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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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Il sito della parrocchia:

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mercoledì 28 settembre 2022

Programmare la sinodalità parrocchiale

 

Programmare la sinodalità parrocchiale


   Da anni si parlava di incrementare la partecipazione della gente negli ambienti ecclesiali. La si è cominciata a chiamare sinodalità  da papa Francesco in poi.

 Tutte le persone di fede in mezzo ad un sinodo? Comprese quelle che finora non hanno contato nulla e non sanno di teologia? Questo non c’è mai stato storicamente. Sarebbe un bel cambiamento. E, infatti, il Papa ha parlato di un riforma  in senso sinodale delle nostre Chiese. Poiché ha cominciato a farlo lui, allora anche noi lo si può fare senza più tanti problemi.

  Riforma è un  cambiamento strutturale di una materia o di un’istituzione. Qualcosa era fatto  in un modo e poi viene cambiato.

  L’architettura dell'attuale Chiesa cattolica, tanto diversa da quella delle origini e, in generale, da quella del Primo millennio, nasce da una riforma  attuata a partire dall’Undicesimo secolo, da un’altra riforma  attuata nel Sedicesimo  e infine dalla riforma  attuata nel Ventesimo dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Tutte videro protagoniste il Papato romano. Processi di riforma  molto più poliedrici e partecipati furono quelli che caratterizzarono le Chiese protestanti nel Sedicesimo secolo. La riforma cattolica deliberata nel medesimo secolo intese reagirvi, tanto che viene anche chiamata Controriforma. Protagonisti di tutti questi processi riformatori furono i teologi: dall’Undicesimo secolo la teologia si strutturò come disciplina universitaria. Però i problemi a cui con quei moti di riforma  si voleva porre rimedio scaturivano dalla prassi sociale. Quello principale era stabilire chi comandava in religione.

  Il moto sinodale che papa Francesco ha tentato di avviare (infruttuosamente sinora) risponde ad una diversa esigenza: vivere la fede in maniera più partecipata e consapevole. La questione del chi comanda passa un po’  in seconda linea, in questa prospettiva. Ma non per i nostri vescovi, i quali hanno già risolto la questione decidendo che sul punto non si cambia nulla, a qualsiasi livello, si tratti di deliberare una modifica liturgica o di stabilire dove va messa in parrocchia la statua di un santo. Però così non ci sarà mai una sinodalità popolare  del tipo di quella indicata dal Papa come obiettivo.

  Nella scorsa primavera in parrocchia ci si è riuniti qualche volta, in pochi, e in sempre meno man mano che si procedeva, perché s’era detto di aprire i processi sinodali, quello delle Chiese in Italia e quello che riguardava tutte la altre Chiese insieme (tra i teologi è controverso che esista qualcosa come una Chiesa universale  distinta da quelle locali), con una fase di ascolto del Popolo di Dio, tutti noi. E’ evidente che ascolto non c’è stato, anche se s’è parlato tra noi, ma mai di sinodo e sinodalità. L’argomento principale è stato tenuto accuratamente fuori. Nelle istruzioni dei nostri vescovi, poi, c’era la raccomandazione espressa di non discutere. La negazione della sinodalità! E quindi abbiamo chiacchierato dicendo che ne pensavamo sui vari temi proposti, senza esserci ben preparati su di essi, ma nulla è cambiato, né è venuta nemmeno alcuna proposta di cambiamento. Del resto di sinodo  e sinodalità  si sapeva troppo poco, e poi era cosa che non s’era mai fatta. Molti erano sospettosi che potesse cambiare le loro abitudini consolidate, in particolare che li portasse oltre alla piccola cerchia dei loro abituali compagni di pratica religiosa. Non poteva che andare così, perché era proprio così che i vescovi avevano programmato che andasse. Qualcosa di ciò che s’è detto doveva essere riportato in Diocesi, molto sintetizzato, perché poi fosse mandato alla Conferenza episcopale italiana e da essa al Sinodo dei Vescovi, che riunisce permanentemente tutti i vescovi del mondo e il Papa. Ma i parrocchiani non sono stati informati di quello che è stato mandato in Diocesi, né s’è sentito il bisogno di informarli. Questo perché non è cambiato proprio nulla e la parrocchia continua ad andare come sempre, in modo assolutamente non sinodale.

 I nostri preti, sempre indaffaratissimi fino allo stremo, vivono questa faccenda del processo sinodale come un altro impegno burocratico senza costrutto. Non sono stati preparati a organizzarlo, non pensano che altri possa farlo, pensano di dover fare sempre tutto loro e disperano che la gente possa anche solo dare una mano. E, in effetti, le persone sono piuttosto restie a impegnarsi con continuità. Questo perché la nostra parrocchia è poco sinodale e si preferisce lasciar fare ai preti. I quali sono pochi per le esigenze religiose delle circa ottomila persone che verosimilmente alla parrocchia fanno ancora riferimento. Una volta coperte messe, funerali, battesimi, Cresime e Prime comunioni  e relativi catechismi, matrimoni e relativa preparazione, la festa di San Clemente e relativi banchetti, le apparizioni alle riunioni di qualche gruppo della parrocchia, si arriva a sera distrutti dalla stanchezza. Certo che poi, se c’è l’occasione di lasciar perdere il Consiglio pastorale parrocchiale, che dovrebbe essere il punto di innesco della sinodalità parrocchiale, la si coglie: il Consiglio da anni non si riunisce più. E quando si riuniva, del resto, produceva poco, perché si era veramente poco amalgamati. Siamo ancora ben prima degli albori della sinodalità.

  I preti della parrocchia vanno e vengono e noi non c’entriamo nulla, non contiamo nulla. Non si fa a tempo ad affezionarsi ad uno che quello viene trasferito. Ad ogni trasferimento e ad ogni nuovo arrivo si rimane smarriti, come se la parrocchia fosse diversa da qualche giorno prima. Se vi fosse una struttura sinodale attiva non sarebbe così. Si capirebbe che la parrocchia è fatta da noi, non dai preti: perché noi rimaniamo e loro vanno e vengono. Questo ci responsabilizzerebbe e i nuovi venuti se ne avvantaggerebbero.

  Negli incontri prima della scorsa estate noi dell’Azione Cattolica parrocchiale abbiamo discusso molto di sinodalità. Dovremmo essere i più preparati nel campo, anche se sarebbe opportuno richiamare qualcosa alla memoria, per rinfrescarla. Dunque toccherebbe a noi dare una mano in questo campo. Innanzi tutto cercando di coinvolgere altre persone: la sinodalità è come un tela che si deve tessere con pazienza, incontrandosi e incontrandosi di nuovo. La sinodalità, prima che teorizzata, va praticata,  correggendosi all’occorrenza.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 27 settembre 2022

Fede, emozioni, sinodalità

                                              Fede, emozioni, sinodalità

 

  La fede, in genere, è  vissuta come un’emozione: è l’espressione della propria gioia di vivere.

  I teologi non la raccontano così? Ma come la vivono  se non così?

  Le emozioni  si sentono  dentro  di sé. Abbiamo un sesto senso  per questo: è quello per il quale, appunto, ci sentiamo vivere. “Come stai?”, chiediamo incontrandoci, e significa Come ti senti?”. Le emozioni hanno una base fisiologica nella biochimica del nostro organismo e nel nostro assetto neurologico, ma dipendono anche da stati mentali. La mente è il grande prodigio prodotto dal nostro organismo, per mezzo del quale diciamo “Sono io!”. Non basta conoscerne le basi biologiche per capirla veramente: si svela nelle relazioni tra persone

 e ne è anche plasmata. La mente è anche un potente strumento per conoscere ed è una mente emotiva, dicono gli scienziati del ramo, quindi in modo indistricabile legata alle emozioni, perché scaturisce da organismi viventi. Quindi capiamo emotivamente.

  La fede è una forma di conoscenza emotiva. Non è solo quella scritta nei libri di teologia. La mistica ne è l’espressione più realistica. Nel profondo della nostra interiorità lo sappiamo bene.

  Questo aspetto della fede spiega perché le è indispensabile la vita comunitaria: solo nella relazione viva, infatti, nasce la gioia di vivere. Ma questo in qualche modo la limita. Perché noi non siamo capaci di grandi comunità, proprio per limiti fisiologici del nostro organismo. Ci riesce difficile sostenere una conversazione con più di altre tre persone, non teniamo veramente a mente la faccia di più di centocinquanta circa e la nostra cerchia abituale non supera i cinquanta circa, la dimensione di una tribù ancestrale. La sinodalità è una modalità di relazioni che cerca di superare questo confine, mantenendo viva  la fede. In questo senso è anche  liturgia.

  Non basta predicare  la religione, né viverla in un gruppo minuscolo come la propria famiglia parentale o la cerchia di un gruppo di spiritualità. Queste sono le dimensioni in cui oggi in Italia si vive prevalentemente la fede. La sinodalità vorrebbe allargare queste prospettive. Del resto la funzione antropologica delle religioni è stata, fin dalle origini, quella di consentire di organizzare società più ampie. L’esperienza è però che, allontanandosi dal mondo vitale nel quale si sente  la fede e che in questa accezione dà senso  alla fede, la fede sembra svanire, non funziona più, finisce per non dare più gioia, e, insomma, ad un certo punto non c’è più. Ed è proprio questo che sta accadendo nell’Europa occidentale contemporanea.

  Ma, si potrebbe osservare, la fede è sempre stata sostenuta anche dal rito, dal diritto e dalla pompa, lo splendore liturgico, e infine dall’aspettativa del prodigioso. Bisogna vedere però fino a che punto, con questi strumenti, la nostra mente reagisca solo perché ingannata. E’ una vecchia critica alle religioni, che ha un suo fondamento.

 Siamo stati fatti per essere ingannati?

 La sinodalità è l’antidoto, perché soli ci si inganna più facilmente di quando ci si può confrontare con le altre persone, purché lo si possa fare con libertà. La religione, dobbiamo esserne consapevoli, può diventare espressione di un potere dispotico, e nel tremendo passato della nostra Chiesa lo è certamente stata.  Così, la sinodalità è via di libertà, quando non si è più schiavi, nemmeno dei propri istinti brutali.

13.Fratelli, Dio vi ha chiamati alla libertà! Ma non servitevi della libertà per i vostri comodi. Anzi, lasciatevi guidare dall’amore di Dio e fatevi servi gli uni degli altri. 14.Perché chi ubbidisce a quest’unico comandamento: Ama il prossimo tuo come te stesso, mette in pratica tutta la Legge. 15.Se invece vi comportate come bestie feroci, mordendovi e divorandovi tra voi, fate attenzione: finirete per distruggervi gli uni gli altri.

[Dalla lettera di Paolo di Tarso ai Galati, capitolo 5, versetti da 13 a 15 -Gal 5,13-15]

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

lunedì 26 settembre 2022

Una sinodalità calibrata per ogni ambiente e ogni decisione

 

Una sinodalità calibrata per ogni ambiente e ogni decisione

 

 

 Un’idea interessante che ho trovato in diversi autori è che la sinodalità debba essere calibrata a seconda degli ambienti coinvolti e delle decisioni da prendere. Questo principio è coerente con l’idea che la sinodalità sia un modo di fare Chiesa tra la gente e che non ogni decisione abbia la stessa rilevanza per le diverse aggregazioni di persone di fede.

  Va tenuta ferma la linea guida del “Nulla senza di me, nulla non solo da me”. Ma una cosa è discutere e decidere sull’orario delle messe domenicali e sul gruppo che le dovrà animare, altra affinare il dogma trinitario. Quest’ultimo ha in genere scarsissima rilevanza per la vita di fede usuale di gran parte dei fedeli e si risolve per loro solo in un formula da imparare a memoria. L’altra questione è invece molto più importante perché in base a come si decide si regola l’organizzazione delle proprie domeniche.

   E’ consigliabile, per sviluppare una sinodalità popolare, che coinvolga la maggior parte possibile delle persone di fede, che le procedure di dialogo e di decisione siano tanto più estese e coinvolgenti quanto più le materie da decidere sono vicine alla vita della gente. Questo comporta anche che nelle decisioni per così dire di prossimità l’informazione sulle questioni in decisione, necessaria per una partecipazione consapevoli, sia più completa e chiara di quanto è necessario per rendersi genericamente conto degli altri contesti, ad esempio sulla questione se ammettere la liturgia della messa in latino secondo il rito che si usava prima della riforma del Concilio Vaticano 2°.

  In concreto può essere difficile discriminare. Ad esempio: se si vuole costruire una nuova ala  del complesso parrocchiale o una nuova chiesa parrocchiale al posto di quella che c’è, una decisione che coinvolge la proprietà immobiliare e che, dal punto di vista della manifestazione di volontà rilevante all’esterno, compete al parroco, il quale  per legge rappresenta la parrocchia come ente ecclesiastico, chi dovrà essere coinvolto nelle relative decisioni, dall’approvazione del progetto, alla scelta delle imprese costruttrici, all’assunzione di un mutuo? Adesso è una questione che coinvolge solo il clero, in persona del parroco e del responsabile dell’ufficio che in Diocesi cura l’istruzione della pratica per l’autorizzazione da parte del vescovo, qualora sia necessaria. Ma pensare che tutte  le persone di fede debbano sempre  essere coinvolte in tutto mi pare sovrabbondante, anche perché la maggior parte della gente non ha tempo nella sua vita per occuparsi di tutto. E’ necessaria, anzi indispensabile, una divisione del lavoro, come in ogni altro campo sociale.

Mario Ardigò  - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

 

domenica 25 settembre 2022

Sviluppare la sinodalità

 

Sviluppare la sinodalità

 

  Nella scorsa primavera ci siamo riuniti, in parrocchia, nel quadro della fase  di ascolto avviata nel precedente autunno nel processo di riforma sinodale delle nostra Chiese, ma di sinodalità ecclesiale non abbiamo parlato, né ci è stato parlato.

  La sinodalità si impara, non viene naturale, perché, come è stata proposta ai nostri tempi, non è mai stata vissuta prima. E, bisogna aggiungere, la si impara sperimentandola, proprio perché è qualcosa di veramente nuovo.

  Ma che cos’è la sinodalità?

  Lasciamo da parte la teologia, in particolare quella più efferata e ostile alla sinodalità, vale a dire quella dogmatica. Lo è perché storicamente è stata costruita come strumento del potere ecclesiastico e tra i cattolici quest’ultimo è, oggi, ancora, un’autocrazia autoritaria, che naturalmente resiste al cambiamento che ne mette in questione quella struttura.

  La sinodalità, come oggi papa Francesco la vorrebbe, è uno stile di relazioni ecclesiali per cui tutte le persone di fede siano più coinvolte in ciò che si decide e si fa, secondo il principio “Non senza di me, non solo da me”. Alla base vi è il riconoscimento dell’importanza di come la fede è vissuta dalla gente, la quale ora non conta nulla e sembra che non sia neanche essenziale per manifestare una Chiesa. Secondo questa idea, dove c’è un prete c’è una Chiesa, ma ci possono essere un milione di persone di fede senza un prete e allora la Chiesa non c’è ancora. Questa, che appare una vera sciocchezza, ma anche una presuntuosa cattiveria antipopolare, è stata argomentata teologicamente ed è stata, in parte, superata solo con la riforma attuata nel Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Che sia una sciocchezza è evidente, lo può capire chiunque, solo riflettendo sul fatto che il Maestro, morendo, non ci ha lasciato preti, un clero. Quest’ultimo ha cominciato a manifestarsi solo diversi decenni dopo e, ad esempio, è testimoniato nella Lettera ai Corinzi  del nostro Clemente romano, vescovo di Roma alla fine del Primo secolo.

  Il problema principale della sinodalità non è stabilire chi comanda, ma come si sta insieme nella fede. La partecipazione più ampia alla fase decisionale deriva da come si sta insieme.

  Bisogna quindi capire se c’è ancora necessità di stare insieme per questione di fede. Altrimenti la fede, e la religione che è il modo in cui è vissuta collettivamente, diventa inutile e prima o poi svanisce.

  In genere non mi pare più tanto chiaro di quanto sia importante vivere la fede insieme ad altri. Molti praticano la religione come tecnica di tranquillizzazione dell’animo e di rilassamento. Ma, per la verità, esistono in questo campo altre tecniche altrettanto efficaci e meno impegnative sul piano dell’etica. E quella pace dello spirito  che si prova dopo certe pratiche religiose è più che altro un effetto neurologico prodotto dalla biochimica che sorregge la nostra mente. Se tutto si fosse ridotto a questo, i cristianesimi non avrebbero potuto svolgere quell’importantissimo ruolo di artefici di civiltà, nel bene e nel male, che sappiamo.

  Frequentiamo la parrocchia, ma non stiamo veramente insieme. Non ci conosciamo, e questo non deve meravigliare perché, come scrivo spesso, per nostri limiti biologici di specie, non siamo in grado di avere relazioni profonde con più di  una trentina di persone. Ma le società umane sono molto più vaste ed è proprio per tenerle insieme che è servita, e ancora serve, la religione. Negli ultimi decenni il declino della vita religiosa collettiva è infatti coinciso con uno sfaldamento del tessuto sociale nazionale. In Italia ciò si è avvertito più che altrove perché l’architettura della nuova Repubblica istituita nel 1946 ha visto la partecipazione fondamentale delle persone di fede cattoliche, che hanno trasfuso nei suoi principi fondamentali costituzionali alcune idee chiavi del loro pensiero sociale.

  Il popolo si è allontanato e, per un po’, la gerarchia, il clero e i religiosi, vale a dire ciò che per antonomasia si intende per Chiesa, quando si dice e si scrive “La Chiesa ha detto; la Chiesa insegna; la Chiesa ha deciso”, hanno pensato di poter fare da sé. Ma naturalmente non ha funzionato. Però insistono per quella via, confortati dalla teologia da loro stessi indotta, che vuole convincerli che possono fare da sé. Poi è venuto papa Francesco e ha cercato di cambiare questa situazione cominciando dalla gente. Si è fatto fare un dotto parere dalla Commissione Teologica Internazionale e poi ha cercato di sollecitare l’episcopato a sviluppare la sinodalità. Constatato che le sue parole cadevano nel vuoto ha deciso di avviarla d’imperio. Cosa che è avvenuta lo stesso autunno. Tuttavia nulla è ancora cambiato. Si è inscenata una fase di ascolto del Popolo di Dio che è stata solo una finzione, tutto è rimasto nelle mani di vescovi, clero e religiosi, non è cambiato nulla, e procedendo così non cambierà nulla. Il Papa, nel frattempo, si è fatto ancora più anziano e ha fatto capire di essere verso la fine del suo ministero. Ad un certo punto lascerà, come il suo predecessore. Questo, appunto, attendono quelli che non hanno nessuna voglia di proseguire sulla via dello sviluppo della sinodalità.

  Qual è, in questa situazione, la missione dell’Azione Cattolica, che ha al centro del suo impegno lo sviluppo della riforma deliberata dal Concilio Vaticano 2°? Credo che sia quello di cominciare a ragionare, praticare, sperimentare la sinodalità e premere perché si cominci ad attuarla da subito in realtà di base come le parrocchie.  Un lavoro che abbiamo iniziato prima dell’estate e che, credo, dovremmo proseguire anche nel prossimo anno liturgico. Cercando di coinvolgere con continuità più persone possibile, in modo da innescare quel vivere insieme la fede  che produce sinodalità, e quindi poi, esigenza di partecipazione anche alle decisioni.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.

sabato 24 settembre 2022

Noi e il soprannaturale

 

Noi e il soprannaturale

 

 Perché non scrivo quasi mai delle cose di cui si occupano i teologi, insomma del soprannaturale?

  Principalmente perché non sono un teologo. La teologia, intorno al Tredicesimo secolo, è divenuta una scienza, ha il suo metodo rigoroso e richiede conoscenze minime di base che io non ho.

  Altra cosa è il teologhese,  il gergo a sfondo teologico parlato nell’associazionismo cattolico: è impreciso e confuso, non mi servirebbe e non vi servirebbe a nulla. Del resto, a chi ne senta necessità, non difettano i mezzi per abbeverarsene: viene usato dalla gran parte delle fonti religiose destinate ai fedeli.

  Inoltre, per quanto sembri paradossale, la teologia, come la si pratica tra i cattolici ed altri cristiani, non fa parte dell’essenziale della religione, ma dell’organizzazione del potere ecclesiastico. Quindi ha più a che fare con il diritto. Proprio per questo, in tempi di riforma è più che altro di ostacolo, almeno agli inizi.

  Storicamente la teologia è stata strumento di un potere ecclesiastico esercitato brutalmente, che l’ha anche plasmata. Tra i cattolici la teologia in genere non ragiona ancora in modo sinodale. Riuscirà a farlo quando, progredendo il movimento per la riforma sinodale, la sinodalità si diffonderà nella pratica religiosa e allora ci si ragionerà sopra per costruirvi istituzioni rinnovate. Tuttavia questo rinnovamento è già sensibile, in particolare tra le teologhe. Il problema è che i teologi che sono anche preti o religiosi rischiano il posto di lavoro, perché la gerarchia sa essere spietata contro i dissenzienti e i rinnovatori, del resto in linea con una lunghissima e triste tradizione.

  Questo anche se negli ultimi anni, sull’impulso del movimento sinodale che il Papato di Francesco vorrebbe innescare, i teologi si sono confrontati ampiamente su sinodo e sinodalità e anche in Italia sono usciti diversi testi in merito destinati anche al largo pubblico, non solo agli specialisti. Ne ho letti di molto interessanti. Hanno tentato di ancorare la nuova sinodalità secondo papa Francesco a ciò che c’è stato nei due millenni precedenti, ma infruttuosamente, mi pare. Si tratta in realtà di un bello stacco rispetto ad essi. Impossibile, in particolare, viverla mantenendo integra l’attuale struttura gerarchica del potere ecclesiastico, egemonizzata da un clero tutto maschile e strutturata sull’antico modello feudale. Questo spiega perché l’episcopato italiano ha diretto il processo sinodale avviato lo scorso autunno cercando di farne solo una specie di liturgia dominata dal clero, riducendo a nulla la fase dell’ascolto.  Finora, quindi, nulla  ne è scaturito. In Germania, dove si stanno celebrando le ultime fasi di un lungo sinodo nazionale che ha visto la partecipazione in ruoli di primo piano delle persone laiche, è andata diversamente, ma lì è venuto l’ordine di arrestarsi da parte della Curia Vaticana, e vedremo se sarà obbedito. Si tratta, in questo caso, della manifesta sconfessione del principio di sinodalità che invece si vorrebbe porre a base della riforma.

  Quando parliamo di praticare la  sinodalità, che è una modalità di relazione tra le persone, non abbiamo bisogno della teologia, ci bastano i miti religiosi di base. Quando parlo di mito  non intendo favola, racconto immaginario, insomma qualcosa di sostanzialmente falso. Il mito è una narrazione esplicativa che dà senso alla socialità umana e rende possibile costruire società immensamente più ampie dei piccoli gruppi di individui in cui, altrimenti, saremmo confinati per limiti biologici di specie. Ogni mito, anche se espresso in termini immaginifici, ma qui è questione solo di genere letterario, è necessariamente aderente alla realtà come è vissuta da una data società. Quindi è qualcosa di molto serio, tanto che ad esso si affida il senso della vita collettiva e personale.

  Certamente nel mondo c’è il soprannaturale: principalmente è dato dalle società umane che cercano di staccarsi dalla crudele legge di natura, dove vige la legge del più forte e i più deboli vengono eliminati e, se appetitosi, anche mangiati. Eppure noi siamo viventi naturali, non dobbiamo mai dimenticarlo. E si postula che la natura sia stata creata: ne parliamo infatti come della Creazione.  Dunque, e questa è un’idea molto antica, ci parla del Creatore. Ne scrisse, tra gli altri, Galileo Galilei [1564-1642], che viene ritenuto il precursore del metodo delle scienze naturali. Alla sua epoca, si riteneva che la natura fosse una prova  dell’esistenza di un Creatore come la teologia lo immaginava. Quindi si perseguitava chi, studiando la natura, ne ricavava dati che non corrispondevano a quell’immagine. Galilei sostenne che la natura è come un libro, che può essere letto da chi ne intende il linguaggio e, come la Bibbia, ci parla del volere del Creatore rendendo intelligibile l’opera sua,  la sua Creazione. Il problema è saper leggere quel libro.

  Ma la natura, assoggettata com’è alla legge della violenza, non ci parlerebbe di un Creatore buono, se nella Creazione  non fosse compresa l’umanità. Essa è parte della natura, ma, al tempo stesso, vorrebbe superarne la violenza. Quest’ultima è profondamente connaturata all’animo umano, ma, al tempo stesso, tende a distruggere le società umane, essendo quindi, per esse, un male. Da qui, quindi, il mito della caduta, alle origini, e l’anelito alla liberazione da quel male.

  Ecco come, nel racconto biblico della Creazione, nel libro della Genesi, al Sesto giorno, si immagina una natura animale libera dalla necessità di uccidere per alimentarsi, vegetariana per così dire:

29.Dio disse:
«Vi do tutte le piante con il proprio seme,
tutti gli alberi da frutta
con il proprio seme.
Così avrete il vostro cibo.

30.Tutti gli animali selvatici,
tutti gli uccelli del cielo
e tutti gli altri viventi
che si muovono sulla terra
mangeranno l’erba tenera».
E così avvenne.

31-E Dio vide che tutto quel che aveva fatto
era davvero molto bello.
Venne la sera, poi venne il mattino:
sesto giorno.

[Dal libro della Genesi, capitolo 1, versetti da 29 a 31 – Gen 1,29-31]

 

  Ora, se ci fermiamo al mito biblico, prescindendo da tutto l’enorme, e a tratti efferato, apparato teologico che ci si è costruito sopra, vediamo descritta realisticamente la nostra situazione di esseri umani in questo tempo: viventi, parti della natura secondo la loro biologia, che anelano a superare la natura verso un ordine sociale tra loro libero dalla violenza, per poi, chissà?, cercare di estenderlo ad ogni vivente del quale abbiano la responsabilità. In filosofia e in teologia, che condividono gran parte del loro linguaggio specialistico, superare  si dice trascendere e quell’ordine pacificato di cui sentiamo prima o poi il desiderio struggente, come se ci fosse stato tolto e andasse recuperato, ciò che il grande musicista Luigi Nono descrisse come “Nostalgia del futuro”, ma che contrasta duramente con la società e la natura in cui siamo immersi,  è la trascendenza e, in quanto, trascendente, è il soprannaturale.

 E’ appunto  questo suo orientamento trascendentale, quindi diretto a superare ciò che c’è nella natura e nella società, che porta la persona umana all’insoddisfazione verso gli ordinamenti sociali suoi contemporanei, che al tempo stesso la fanno sopravvivere ma anche la limitano e l’opprimono. La Chiesa, intesa come società che esprime istituzioni, in questo non è differente, e qui si prescinde dal  suo profondo legame con il divino, descritto, nei limiti delle sue possibilità, dalla teologia.

  Osservare la società che si manifesta nelle nostre Chiese è importante, perché è, insieme, natura che ci parla, ma anche umanità che ci parla del suo desiderio di soprannaturale come liberazione da un presente oppresso dalla violenza. Così, per riformare la Chiesa non bastano Bibbia e teologia. Ecco il senso della fase di ascolto  che papa Francesco ha cercato, finora senza molto successo, di avviare al principio del processo di riforma sinodale da lui, e, ripeto, più o meno solo da lui, promosso.

  Finché questo processo sinodale non vedrà la possibilità di partecipazione reale della gente, ma sarà solo un’altra  liturgia dominata da vescovi, clero e religiosi, con tutti gli altri silenziati  o ridotti a recitare un copione scritto da altri registi, non ne uscirà fuori nulla e procederà il triste cammino verso la dissoluzione della nostra religione, diventata ormai socialmente inutile, almeno agli europei contemporanei.

  Perché in tutto il resto del mondo, invece, le religioni sembrano prosperare e, anzi, in grande recupero? Fondamentalmente, perché, da quelle parti si vive una religione che non mette ancora in questione la necessità della violenza sociale come strumento di consolidamento delle istituzioni. L’opposto della sinodalità. Accade anche nell’Europa contemporanea: l’altro giorno il patriarca ortodosso Cirillo di Mosca ha lanciato l’appello a una guerra santa, a una vera e propria crociata contro un altro popolo in larga parte ancora cristiano, gli ucraini, asserendo, proprio come al tempo delle stragiste Crociate del Medioevo europeo,  che, chi morirà combattendola, sarà accolto nella pace del Padre. Parole blasfeme secondo l’ordine di idee di papa Francesco più volte, e di recente anche durante il Congresso dei leader delle religioni mondiali ad Astana – Kazhakistan, da lui insegnato.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

venerdì 23 settembre 2022

Sinodo, comunione, religione

 

Sinodo, comunione, religione

 

    Si è scritto che la sinodalità  ha a che fare con la comunione.  Ma in che senso?

  Prescindendo dal rigoroso senso teologico del termine, possiamo descrivere la comunione come un effetto sociale che si ha mantenendo in comune  una mitologia di unità pur nelle controversie e divisioni che caratterizzano le dinamiche sociali.

  Il mito   è una narrazione che ha la funzione di dare senso  a una situazione o a un evento. Ogni persona costruisce in fondo su sé stessa un proprio mito. Però quando si parla di mito,  senza altre precisazioni, si intende una narrazione destinata a dare un senso all’agire sociale.

   Le religioni, tutte quante quelle che conosco, sono fatte di miti, di riti, di spiritualità e di una organizzazione per creare comunione mediante essi.

   La spiritualità è una forma di manifestazione della nostra mente, condizionata dalle basi biochimiche dell’emotività. Non è necessariamente legata alla religiosità. Ve ne sono, ad esempio, forme totalmente desacralizzate come quella della Mindfulness, la procedura di tranquillizzazione del corpo e della mente elaborata dal biologo statunitense Jon Kabat-Zinn osservando le tecniche orientali di spiritualità.

  La nostra è una mente emotiva (ne ha scritto il premio Noble Daniel Kahneman in Pensieri lenti e veloci, edito in traduzione italiana da Mondadori, anche in e-book): questo significa che capiamo  anche mediante le emozioni. Queste ultime sono reazioni biologiche che solo parzialmente sono sotto il nostro controllo cosciente e che sono prodotte dalla biochimica del nostro corpo sulla base di un’organizzazione neurologica che l’evoluzione ha prodotto circa 200.000 anni fa.

  La nostra mente, per i suoi limiti biologici di specie che dipendono da  come è fatto il nostro sistema neurologico, ci confinerebbe in gruppi molto piccoli, più o meno di una trentina di individui, le dimensioni sociali dei gruppi degli altri primati nostri contemporanei. Di più: è stato osservato sperimentalmente che, per quei limiti biologici, non siamo in grado di sostenere una conversazione con più di altre tre persone contemporaneamente. Quando ci si incontra in gruppi maggiori, ci si divide in sottogruppi di non più di quattro persone o si decide di ascoltare tutti una sola persona, e allora è come se si conversasse in sole due persone. Ma, in quel caso, la relazione è solo immaginaria, in realtà c’è una persona che parla e tutte le altre che ascoltano, una vera conversazione non c’è. Si parla uno alla volta, è la regola degli incontri in  gruppi fino a una trentina di persone. In gruppi più grandi è impossibile che tutti parlino e che, insieme, siano anche ascoltati da tutti. Per superare questi limiti si ricorre al rito, a una procedura formalizzata basata su un mito sociale che induce una spiritualità personale. Dopo, tutti si sentono in comunione, ed è emotivamente come se ci si fosse realmente parlati. Questo ha reso possibile il governo di società sempre maggiori. Ad un certo punto sulla religione hanno inciso elementi culturali razionalizzanti ed è sorto il diritto. Quest’ultimo non è fatto solo di regole, ma sempre anche di miti, senza i quali non avrebbe forza sociale. Di solito, questi miti si trovano riassunti nei preamboli delle Costituzioni degli stati che si sono dati una costituzione. Dall’Ottocento in Europa sono stati elaborati miti nazionali, che prima non c’erano, per sorreggere il coinvolgimento sempre più ampio delle masse nelle faccende di governo. Al centro di essi vi è l’idea di popolo, che, in senso specificamente politico, è transitata anche nella dottrina sociale contemporanea. La concezione biblica di Popolo di Dio è profondamente diversa.

  La sinodalità come oggi viene proposta nel magistero di papa Francesco, che ha profondamente innovato in questo campo, incide su tutti i quattro aspetti della religiosità: il mito, il rito, la spiritualità, l’organizzazione.

  Perché non si può continuare come prima?

  Come prima, naturalmente, non significa  come sempre, perché la  nostra religiosità è sempre profondamente mutata di generazione in generazione, seguendo le trasformazioni sociali. La regola non è la fissità, ma il mutamento.

  Anche i concetti fondamentali della nostra teologia, il discorso razionalizzante sulle convinzioni religiose, hanno avuto uno sviluppo storico e, in genere, un inizio piuttosto distante dalle origini. E’ il caso dell’idea di Trinità, che fu introdotta dallo scrittore cristiano africano Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, nato a Cartagine e vissuto tra il Secondo e il Terzo secolo. Poiché aderì ad un movimento religioso che non ebbe successo tra i vescovi dell’epoca, quello fondato da un immaginifico personaggio vissuto in Anatolia, Montano, non viene considerato un Padre  della Chiesa.

  Come prima, vale a dire come si faceva fino agli anni Cinquanta non si può continuare, anzi ritornare, perché la società è molto cambiata e se la religione non darà risposte valide alle sue esigenze di comunione, allora si estinguerà, come si sono estinte le religioni precristiane.

  Sono i modi della nostra partecipazione sociale ad essere molto cambiati. Vogliamo capire meglio e, soprattutto, poter in qualche modo aver parte nelle decisioni che si riguardano. La sinodalità consiste essenzialmente in questo. Oggi, nella nostra Chiesa, non c’è, o almeno non c’è nei riti e nell’organizzazione ecclesiastica, mentre si sta sviluppando nei miti e nella spiritualità. I cambiamenti in religione iniziano a manifestarsi prima di tutto nei miti e nelle spiritualità in cui le dinamiche sociali incidono direttamente, senza alcuna mediazione. L’organizzazione, che di solito governa i riti, di solito resiste.

  La procedura di riforma sinodale avviata da papa Francesco dovrebbe servire a comporre la disomogeneità che si è venuta manifestando tra miti e spiritualità da una parte e riti e organizzazione dall’altra. Non si tratta di un lavoro facile, perché non basta inventarsi una nuova narrazione che metta di nuovo tutto insieme, ma anche fare i conti con l’emotività delle persone.

  Quando proclamiamo “Credo” impegniamo anche la nostra emotività.

  Ma il fatto che si stiano manifestando nuove esigenze di spiritualità non significa che dappertutto sia così. Le generazioni coesistono ma spesso risultano impermeabili le une alle altre. E qui viene in rilievo in primo luogo un problema generazionale, ma più che altro di mentalità generazionale.  Chi, ad esempio, come me è stato adolescente negli anni ’70 ha profondamente introiettato nuove esigenze di spiritualità che all’epoca cominciarono a manifestarsi ma che nei decenni seguenti furono disconosciute. Nella misura in cui ad esse è ancora legato, si presenta con una mentalità più giovane  rispetto a una persona, anche anagraficamente più giovane, che è però legata alla spiritualità precedente.

  Ecco che, quindi, abbiamo a che fare con il problema del pluralismo, che comporta, se si prende sul serio la sinodalità, di accettare la coesistenza di più forme sociali religiose diverse, adattando a questa situazione miti e riti. Non bisogna farne un dramma o pretendere, come nel nostro tremendo passato religioso, l’uniformità. Ma, sotto questo aspetto, l’organizzazione ecclesiastica, rigidamente gerarchica, almeno sulla carta, quindi per nulla sinodale (nel senso sopra precisato), resiste strenuamente e, francamente, appare che il Papa, per quanto sulla carta praticamente onnipotente, non possa farci nulla.

  Del resto, una sinodalità solo per ordine gerarchico è un controsenso. E’ importante, come ha fatto il Papa, aprire un processo, ma poi devono essere le dinamiche sociali, la gente, a manifestarsi. Vedremo come andrà. C'è da fare anche per noi.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

mercoledì 21 settembre 2022

Sinodalità: cominciamo dall’inizio

Sinodalità: cominciamo dall’inizio

 

  Cominciamo dall’inizio: che cos’è la sinodalità? Su questo non si è d’accordo. Però si può cercare di discutere per trovarlo. Questo è appunto un modo sinodale di procedere. Dove non lo si può fare non c’è sinodalità. Ed è proprio questa in genere la situazione delle nostre Chiese in Italia. C’è chi dispera di riuscire a cambiarla e chi invece teme che ci si riesca. Ognuno, così, diffida dell’altro e lo vede come un pericolo.

  Uno storico della Chiesa che conosco ha detto che la gerarchia ecclesiastica non accetterà mai una Chiesa che agisca in modo sinodale perché ciò comporterebbe di mettere in questione proprio l’ordinamento gerarchico, che è diventato tanto importante per noi che lo si definisce santo.   Santo etimologicamente significa che qualcosa non si può cambiare sotto pena di una sanzione. Vale per inviolabile. È più o meno lo stesso che sacro, anche se questa parola è legata all’idea che qualcosa sia inviolabile perché legata ad una divinità. La parola italianagerarchia porta in sé il sacro, ma nella versione del greco antico ἱεραρχίαche si legge ierarchìa e che significa il comandare in ciò che è sacro, dove il sacro sta nel nello ier-, che deriva da ἱερὸς, che si legge ieròs, e che, appunto, significa sacro. Quindi dire la santa gerarchia, significa voler intendere un potere inviolabile nel massimo grado, santissimo, chi lo tocca deve attendersi una tremenda sanzione dall’alto. Questo spiega perché i riformatori nella nostra Chiesa abbiano fatto spesso una brutta fine. Non perché il male fosse giunto loro effettivamente dall’alto, ma perché la gerarchia, presentatasi in questa come plenipotenziaria del Cielo, si incaricò di liquidarli o, almeno, di tentare di silenziarli.

  Veramente la costituzione gerarchica della nostra Chiesa è incompatibile con ciò che intendiamo con sinodalità? Sì e no. Di nuovo, il problema è di che cosa si intende per sinodalità.

  La nostra gerarchia ecclesiastica è strutturata in modo che la volontà del potere scenda dall’alto in una sorta di piramide, dove alla base c’è la quasi totalità dei fedeli, che non contano nulla. Ogni figura di potere comanda su quelle dei gradi inferiori ed e comandata da quelli superiori e, sopra tutti, c’è il Papa che, almeno sulla carta della legge ecclesiastica,  può tutto ciò che vuole, perché è considerato plenipotenziario e luogotenente del Cielo, con le sue potenze invisibili. Naturalmente le cose non sono così semplici e, in concreto, può avvenire, ed è avvenuto, che livelli inferiori influiscano verso l’alto. In certa misura è anche accaduto che chi in questo schema non conta nulla, e sulla carta non potrebbe decidere nulla, abbia dettato la linea verso l’alto. Questo è avvenuto in maniera molto eclatante nelle nostre Chiese in Europa occidentale negli ultimi sessant’anni. La gerarchia è per così dire andata a rimorchio della gente che non contava nulla secondo l’ordinamento ecclesiastico, ma che aveva finito per contare molto per la sua capacità politica di governare secondo metodi democratici, vale a dire quelli in cui ciascuna persona può in qualche modo influire sulle decisioni che la riguardano, e quindi può anche discutere su di esse. Allora, sinodalità può significare il prenderne atto e strutturare delle procedure che consentano di farlo con sistematicità. Questo è il senso del movimento per la sinodalità che pervade alcune delle nostre Chiese europee, come quella tedesca e quella Italiana. Per la gerarchia, però, sinodalità non ha quel senso, ma è intesa come quella liturgia, organizzata da clero e religiosi, nella quale le persone di fede accettano liberamente di non contare nulla, di non decidere nulla, di non discutere nulla, come per secoli s’è fatto. In questa prospettiva sinodalità gerarchia sono effettivamente incompatibili. Com’è allora che proprio il massimo gerarca, vale a dire il Papa,  vorrebbe promuovere una Chiesa sinodale? Perché la Chiesa tiranneggiata dalla gerarchia non va tanto bene e o si va dissolvendo o cade nelle mani di poteri che le assomigliano, come sta accadendo in quest’epoca  nella Federazione russa.

  I gerarchi però osservano che una Chiesa così non c’è mai stata, e tutto sommato hanno ragione. In una Chiesa come la nostra dove i costumi antichi sono tenuti in grande considerazione questo è un argomento importante. Però, discutendo con spirito sinodale di antichità, bisogna anche osservare che la gerarchia ecclesiastica non risale certamente alle origini, è frutto di un’evoluzione sociale che si è prodotta verosimilmente a cavallo tra il Primo e il Secondo secolo, con l’istituzione del sacerdozio ministeriale prendendo spunto da quello dell’antico ebraismo. Per dire: gli apostoli non furono né preti né vescovi.

  I primordi di questo processo che si concluse circa millecinquecento anni dopo le comunità delle origini sono piuttosto misteriosi, come anche la spiegazione di come la gerarchia da nemica dell’ordinamento imperiale romano ne sia divenuta parte integrante a partire dal Quarto secolo. Quello che importa è però prendere consapevolezza che ciò che c’è ora non è nato così com’è ora, ma che si è formato in metamorfosi durate millenni, recependo le culture in cui le comunità di fede erano immerse. Dunque le pretese di inviolabilità di ciò che storicamente è stato cambiato lasciano un po’ il tempo che trovano. E possiamo anche tranquillamente riconoscere che, nella storia delle nostre Chiese, nessuna generazione ha lasciato le cose così come le ha trovate. La regola, insomma, non è stata l’inviolabilità ma il cambiamento. Ciò che è rimasto caratteristico delle Chiese cristiane dalle origini fino ad oggi è un continuo cercarsi, il non sopportare di vivere la nostra fede ciascuno confinato nel proprio ambiente sociale disinteressandosi degli altri. Fin dalle origini si è viaggiato molto, ci si è parlati molto, per cercare di intendersi per manifestare ciò che presto venne definito comunione. Questa, appunto, è sinodalità.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

  

  

martedì 20 settembre 2022

Sinodo: riprendiamo

Sinodo: riprendiamo

 

 Il mese prossimo il nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica ricomincerà le riunioni infrasettimanali.

  Nella prima parte di quest’anno abbiamo riflettuto molto su sinodo e sinodalità, dopo che un anno fa papa Francesco ha voluto iniziare dalla base dei fedeli un processo sinodale destinato a riformare la nostra Chiesa. Contemporaneamente i vescovi italiani hanno avviato un analogo processo dedicato a cambiare specificamente il modo di fare Chiesa locale in Italia. Si voleva cominciare, in entrambi gli ambiti, ascoltandoci. Siamo stati quindi invitati a parlare con franchezza della nostra esperienza sinodale. In parrocchia abbiamo tenuto alcune riunioni a questo fine. Qualcosa dovrebbe essere stato scritto in merito alla Diocesi, perché poi, in quella sede, fosse elaborata una sintesi del lavoro di tutte le parrocchie romane da inviare alla Conferenza Episcopale Italiana. Quest’ultima, sulla base del lavoro di tutte le Diocesi italiane, dovrà riferire al Sinodo dei vescovi, competente per tutto il mondo, e anche organizzare studi, incontri e riflessioni per il sinodo italiano. Un moto che, come voluto da Papa Francesco,  dovrebbe andare dal basso verso l’alto per poi ritornare verso il basso, dove l’ “alto” sono i vescovi.

  Va osservato, però, che nel pensiero di papa Francesco c’è anche un rovesciamento del modello “fedeli in basso/vescovi in alto”, in uno schema piramidale dove il basso è la base della struttura, dove stanno i più. Il Papa immagina una piramide rovesciata dove in alto stanno i più e i vescovi in basso. Siamo molto lontani, però, dal realizzarlo. Infatti, semplicemente, i più non contano nulla nella nostra Chiesa e decidono tutto il clero e i religiosi, e, tra il clero, i vescovi e il Papa. Anche per il diritto canonico deve funzionare così.

  Ma perché poi bisognerebbe ascoltare chi non conta nulla? E infatti i più non sono stati ascoltati, anche quando sono riusciti a parlare. I vescovi italiani hanno organizzato la fase cosiddetta, pomposamente, dell’ascolto del Popolo di Dio come una liturgia e, tra i cattolici, nelle liturgie i fedeli non parlano se non per leggere ciò che c’è scritto sul foglietto.

  In parrocchia s’è parlato, ma poi non è cambiato nulla: segno che non s’è ascoltato. Non ne faccio una colpa ai nostri bravi preti, che hanno deciso tutto, se non per il fatto, appunto, di aver deciso tutto loro, in modo non sinodale, del resto sulla base di quanto era stato loro comandato dai vescovi. Bisognava inscenare l’ascolto ed è stato organizzato. Si è dato l’apposito avviso durante la Messa e la quarantina che si sono presentati hanno discusso in gruppi sui temi proposti nel manifesto del sinodo, riadattati dalla Diocesi. È mancata la fase fondamentale di un processo sinodale: la discussione sul metodo. Chiamati a provare ad essere sinodali non si è nemmeno provato a sentire come ci sarebbe piaciuto organizzare il lavoro. Dico che non ne faccio una colpa ai preti perché sono persone che danno tutto loro stessi nel loro ministero e fanno come è stato loro insegnato e ordinato di fare. Alla fine della giornata sono esausti e lo sono perché fanno tutto loro e il tempo così non basta mai. Ma come potrebbe essere diversamente? Da un lato un pugno di preti e dall’altro circa ottomila persone, tanti possono essere stimati coloro che gravitano sulla nostra parrocchia per le loro esigenze di fede. La soluzione, però, sembrerebbe a portata di mano: è appunto la sinodalità, coinvolgere più persone nella decisione e realizzazione. Che cosa impedisce  di prendere quella via? È una questione antica. È dovuto alla profonda diffidenza di clero e religiosi verso tutti gli altri, che è lo specchio di quella dei vescovi. Ci vorrebbero sempre eterni fanciulli, docili ad ogni loro comando. Ma quando si era bambini si ragionava da bambini, e ci si lasciava condurre, ora siamo donne e uomini che ragioniamo come tali, ma di fronte a clero e religiosi facciamo finta di essere pupe e pupi, e poi facciamo come ci pare. Tutti fanno finta che funzioni, ma non è così.

  Dunque il primo passo di un vero processo sinodale è abbandonare l’ipocrisia per cui noi fedeli facciamo finta di ubbidire e clero e religiosi fanno finta di essere obbediti. Bisogna parlarci con franchezza, quella che nel greco evangelico veniva definita parresìa, in modo da mettere le basi di una vera collaborazione,  che significa anche partecipazione. Siamo ancora ben lontani da questo, e penso che questa sia più o meno la situazione sia nelle altre parrocchie che altrove, in tutte le articolazioni ecclesiastiche.

  Adesso in genere si pensa che nelle parrocchie con la sinodalità sia finita, perché ci siamo incontrati nei mesi scorsi e che c’è da dire ancora? Direi che c’è tutto. I più devono ancora capire bene di che si tratta. Non è che tutto si può risolvere con cinque o sei incontri di quaranta persone su ottomila. Bisogna proseguire, in particolare imparando dagli evidenti errori organizzativi commessi.

  La prova dell’insuccesso della nostra prima esperienza di sinodalità è che non è cambiato nulla. I fedeli non contano e non decidono ancora nulla, nemmeno le cose minime, come i giorni e gli orari delle varie attività.

  I preti dovrebbero rendersi conto che non va bene che decidano tutto loro. Così si fa poco, nonostante che loro fatichino molto, ma è come voler svuotare l’oceano con una tazzina. La sede della parrocchia, che dispone di tanti spazi che potrebbero essere usati per incontrarsi, e non ce ne sono altri simili nel quartiere, è semivuota per larga parte del giorno. Uno spreco. I più giovani, in particolare non ci vengono, se non comandati dalle famiglie per poter ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana, poi subito li perdiamo. Scrivo cose risapute.

  Non si tratta di organizzare un concilio o di mettere in discussione la  nostra immaginifica dogmatica: bisognerebbe cominciare a consentire una reale partecipazione nelle piccole cose. Ad esempio incontrandoci per pensare a come organizzare l’assemblea parrocchiale, dove i fedeli possano realmente farsi ascoltare.

   Cominciamo a ragionarci sopra nel nostro gruppo.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

ELEZIONI POLITICHE 2022 -20- Appunti per una scelta consapevole

 

ELEZIONI POLITICHE 2022

-20-

Appunti per una scelta consapevole

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 Da Avvenire on line  del 19-9-22

 

  Il prezzo del pane non è mai stato così salato in Europa. È quanto scrive Eurostat in una nota diffusa oggi in cui osserva che ad agosto il prezzo è cresciuto mediamente dell'Unione europea del 18% rispetto allo stesso mese del 2021. In Italia, l'aumento è stato del 13,5% con un prezzo medio (secondo le associazioni di consumatori) che ormai sfiora i sei euro al chilo. Per Coldiretti la forbice sarebbe invece tra i 3 e i 5 euro al chilo a secondo delle città.

Secondo l'Eurostat, l'Ufficio di statistica dell'Ue, "si tratta di un aumento enorme rispetto all'agosto 2021, quando il prezzo del pane era in media del 3% più alto rispetto all'agosto 2020". L'ente ha evidenziato che "questo è dovuto in particolare all'invasione russa dell'Ucraina, che ha disturbato in modo significativo i mercati globali, dal momento che la Russia e l'Ucraina sono stati grandi esportatori di cereali, grano, mais, semi oleosi (in particolare girasoli) e fertilizzanti". L'inflazione in Italia nel mese di agosto è stata dell'8,4% su base annua con forti rincari sui beni alimentari. Una situazione preoccupante soprattutto per le famiglie. Nei giorni scorsi il Codacons, elaborando i dati definitivi diffusi dall'Istat sull'inflazione e analizzando l'impatto dell'aumento dei listini nei vari settori ha stimato in Italia un aumento per il prezzo della pasta del 25% su base annua. L'olio di semi è rincarato del 62,2%, il burro del 33,5%, la farina del 23%. Ma anche il gelato e le patatine fritte sono aumentati del +17%.

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 Con questo intervento si chiude la serie  appunti  per una scelta consapevole, in vista delle elezioni politiche di domenica prossima, 25 settembre.

  E’ stato ricordato che questa volta non sarà come le altre: il parlamento che sta per essere rinnovato dovrà fronteggiare un passaggio di fase storico che ci è capitato addosso tutto sommato imprevisto. Si sta combattendo una guerra europea poco distante da noi. Si affrontano due grandi potenze nucleari: gli Stati Uniti d’America e la Federazione russa. L’Unione Europea, per ora, è riuscita ad evitare che le cose si mettessero come prima delle due guerre mondiali del secolo scorso, originate da una crisi simile a quella vissuta dall’Ucraina. Il conflitto riguarda anche tre diversi sistemi politici, quello statunitense, quello dell’Unione europea e quello russo. Solo l’Unione europea ha tra i suoi valori il mantenimento della pace. La pace continentale è  stata, infatti, uno dei suoi più grandi meriti. Per questa caratteristica è diversa da ogni grande aggregazione politico-territoriale del passato, da ogni grande impero, ma anche da ogni democrazia moderna che l’ha preceduta. La guerra sta innescando una profonda recessione economica. Non se ne uscirà se non mettendo fine al conflitto e, poiché solo per l’Unione europea la pace è veramente un valore, il suo ruolo sarà fondamentale.

 Le cose si stanno mettendo male per noi in economia. Il forte aumento del prezzo del pane, e degli altri prodotti che utilizzano farina di frumento e mais, ne è una spia. Si stanno manifestando gli indizi di una recessione e questo, inevitabilmente, significherà che molta gente perderà il lavoro. E’ il momento di congegnare interventi pubblici a livello europeo per cercare di fronteggiare questa situazione. L’Italia, da sola, per quanto sia ancora una delle grandi potenze industriali del mondo, non ha le risorse per farlo. Nessuno degli stati europei le ha. Ci si salva solo insieme. Questo bisogna avere ben chiaro. E l’ “Europa”, intesa come Unione Europea, non è una qualche potenza distante e sopra noi, ma siamo anche noi: l’Italia ha un ruolo importantissimo nell’Unione, che ha potuto fare a meno della Gran Bretagna, ma non potrebbe resistere senza l’Italia, uno dei tre stati fondatori, con la Francia e la Germania.

  Siamo insieme cittadini italiani ed europei. Questo significa che la stessa solidarietà che sentiamo verso i connazionali dovremmo avvertirla verso tutti gli altri popoli dell’Unione. E invece, spesso, nella campagna elettorale si è presentata come soluzione quella di rivendicare qualcosa nei loro confronti, come se ci avessero defraudato di qualche cosa, e invece tutte le decisioni sono state prese di comune accordo.

  Purtroppo il Magistero non aiuta, perché è tuttora profondamente diffidente verso questa grande realizzazione politica dell’Unione europea, che ha visto il contributo determinante dei cattolici democratici italiani. A ben vedere, le sue riserve sono, in particolare, dirette principalmente verso la democrazia come oggi la si intende, piena di diritti sociali oltre che di diritti di libertà, dove sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche  e condizioni personali e sociali non devono essere motivi di discriminazione tra la gente. Chi si è formato nella nostra Chiesa com’era in passato, del resto non molto lontano, fatica ad abituarcisi. Lo vediamo nel triste fallimento del processo sinodale che papa Francesco ha voluto far iniziare un anno fa e che continua a vedere la persistente umiliazione di quello che pomposamente i teologi definiscono Popolo di Dio, a favore di un sistema autocratico basato su idee di oltre mille anni addietro. Invitati dal Papa ad esprimerci con franchezza evangelica, ci siamo visti subito togliere la parola. Si sente spesso ripetere la sciocca frase “La Chiesa non è una democrazia”. Non lo è, adesso, certamente: ma questo è una sua grave pecca,  non un qualche merito. E’ ben diversa la nostra condizione di cittadini europei!

  Ora è il tempo della riflessione alla luce dei principi.

  La dottrina sociale precedente a papa Francesco è riassunta nel Compendio della dottrina sociale  che è leggibile gratuitamente sul Web all’indirizzo https://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html . Sempre sul sito www.vatican.va trovate i discorsi, le esortazioni apostoliche, le encicliche di papa Francesco e altri suoi testi. Sono molto importanti le encicliche Laudato si’ [2015] e Fratelli tutti [2020].

  La campagna elettorale è stata progettata da quasi tutti i partiti che presentano candidati sulla base dei suggerimenti dati da agenzie di pubblicità, come se si trattasse di vendere un’automobile. Del resto quasi tutti i partiti non hanno più un’organizzazione di partecipazione capillare sul territorio e quelli che l’hanno mantenuta non sempre lo hanno fatto in modo soddisfacente, per cui non di rado appare fatta di comitati elettorali. Questo ha comportato che ci si è azzuffati prevalentemente su questioni personalistiche, riempiendo i discorsi di promesse irrealistiche, evadendo le questioni vere, che nell’articolo di Avvenire sopra riportato emergono con durezza. Del resto nessun partito, e direi di più nessuna delle contrapposte coalizioni in lizza, appare veramente avere un’idea di come uscirne, e certamente non lo può fare senza suscitare un clima di solidarietà nazionale, come quello che nei giorni scorsi ha animato i tanti volontari che gratuitamente si sono prodigati per soccorrere gli alluvionati delle Marche. L’Italia è anche questo! E’ da lì che bisogna ripartire.

  La nostra Costituzione prevede che

 

Articolo 49

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

 

 Questo significa che il dovere di partecipazione politica non è limitato al voto. Di politica continueremo a dovercene occupare anche dopo le elezioni politiche, in particolare per ottenere che i nuovi parlamentari curino realmente l’interesse di tutti e non solo quello loro e dei loro  amici e, soprattutto, non rovinino la nostra democrazia travagliandola con continue liti per conquistare fette di potere.

 Il metodo democratico: a volte lo si conosce poco, e ancor meno lo si pratica. Significa, innanzi tutto, rispettare la dignità di ogni persona che incontriamo. Senza questo non c’è democrazia, anche se ancora si inscenano procedure elettorali. La nostra Azione Cattolica è una delle grandi agenzie pubbliche che ancora lo insegna, ne fa fare tirocinio fin da molto piccoli e lo pratica. In questo siamo dei privilegiati.

  L’eletto non ha un obbligo giuridico di rispettare le promesse fatte in campagna elettorale, né di essere coerente con la linea che ha prospettato agli elettori. E, del resto, sarebbe molto difficile costringerlo a farlo. Al più lo si potrebbe costringerlo a dimettersi se lascia il partito politico che l’aveva candidato, ma, in questo modo, lo si porrebbe ancora di più nelle mani dei capi partito. E, invece, l’esercizio delle funzioni parlamentari dovrebbe essere un esempio delle libertà attribuite in democrazia ai cittadini. Viene dunque in primo piano la coscienza personale dell’eletto. E, in questo, la continua vigilanza dei cittadini può fare la differenza. Bisogna mantenere il dialogo, ma anche il controllo degli eletti. Devono sentire che chi li ha eletti continua ad occuparsi di loro, chiede notizie, prospetta problemi, anche muove contestazioni e rimproveri.

  Come ho scritto in precedenza, è difficile rimediare ad errori di scelta nel voto per il parlamento. Con una maggioranza sufficiente quest’ultimo può arrivare a cambiare la Costituzione, senza necessità di un referendum confermativo (che ha bocciato le due ultime riforme costituzionali varate da precedenti parlamenti). Il sistema dei diritti costituzionali è la garanzia suprema delle nostre libertà, dei nostri beni, delle nostre vite, di come le istituzioni pubbliche agiranno per soccorrerci all’occorrenza.

  La politica è una forma di carità, disse il papa Pio 11° rivolgendosi tanti anni fa agli studenti della FUCI, gli universitari cattolici. Da allora quell’espressione è stata ripetuta anche dai suoi successori. Ed è proprio sulla carità, quindi anche sulla politica, che verremo giudicati.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli