall’aiuto altrui, e non in pari tempo dallo sforzo della propria volontà e delle proprie energie.
Perciò Noi, conoscendo la profonda miseria in cui sono cadute estese regioni d’Italia, innanzi tutto ricordiamo a coloro, i quali nel Paese stesso posseggono ampie scorte e abbondante raccolto di viveri, l’obbligo di non sottrarli, per avidità di maggiori guadagni, a quelli che languiscono di fame, memori dei tremendi castighi dal Giudice eterno minacciati a chi è senza pietà per il fratello sofferente. Invochiamo poi dai popoli, la cui capacità economica non è stata sostanzialmente danneggiata dalla guerra, di porgere alla popolazione d’Italia, nei limiti del possibile e senza pregiudizio di quanto è dovuto anche ad altre Nazioni egualmente indigenti, quei soccorsi, di cui ha bisogno specialmente nel periodo iniziale della sua rinascita.
Di buon animo riconosciamo ciò che è stato fatto — e sappiamo che ancor più s’intende di fare — in tal senso dalle Potenze alleate, come altresì volentieri apprezziamo gli sforzi compiuti dalle Autorità italiane. Niuno più di Noi, — cui le cure dell’Apostolico Ministero mettono più facilmente in grado di conoscere i dolori dei poveri e degli oppressi, — sente nel cuore intima gratitudine verso quanti, in Italia e all’estero, — Governi, Episcopato, Clero, laici, — hanno cooperato e cooperano a così nobile scopo. Se purtroppo non Ci è stato fin qui possibile di ottenere l’uso di motovelieri o di altre navi per il trasporto di generi alimentari e per il ritorno di profughi alle loro terre, abbiamo tuttavia la fiducia di conseguire prossimamente altri mezzi per arrecare sollievo a numerose sventure. E come per il passato, così anche per il futuro serberemo profonda riconoscenza verso quanti Ci metteranno in condizione di attenuare la dolorosa sproporzione fra la esiguità delle Nostre proprie risorse e la grandezza incommensurabile dei più urgenti bisogni.
Noi salutiamo in questa prestazione di soccorsi da popolo a popolo, già iniziata durante la guerra e pur nei ristretti limiti che questa consente, il ridestarsi di un senso di generosità, non meno umanamente elevato che politicamente saggio; senso, che nel calore della lotta e nell’appassionata affermazione dei contrastanti interessi può bensì affievolirsi, ma non interamente estinguersi, e che, fondato com’è sulla natura stessa e sulla concezione cristiana della vita, dovrà poi tornare pienamente in onore, non appena la spada avrà compiuto la dura opera sua.
IV. Pensieri di pace
Nulla senza dubbio Noi più ardentemente desideriamo che di vedere quanto prima splendere il giorno in cui, cessato il fragore delle armi, saranno ridate a tanta parte della umanità torturata, e quasi all’estremo limite delle sue forze fisiche e morali, pace, sicurezza e prosperità.
Innumerevoli cuori sospirano questo giorno, come i naufraghi il sorgere della stella mattutina. Molti nondimeno avvertono fin da ora che il passaggio dalla tempesta violenta alla grande tranquillità della pace può essere ancora penoso ed amaro; comprendono che le tappe del cammino dalla cessazione delle ostilità allo stabilimento di condizioni normali di vita possono nascondere più gravi difficoltà che non si pensi. È perciò tanto più necessario che un forte sentimento di solidarietà risorga fra i popoli, al fine di rendere più rapido e duraturo il risanamento del mondo.
Già nel Nostro discorso natalizio del 1939 Noi auspicavamo la creazione di organizzazioni internazionali che, evitando le lacune e le deficienze del passato, fossero realmente atte a preservare la pace, secondo i princìpi della giustizia e della equità, contro ogni possibile minaccia per il futuro. Poiché oggi alla luce di tante terribili esperienze l’aspirazione verso un simile nuovo istituto universale di pace richiama sempre più l’attenzione e le cure degli uomini di Stato e dei popoli, Noi volentieri esprimiamo il Nostro compiacimento e formiamo l’augurio che la sua concreta attuazione corrisponda veramente nella più larga misura all’altezza del fine, che è il mantenimento, a vantaggio di tutti, della tranquillità e della sicurezza nel mondo.
Ma niuno forse tanto ansiosamente invoca la fine del conflitto e il rinascere della mutua concordia fra le Nazioni quanto i milioni di prigionieri e d’internati civili, costretti dalla guerra a mangiare il duro pane della cattività o del lavoro forzato in terra straniera. Il dolore per la protratta lontananza dalle madri, dalle spose, dai figli, per la lunga separazione da tutte le persone e le cose amate, li strugge e li consuma, e desta in loro un vivo senso di schianto e di abbandono, di cui può farsi una idea soltanto chi sappia penetrare nell’intima angoscia dei loro cuori. E poiché questa guerra, con ciò che ad essa è necessariamente o arbitrariamente connesso, ha condotto alla più ingente e tragica migrazione di popoli che la storia conosca, sarà opera di alta umanità, di chiaroveggente giustizia e di sapienza ordinatrice, se a questi infelici non si farà attendere oltre i limiti dello stretto necessario la già troppo a lungo ritardata liberazione.
Una tale risoluzione, che naturalmente non escluderebbe alcune cautele giudicate forse indispensabili, sarebbe per tanti miseri un primo raggio di sole nella oscurissima notte, il simbolico annunziatore di una nuova era, in cui con la crescente distensione degli animi tutte le Nazioni amanti della pace, grandi e piccole, potenti e deboli, vincitrici e vinte, avranno parte, non meno ai diritti e ai doveri, che ai benefici di una vera civiltà.
La spada può e talvolta, purtroppo, deve aprire la via verso la pace.
L’ombra della spada può gravare anche sul tragitto dalla cessazione delle ostilità alla conclusione formale della pace.
La minaccia della spada può apparire inevitabile, entro i limiti giuridicamente necessari e moralmente giustificabili, anche dopo la conclusione della  pace, per tutelare l’osservanza dei giusti obblighi e prevenire tentativi di nuovi conflitti.
Ma l’anima di una pace degna di questo nome, il suo spirito vivificatore, non può essere che uno solo: una giustizia che con imparziale misura a tutti dà ciò che ad ognuno è dovuto e da tutti esige ciò a cui ognuno è obbligato, una giustizia che non dà tutto a tutti, ma a tutti dà amore e a nessuno fa torto, una giustizia che è figlia della verità e madre di sana libertà e di sicura grandezza.


*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VI,
  Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1944 - 1° marzo 1945, pp. 121-132
  Tipografia Poliglotta Vaticana



24 dicembre 1944
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo interno in occasione della Viglia del Natale 1944
Domenica, 24 dicembre l944

Il sesto Natale di guerra
Benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei (Tit. 3, 4). Già per la sesta volta, dopo l'inizio della orribile guerra, la santa liturgia natalizia saluta con queste parole, spiranti pace serena, la venuta fra noi del Dio Salvatore. L'umile e squallida culla di Betlemme fa convergere verso di sé con indicibile attrattiva il pensiero di tutti i credenti.
Nel fondo dei cuori ottenebrati, afflitti, abbattuti, scende, e tutti li invade, un gran torrente di luce e di gioia. Le fronti abbassate si rialzano serene, perché il Natale è la festa della dignità umana, la festa dell'« ammirabile scambio, per il quale il Creatore del genere umano, prendendo un corpo vivente, si è degnato di nascere dalla Vergine, e con la sua venuta ci ha largito la sua divinità » (Ant. I in I Vesp. in Circumc. Dom.).
Ma il nostro sguardo si porta spontaneamente dal luminoso Bambino del presepio sul mondo che ci circonda, e il doloroso sospiro dell'Evangelista Giovanni sale sulle nostre labbra: « Lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt » (Io. I, 5): La luce splende fra le tenebre e le tenebre non l'hanno accolta.
Poiché pur troppo anche questa sesta volta l'alba del Natale si leva su campi di battaglia sempre più estesi, su cimiteri ove sempre più numerose si accumulano le spoglie delle vittime, su terre deserte, ove rare torri vacillanti indicano nella loro silenziosa tristezza le rovine di città dianzi fiorenti e prospere, e ove campane cadute o rapite non risvegliano più gli abitanti col loro giulivo canto di Natale. Sono altrettanti muti testimoni che denunziano questa macchia nella storia della umanità, la quale volontariamente cieca dinanzi alla chiarezza di Colui che è splendore e lume del Padre, volontariamente allontanatasi da Cristo, discesa e caduta nella rovina e nell'abdicazione della propria dignità. Anche la piccola lampada si é estinta in molti templi maestosi, in molte modeste cappelle, ove presso il tabernacolo aveva partecipato alle veglie dell'Ospite divino sul mondo addormentato. Quale desolazione! quale contrasto! Non vi sarebbe più dunque speranza per I'umanità?
Aurora di speranza
Sia benedetto il Signore! Dai lugubri gemiti del dolore, dal seno stesso della straziante angoscia degli individui e dei paesi oppressi, si leva un'aurora di speranza. In una schiera sempre crescente di nobili spiriti sorge un pensiero, una volontà sempre più chiara e ferma: fare di questa guerra mondiale, di questo universale sconvolgimento, il punto da cui prenda le mosse un'era novella per il rinnovamento profondo, la riordinazione totale del mondo. In tal guisa, mentre gli eserciti continuano ad affaticarsi in lotte micidiali, con sempre più crudeli mezzi di combattimento, gli uomini di governo, rappresentanti responsabili delle nazioni, si riuniscono in colloqui, in conferenze, allo scopo di determinare i diritti e i doveri fondamentali, sui quali dovrebbe essere ricostituita una comunanza degli Stati, di tracciare il cammino verso un avvenire migliore, più sicuro, più degno della umanità.
Antitesi strana, questa coincidenza di una guerra, la cui asprezza tende a giungere fino al parossismo, e del notevole progresso delle aspirazioni e dei propositi verso un'intesa per una pace solida e durevole! Senza dubbio si può ben discutere il valore, l'applicabilità, l'efficacia di questa o di quella proposta; il giudizio su di esse può ben rimanere in sospeso; ma sempre vero che il movimento è in corso.
Il problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto più importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società?
È appena necessario di ricordare che, secondo gl'insegnamenti della Chiesa, «non è vietato di preferire governi temperati di forma popolare, salva però la dottrina cattolica circa l'origine e l'uso del potere pubblico », e che « la Chiesa non riprova nessuna delle varie forme di governo, purché adatte per sé a procurare il bene dei cittadini » (Leon. XIII Encycl. «Libertas », 20 giugno 1888, in fin.).
Se dunque in questa solennità, che commemora ad un tempo la benignità del Verbo incarnato e la dignità dell'uomo (dignità intesa non solo sotto il rispetto personale, ma anche nella vita sociale), Noi indirizziamo la Nostra attenzione al problema della democrazia, per esaminare secondo quali norme deve essere regolata, per potersi dire una vera e sana democrazia, confacente alle circostanze dell'ora presente; ciò indica chiaramente che la cura e la sollecitudine della Chiesa rivolta non tanto alla sua struttura e organizzazione esteriore, — le quali dipendono dalle aspirazioni proprie di ciascun popolo, — quanto all'uomo, come tale, che, lungi dall'essere l'oggetto e un elemento passivo della vita sociale, ne invece, e deve esserne e rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine.
Premesso che la democrazia, intesa in senso largo, ammette varie forme e può attuarsi così nelle monarchie come nelle repubbliche, due questioni si presentano al Nostro esame:
l° Quali caratteri debbono contraddistinguere gli uomini, che vivono nella democrazia e sotto il regime democratico? 2° Quali caratteri debbono contraddistinguere gli uomini, che nella democrazia tengono il pubblico potere?
I. CARATTERI PROPRI DEI CITTADINI IN REGIME DEMOCRATICO
Esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato: ecco due diritti del cittadino, che trovano nella democrazia, come indica il suo nome stesso, la loro espressione. Dalla solidità, dall'armonia, dai buoni frutti di questo contatto tra i cittadini e il governo dello Stato, si può riconoscere se una democrazia è veramente sana ed equilibrata, e quale sia la sua forza di vita e di sviluppo. Per quello poi che tocca l'estensione e la natura dei sacrifici richiesti a tutti i cittadini, — al tempo nostro in cui così vasta e decisiva è l'attività dello Stato, la forma democratica di governo apparisce a molti come un postulato naturale imposto dalla stessa ragione. Quando però si reclama « più democrazia e migliore democrazia », una tale esigenza non può avere altro significato che di mettere il cittadino sempre più in condizione di avere la propria opinione personale, e di esprimerla e farla valere in una maniera confacente al bene comune.
Popolo e « massa »
Da ciò deriva una prima conclusione necessaria, con la sua conseguenza pratica. Lo Stato non contiene in sé e non aduna meccanicamente in un dato territorio un'agglomerazione amorfa d'individui. Esso è, e deve essere in realtà, l'unità organica e organizzatrice di un vero popolo.
Popolo e moltitudine amorfa o, come suol dirsi, « massa » sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali — al proprio posto e nel proprio modo — è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gl'istinti o le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell'altra bandiera. Dalla esuberanza di vita d'un vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune. Della forza elementare della massa, abilmente maneggiata ed usata, può pure servirsi lo Stato: nelle mani ambiziose d'un solo o di più, che le tendenze egoistiche abbiano artificialmente raggruppati, lo Stato stesso può, con l'appoggio della massa, ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo: l'interesse comune ne resta gravemente e per lungo tempo colpito e la ferita è bene spesso difficilmente guaribile.
Da ciò appare chiara un'altra conclusione : la massa — quale Noi abbiamo or ora definita — è la nemica capitale della vera democrazia e del suo ideale di libertà e di uguaglianza.
In un popolo degno di tal nome, il cittadino sente in se stesso la coscienza della sua personalità, dei suoi doveri e dei suoi diritti, della propria libertà congiunta col rispetto della libertà e della dignità altrui. In un popolo degno di tal nome, tutte le ineguaglianze, derivanti non dall'arbitrio, ma dalla natura stessa delle cose, ineguaglianze di cultura, di averi, di posizione sociale — senza pregiudizio, ben inteso, della giustizia e della mutua carità — non sono affatto un ostacolo all'esistenza ed al predominio di un autentico spirito di comunità e di fratellanza. Che anzi esse, lungi dal ledere in alcun modo l'uguaglianza civile, le conferiscono il suo legittimo significato, che cioè, di fronte allo Stato, ciascuno ha il diritto di vivere onoratamente la propria vita personale, nel posto e nelle condizioni in cui i disegni e le disposizioni della Provvidenza l'hanno collocato.
In contrasto con questo quadro dell'ideale democratico di libertà e d'uguaglianza in un popolo governato da mani oneste e provvide, quale spettacolo offre uno Stato democratico lasciato all'arbitrio della massa! La libertà, in quanto dovere morale della persona, si trasforma in una pretensione tirannica di dare libero sfogo agl'impulsi e agli appetiti umani a danno degli altri. L'uguaglianza degenera in un livellamento meccanico, in una uniformità monocroma: sentimento del vero onore, attività personale, rispetto della tradizione, dignità, in una parola, tutto quanto dà alla vita il suo valore, a poco a poco, sprofonda e dispare. E sopravvivono soltanto, da una parte, le vittime illuse del fascino appariscente della democrazia, confuso ingenuamente con lo spirito stesso della democrazia, con la libertà e l'uguaglianza; e, dall'altra parte, i profittatori più o meno numerosi che hanno saputo, mediante la forza del danaro o quella dell'organizzazione, assicurarsi sugli altri una condizione privilegiata e lo stesso potere.
II. CARATTERI DEGLI UOMINI CHE NELLA DEMOCRAZIA TENGONO IL PUBBLICO POTERE
Lo Stato democratico, sia esso monarchico o repubblicano, deve, come qualsiasi altra forma di governo, essere investito del potere di comandare con una autorità vera ed effettiva. Lo stesso ordine assoluto degli esseri e dei fini, che mostra l'uomo come persona autonoma, vale a dire soggetto di doveri e di diritti inviolabili, radice e termine della sua vita sociale, abbraccia anche lo Stato come società necessaria, rivestita dell'autorità, senza la quale non potrebbe né esistere né vivere. Che se gli uomini, prevalendosi della libertà personale, negassero ogni dipendenza da una superiore autorità munita del diritto di coazione, essi scalzerebbero con ciò stesso il fondamento della loro propria dignità e libertà, vale a dire quell'ordine assoluto degli esseri e dei fini.
Stabiliti su questa medesima base, la persona, lo Stato, il pubblico potere, con i loro rispettivi diritti, sono stretti e connessi in tal modo che o stanno o rovinano insieme.
E poiché quell'ordine assoluto, alla luce della sana ragione, e segnatamente della fede cristiana, non può avere altra origine che in un Dio personale, nostro Creatore, consegue che la dignità dell'uomo è la dignità dell'immagine di Dio, la dignità, dello Stato è la dignità della comunità morale voluta da Dio, la dignità dell'autorità politica la dignità della sua partecipazione all'autorità di Dio.
Nessuna forma di Stato può non tener conto di questa intima e indissolubile connessione; meno di ogni altra la democrazia. Pertanto, se chi ha il pubblico potere non la vede o più o meno la trascura, scuote nelle sue basi la sua propria autorità. Parimente, se egli non terrà abbastanza in conto questa relazione, e non vedrà nella sua carica la missione di attuare l'ordine voluto da Dio, sorgerà il pericolo che l'egoismo del dominio o degli interessi prevalga sulle esigenze essenziali della morale politica e sociale, e che le vane apparenze di una democrazia di pura forma servano spesso come di maschera a quanto vi è in realtà di meno democratico.
Soltanto la chiara intelligenza dei fini assegnati da Dio ad ogni società umana, congiunta col sentimento profondo dei sublimi doveri dell'opera sociale, può mettere quelli, a cui è affidato il potere, in condizione di adempire i propri obblighi di ordine sia legislativo, sia giudiziario od esecutivo, con quella coscienza della propria responsabilità., con quella oggettività, con quella imparzialità, con quella lealtà, con quella generosità, con quella incorruttibilità, senza le quali un governo democratico difficilmente riuscirebbe ad ottenere il rispetto, la fiducia e l'adesione della parte migliore del popolo.
Il sentimento profondo dei principi di un ordine politico e sociale, sano e conforme alle norme del diritto e della giustizia, è di particolare importanza in coloro che, in qualsiasi forma di regime democratico, hanno come rappresentanti del popolo, in tutto o in parte, il potere legislativo. E poiché il centro di gravità di una democrazia normalmente costituita risiede in questa rappresentanza popolare, da cui le correnti politiche s'irradiano in tutti i campi della vita pubblica — così per il bene come per il male —, la questione della elevatezza morale, della idoneità pratica, della capacità intellettuale dei deputati al parlamento, è per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere.
Per compiere un'azione feconda, per conciliare la stima e la fiducia, qualsiasi corpo legislativo deve - come attestano indubitabili esperienze - raccogliere nel suo seno una eletta di uomini, spiritualmente eminenti e di fermo carattere, che si considerino come i rappresentanti dell'intero popolo e non già come i mandatari di una folla, ai cui particolari interessi spesso purtroppo sono sacrificati i veri bisogni e le vere esigenze del bene comune. Una eletta di uomini, che non sia ristretta ad alcuna professione o condizione, bensì che sia l'immagine della molteplice vita di tutto il popolo. Una eletta di uomini di solida convinzione cristiana, di giudizio giusto e sicuro, di senso pratico ed equo, coerente con se stesso in tutte le circostanze; uomini di dottrina chiara e sana, di propositi saldi e rettilinei, uomini soprattutto capaci, in virtù dell'autorità che emana dalla loro pura coscienza e largamente s'irradia intorno ad essi, di essere guide e capi specialmente nei tempi in cui le incalzanti necessità sovreccitano la impressionabilità del popolo, e lo rendono più facile ad essere traviato e a smarrirsi; uomini che nei periodi di transizione, generalmente travagliati e lacerati dalle passioni, dalle divergenze delle opinioni e dalle opposizioni dei programmi, si sentono doppiamente in dovere di far circolare nelle vene del popolo e dello Stato, arse da mille febbri, l'antidoto spirituale delle vedute chiare, della bontà premurosa, della giustizia ugualmente favorevole a tutti, e la tendenza della volontà verso l'unione e la concordia nazionale in uno spirito di sincera fratellanza.
I popoli, il cui temperamento spirituale e morale è bastantemente sano e fecondo, trovano in se stessi e possono dare al mondo gli araldi e gli strumenti della democrazia, che vivono in quelle disposizioni e le sanno mettere realmente in atto. Dove invece mancano tali uomini, altri vengono ad occupare il loro posto, per far dell'attività politica l'arena della loro ambizione, una corsa ai guadagni per se stessi, per la loro casta o per la loro classe, mentre la caccia agl'interessi particolari fa perdere di vista e mette in pericolo il vero bene comune.
L'assolutismo di Stato
Una sana democrazia, fondata sugl'immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate, sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla legislazione dello Stato un potere senza freni né limiti, e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo.
L'assolutismo di Stato (da non confondersi, in quanto tale, con la monarchia assoluta, di cui qui non si tratta) consiste infatti nell'erroneo principio che l'autorità dello Stato è illimitata, e che di fronte ad essa — anche quando dà libero corso alle sue mire dispotiche, oltrepassando i confini del bene e del male, — non è ammesso alcun appello ad una legge superiore e moralmente obbligante.
Un uomo compreso da rette idee intorno allo Stato e all'autorità e al potere di cui è rivestito, in quanto custode dell'ordine sociale, non penserà mai di offendere la maestà della legge positiva nell'ambito della sua naturale competenza. Ma questa maestà del diritto positivo umano allora soltanto è inappellabile, se si conforma — o almeno non si oppone — all'ordine assoluto, stabilito dal Creatore e messo in una nuova luce dalla rivelazione del Vangelo. Essa non può sussistere, se non in quanto rispetta il fondamento, sul quale si appoggia la persona umana, non meno che lo Stato e il pubblico potere. È questo il criterio fondamentale di ogni sana forma di governo, compresa la democrazia; criterio col quale deve essere giudicato il valore morale di ogni legge particolare.
III. NATURA E CONDIZIONI DI UNA EFFICACE ORGANIZZAZIONE PER LA PACE
La unità del genere umano e la società dei popoli
Noi abbiamo voluto, diletti figli e figlie, cogliere l'occasione della festa natalizia per indicare su quali vie una democrazia, che corrisponda alla dignità umana, possa, in armonia con la legge naturale e coi disegni di Dio manifestati nella rivelazione, pervenire a benefici risultati. Noi infatti profondamente sentiamo la somma importanza di questo problema per il pacifico progresso della famiglia umana; ma al tempo stesso siamo consapevoli delle alte esigenze che questa forma di governo impone alla maturità morale dei singoli cittadini; una maturità morale, alla quale invano si potrebbe sperar di giungere pienamente e sicuramente, se la luce della grotta di Betlemme non rischiarasse l'oscuro sentiero, per il quale i popoli dal tempestoso presente s'incamminano verso un avvenire che sperano più sereno.
Fino a qual punto però i rappresentanti e i pionieri della democrazia saranno compresi nelle loro deliberazioni dalla convinzione che l'ordine assoluto degli esseri e dei fini, da Noi ripetutamente ricordato, include anche, come esigenza morale e quale coronamento dello sviluppo sociale, la unità del genere umano e della famiglia dei popoli? Dal riconoscimento di questo principio dipende l'avvenire della pace. Nessuna riforma mondiale, nessuna garanzia di pace può fare da esso astrazione, senza indebolirsi e rinnegare se stessa. Se invece quella medesima esigenza morale trovasse la sua attuazione in una società dei popoli, che sapesse evitare i difetti di struttura e le manchevolezze di precedenti soluzioni, allora la maestà di quell'ordine regolerebbe e dominerebbe egualmente le deliberazioni di questa società e l'applicazione dei suoi mezzi di sanzione.
Per lo stesso motivo si comprende come l'autorità di una tale società dei popoli dovrà essere vera ed effettiva sugli Stati, che ne sono membri, in guisa però che ognuno di essi conservi un eguale diritto alla sua relativa sovranità. Soltanto in tal modo lo spirito di una sana democrazia potrà penetrare anche nel vasto e scabroso campo della politica estera.
Contro la guerra di aggressione
come soluzione delle controversie internazionali
Un dovere, del resto, obbliga tutti, un dovere che non tollera alcun ritardo, alcun differimento, alcuna esitazione, alcuna tergiversazione: di fare cioè tutto quanto possibile per proscrivere e bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali. Si son veduti nel passato molti tentativi intrapresi a tale scopo. Tutti sono falliti. E falliranno tutti sempre, fino a quando la parte più sana del genere umano non avrà volontà ferma, santamente ostinata, come un obbligo di coscienza, di compire la missione che i tempi passati avevano iniziata con non sufficiente serietà e risolutezza.
Se mai una generazione ha dovuto sentire nel fondo della coscienza il grido: « Guerra alla guerra! », essa certamente la presente. Passata com'è attraverso un oceano di sangue e di lagrime, quale forse i tempi passati mai non conobbero, essa ne ha vissuto le indicibili atrocità cosi intensamente, che il ricordo di tanti orrori dovrà restarle impresso nella memoria e fino nel più profondo dell'anima, come l'immagine di un inferno, in cui chiunque nutre nel cuore sentimenti di umanità non potrà mai avere più ardente brama che di chiudere per sempre le porte.
Formazione di un organo comune
per il mantenimento della pace
Le risoluzioni finora note delle Commissioni internazionali permettono di concludere che un punto essenziale d'ogni futuro assetto mondiale sarebbe la formazione di un organo per il mantenimento della pace, organo investito per comune consenso di suprema autorità., e il cui ufficio dovrebbe essere anche quello di soffocare in germe qualsiasi minaccia di aggressione isolata o collettiva. Nessuno potrebbe salutare questa evoluzione con maggior gaudio di chi già da lungo tempo ha difeso il principio che la teoria della guerra, come mezzo adatto e proporzionato per risolvere i conflitti internazionali, è ormai sorpassata. Nessuno potrebbe augurare a questa comune collaborazione, da attuare con una serietà d'intenti prima non conosciuta, pieno e felice successo con maggior ardore di chi si è coscienziosamente adoperato per condurre la mentalità cristiana e religiosa a riprovare la guerra moderna coi suoi mostruosi mezzi di lotta.
Mostruosi mezzi di lotta! Senza dubbio il progresso delle umane invenzioni, che doveva segnare l'avveramento di un maggiore benessere per tutta l'umanità, è stato invece volto a distruggere ciò che i secoli avevano edificato. Ma con ciò stesso, si è resa sempre più evidente l'immoralità di quella guerra di aggressione. E se ora al riconoscimento di questa immoralità si aggiungerà la minaccia di un intervento giuridico delle Nazioni e di un castigo inflitto all'aggressore dalla società degli Stati, cosicché la guerra si senta sempre sotto il colpo della proscrizione, sempre sorvegliata da un'azione preventiva; allora l'umanità, uscendo dalla notte oscura in cui è stata per tanto tempo sommersa, potrà salutare l'aurora di una nuova e migliore epoca della sua storia.
Suo statuto escludente ogni ingiusta imposizione
A una condizione però : e cioè che l'organizzazione della pace, cui le mutue garanzie, e ove occorre le sanzioni economiche e perfino l'intervento armato dovrebbero dare vigore e stabilità, non consacri definitivamente alcuna ingiustizia, non comporti alcuna lesione di alcun diritto a detrimento di alcun popolo (sia che appartenga al gruppo dei vincitori, o dei vinti o dei neutrali), non perpetui alcuna imposizione o gravezza, che può essere permessa soltanto temporaneamente come riparazione dei danni di guerra.
Che alcuni popoli, ai cui governi — o forse anche in parte a loro stessi — si attribuisce la responsabilità della guerra, abbiano a sopportare per qualche tempo i rigori dei provvedimenti di sicurezza, fino a quando i vincoli di mutua fiducia violentemente infranti non siano a poco a poco riannodati, cosa, per quanto gravosa, altrettanto difficilmente evitabile. Nondimeno, questi stessi popoli dovranno avere anch'essi la ben fondata speranza — nella misura della loro leale ed effettiva cooperazione agli sforzi per la futura restaurazione — di poter essere, insieme con gli altri Stati e con la medesima considerazione e i medesimi diritti, associati alla grande comunità delle nazioni. Rifiutare loro questa speranza sarebbe il contrario di una previdente saggezza, sarebbe assumere la grave responsabilità di sbarrare il sentiero ad una liberazione generale da tutte le disastrose conseguenze materiali, morali, politiche del gigantesco cataclisma, che ha scosso fin nelle ultime profondità la povera famiglia umana, ma che le ha al tempo stesso additata la via verso nuove mète.
Le austere lezioni del dolore
Noi non vogliamo rinunziare alla fiducia che i popoli, i quali tutti sono passati per la scuola del dolore, avranno saputo ritenerne le austere lezioni. E in questa speranza Ci confortano le parole di uomini che hanno maggiormente provato le sofferenze della guerra e hanno trovato accenti generosi, per esprimere, insieme con l'affermazione delle proprie esigenze di sicurezza contro ogni futura aggressione, il loro rispetto dei diritti vitali degli altri popoli e la loro avversione contro ogni usurpazione dei diritti medesimi. Sarebbe vano l'attendere che questo saggio giudizio, dettato dall'esperienza della storia e da un alto senso politico, venga — mentre gli animi sono ancora incandescenti — generalmente accettato dalla pubblica opinione, od anche soltanto dalla maggioranza. L'odio, l'incapacità di comprendersi vicendevolmente, ha fatto sorgere, tra i popoli che hanno combattuto gli uni contro gli altri, una nebbia troppo densa da poter sperare che l'ora sia già venuta in cui un fascio di luce spunti a rischiarare il tragico panorama ai due lati dell'oscura muraglia. Ma una cosa sappiamo: ed è che il momento verrà, forse prima che non si pensi, quando gli uni e gli altri riconosceranno come, tutto considerato, non vi è che una via per uscire dall'irretimento, in cui la lotta e l'odio hanno avvolto il mondo, vale a dire il ritorno a una solidarietà da troppo tempo dimenticata, solidarietà non ristretta a questi o a quei popoli, ma universale, fondata sulla intima connessione delle loro sorti e sui diritti in egual modo loro spettanti.
La punizione dei delitti
Nessuno certamente pensa di disarmare la giustizia nei riguardi di chi ha profittato della guerra per commettere veri e provati delitti di diritto comune, ai quali le supposte necessità militari potevano al più offrire un pretesto, non mai una giustificazione. Ma se essa presumesse di giudicare e punire, non più singoli individui, bensì collettivamente intere comunità, chi potrebbe non vedere in simile procedimento una violazione delle norme, che presiedono a qualsiasi giudizio umano?
 IV. LA CHIESA TUTRICE DELLA VERA DIGNITÀ 
E LIBERTÀ UMANA
In un tempo in cui i popoli si trovano di fronte a doveri, quali forse non hanno mai incontrato in alcuna svolta della loro storia, essi sentono fervere nei loro cuori tormentati il desiderio impaziente e come innato di prendere le redini del proprio destino con maggiore autonomia che nel passato, sperando che così riuscirà loro più agevole di difendersi contro le periodiche irruzioni dello spirito di violenza, che, come un torrente di lava infocata, nulla risparmia di quanto ad essi caro e sacro.
Grazie a Dio, si possono credere tramontati i tempi, in cui il richiamo ai principi morali ed evangelici per la vita degli Stati e dei popoli era sdegnosamente escluso come irreale. Gli avvenimenti di questi anni di guerra si sono incaricati di confutare, nel modo più duro che si sarebbe mai potuto pensare, i propagatori di simili dottrine. Lo sdegno da essi ostentato contro quel preteso irrealismo si è tramutato in una spaventevole realtà : brutalità, iniquità, distruzione, annientamento.
Se l'avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale nel suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa, messaggera della parola del Redentore e continuatrice della sua missione di salvezza. Essa infatti insegna e difende le verità, comunica le forze soprannaturali della grazia, per attuare l'ordine stabilito da Dio degli esseri e dei fini, ultimo fondamento e norma direttiva di ogni democrazia.
Con la sua stessa esistenza la Chiesa si erge di fronte al mondo, faro splendente che ricorda costantemente quest'ordine divino. La sua storia riflette chiaramente la sua missione provvidenziale. Le lotte che, costretta dall'abuso della forza, ha dovuto sostenere per la difesa della libertà ricevuta da Dio, furono, al tempo stesso, lotte per la vera libertà dell'uomo.
La Chiesa ha la missione di annunziare al mondo, bramoso di migliori e più perfette forme di democrazia, il messaggio più alto e più necessario che possa esservi : la dignità dell'uomo, la vocazione alla figliolanza di Dio. È il potente grido che dalla culla di Betlemme risuona fino agli estremi confini della terra agli orecchi degli uomini, in un tempo in cui questa dignità è più dolorosamente abbassata.
Il mistero del Santo Natale proclama questa inviolabile dignità umana con un vigore e con un'autorità inappellabile, che trascende infinitamente quella, cui potrebbero giungere tutte le possibili dichiarazioni dei diritti dell'uomo. Natale, la grande festa del Figlio di Dio apparso nella carne, la festa in cui il cielo si china verso la terra con una ineffabile grazia e benevolenza, anche il giorno in cui la cristianità e la umanità, dinanzi al Presepe, nella contemplazione della « benignitas et humanitas Salvatoris nostri Dei », divengono più intimamente consapevoli della stretta unità che Iddio ha stabilita tra di loro. La culla del Salvatore del mondo, del Restauratore della dignità umana in tutta la sua pienezza, è il punto contrassegnato dalla alleanza tra tutti gli uomini di buona volontà. Là al povero mondo, lacerato dalle discordie, diviso dagli egoismi, avvelenato dagli odi, verrà concessa la luce, restituito l'amore e sarà dato d'incamminarsi, in cordiale armonia, verso lo scopo comune, per trovare finalmente la guarigione delle sue ferite nella pace di Cristo.
V. CROCIATA DI CARITÀ
Non vogliamo chiudere questo Nostro Messaggio natalizio senza rivolgere una commossa parola di gratitudine a tutti coloro — Stati, Governi, Vescovi, popoli —, che in questi tempi di inenarrabili sciagure Ci hanno prestato valido aiuto nel dare ascolto al grido di dolore, che Ci giunge da tante parti del mondo, e nel porgere la Nostra soccorrevole mano a tanti diletti figli e figlie, che le vicende della guerra hanno ridotto all'estrema povertà e miseria.
Ed in primo luogo giusto ricordare la vasta opera di assistenza svolta, nonostante le straordinarie difficoltà dei trasporti, dagli Stati Uniti d'America e, per ciò che riguarda particolarmente l'Italia, dall'Eccm-o Rappresentante personale del Signor Presidente di quell'Unione presso di Noi.
Né minor lode e riconoscenza Ci è grato di esprimere alla generosità del Capo dello Stato, del Governo e del popolo Spagnuolo, del Governo Irlandese, dell'Argentina, dell'Australia, della Bolivia, del. Brasile, del Canadà, del Cile, dell'Italia, della Lituania, del Perù, della Polonia, della Romania, della Slovacchia, della Svizzera, dell'Ungheria, dell'Uruguay, che hanno gareggiato in nobile sentimento di fratellanza e di carità, la cui eco non risonerà invano nel mondo.
Mentre gli uomini di buona volontà si studiano di gettare un ponte spirituale di unione tra i popoli, questa pura e disinteressata azione di bene assume un aspetto e un valore di singolare importanza.
Allorché — come tutti ci auguriamo — le dissonanze dell'odio e della discordia, che dominano l'ora presente, non saranno più che un triste ricordo, matureranno con ancor più larga abbondanza i frutti di questa vittoria dell'attuoso e magnanimo amore sul veleno dell'egoismo e delle inimicizie.
A quanti hanno partecipato a questa Crociata di carità, sia sprone e ricompensa la Nostra Apostolica Benedizione e il pensiero che nella festa dell'amore da innumerevoli cuori angosciati, ma nella loro angustia non immemori, sale al Cielo per loro la riconoscente preghiera: Retribuere di gnare, Domine, omnibus nobis bona facientibus propter nomen tuum, vitam aeternam!


*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VI,
  Quinto anno di Pontificato, 2 marzo l944 - l° marzo l945, pp. 235-25l
  Tipografia Poliglotta Vaticana

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1945

9 maggio 1945
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Ecco alfine terminata», in occasione della fine in Europa della Seconda guerra mondiale


ECCO ALFINE TERMINATA questa guerra che, durante quasi sei anni, ha tenuto l'Europa nella stretta delle più atroci sofferenze e delle più amare tristezze. Un grido di riconoscenza umile e ardente sgorga dal più profondo del Nostro cuore verso «il Padre delle misericordie e il Dio di ogni consolazione» (2Cor 1,3). Ma il Nostro cantico di azioni di grazia si accompagna con una preghiera supplichevole per implorare dalla onnipotenza e dalla bontà divina il termine, secondo giustizia, delle lotte sanguinose anche nell'Estremo Oriente.
Inginocchiati in spirito dinanzi alle tombe, ai burroni sconvolti e rossi di sangue, ove riposano le innumerevoli spoglie di coloro che son caduti vittime dei combattimenti o dei massacri disumani, della fame o della miseria, Noi li raccomandiamo tutti nelle Nostre preghiere e specialmente nella celebrazione del Santo Sacrificio, al misericordioso amore di Gesù Cristo, loro Salvatore e loro Giudice. E Ci sembra che essi, i caduti, ammoniscano i superstiti dell'immane flagello e dicano loro: Sorgano dalle nostre ossa e dai nostri sepolcri e dalla terra, ove siamo stati gettati come grani di frumento, i plasmatori e gli artefici di una nuova e migliore Europa, di un nuovo e migliore universo, fondato sul timore filiale di Dio, sulla fedeltà ai suoi santi comandamenti, sul rispetto della dignità umana, sul principio sacro della uguaglianza dei diritti per tutti i popoli e tutti gli Stati, grandi e piccoli, deboli e forti.
La guerra ha accumulato tutto un caos di rovine, rovine materiali e rovine morali, come mai il genere umano non ne ha conosciute nel corso di tutta la sua storia. Si tratta ora di riedificare il mondo. Come primo elemento di questa restaurazione, Noi bramiamo di vedere, dopo una così lunga attesa, il ritorno pronto e rapido, per quanto le circostanze lo permettono, dei prigionieri, degl'internati, combattenti e civili, ai loro domestici focolari, verso le loro spose, verso i loro figli, verso i loro nobili lavori di pace.
A tutti poi Noi diciamo: Non lasciate piegare la vostra energia né abbattersi il vostro coraggio; dedicatevi ardentemente all'opera di ricostruzione, sostenuti da una robusta fede nella Provvidenza divina. Mettetevi al lavoro, ognuno al suo posto, risoluto e tenace, col cuore animato da un generoso, indistruttibile amore del prossimo. È ardua, certamente, ma è pur santa la impresa che vi attende per riparare gl'immediati e disastrosi effetti della guerra: vogliamo dire il disfacimento dei pubblici ordinamenti, la miseria e la fame, il rilasciamento e l'imbarbarimento dei costumi, l'indisciplinatezza della gioventù. In tal guisa, a poco a poco, voi preparerete alle vostre città e ai vostri villaggi, alle vostre provihce e alle patrie vostre, una sorte più accettevole e il vigore di un sangue rinnovato.
Fugata dalla terra, dal mare, dal cielo la morte insidiatrice, assicurata ormai dall'offesa delle armi la vita degli uomini, creature di Dio, e quanto ad essi rimane dei privati e dei comuni averi, gli uomini possono ormai aprire la mente e l'animo alla edificazione della pace.
Se noi ci restringiamo a considerare l'Europa, ci troviamo già dinanzi a problemi e a difficoltà gigantesche, di cui bisogna trionfare, se si vuole spianare il cammino a una pace vera, la sola che possa essere duratura. Essa non può infatti fiorire e prosperare se non in una atmosfera di sicura giustizia e di lealtà perfetta, congiunte con reciproca fiducia, comprensione e benevolenza. La guerra ha suscitato dappertutto discordia, diffidenza ed odio. Se dunque il mondo vuol ricuperare la pace, occorre che spariscano la menzogna e il rancore e in luogo loro dominino sovrane la verità e la carità.
Innanzi tutto pertanto supplichiamo istantemente nelle nostre preghiere quotidiane il Dio d'amore di adempire la sua promessa fatta per bocca del profeta Ezechiele:.«Io darò loro un cuore unanime, un nuovo spirito infonderò nel loro interno, e strapperò dalle loro viscere il cuore di sasso e vi sostituirò un cuore di carne, affinché camminino sulla via dei miei precetti e osservino i miei giudizi e li mettano in pratica, ed essi siano il mio popolo e io sia il loro Dio» (Ez 11,19-20). Che il Signore si degni di destare questo spirito nuovo, il suo spirito, nei popoli e particolarmente nel cuore di coloro, cui è affidata la cura di ristabilire la futura pace! Allora, e allora soltanto, il mondo risuscitato eviterà il ritorno del tremendo flagello e regnerà la vera, stabile e universale fratellanza e quella pace garantita da Cristo anche in terra a chi nella sua legge d'amore vorrà credere e sperare.


(1) PIO PP. XII, Radiomessaggio Ecco alfine terminata per la fine della guerra in Europa, [A tutto il mondo], 9 maggio 1945: AAS 37(1945), pp. 129-131.



2 giugno 1945
Discorso del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Nell’accogliere», ai Cardinali che gli avevano presentato gli auguri per la festa di Sant’Eugenio

Agli Eminentissimi Cardinali che hanno presentato gli auguri al Beatissimo Padre in occasione della festa di Sant’Eugenio.
Nell’accogliere, Venerabili Fratelli, con viva gratitudine gli auguri che a nome di voi tutti il venerando e amatissimo Decano del S. Collegio Ci ha offerti, il Nostro pensiero Ci riporta a ben sei anni addietro, allorché, in questa medesima ricorrenza, Ci presentavate i vostri voti onomastici, la prima volta dopo la elevazione della Nostra indegna persona alla Cattedra di Pietro.
Il mondo allora era ancora in pace: ma quale pace! e quanto precaria! Col cuore pieno di angoscia, nella perplessità e nella preghiera, Noi Ci chinavamo su questa pace, come chi si china al capezzale d’un agonizzante e con ardente amore si ostina a contenderlo, pur contro ogni speranza, alle strette della morte.
Nelle parole, che allora vi rivolgemmo, traspariva la Nostra dolorosa apprensione per lo scatenarsi di un conflitto, che sembrava farsi sempre più minaccioso, e di cui nessuno avrebbe potuto prevedere né l’estensione né la durata.
Il successivo svolgersi degli avvenimenti non soltanto dimostrò fin troppo vere le Nostre previsioni più tristi, ma le ha anzi di gran lunga superate.
Oggi, dopo circa sei anni, le lotte fratricide sono cessate, in una parte almeno di questo mondo devastato dalla guerra. È una pace — se pure tale può chiamarsi — ben fragile ancora, e che non potrà persistere e consolidarsi se non a prezzo di assidue cure; una pace, la cui tutela impone a tutta la Chiesa, al Pastore e al gregge, gravi e delicatissimi doveri: paziente prudenza, coraggiosa fedeltà, spirito di sacrificio! Tutti son chiamati a consacrarvisi, ciascuno nel suo ufficio e al proprio posto. Nessuno potrà mai apportarvi troppa premura né troppo zelo.
Quanto a Noi e al Nostro Apostolico Ministero, ben sappiamo, Venerabili Fratelli, di poter fare sicuro assegnamento sulla vostra sapiente collaborazione, sulle vostre incessanti preghiere, sulla vostra inalterabile devozione.
I. LA CHIESA E IL NAZIONALSOCIALISMO
In Europa, la guerra è finita; ma quali stigmate vi ha impresse! Il divino Maestro aveva detto: «Tutti quelli, che ingiustamente metteranno mano alla spada, di spada periranno » (1). Ora, che cosa voi vedete?
Voi vedete ciò che lascia dietro di sé una concezione e un’attività dello Stato, che non tiene in nessun conto i sentimenti più sacri dell’umanità, che calpesta gli inviolabili principi della fede cristiana. Il mondo intero, stupito, contempla oggi la rovina che ne è derivata.
Questa rovina, Noi l’avevamo veduta venir di lontano, e ben pochi, crediamo, hanno seguito con maggior tensione dell’animo l’evolversi e il precipitarsi della inevitabile caduta. Oltre dodici anni, tra i migliori della Nostra età matura, avevamo vissuto, per dovere dell’ufficio commessoCi, in mezzo al popolo germanico. In quel tempo, con la libertà che le condizioni politiche e sociali di allora permettevano, Noi Ci adoperammo per il consolidamento dello stato della Chiesa cattolica in Germania. Noi avemmo così occasione di conoscere le grandi qualità di quel popolo e Ci trovammo in relazioni personali coi suoi migliori rappresentanti. Perciò nutriamo fiducia che esso possa risollevarsi a nuova dignità e a nuova vita, dopo aver respinto da sé lo spettro satanico esibito dal nazionalsocialismo, e dopo che i colpevoli (come abbiamo già avuto occasione di esporre altre volte) avranno espiato i delitti da loro commessi.
Fin a quando non si era ancora perduto ogni barlume di speranza che quel movimento potesse prendere un diverso e men pernicioso indirizzo, sia per la resipiscenza dei suoi membri più moderati, sia per una efficace opposizione della parte non consenziente del popolo tedesco, la Chiesa fece quanto era in suo potere, per contrapporre una potente diga al dilagare di quelle dottrine non meno deleterie che violente.
Nella primavera del 1933, il Governo germanico sollecitò la Santa Sede a concludere un Concordato col Reich: pensiero che incontrò il consenso anche dell’Episcopato e almeno della più gran parte dei cattolici tedeschi. Infatti, né i Concordati già conclusi con alcuni Stati particolari della Germania (Länder), né la Costituzione di Weimar sembravano loro assicurare e garantire sufficientemente il rispetto delle loro convinzioni, della loro fede, dei loro diritti e della loro libertà d’azione. In tali condizioni, queste garanzie non potevano essere ottenute che mediante un accordo, nella forma solenne di un Concordato, col Governo centrale del Reich. Si aggiunga che, avendone questo fatta la proposta, sarebbe ricaduta, in caso di rifiuto, sulla Santa Sede la responsabilità di ogni dolorosa conseguenza.
Non già che la Chiesa, dal canto suo, si lasciasse illudere da eccessive speranze, né che con la conclusione del Concordato intendesse in qualsiasi modo di approvare la dottrina e le tendenze del nazionalsocialismo, come fu allora espressamente dichiarato e spiegato (2). Tuttavia bisogna riconoscere che il Concordato negli anni seguenti procurò qualche vantaggio, o almeno impedì mali maggiori. Infatti, nonostante tutte le violazioni di cui divenne ben presto l’oggetto, esso lasciava ai cattolici una base giuridica di difesa, un campo sul quale trincerarsi per continuare ad affrontare, fino a quando fosse loro possibile, il flutto sempre crescente della persecuzione religiosa.
Invero la lotta contro la Chiesa si andava sempre più inasprendo: era la distruzione delle organizzazioni cattoliche; era la soppressione progressiva delle così fiorenti scuole cattoliche, pubbliche e private; era la separazione forzata della gioventù dalla famiglia e dalla Chiesa; era l’oppressione esercitata sulla coscienza dei cittadini, particolarmente degli impiegati dello Stato; era la denigrazione sistematica, mediante una propaganda scaltramente e rigorosamente organizzata, della Chiesa, del Clero, dei fedeli, delle sue istituzioni, della sua dottrina, della sua storia; era la chiusura, lo scioglimento, la confisca di case religiose e di altri istituti ecclesiastici; era l’annientamento della stampa e della produzione libraria cattolica.
Per resistere a questi attacchi, milioni di valorosi cattolici, uomini e donne, si stringevano intorno ai loro Vescovi, la cui voce coraggiosa e severa non mancò mai di risuonare fino a questi ultimi anni di guerra; intorno ai loro sacerdoti, per aiutarli ad adattare incessantemente il loro apostolato alle mutate necessità e circostanze; e fino all’ultimo, con pazienza e fermezza, essi opposero al fronte dell’empietà e dell’orgoglio il fronte della fede, della preghiera, della condotta e della educazione francamente cattolica.
Intanto, senza esitazione, la stessa S. Sede moltiplicava presso i governanti in Germania le sue premure e le sue proteste, richiamandoli, con energia e chiarezza, al rispetto e all’osservanza dei doveri derivanti dallo stesso diritto di natura e confermati nel patto concordatario. In quei critici anni, associando all’attenta vigilanza del Pastore la paziente longanimità del Padre, il Nostro grande Predecessore Pio XI compì con intrepida fortezza la sua missione di Pontefice supremo.
Allorché, però, tentate invano tutte le vie della persuasione, egli si vide con ogni evidenza di fronte alle deliberate violazioni di un patto solenne e a una persecuzione religiosa, dissimulata o manifesta, ma sempre duramente condotta, la domenica di Passione del 1937, nella sua Enciclica « Mit brennender Sorge » [=Con viva ansia], egli svelò agli sguardi del mondo quel che il nazionalsocialismo era in realtà: l’apostasia orgogliosa da Gesù Cristo, la negazione della sua dottrina e della sua opera redentrice, il culto della forza, l’idolatria della razza e del sangue, l’oppressione della libertà e della dignità umana.
* * *
Come uno squillo di tromba che dà l’allarme, il Documento pontificio, vigoroso — troppo vigoroso, pensava già più di uno — fece sussultare gli spiriti e i cuori.
Molti — anche fuori dei confini della Germania, — che fino allora avevano chiuso gli occhi dinanzi alla incompatibilità della concezione nazionalsocialista con la dottrina cristiana, dovettero riconoscere e confessare il loro errore.
Molti, ma non tutti! Altri, nelle file stesse dei fedeli, erano fin troppo accecati dai loro pregiudizi o sedotti dalla speranza di vantaggi politici. L’evidenza dei fatti segnalati dal Nostro Predecessore non riuscì a convincerli, meno ancora ad indurli a modificare la loro condotta. È forse una mera coincidenza che alcune regioni, più duramente poi colpite dal sistema nazionalsocialista, furono precisamente quelle ove l’Enciclica « Mit brennender Sorge » era stata meno o per nulla ascoltata?
 Sarebbe stato forse allora possibile, con opportune e tempestive provvidenze politiche, di frenare una volta per sempre lo scatenarsi della violenza brutale e di mettere il popolo tedesco in condizione di svincolarsi dai tentacoli che lo stringevano? Sarebbe stato possibile risparmiare in tal guisa all’Europa ed al mondo l’invasione di questa immensa marea di sangue? Niuno oserebbe di dare un sicuro giudizio. Ad ogni modo, però, niuno potrebbe rimproverare la Chiesa di non avere denunziato e additato a tempo il vero carattere del movimento nazionalsocialista e il pericolo a cui esso esponeva la civiltà cristiana.
« Chi eleva la razza, o il popolo, o lo Stato o una sua determinata forma, i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana … a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e li divinizza con culto idolatrico, perverte e falsa l’ordine delle cose create e voluto da Dio » (3).
In questa proposizione dell’Enciclica si assomma la radicale opposizione tra lo Stato nazionalsocialista e la Chiesa cattolica. Giunte le cose a tal punto, la Chiesa non poteva più, senza venir meno alla sua missione, rinunziare a prender posizione dinanzi a tutto il mondo. Con questo atto, però, essa diveniva ancora una volta un « segno di contraddizione » (4) dinanzi al quale gli spiriti contrastanti si venivano a dividere in due opposte schiere.
I cattolici tedeschi furono, si può dire, concordi nel riconoscere che l’Enciclica « Mit brennender Sorge » aveva arrecato luce, direzione, consolazione, conforto a tutti quelli che consideravano seriamente e praticavano coerentemente la religione di Cristo. Non poteva, però, mancare la reazione da parte di coloro che erano stati colpiti; e di fatto proprio il 1937 fu per la Chiesa cattolica in Germania un anno d’indicibili amarezze e di terribili procelle.
I grandi avvenimenti politici, che contrassegnarono i due anni seguenti, e poi la guerra non attenuarono in alcun modo l’ostilità del nazionalsocialismo contro la Chiesa, ostilità che si manifestò fino a questi ultimi mesi, quando i suoi seguaci si lusingavano ancora di potere, non appena riportata la vittoria militare, finirla per sempre con la Chiesa. Testimonianze autorevoli ed ineccepibili Ci tenevano informati di questi disegni, i quali, del resto, si svelavano da se stessi con le reiterate e sempre più avverse azioni contro la Chiesa cattolica in Austria, nell’Alsazia-Lorena e soprattutto in quelle regioni della Polonia, che già durante la guerra erano state incorporate all’antico Reich: tutto fu ivi colpito, annientato, tutto quello, cioè, che dalla violenza esterna poteva essere raggiunto.
Continuando l’opera del Nostro Predecessore, Noi stessi durante la guerra non abbiamo cessato, specialmente nei Nostri Messaggi, di contrapporre alle rovinose e inesorabili applicazioni della dottrina nazionalsocialista, che giungevano fino a valersi dei più raffinati metodi scientifici per torturare o sopprimere persone spesso innocenti, le esigenze e le norme indefettibili della umanità e della fede cristiana. Era questa per Noi la più opportuna e potremmo anzi dire l’unica via efficace per proclamare in cospetto del mondo gl’immutabili princìpi della legge morale e per confermare, in mezzo a tanti errori e a tante violenze, le menti e i cuori dei cattolici tedeschi negli ideali superiori della verità e della giustizia. Né tali sollecitudini rimasero senza effetto. Sappiamo infatti, che i Nostri Messaggi, massime quello Natalizio del 1942, nonostante ogni proibizione ed ostacolo, furono fatti oggetto di studio nelle Conferenze diocesane del Clero in Germania, e poi esposti, e spiegati al popolo cattolico.
Ma se i reggitori della Germania avevano deliberato di distruggere la Chiesa cattolica anche nell’antico Reich, la Provvidenza aveva disposto altrimenti. Le tribolazioni della Chiesa da parte del nazionalsocialismo hanno avuto termine con la repentina e tragica fine del persecutore!
Dalle prigioni, dai campi di concentramento, dagli ergastoli affluiscono ora, accanto ai detenuti politici, anche le falangi di coloro, sia del Clero che del laicato, il cui unico delitto era stato la fedeltà a Cristo e alla fede dei Padri o la coraggiosa osservanza dei doveri sacerdotali. Per tutti loro Noi abbiamo ardentemente pregato e Ci siamo studiati con ogni industria, ogniqualvolta è stato possibile, di far loro pervenire la Nostra parola confortatrice e le benedizioni del Nostro cuore paterno.
Quanto più infatti si alzano i veli, che nascondevano finora la dolorosa passione della Chiesa sotto il regime nazionalsocialista, tanto più si palesa la fermezza, incrollabile spesso fino alla morte, d’innumerevoli cattolici e la parte gloriosa che in tale nobile agone ha avuto il Clero. Pur non essendo ancora in possesso di completi dati statistici, non possiamo tuttavia astenerCi dal menzionare qui, come esempio, qualcuna almeno delle copiose notizie pervenuteCi da sacerdoti e da laici che, internati nel campo di Dachau, furono fatti degni di patir contumelia per il nome di Gesù (5).
In prima linea, per il numero e per la durezza del trattamento sofferto, si trovavano i sacerdoti polacchi. Dal 1940 al 1945 furono imprigionati nel campo medesimo 2800 ecclesiastici e religiosi di quella Nazione, fra i quali il Vescovo ausiliare di Wladislavia, che vi morì di tifo. Nell’aprile scorso ve ne erano rimasti soltanto 816, essendo tutti gli altri morti, ad eccezione di due o tre trasferiti in altro campo. Nell’estate del 1942 furono segnalati come colà raccolti 480 ministri del culto, di lingua tedesca, di cui 45 protestanti e tutti gli altri sacerdoti cattolici. Nonostante il continuo affluire di nuovi internati, specialmente da alcune diocesi della Baviera, della Renania e della Westfalia il loro numero, a causa della forte mortalità, al principio di quest’anno, non superava i 350. Né sono da passare sotto silenzio quelli appartenenti ai territori occupati: Olanda, Belgio, Francia (tra i quali il Vescovo di Clermont), Lussemburgo, Slovenia, Italia. Indicibili patimenti molti di quei sacerdoti e di quei laici hanno sopportato per motivo della loro fede e della loro vocazione. In un caso l’odio degli empi contro Cristo giunse a tal segno da parodiare, in un sacerdote internato, con fili di ferro spinati la flagellazione e la coronazione di spine del Redentore.
Le vittime generose, che durante dodici anni, dal 1933, in Germania hanno fatto a Cristo e alla sua Chiesa il sacrificio dei propri beni, della propria libertà, della propria vita, innalzano a Dio le loro mani in oblazione espiatoria. Possa il giusto Giudice accettarla in riparazione di tanti delitti commessi contro la umanità, non meno che a danno del presente e dell’avvenire del proprio popolo, specialmente della infelice gioventù, e abbassare finalmente il braccio del suo Angelo sterminatore.
Con una insistenza sempre crescente il nazionalsocialismo ha voluto denunziare la Chiesa come nemica del popolo germanico. L’ingiustizia manifesta dell’accusa avrebbe ferito nel più vivo i sentimenti dei cattolici tedeschi e i Nostri propri, se fosse uscita da altre labbra; ma su quelle di tali accusatori, lungi dall’essere un aggravio, è la testimonianza più fulgida e più onorevole dell’opposizione ferma, costante sostenuta dalla Chiesa contro dottrine e metodi così deleteri, per il bene della vera civiltà e dello stesso popolo tedesco, cui auguriamo che, liberato dall’errore che l’ha precipitato nell’abisso, possa ritrovare la sua salvezza alle pure sorgenti della vera pace e della vera felicità, alle sorgenti della verità, della umiltà, della carità, sgorgate con la Chiesa dal Cuore di Cristo.
II. SGUARDI VERSO L’AVVENIRE
Dura lezione quella degli ultimi anni! Che almeno essa sia compresa e riesca proficua alle altre Nazioni! «Erudimini, qui gubernatis terram! » (6). Questo è il voto più ardente di chiunque ami sinceramente l’umanità. Vittima di un empio logorio, di un cinico disprezzo della vita e dei diritti dell’uomo, essa non ha che un solo desiderio, non aspira che a una cosa sola: condurre una vita tranquilla e pacifica nella dignità e nell’onesto lavoro.
E per questo essa brama che si ponga termine alla sfrontatezza, con cui la famiglia e il focolare domestico negli anni della guerra sono stati malmenati e profanati; sfrontatezza che grida al cielo e si è tramutata in uno dei più gravi pericoli non soltanto per la religione e la morale, ma anche per la ordinata convivenza umana; mancanza che ha soprattutto creato le moltitudini dei dissestati, dei delusi, dei desolati senza speranza, i quali vanno ad ingrossare le masse della rivoluzione e del disordine, assoldate da una tirannide non meno dispotica di quelle che si sono volute abbattere.
Le Nazioni, segnatamente quelle medie e piccole, reclamano che sia loro dato di prendere in mano i propri destini. Esse possono essere condotte a contrarre, con loro pieno gradimento, nell’interesse del progresso comune, vincoli che modifichino i loro diritti sovrani. Ma dopo aver sostenuto la loro parte, la loro larga parte, di sacrifici per distruggere il sistema della violenza brutale, esse sono in diritto di non accettare ché venga loro imposto un nuovo sistema politico o culturale, che la grande maggioranza delle loro popolazioni recisamente respinge.
Esse ritengono, e con ragione, che ufficio principale degli organizzatori della pace è di porre un termine al giuoco criminale della guerra, e di tutelare i diritti vitali e i reciproci doveri tra grandi e piccoli, potenti e deboli.
Nel fondo della loro coscienza i popoli sentono che i loro reggitori si screditerebbero, se al folle delirio di una egemonia della forza non facessero seguire la vittoria del diritto. Il pensiero di una nuova organizzazione della pace è scaturito — nessuno potrebbe dubitarne — dal più retto e leale volere. Tutta l’umanità segue con ansia il progresso di così nobile impresa. Quale amara delusione sarebbe, se essa venisse a fallire, se fossero resi vani tanti anni di sofferenze e di rinunzie, lasciando nuovamente trionfare quello spirito di oppressione, dal quale il mondo sperava di vedersi finalmente liberato per sempre! Povero mondo, al quale si potrebbe allora applicare la parola di Gesù: che la sua nuova condizione è divenuta peggiore di quella da cui era così penosamente uscito (7)!
Le condizioni politiche e sociali Ci mettono sul labbro queste parole ammonitrici. Purtroppo abbiamo dovuto deplorare in più di una regione uccisioni di sacerdoti, deportazioni di civili, eccidi di cittadini senza processo o per vendetta privata; né meno tristi sono le notizie che Ci sono pervenute dalla Slovenia e dalla Croazia.
Ma non vogliamo perderci di animo. I discorsi pronunziati da uomini competenti e responsabili nel corso di queste ultime settimane lasciano comprendere che essi hanno in vista la vittoria del diritto, non solo come scopo politico, ma anche più come dovere morale.
Perciò Noi rivolgiamo di gran cuore ai Nostri figli e alle Nostre figlie dell’intero universo un caldo invito alla preghiera: che esso pervenga all’orecchio di quanti riconoscono in Dio il Padre amantissimo di tutti gli uomini creati a sua immagine e somiglianza, di quanti sanno che nel petto di Cristo pulsa un Cuore divino ricco di misericordia, sorgente profonda ed inesauribile di ogni bene e di ogni amore, di ogni pace e di ogni riconciliazione.
Dalla tregua delle armi alla pace vera e sincera, come or non è molto ammonivamo, il cammino sarà arduo e lungo, troppo lungo per le ansiose aspirazioni di una umanità affamata di ordine e di calma. Ma è inevitabile che così sia. E forse è anche meglio. Occorre prima lasciar sedare la bufera delle passioni sovreccitate: « motos praestat componere fluctus » (8). È necessario che l’odio, la diffidenza, gl’incentivi di un nazionalismo estremo cedano il posto alla concezione di saggi consigli, al germogliare di pacifici disegni, alla serenità nello scambio di vedute e alla mutua comprensione fraterna.
Si degni lo Spirito Santo, luce delle intelligenze, Signore soave dei cuori, di esaudire le preghiere della sua Chiesa e di guidare nel loro arduo lavoro quelli che, secondo la loro alta missione, si sforzano sinceramente, nonostante gli ostacoli e le contraddizioni, di giungere al termine, così universalmente, così ardentemente bramato: la pace, la vera pace degna di tal nome. Una pace fondata e confermata nella sincerità e nella lealtà, nella giustizia e nella realtà; una pace di leale e risoluto sforzo per vincere o prevenire quelle condizioni economiche e sociali, le quali potrebbero, come già in passato, così anche nell’avvenire, facilmente condurre a nuovi conflitti armati; una pace che possa essere approvata da tutti gli animi retti di ogni popolo e di ogni Nazione; una pace che le generazioni future possano considerare con riconoscenza come il frutto felice di un tempo infelice; una pace che segni nei secoli una svolta risolutiva nell’affermazione della dignità umana e dell’ordine nella libertà; una pace che sia come la Magna Charta, la quale ha chiuso l’era oscura della violenza; una pace che, sotto la guida misericordiosa di Dio, ci faccia passare attraverso la prosperità temporale, in modo da non perdere la felicità eterna (9).
Ma prima di conseguire questa pace, è pur vero che milioni di uomini, presso il focolare domestico o nella guerra, nella prigionia o nell’esilio, devono ancora gustare l’amarezza del calice. Quanto Ci tarda di vedere la fine delle loro sofferenze e delle loro angosce, il compimento delle loro brame! Anche per loro, per tutta l’umanità, che con loro ed in loro soffre, salga all’Onnipotente la nostra umile e ardente preghiera.
Ci riesce intanto d’immenso conforto, Venerabili Fratelli, il pensiero che voi partecipate alle Nostre cure, alle Nostre preghiere, alle Nostre speranze, e che in tutto il mondo Vescovi, Sacerdoti, fedeli associano le loro suppliche alle Nostre nella grande voce della Chiesa universale. In attestato della Nostra profonda gratitudine e come pegno delle infinite misericordie e dei favori divini, a voi, a loro, a quanti sono a Noi congiunti nel desiderio e nella ricerca della pace, impartiamo dal fondo del cuore la Nostra Apostolica Benedizione.


(1) Cf. Matth., 26, 52.
 (2) Cf. LOsservatore Romano, n. 174 del 2 luglio 1933.
(3) Acta Apostolicae Sedis, tom. XXIX, 1937, pp. 149 e 171.
(4) Luc., 2, 34.
(5) Act., 5, 41.
(6) Ps. 2, 10.
(7) Cf. Luc., 11, 24-26.
(8) Verg., Aen., 1, 135.
(9) Cf. Oratio Domin. III post Pent.

24 dicembre 1945
Discorso del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Negli ultimi sei anni», diffuso in occasione della Vigilia del Natale 1945

Negli ultimi anni, noi tutti, Venerabili Fratelli e diletti figli, dovemmo assaporare, in questa vigilia della Natività del Signore, l’amaro contrasto fra i sentimenti di santa allegrezza, d’intima e fraterna unione nel servizio del Signore, che la cara ricorrenza natalizia infonde negli animi, e i tristi rancori e le brame di vendetta, imperanti nel mondo; tra i soavi accenti del Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus, e le voci discordanti di odio nei fragori di una guerra fratricida; tra la dolce chiarezza di Betlemme e il sinistro bagliore degli incendi; tra il soave splendore irraggiante dal volto del celeste Infante, e il marchio di Caino, che rimarrà ancora a lungo impresso sulla fronte del nostro secolo.
Così, quale sospiro di sollievo uscì da tutti i nostri petti, alla notizia che il sanguinoso conflitto aveva avuto fine, prima in Europa, poi nell’Asia! Quante fervide suppliche erano in quei lunghi anni di lotta salite al trono dell’Altissimo, affinché abbreviasse i giorni dell’afflizione e arrestasse la mano degli angeli che portano le fiale dell’ira di Dio per i peccati del mondo! Ora, per la prima volta, l’umana famiglia celebrerà di nuovo per misericordia divina una festa natalizia, nella quale i terrori della guerra in terra, in mare e soprattutto nell’aria non empiranno più tanti cuori di timore e di angoscia mortale. Per questo mutamento delle cose siano da noi tutti rese umili grazie all’Onnipotente Signore!
La pace della terra? La vera pace? No, ma solamente il « dopo-guerra » espressione dolorosa e fin troppo significativa! Quanto tempo sarà necessario per guarire il malessere materiale e morale, quanti sforzi per cicatrizzare tante piaghe! Ieri si sono seminate su territori immensi le distruzioni, le calamità, le miserie; ed oggi che si tratta di ricostruire, gli uomini cominciano appena a rendersi con- 39 to di quanta perspicacia e avvedutezza, di quanta rettitudine e buona volontà vi sia bisogno per ricondurre il mondo dalle devastazioni e dalle rovine fisiche e spirituali, al diritto, all’ordine e alla pace.
Così anche questo Natale rimane un tempo di aspettazione, di speranza e di preghiera al Figlio di Dio fatto uomo, affinché Egli, che è il « Rex pacificus,… cuius vultum desiderat universa terra » (1), doni al mondo la sua pace.
[…]
LA SOPRANNAZIONALITÀ DELLA CHIESA
La Chiesa cattolica, di cui l’Urbe è il centro, è soprannazionale per la sua stessa essenza. Ciò ha un duplice senso, uno negativo ed uno positivo. La Chiesa è madre, Sancta Mater Ecclesia, una vera madre, la madre di tutte le nazioni e di tutti i popoli, non meno che di tutti i singoli uomini, e precisamente perché madre, non appartiene né può appartenere esclusivamente a questo o a quel popolo, e neanche ad un popolo più e ad un altro meno, ma a tutti egualmente. È madre, e quindi non è né può essere straniera in alcun luogo; essa vive, o almeno per la sua natura deve vivere, in tutti i popoli. Inoltre, mentre la madre, col suo sposo e i suoi figli, forma una famiglia, la Chiesa, in virtù di una unione incomparabilmente più stretta, costituisce, più e meglio che una famiglia, il corpo mistico di Cristo. La Chiesa è dunque soprannazionale, perché è un tutto indivisibile e universale.
LA INDIVISIBILE UNITÀ DELLA CHIESA
La Chiesa è un tutto indivisibile, perché Cristo, con la sua Chiesa, è indiviso e indivisibile. Cristo, come Capo della Chiesa, è, per adoperare un profondo pensiero di S. Agostino (7), totus Christus, il Cristo intero. Questa interezza di Cristo, secondo il S. Dottore, significa la indivisibile unità del Capo e del corpo « in plenitudine Ecclesiae », in quella pienezza di vita della Chiesa, che congiunge tutte le zone e tutti i tempi della umanità redenta, senza eccezione
Saldamente stabilita con sì profonda radice, la Chiesa, posta com’è nel mezzo di tutta la storia del genere umano, nel campo agitato e sconvolto di energie divergenti e di contrastanti tendenze, quantunque esposta a tutti gli assalti diretti contro la sua indivisibile interezza, è così lontana dall’esserne scossa, che dalla sua propria vita di interezza e di unità irradia e diffonde sempre nuove forze sanatrici e unificatrici nella umanità lacerata e divisa, forze di unificante grazia divina, forze dello Spirito unificante, di cui tutti sono affamati, verità che sempre e dappertutto valgono, ideali che sempre e dappertutto ardono.
Da ciò apparisce che era ed è un sacrilego attentato contro il totus Christus, il Cristo nella sua integrità, e in pari tempo un colpo nefasto contro la unità del genere umano, ogniqualvolta si è tentato e si tenta di far la Chiesa quasi prigioniera e schiava di questo o di quel popolo particolare, di confinarla negli angusti limiti di una nazione, od anche di metterla al bando. Tale smembramento della interezza della Chiesa ha sminuito e sminuisce — tanto più, quanto più a lungo — nei popoli, che ne sono le vittime, il bene della loro reale e piena vita.
Ma l’individualismo nazionale e statale degli ultimi secoli non ha soltanto cercato di vulnerare l’interezza della Chiesa, d’indebolire e di ostacolare le sue forze unitrici e unificatrici, quelle forze che pure ebbero un tempo una parte essenziale nella formazione dell’unità dell’Occidente europeo. Un vieto liberalismo volle, senza e contro la Chiesa, creare la unità mediante la cultura laica e un umanesimo secolarizzato. Qua e là, come frutto della sua azione dissolvente e al tempo stesso come nemico, gli succedette il totalitarismo. In una parola, quale fu dopo poco più di un secolo il risultato di tutti quegli sforzi senza e spesso contro la Chiesa? La tomba della sana libertà umana; le organizzazioni forzate; un mondo, che per brutalità e barbarie, per istruzioni e rovine, soprattutto però per funesta disunione e per mancanza di sicurezza, non aveva conosciuto l’eguale.
In un tempo turbato, qual è ancora il nostro, la Chiesa, per il bene proprio e per quello della umanità, deve fare del tutto per mettere in valore la sua indivisibile e indivisa interezza. Essa ha da essere oggi più che mai soprannazionale. Questo spirito deve penetrare e pervadere il suo Capo visibile, il Sacro Collegio, tutta l’azione della Santa Sede, su cui specialmente ora gravano importanti doveri riguardanti non solo il presente, ma anche più il futuro.
Si tratta qui principalmente di un fatto dello spirito, di avere il senso giusto di questa soprannazionalità, e non di misurarla o determinarla secondo proporzioni matematiche o su basi statistiche rigorose circa la nazionalità delle singole persone. Nei lunghi periodi di tempo, in cui, per disposizione della Provvidenza, la nazione italiana, più delle altre, ha dato alla Chiesa il suo Capo e molti collaboratori al governo centrale della Santa Sede, la Chiesa nel suo complesso ha sempre conservato intatto il suo carattere soprannazionale. Che anzi non poche circostanze hanno contribuito, precisamente per questa via, a preservarla da pericoli, che altrimenti avrebbero potuto farsi più sensibili. Si pensi, per citare un esempio, alle lotte per la egemonia degli Stati nazionali europei e delle grandi dinastie nei secoli passati.
Anche dopo la Conciliazione fra la Chiesa e lo Stato coi Patti Lateranensi, il clero italiano, nel suo insieme, pur senza alcun pregiudizio del naturale e legittimo amore di patria, ha continuato ad essere un fedele sostegno e un patrocinatore della soprannazionalità della Chiesa. Noi Ci auguriamo e preghiamo che tale rimanga, specialmente il giovane clero, in Italia e in tutto l’orbe cattolico; ad ogni modo le delicate condizioni presenti esigono una particolare cura e tutela di quella soprannazionalità e indivisibile unità della Chiesa.
LA UNIVERSALITÀ DELLA CHIESA
Soprannazionale perché abbraccia con un medesimo amore tutte le nazioni e tutti i popoli, essa è anche tale, come abbiamo già accennato, perché in nessun luogo è straniera. Essa vive e si sviluppa in tutti i paesi del mondo, e tutti i paesi del mondo contribuiscono alla sua vita e al suo sviluppo. Un tempo la vita ecclesiastica, in quanto è visibile, si svolgeva rigogliosa a preferenza nei paesi della vecchia Europa, donde si diffondeva, come fiume maestoso, a quella che poteva dirsi la periferia del mondo; oggi apparisce invece come uno scambio di vita e di energie fra tutti i membri del corpo mistico di Cristo sulla terra. Non poche regioni in altri continenti hanno da molto tempo sorpassato il periodo della forma missionaria della loro organizzazione ecclesiastica, sono rette da una propria gerarchia e danno a tutta la Chiesa beni spirituali e materiali, mentre prima soltanto li ricevevano.
Non si svela forse in questo progresso e arricchimento della vita soprannaturale, ed anche naturale, della umanità il vero senso della soprannaturalità della Chiesa? Essa non sta, a causa di questa soprannazionalità, quasi sospesa, in una inaccessibile e intangibile lontananza, al di sopra delle nazioni; ma, come Cristo fu in mezzo agli uomini, così anche la Chiesa, in cui Egli continua a vivere, si trova in mezzo ai popoli. Come il Figlio di Dio assunse una vera natura umana, così anche la Chiesa prende in sé la pienezza di tutto ciò che è genuinamente umano e lo eleva a sorgente di forza soprannaturale, dovunque e comunque lo trova.
Si compie così sempre più nella Chiesa di oggi ciò che S. Agostino magnificava nella sua «Città di Dio »: La Chiesa, egli scriveva, «chiama da tutte le genti i suoi cittadini, e in tutte le lingue aduna la sua comunità peregrina sulla terra; non cura ciò che è diverso nei costumi, nelle leggi, nelle istituzioni; nulla di ciò essa rescinde o distrugge, ma piuttosto conserva e segue. Anche quel che è diverso nelle diverse nazioni, è tuttavia indirizzato all’unico e medesimo fine della pace terrena, se non impedisce la religione dell’unico sommo e vero Dio » (8).
Come un faro potente, la Chiesa, nella sua universale interezza, getta il suo fascio di luce in questi giorni oscuri, per i quali passiamo. Non meno tenebrosi erano quelli, in cui il gran Dottore d’Ippona vedeva quel mondo, che egli amava tanto, cominciare a sommergersi. Quella luce allora lo confortava e al suo chiarore salutava, come in una visione profetica, la novella aurora di un giorno più bello. Il suo amore verso la Chiesa, il quale non era altro che il suo amore di Cristo, fu la sua beatificante consolazione. Possano tutti coloro, che oggi, nei dolori e nei pericoli della loro patria, soffrono pene simili a quelle di Agostino, trovare, come lui, nell’amore della Chiesa, di questa casa universale, che, secondo la divina promessa rimarrà sino alla fine dei tempi, ristoro e sostegno!
Da parte Nostra, Noi bramiamo di rendere questa casa medesima sempre più solida, sempre più abitabile per tutti, senza eccezione. Perciò nulla vogliamo omettere, che possa esprimere visibilmente la soprannazionalità della Chiesa, quale segno del suo amore verso Cristo, Che essa vede e a Cui serve nella ricchezza dei suoi membri sparsi per il mondo intiero.
L’OPERA DI PACE
In quest’ora, in cui celebriamo la nascita di Colui, che venne per riconciliare gli uomini con Dio e fra loro stessi, Noi non possiamo omettere di dire una parola sull’opera di pace, che le classi dirigenti nello Stato, nella politica e nell’economia si sono accinti ad edificare.
Con una dovizia, finora forse non mai avutasi, di esperienza, di buon volere, di saggezza politica e di potenza organizzatrice, sono stati iniziati i preparativi per l’ordinamento della pace mondiale. Giammai, forse, da che mondo è mondo, i reggitori della cosa pubblica non si sono trovati dinanzi ad un’impresa così vasta e complessa per il numero, la grandezza e la difficoltà delle questioni da risolvere, né così grave per i suoi effetti in larghezza e in profondità, per il bene o per il male, come quella di ridare oggi all’umanità — dopo tre decenni di guerre mondiali, di catastrofi economiche e di smisurato impoverimento, — ordine, pace e prosperità. Altissima, formidabile è la responsabilità di coloro che si apprestano a portare a compimento un’opera così gigantesca.
Non è Nostra intenzione di entrare nell’esame delle soluzioni pratiche che essi potranno dare a così ardui problemi; crediamo però proprio del Nostro ufficio, in continuazione dei Nostri precedenti Messaggi Natalizi durante la guerra, di additare i presupposti morali fondamentali di una vera e durevole pace; ciò che ridurremo a tre brevi considerazioni:
1° L’ora presente richiede imperiosamente la collaborazione, la buona volontà, la reciproca fiducia di tutti i popoli. I motivi di odio, di vendetta, di rivalità, di antagonismo, di sleale e disonesta concorrenza, debbono essere tenuti lontano dai dibattiti e dalle risoluzioni politiche ed economiche. «Chi può dire — aggiungeremo con la Sacra Scrittura (9) —: Ho la coscienza netta, sono puro di colpa? Doppio peso e doppia misura, ambedue sono abominevoli presso Dio ». Chi dunque esige la espiazione delle colpe con la giusta punizione dei criminali in ragione dei loro delitti, deve avere ogni cura di non fare egli stesso ciò che rimprovera ad altri come colpa o delitto. Chi vuole riparazioni, deve chiederle sulla base dell’ordine morale, del rispetto a quegl’inviolabili diritti di natura, che rimangono anche in coloro, che si soni arresi incondizionatamente al vincitore. Chi domanda sicurezza per il futuro, non deve dimenticare che la sola vera garanzia consiste nella propria forza interna, vale a dire nella tutela della famiglia, dei figli, del lavoro, nell’amore fraterno, nell’abbandono di ogni odio, di ogni persecuzione o ingiusta vessazione di onesti cittadini, nella leale concordia fra Stato e Stato, fra popolo e popolo
2° A tal fine è necessario che dappertutto si rinunzi a creare artificiosamente, con la potenza del danaro, di una arbitraria censura, di giudizi unilaterali, di false affermazioni, una cosiddetta pubblica opinione, che muove il pensiero e il volere degli elettori come canne agitate dal vento. Si dia il debito valore alla vera e grande maggioranza, formata da tutti quelli che onestamente e tranquillamente vivono del loro lavoro in mezzo alle loro famiglie e vogliono fare la volontà di Dio. Ai loro occhi le contese per più favorevoli confini, la lotta per i tesori della terra, anche se non sono necessariamente e a priori immorali in se stesse, costituiscono pur sempre un giuoco pericoloso, che non si può affrontare se non a rischio di cagionare un cumulo di rovine e di morte. È la vasta maggioranza dei buoni padri e madri di famiglia, che vorrebbero proteggere e difendere l’avvenire dei propri figli contro la pretesa di ogni politica di pura forza, contro gli arbitri del totalitarismo dello Stato forte.
3° La forza dello Stato totalitario! Crudele e sanguinante ironia! Tutta la superficie del globo, rossa del sangue versato in questi anni terribili, proclama altamente la tirannia di un tale Stato.
L’edificio della pace riposerebbe sopra una base crollante e sempre minacciosa, se non ponesse fine a un siffatto totalitarismo, il quale riduce l’uomo a non essere più che una pedina nel giuoco politico, un numero nei calcoli economici. Con un tratto di penna esso muta i confini degli Stati; con una decisione perentoria sottrae l’economia di un popolo, che pure è sempre una parte di tutta la vita nazionale, alle sue naturali possibilità; con una mal dissimulata crudeltà scaccia anch’esso milioni di uomini, centinaia di migliaia di famiglie, nella più squallida miseria, dalle loro case e dalle loro terre, e le sradica e le strappa da una civiltà e una cultura, alla cui formazione avevano lavorato intiere generazioni. Anch’esso pone arbitrari limiti alla necessità, e al diritto di migrazione e al desiderio di colonizzazione Tutto ciò costituisce un sistema contrario alla dignità e al bene del genere umano. Eppure, secondo l’ordinamento divino, non è la volontà e la potenza di fortuiti e mutevoli gruppi d’interesse, ma l’uomo nel mezzo della famiglia e della società col suo lavoro, il signore del mondo. Così quel totalitarismo fallisce in ciò che è l’unica misura del progresso, vale a dire nel creare sempre maggiori e migliori condizioni pubbliche, affinché la famiglia possa esistere e svilupparsi, come unità economica, giuridica, morale e religiosa.
Nei confini di ciascuna Nazione particolare, come in seno alla grande famiglia dei popoli, il totalitarismo dello Stato forte è incompatibile con una vera e sana democrazia. Come un pericoloso bacillo, esso avvelena la comunità delle Nazioni e la rende incapace di essere la garante della sicurezza dei singoli popoli. Esso rappresenta un continuo pericolo di guerra. La futura opera di pace vuol bandire dal mondo ogni uso aggressivo della forza, ogni guerra offensiva. Chi potrebbe non salutare di cuore un tale proposito, e specialmente la sua efficace attuazione? Se però questo non deve essere soltanto un bel gesto, occorre escludere ogni oppressione e ogni arbitrio dal di dentro e dal di fuori.
Di fronte a questo incontestabile stato di cose, un’unica soluzione rimane: il ritorno a Dio e all’ordine stabilito da Dio.
Quanto più si sollevano i veli circa il sorgere ed il crescere delle forze che hanno scatenato la guerra, tanto più chiaro appare che esse erano le eredi, le portatrici e le continuatrici di errori, dei quali un elemento essenziale era la noncuranza, il sovvertimento, la negazione e il disprezzo del pensiero e dei principi cristiani.
Se dunque qui giace la radice del male, non vi è che un solo rimedio: tornare all’ordine fissato da Dio anche nelle relazioni fra gli Stati e i popoli; tornare a un vero cristianesimo nello Stato e fra gli Stati. Né si dica che questa non è politica realistica. La esperienza dovrebbe aver insegnato a tutti che la politica orientata verso le eterne verità e le leggi di Dio è la più reale e concreta delle politiche. I politici realisti, che altrimenti pensano, non creano che rovine.
[…]


(1) 1 Antiph. I, in I Vesp. Nativ. Domini.
(2) Cf. Ex. 24, 1. 9.
(3) Clem. XI P. M., Orationes consistor., Romae 1722, p. 32.
(4) Op. cit., p. 38.
(5) Arch. Consist. Acta Vicecancell. 2, fogli 39 e 40.
(6) Cf. Pii VII, Allocutio habita in Cons. Secr. die 8 Martii 1816.
(7) Serm. 341 c. 1 – Migne, PL., t. 39, col. 1493.
(8) De civit. Dei, 1. 19, c. 17 – Migne, PL., t. 41, col. 646.
(9) Prov. 20, 9-10.