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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

ON THE WEBSITE www.bibbiaedu.it THE ITALIAN TRANSLATIONS OF THE BIBLE CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONAL IN CURRENT LANGUAGE AND THE BIBLICAL TEXTS IN ANCIENT GREEK AND ANCIENT JEWISH MAY BE CONSULTED. WITH A FUNCTIONALITY OF THE WEBSITE THE VARIOUS TEXTS MAY BE COMPARED.

Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

sabato 30 maggio 2020

Omelie nel tempo del Lockdown


Omelie nel tempo del Lockdown

1.  Dal gennaio 2020 l’Italia è stata colpita dalla pandemia della malattia virale Covid-19 manifestatasi il mese precedente in Cina, nella provincia di Hubei. Il virus che la provocava è stato denominato SARS-CoV-2, del tipo coronavirus perché al microscopio elettronico appare circondato da escrescenze che ricordano, appunto, una corona. La malattia è molto contagiosa, può provocare gravi polmoniti ed è molto pericolosa in particolare tra chi ha più di sessant’anni.
  Dal 9 marzo il Governo italiano, per cercare di limitare i contagi, ha disposto delle misure dette di lockdown, termine inglese che significa confinamento. In sostanza è stata limitata la possibilità di spostarsi fuori casa, salvo casi di lavoro o di altre necessità specificamente indicate. Sono stati vietati gli spettacoli pubblici. E’ stato limitato l’accesso ai luoghi di culto religioso: è stato consentitio solo qualora fosse possibile mantenere tra i fedeli la distanza minima di un metro, senza la formazione di gruppi numerosi. Le autorità della Chiesa cattolica hanno quindi deciso di sospendere le celebrazioni delle messe con la partecipazione del popolo. Questo è durato fino al 18 maggio 2020, quando, a seguito di intese con il Governo, sono riprese, benché con cautele per prevenire il contagio.
  Durante il periodo di lockdown sono state trasmesse in diretta televisiva messe celebrate senza la presenza del popolo.  Ad un certo punto anche nella nostra parrocchia si è iniziato a farlo, aprendo un canale su Youtube:
 Ho trascritto le omelie che vi sono state pronunciate. In precedenza avevo trascritto le omelie pronunciate dal Cardinal Vicario e da alcuni vescovi ausiliari nella cappella Gesù Buon Pastore della Conferenza Episcopale italiana, qui a Roma. Le ho pubblicate sul blog acvivearomavalli@blogspot.it. Le pubblico nuovamente ora, raccolte insieme.  Alle omelie faccio precedere un intervento, che mi è parso molto significativo, dell’Arcivescovo di Milano, Mario Delpini,  all’inizio del lockdown,  e il testo di un discorso da lui tenuto nel dicembre del 2018, con l'esortazione a mantenersi sempre persone ragionevoli e a farlo insieme, condividendo la ragionevolezza.
 Ho trascritto le omelie dalle fonoregistrazioni che ne ho fatto in occasione delle dirette  delle Messe. Ho invece trovato pubblicato sul WEB gli interventi di mons. Delpini,
2. La pandemia da Covid-19  ha sorpreso la nostra coscienza religiosa. Ha messo in crisi la convinzione di molti che le sorti del mondo siano saldamente in mano al Cielo  e che quindi siano dirette come in religione si ritiene che si  debba farlo, quindi seguendo le indicazioni dei maestri della fede. La prima idea è sicuramente implicata nelle nostre convinzioni religiose, un Creatore  c’è,  la seconda no, perché in realtà noi, specialmente quando ragioniamo sui fatti di natura, non vi riusciamo a trovare un senso come ci aspetteremmo che avessero. Cerchiamo di leggere  le dinamiche di natura alla luce della fede, ma esse non sembrano scritte con la lingua della fede. Non è questione della nostra poca fede, per cui, se fossimo maggiormente credenti o sapienti, potremmo capirle. Non dobbiamo colpevolizzarci e colpevolizzare. La difficoltà è reale. La natura, contrariamente alla convinzione a cui in genere giungono i teologi, coloro che ragionano da dotti sulla nostra fede, a volte lascia trasparire un certo senso che si può inserire nella nostra fede, a volte no. Ma ci si può fare poco: è sempre andata così, tanto che se ne parla diffusamente nella Bibbia. Del resto, storicamente, ogni cultura ha espresso ed esprime la sua  religione e ogni religione si è trovata, e si trova, di fronte alle medesime difficoltà. Non solo la natura e le persone, ma anche il Fondamento soprannaturale, sembrano in qualche modo restii a seguire i suoi orientamenti.
 “La fede” - è stato osservato - “un urlo nel buio e nessuno risponde!”.
 Ecco come l’esperienza venne rappresentata dal grande regista Ingmar Bergman nel film Il Settimo Sigillo,  del 1957, mio anno di nascita.
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Un cavaliere di ritorno da una Crociata si ferma, sulla via verso il suo  castello, in una chiesetta nella campagna. I luoghi che attraversa sono colpiti da una pestilenza. Dopo essersi soffermato in preghiera davanti un Crocifisso,  il cavaliere si avvicina ad una grata, al di là della quale intravede un confessore, con indosso un saio nero, con il cappuccio che gli nasconde il volto. Al posto del confessore c’è la Morte, con la quale il cavaliere ha da poco iniziato una partita a scacchi.

Il cavaliere:       Vorrei confessarmi, ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini d’incubo, nate dai miei sogni e dalle mie fantasie.
La Morte           Non credi che sarebbe meglio morire?
Il cavaliere        E’ vero…
La Morte           Perché non smetti di lottare?
Il cavaliere        E’ l’ignoto che m’atterrisce.
La Morte           Il terrore è figlio del buio …
Il cavaliere        Che sia impossibile sapere … Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? … Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me, sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? … Mi ascolti?...
La Morte           Certo…
Il cavaliere        Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza … voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto, e voglio che mi parli! …
La Morte           Il suo silenzio non ti parla?
Il cavaliere        Lo chiamo e lo invoco … e se egli non risponde, io penso che non esiste…
La Morte           Forse è così, forse non esiste…
Il cavaliere        Allora la vita non è che un vuoto senza fine! Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza…
La Morte           Molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose.
Il cavaliere        Ma verrà il giorno in cui si troveranno all’estremo limite della vita…
La Morte           Sì, sull’orlo dell’abisso…
Il cavaliere        Lo so … Lo so ciò che dovrebbero fare! Dovrebbero intagliare nella loro paura un’immagine alla quale dare poi il nome di Dio.
La Morte           Sei molto agitato…
Il cavaliere        Stamane è venuta da me la Morte; abbiamo iniziato una partita a scacchi … col tempo che guadagnerò sistemerò una faccenda che mi sta a cuore.
La Morte           E di che si tratta?
Il cavaliere        Ho passato la vita a far la guerra, ad andare a caccia, ad agitarmi, a parlare senza senno, senza ragione … un vuoto. E lo dico senza amarezza e senza vergognarmene, perché lo so che la vita della maggior parte della gente è tale. Ma ora voglio utilizzare il respiro che mi sarà concesso per un’azione utile.
La Morte           Per questo hai sfidato a scacchi la morte?
Il cavaliere        Sì, conosce il gioco molto bene, ma fino a questo momento io non ho perso una pedina.
La Morte           E credi davvero che alla fine riuscirai a batterla?

più avanti

Durante una sosta per riposare e per consumare un po’ di latte e delle fragole con il suo scudiero e con due saltimbanchi, marito e moglie, conosciuti per via.

Il cavaliere        La fede è una pena così dolorosa … è come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai per quanto lo si invochi…
°°°

  Di fronte ai rovesci della nostra sorte e alle catastrofi della natura, dunque, ci interroghiamo: “Perché?”, “Perché a me?”, “Perché capita a persone incolpevoli?”.
  I predicatori cercano di aiutarci.
  Vivere si deve: si vive anche se non si trova il senso del vivere. Ma, trovando un senso, si vive meglio, e innanzi tutto si possono fare progetti. Senza orientamenti non si può progettare, si è completamente in preda degli eventi.
  Spesso i mali colpiscono solo una parte della gente, così chi si salva si consola e chi è coinvolto spera di uscirne. Ma la pandemia che si è abbattuta sull’Italia ha colpito tutti, ha messo in pericolo tutti, e le misure di prevenzione che si sono rese necessaria per combatterne l’espansione hanno cambiato la vita di tutti, malati o non.
 Come vivere da persone religiose in tempo di lockdown? Si è riusciti a trovare un senso religioso a questa esperienza? In realtà spesso l’abbiamo vissuta più che altro come qualcosa di transitorio, pensando di poter ritrovare presto una normalità, passata l’emergenza. Scienziati e clinici ci avvertono però: il pericolo probabilmente rimarrà a lungo, anche se le  misure di prevenzione che abbiamo imparato ad attuare potranno evitare situazioni come quella che abbiamo vissuto tra febbraio e maggio 2020. Ma, a ben considerare, l’esistenza degli umani è sempre sottoposta ad una certa inevitabile precarietà, anche questo c’è nella Bibbia, anche se, assumendo una mentalità che bada innanzi tutto al giorno per giorno evitando di spingere lo sguardo molto più in là, non ci si pensa. Dunque, la predicazione in tempo di lockdown  può tornare utile anche al di là dell’emergenza sanitaria.
  
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

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MARIO DELPINI
ARCIVESCOVO DI MILANO
 -
La potenza della sua RESURREZIONE (Fil 3,10)
[Voglio solo conoscere Cristo e la potenza della sua risurrezione. Voglio soffrire e morire in comunione con lui]
 -
Messaggio di speranza per questa Pasqua 2020

  Carissimi, avevamo immaginato un’altra Pasqua e anche quanto ho scritto per il tempo pasquale proponeva attenzioni più consuete. Mi sembra giusto riproporre lo stesso testo inserito nella proposta pastorale La situazione è occasione, anche se si rivela fuori contesto. Desidero però accompagnarlo condividendo qualche riflessione per vivere la Pasqua di quest’anno, segnata dal drammatico impatto dell’epidemia e da tante forme di testimonianza di fede, di speranza, di generosità, e da tante forme di angoscia, di paura, di smarrimento.


Non pensavamo che la morte fosse così vicina 



 Noi, vivi, sani, impegnati in molte cose siamo abituati a pensare alla morte come a un evento così lontano, così estraneo, così riservato ad altri: ci sembra persino un’espressione di cattivo gusto quando si insinua l’idea che possa riguardare anche noi, e proprio adesso. Io non so quante siano le persone che muoiono a Milano nei tempi “normali”. Adesso però i numeri impressionano, anche perché tra quei numeri c’è sempre qualcuno che conosco. La morte è diventata vicina, interessa le persone che mi sono care, i confratelli, le presenze quotidiane negli ambienti del lavoro, del riposo. Ogni volta che si parla di un ricovero, ogni volta che si dice: «Si è aggravato» si è subito indotti a pensare che l’esito sia fatale, tanto la morte è vicina, visita ogni parte della città e del Paese. E ogni volta che si avverte un malessere, una tosse che non guarisce, un brivido di paura e di smarrimento percorre la schiena. La morte vicina suscita domande che sono più ferite che questioni da discutere.

 I conti aperti, i lavori incompiuti, gli affetti sospesi insinuano una specie di terrore: «Sì, lo so che viene la morte, ma non adesso, per favore! Non adesso, ti prego; non adesso!». Ma si intuisce che non basta avere un compito da svolgere per convincere la morte a passare oltre il numero civico di casa mia. La morte è così vicina e non ci pensavamo. Rivolgerò più spesso lo sguardo al crocifisso appeso in sala e con più intenso pensiero.

Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del Signore risorto

 La città secolare da tempo ha decretato l’assenza di Dio o, quanto meno, la sua esclusione dalla vita pubblica; ma per i devoti la presenza di Dio nella vita e nella città era una sorta di ovvietà. In ogni situazione era spontaneo riconoscere la presenza reale nell’eucaristia, l’origine di ogni male e di ogni bene dalla volontà di Dio, la conferma della sua provvidenza, l’aspettativa della sua giustizia nel premio e nel castigo.
  In questo tempo è molto cambiato l’atteggiamento verso il religioso: ne è nata una qualche nostalgia per chi non ci pensava più e persino quelli che non sanno dove siano le chiese si sono interessati per sapere se siano aperte o chiuse. Per i devoti però quello che era ovvio è diventato problematico. L’antica domanda che mette alla prova il Signore è rinata spontanea: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7). C’è un bisogno di segni che lo dimostrino, un’invocazione di esposizioni, processioni, consacrazioni: dicono un desiderio sincero di essere confermati nella fede da una evidenza, da un intervento incontrovertibile. I segni della presenza del Risorto, cioè le ferite subite per la sua fedeltà nell’amore, risultano inadeguati all’attesa di una benedizione, di una protezione che dovrebbe mettere al sicuro i suoi fedeli. L’esito è che suonano stonate le certezze della città secolare che si costruiva orgogliosa e vincente a prescindere da Dio. E risultano più fragili le certezze dei devoti che devono constatare che «vi è una sorte unica per tutti: per il giusto e per il malvagio» (Qo 9,2).
  «Perché allora ho cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?» (Qo 2,15). Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del Risorto, riconoscere la sua potenza che salva per vie che le aspettative umane non possono prescrivere, lasciarsi avvolgere dalla sua gloria, così diversa da come la immaginano gli umani. Siamo chiamati a entrare con fede più semplice e più sapiente nella promessa di Gesù: «In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47), per capire meglio la rivelazione: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3).

Non pensavamo che fosse così necessario celebrare insieme i santi misteri

 “Andare a messa”, il rito della domenica, è sembrato per decenni una buona abitudine facoltativa, dopo la fine di un cristianesimo governato da precetti e minacce. Una buona abitudine da riservare a qualche festa solenne, a qualche rito di famiglia, a qualche domenica insieme per accontentare il bambino. Una buona abitudine in concorrenza con altre: la visita alla nonna, il corso di sci, le occasioni del centro commerciale, le partite di campionato. Il richiamo della nonna o del papà: «Sei andato a messa?» è, tutto sommato, un fastidio sopportabile, inefficace e, in sostanza, rassegnato. Nelle discussioni in classe o in ufficio sembra quasi un segno di maturità e di spirito critico professare: «Sì, sono credente, ma a modo mio, penso con la mia testa; sì credente e non praticante». Quando le celebrazioni sono state impedite, quando sono state sostituite da trasmissioni televisive, quando ogni prete ha dovuto inventarsi un qualche modo virtuale per entrare nelle case, per far sentire un segno di prossimità e di premura pastorale, quando catechisti e catechiste, educatori e ministri straordinari hanno raggiunto i “loro ragazzi”, i “loro malati” tramite il cellulare, i credenti hanno percepito che mancava la cosa più importante. Sì, sono gradite la premura, la parola buona, la frase del Vangelo; sì, aiuta la proposta di non perdere tempo, di rendersi utili in casa e dove si può. Sì, tutto vero. Ma trovarsi per la celebrazione della messa, cantare, pregare, stringere le mani amiche nel segno della pace, ricevere la comunione è tutt’altro. Di questo sentiamo la mancanza. Quando abbiamo fame, non potremo mai sfamarci guardando una fotografia del pane. Quando siamo sospesi sull’abisso del nulla, l’espressione intelligente “credente ma a modo mio, credente ma non praticante” suona ridicola, un divertimento da salotto, impropria là dove per attraversare la tempesta abbiamo bisogno di una presenza affidabile, di un abbraccio, di una comunione reale con Gesù, per essere nella vita di Dio. Niente di meno. Poter “andare a messa” sarebbe il segno che è tornata la normalità non solo nella libertà di movimento, ma nella convinzione che non si tratta di buone abitudini, ma di una questione di vita e di morte. Il pane della vita non è infatti una bella frase, ma la rivelazione che senza Gesù non possiamo fare niente: le buone idee, la buona educazione, i buoni propositi sono tutte cose importanti. Ma abbiamo bisogno di una parola che illumini il nostro passo, di un credere che sia vivere della relazione decisiva con Dio, di uno spezzare il pane della vita per non morire in eterno. Abbiamo bisogno di diventare un solo corpo e un solo spirito spezzando l’unico pane. Se in questo tempo abbiamo provato l’emozione di pregare insieme in casa, abbiamo imparato che è possibile, che unisce, che non esaurisce il desiderio di incontrare il Signore e anzi fa crescere il desiderio di “andare a messa”. Si deve raccomandare che nella “chiesa domestica” si conservino sempre i riti della preghiera e che il ritrovarsi in casa aiuti a sentirsi parte della grande Chiesa che ci raduna da tutte le genti.

Non pensavamo che fosse così necessaria la resurrezione per la nostra speranza

Nel linguaggio comune la speranza si è banalizzata a significare un’aspettativa fondata su previsioni più o meno attendibili, di cui si è, però, sentito parlare da qualche titolo sbirciato sfogliando pagine web. «Speriamo che domani sia bel tempo; speriamo che piova al momento giusto e che la vendemmia sia abbondante; speriamo di vincere il concorso e chiudere il contratto…» Anzi, di speranza è meglio che parlino i poveracci. Le persone serie elaborano progetti, confrontano risorse, mettono in bilancio anche la voce imprevisti, perché è ragionevole aver tutto sotto controllo. Si danno da fare, non si aspettano niente da nessuno, sono convinte che se vuoi qualche cosa devi conquistartelo. Anche le persone serie dicono talvolta «Speriamo» e incrociano le dita: è più una scaramanzia che una speranza. Ma quando irrompe il nemico che blocca tutto, che paralizza la città, che entra in casa con quella febbre che non vuol passare, allora le certezze vacillano, e il verdetto del termometro diventa più importante dell’indice della Borsa. La percezione del pericolo estremo costringe a una visione diversa delle cose e a una verifica più drammatica di quello che possiamo sperare. Nella vita cristiana rassicurata dalla buona salute, da un certo benessere, dalla “solita storia” i temi più importanti sono le raccomandazioni di opere buone, di buoni sentimenti, di fedeltà agli impegni, di pensieri ortodossi. Ma quando si intuisce che qualcuno in casa deve affrontare il pericolo estremo, allora l’unica roccia alla quale appoggiarsi può essere solo chi ha vinto la morte. «Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). «Ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor 15,17-19).
 Buona Pasqua!
 In conclusione desidero che giunga a tutti l’augurio per la santa Pasqua di quest’anno. Siamo costretti a una celebrazione che assomiglia più alla prima Pasqua che a quelle solenni, festose, gloriose alle quali siamo abituati.
La nostra Pasqua, vissuta più in casa che in chiesa, è la cena secondo Giovanni: i suoi segni espressivi sono la lavanda dei piedi, la rivelazione intensa agli amici dei pensieri più profondi, la preghiera più accorata al Padre. La nostra Pasqua quest’anno rivive quella sera: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”» (Gv 20,19). Incomincia così una storia nuova. Perciò posso invitarvi ancora a orientare il nostro cammino di Chiesa, con quanto ho scritto: «Siate sempre lieti nel Signore!» (Fil 4,4). Lettera per il tempo pasquale.*
Pace a voi! Buona Pasqua.

+ Mario Delpini Arcivescovo Milano,
25 marzo 2020

* Testo estratto da Mario Delpini, La situazione è occasione. Per il progresso e la gioia della vostra fede, proposta pastorale per l’anno 2019-2020, che è stato distribuito con il quotidiano «Avvenire» domenica 12 aprile 2020.

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Discorso alla Città -  Basilica di Sant’Ambrogio – Milano, 6 dicembre 2018
Mario Delpini - Arcivescovo di Milano

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Dalla Lettera di Giacomo 3,13-4,8

Chi tra voi è saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
  Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. O forse pensate che invano la Scrittura dichiari: «Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi»? Anzi, ci concede la grazia più grande; per questo dice: «Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia». Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani; uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori.
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La Lettera di Giacomo interpreta le dinamiche conflittuali della comunità come l’emergere di passioni che rendono stolti: la possibilità della pace è offerta da una sapienza che viene dall’alto, da un’intelligenza benevola, da un pensiero che si ispiri alla vicinanza di Dio. C’è dunque anche la possibilità di pensare, siamo autorizzati a pensare. È questa la sostanza della riflessione che mi permetto di offrire alla città in occasione della festa del patrono sant’Ambrogio. È questo il percorso promettente che mi dichiaro disponibile a continuare insieme con tutti coloro che abitano in città e ne desiderano il bene. Siamo autorizzati anche a pensare!

1. Pressati dall’emotività e dalla suscettibilità: insistere per essere persone ragionevoli
  Sono diffusi in ogni tempo e in ogni luogo atteggiamenti emotivi, reazioni istintive, passioni cieche, come attesta l’antico scritto di san Giacomo (Gc 4,1ss). Non stupisce quindi che emotività e passionalità siano presenti anche oggi, anche qui, anche nella città. L’emozione non è un male, ma non è una ragione. Forse in questo momento l’intensità delle emozioni è particolarmente determinante nei comportamenti. Ciascuno si ritiene criterio del bene e del male, del diritto e del torto: quello che io sento è indiscutibile, quello che io voglio è insindacabile.
Chi presta un servizio pubblico alla comunità deve confrontarsi ogni giorno con la gente e viene messo alla prova continuamente dalle persone che aspettano, dalle persone che chiedono, dalle persone che hanno fretta. Ci vogliono molta pazienza, capacità di relazione, predisposizione all’empatia e alla comprensione, autocontrollo nelle reazioni, per portare alcune richieste a buon fine, mentre alle spalle premono impazienti molti altri che pure hanno diritto ad essere serviti. Desidero esprimere il mio apprezzamento per gli operatori che sanno accogliere con particolare attenzione coloro che si trovano in condizioni di necessità, sprovveduti e smarriti di fronte alle procedure per ottenere le prestazioni cui hanno diritto, imbarazzati davanti a operatori con cui è faticoso intendersi. Coloro che prestano un pubblico servizio constatano ogni giorno che ci sono molte persone che vivono le loro legittime aspettative con atteggiamenti di pretesa arrogante. La pretesa non è il far valere i propri diritti, ma è mancare di comprensione nei confronti degli operatori e delle regole che essi devono rispettare, esigere di essere serviti e ascoltati come se si fosse soli al mondo, insinuare una malizia e una colpevole disattenzione là dove il servizio non è prestato secondo le proprie aspettative. Si può forse dire che la “cultura post-moderna”, se si può usare il termine “cultura” in questa accezione, esalta l’emozione, lo slogan gridato, stuzzica la suscettibilità e deprime il pensiero riflessivo. Il comportamento di fronte a uno sportello è solo il sintomo di una sensibilità che si è ammalata di suscettibilità, di un pregiudiziale atteggiamento di discredito verso le istituzioni e in particolare verso i servizi pubblici più vicini ai cittadini, che si tratti dell’ambito scolastico o di quello sanitario o di quello tributario o di quello dei trasporti o dell’ecologia urbana o di qualsiasi altro. La mia intenzione, ovviamente, non è di avallare le inadempienze o di giustificare i disservizi. Piuttosto credo che la convivenza in città sarebbe più serena e la presenza di tutti più costruttiva se, dominando l’impazienza e le pretese, potessimo essere tutti più ragionevoli, comprensivi, realisti nel considerare quello che si fa, quello che si può fare per migliorare e anche quello che non si può fare. Ecco: siamo autorizzati a pensare, ad essere persone ragionevoli.
 Con ciò non voglio certo mortificare il valore degli affetti, dei sentimenti e delle emozioni, che sono parte costitutiva dell’esperienza umana e delle relazioni. Desidero piuttosto evidenziare il rischio di lasciarsi dominare da reazioni emotive e farle valere come se fossero delle vere e proprie ragioni su cui fondare le nostre scelte e avanzare rivendicazioni. Questa confusione tra ragioni ed emozioni spesso può complicare gravemente la convivenza civile.

2. Condizionati dagli slogan e dalla costruzione del consenso: insistere per essere persone ragionevoli
 Nel dibattito pubblico, nel confronto tra le parti, nella campagna elettorale, il linguaggio tende a degenerare in espressioni aggressive, l’argomentazione si riduce a espressioni a effetto, le proposte si esprimono con slogan riduttivi piuttosto che con elaborazioni persuasive. L’animosità nel confronto è, in certa misura, un tratto caratteristico dell’appassionarsi per una causa che si ritiene meritevole di dedizione e di determinazione. Tuttavia credo che il consenso costruito con un’eccessiva stimolazione dell’emotività dove si ingigantiscano paure, pregiudizi, ingenuità, reazioni passionali, non giovi al bene dei cittadini e non favorisca la partecipazione democratica. La partecipazione democratica e la corresponsabilità per il bene comune crescono, a me sembra, se si condividono pensieri e non solo emozioni, informazioni obiettive e non solo titoli a effetto, confronti su dati e programmi e non solo insulti e insinuazioni, desideri e non solo ricerca compulsiva di risposta ai bisogni. Pertanto credo sia opportuno un invito ad affrontare le questioni complesse e improrogabili con quella ragionevolezza che cerca di leggere la realtà con un vigile senso critico e che esplora percorsi con un realismo appassionato e illuminato. La gente che abita le nostre terre – posso attestarlo per esperienza – ha risorse di intelligenza e di riflessione che anche nel dibattito pubblico, anche nel confronto quotidiano, anche nell’esercizio delle responsabilità amministrative devono esercitarsi per la ricerca di percorsi promettenti. Mi sembra che siano inscritti nell’animo della nostra gente una profonda diffidenza per ogni fanatismo, un naturale scetticismo per ogni proposta di ricette che promettono rapida e facile soluzione per problemi complicati e difficili. Mi sembra che sia connaturale con i tratti che ci caratterizzano una capacità di determinazione e di sacrificio. Ci è congeniale la coscienza che le spaccature che dividono sono ardue da ricomporre, che le offese che feriscono sono dure da guarire, che le informazioni scorrette che squalificano sono difficili da rettificare. La ragionevolezza che si può anche chiamare “buon senso” – espressione di un senso buono –, l’intelligenza e la competenza che possono maturare in saggezza, una disposizione alla stima vicendevole che si può ritenere fondamentale per una convivenza serena possono creare consenso con argomentazioni, danno forma ad alleanze tra le forze in gioco che presuppongono l’affidabilità delle persone e delle organizzazioni che vi convergono. Occorre riscoprire la cultura e il pensiero che danno buone ragioni alla fiducia, alla reciproca relazione, a quella sapienza che viene dall’alto che “anzitutto è pura, poi pacifica, mite”. Insomma siamo autorizzati a pensare.


3. Insofferenti per l’intralcio incomprensibile delle procedure: avviare percorsi di semplificazione ragionevoli
 Il desiderio di comprendere le procedure richieste per molti adempimenti, d’altra parte inevitabili, risulta spesso irrealizzabile. La complicazione della normativa, delle pratiche burocratiche, delle procedure di verifica e di rendicontazione pervade molti aspetti della vita dei cittadini. Si ha talora l’impressione che l’impianto complessivo sia ispirato da una sorta di pregiudiziale sospetto sul cittadino, come fosse scontato che la gente sia naturalmente disonesta e incline a contravvenire alle regole. Ne deriva una specie di ossessione per la documentazione e i controlli: le pratiche si gonfiano in modo spropositato, i tempi per le autorizzazioni si prolungano in maniera esasperante. Ne risulta intralciata e paralizzata l’intraprendenza della creatività e della generosità, degli imprenditori come degli operatori sociali. Ne consegue anche una sorta di anonimato della pubblica amministrazione e dei servizi al cittadino. La normativa che impone adempimenti complessi offre appigli per quella litigiosità aggressiva e irrazionale che può esporre i responsabili a beghe interminabili. Pertanto diventa comprensibile la tendenza a evitare di prendersi responsabilità da parte dei singoli operatori, sempre intimoriti dalle possibili conseguenze legali dei loro atti, che si tratti di pratiche sanitarie o assistenziali o autorizzative. L’operatore si ripara dietro il controllo degli adempimenti formali e pretende estenuanti forme di garanzie. Forse che “la patria del diritto”, come si può definire l’Italia, sia diventata un condominio di azzeccagarbugli litigiosi? Mi sembra che si debba insistere in quei percorsi di semplificazione che sono spesso enunciati e promessi per rendere più facile essere buoni cittadini, onesti e in regola con la pubblica amministrazione, per favorire l’intraprendenza di imprenditori e di operatori negli ambiti del servizio ai cittadini e della solidarietà. È però evidente che i percorsi promessi e avviati presuppongono il recupero di una fiducia tra i cittadini, e tra cittadini e pubblica amministrazione. Non servirà semplificare le procedure se perdura il sospetto sul cittadino come incline a delinquere e se rimane radicata nel cittadino l’inclinazione alla litigiosità e alla suscettibilità che è insofferente delle regole del vivere insieme e del rispetto reciproco. Il rispetto delle regole e del prossimo è un frutto del senso civico, del senso di appartenenza alla comunità, della persuasione che il bene comune del convivere in pace sia da anteporre all’interesse privato momentaneo e che il danno arrecato a una comunità prima o poi danneggi anche chi lo compie. La riscoperta e la valorizzazione del bene comune (e non solo dei beni comuni, dei beni privati e di quelli pubblici), oltre lo Stato e il mercato, può favorire la rigenerazione della cittadinanza, come vivibilità e appartenenza civile. Non penso sia fuori luogo richiamare qui la sapienza evangelica che ci spinge a non considerare mai l’uomo a servizio della legge e delle regole, ma, al contrario, a comprendere che una legge giusta è sempre in favore dell’uomo e della sua libertà. «Non è l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo», diceva Gesù ai suoi interlocutori. Lavoriamo dunque perché le nostre regole e procedure siano a servizio del cittadino e della buona convivenza sociale. Insomma, siamo autorizzati a pensare.

4.Autorizzati a pensare
 I tre aspetti ricordati (le pretese indiscutibili, il consenso emotivo, le procedure esasperanti) sono buone motivazioni per formulare il desiderio di una ragionevolezza diffusa. Siamo infatti autorizzati a pensare: essere persone ragionevoli è un contributo indispensabile per il bene comune. Questo evoca la solidarietà/fraternità della condivisione relazionale. Nella comunità del pensare riflessivo, e non del vociare emotivo, si riconosce, si promuove, si custodisce e si propizia l’umano-che-è-comune. Nell’Enciclica Populorum Progressio, nel 1967, san Paolo VI scriveva: E se è vero che il mondo soffre per mancanza di pensiero, Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani, quelli che onorano Dio, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di verità: tutti gli uomini di buona volontà. Sull’esempio di Cristo, Noi osiamo pregarvi pressantemente: «Cercate e troverete», aprite le vie che conducono, attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale (Paolo VI, Populorum Progressio, 85).
  E Benedetto XVI commentava l’espressione di Paolo VI in Caritas in veritate, 53 scrivendo: L’affermazione [di Paolo VI] contiene una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo. La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone. A questo riguardo, la ragione trova ispirazione e orientamento nella rivelazione cristiana, secondo la quale la comunità degli uomini non assorbe in sé la persona annientandone l’autonomia, come accade nelle varie forme di totalitarismo, ma la valorizza ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto.
4.1 A proposito del “pensare”: possiamo disturbare le accademie? Non sono nelle condizioni per addentrarmi nell’analisi sistematica del pensiero, delle condizioni e dei processi che possono contribuire a migliorare i rapporti tra i cittadini e la pubblica amministrazione, tra i cittadini e le istituzioni e nelle dinamiche comunitarie in genere. Ritengo che sia responsabilità degli intellettuali e degli studiosi di scienze umane e sociali approfondire la questione e comunicarne i risultati. La nostra città, in cui università e istituzioni culturali sono così significative e apprezzate, è chiamata a produrre e a proporre un pensiero politico, sociale, economico, culturale che superando gli ambiti troppo isolati delle singole discipline possa aiutare a leggere il presente e a immaginare il futuro.
  Credo che saremmo tutti fieri se proprio qui a Milano si approfondissero riflessioni, si promuovessero confronti, si potessero riconoscere scuole e programmi, prospettive e responsabilità. Il nostro senso pratico ci rende allergici alle chiacchiere e alle celebrazioni inconcludenti. Ma Milano è così ricca di punti di vista, di luoghi di ricerca specializzati, di posizioni anche contrapposte che si corre il rischio di una babele di linguaggi che risultano reciprocamente estranei e non interessati a comprensione e arricchimenti reciproci. Forse insieme possiamo coltivare un senso di responsabilità che ci impegna a un esercizio pubblico dell’intelligenza, che si metta a servizio della convivenza di tutti, che sia attenta a dare la parola a ogni componente della città, che raccolga l’aspirazione di tutti a vivere insieme, ad affrontare insieme i problemi e i bisogni, a recensire insieme risorse e potenzialità. Mi sembra significativo il contributo che a questa impresa hanno offerto e offrono i cristiani presenti nelle accademie della città e protagonisti della ricerca e della riflessione nelle istituzioni culturali della comunità cristiana, in particolare in Università cattolica, nella Facoltà teologica e nelle numerose scuole pubbliche paritarie cattoliche e di ispirazione cristiana diffuse capillarmente sul territorio.
4.2 Pensare non è solo analisi e calcolo Il pensiero, la ragione, l’intelligenza sono esposti al rischio di lasciarsi strumentalizzare, come ogni altra risorsa umana. Nella storia del secolo scorso è stata clamorosa la strumentalizzazione degli intellettuali e della ricerca scientifica a servizio delle ideologie dominanti aggressive e violente. Le risorse del pensiero umano, messe a servizio dell’ideologia, hanno ingigantito la potenza dell’aggressività, la capacità distruttiva delle armi, l’oppressione della libertà delle persone e delle istituzioni che resistevano all’ideologia. Il nostro continente ne è stato disastrato e non abbiamo ancora finito di curare le ferite e di superare i sensi di colpa. Nella recente rivoluzione digitale si può insinuare il rischio di una assolutizzazione della tecnologia, come se quest’ultima potesse sostituire la responsabilità di pensare e l’onere di scegliere. Il pensare resta mortificato nella morsa di una tecnologia globalizzata e di una politica localizzata: ne consegue un offuscamento del dato, cioè del mondo nel suo essere “qui e ora”, che svanisce in un virtuale inafferrabile e irresponsabile. Non è infatti estranea al nostro tempo la tentazione di asservire il pensiero alle tendenze diffuse, piuttosto che esercitare il ruolo e la responsabilità di offrire una riflessione critica e generativa. Tra le tendenze che oggi minano il pensare mi pare che sia insidioso l’utilitarismo che riduce il valore all’utile immediato e quantificabile, che si chiami profitto, consenso, indice di gradimento. Il pensiero asservito all’utilitarismo si riduce a calcolo, quindi a valutare risorse e mezzi in vista di un risultato per lo più individuale o corporativistico piuttosto che di un fine comune e condiviso. Pertanto si rinuncia alla riflessione sulle domande di senso, relegando l’argomento nell’irrazionale e nel sentimentale, escluso per principio dalla sfera pubblica e dalla possibilità di una dimensione sociale. È evidente che la gestione della cosa pubblica e l’organizzazione della vita sociale e dei servizi richiedono una capacità di analisi e di calcolo, ma il pensiero non può essere ridotto a questo. Vogliamo lavorare per superare il mero “pensiero calcolante” in favore di un allargamento del concetto di ragione; un pensiero realista, che abbia a cuore la ricerca continua della verità e del bene condiviso, libera da pregiudizi, aperta agli altri e alla domanda di senso. Occorre riconsiderare e ricomprendere la differenza tra utilità, che consiste in una relazione tra persona e cosa, e felicità, che consiste nella relazione tra una persona e un’altra e che non può rinunciare alla speranza del compimento.
4.3 Pensare è dare forma a una visione di futuro La responsabilità per la civitas, che coinvolge tutti gli abitanti e in un modo più grave coloro che sono chiamati dai cittadini ad amministrarla, trova motivazione e orientamento dalla visione del bene da propiziare, difendere, costruire e dalla individuazione delle risorse, dei percorsi, delle possibilità realistiche per dare alla visione concretezza storica. Nel contesto democratico in cui viviamo è legittimo che convivano visioni diverse e che queste visioni diano origine ad alleanze di persone e gruppi che si impegnano per realizzare intenti differenti. Tuttavia la riflessione non troppo condizionata da pregiudizi indiscutibili e da relitti di ideologie può forse convenire su alcuni aspetti comuni, su bisogni e priorità che urgono, su desideri ricercati e attesi. Dobbiamo confidare nel fatto che la giovane generazione di oggi abbia una particolare vocazione al pensare che guarda lontano, anche perché può essere più libera da puntigli e ideologie della generazione dei loro padri. Credo che, quanto agli aspetti comuni di una visione di futuro, si possa convergere su quel cammino che porta a una convivenza pacifica e solidale e che intenda l’Europa come convivenza di popoli. La complessità e le problematiche che hanno segnato il concreto configurarsi dell’Unione Europea richiedono una ripresa delle intenzioni originarie: i cittadini d’Europa erano e sono persuasi che siano da preferire l’unione alla divisione, la collaborazione alla concorrenza, la pace alla guerra. Siamo impegnati e motivati per una partecipazione costruttiva alle vicende europee: vogliamo dare volto all’Unione Europea dei popoli e dei valori, che pensi i suoi valori e le sue attese nella concretezza storica del tempo presente e di quello a venire, e che non si occupi di beghe e di interessi contrapposti. In questo contesto di un cantiere europeo al quale rimettere mano, il nostro Paese adotta come punto di riferimento fondamentale per la convivenza dei cittadini e la visione dei rapporti internazionali la Costituzione della Repubblica Italiana. La carta costituzionale, in quella prima parte dove formula princìpi e valori fondamentali, non può essere ridotta a un documento da commemorare, né a un evento tanto ideale quanto irripetibile, ma deve continuare a svolgere il compito di riconoscere e garantire «i diritti inviolabili dell’uomo» (art. 2), al fine di promuovere «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3). Queste acquisizioni irrinunciabili sono frutto – come è doveroso ricordare – di tenace dialogo e confronto fra tradizioni di pensiero diverse e tuttavia appassionate del primato del bene comune. Credenti e non credenti hanno messo in comune il proprio patrimonio culturale e sociale per poter edificare la convivenza civile. Il testo della Costituzione ci ricorda innanzitutto un metodo di lavoro, che vale anche per noi: le differenze si siedono allo stesso tavolo per costruire insieme il proprio futuro. È doveroso che la generazione dei padri trasmetta ai giovani di oggi quell’ardore di cui sono stati testimoni i nostri nonni e i nostri padri, quelli almeno che hanno pensato che l’Italia non fosse condannata a restare sepolta sotto le macerie della guerra e del totalitarismo, ma potesse risorgere come un Paese in cui fosse desiderabile convivere.
4.4  Pensare è riconoscere le priorità da perseguire nel percorso verso il futuro La recensione delle problematiche che caratterizzano il momento che viviamo è talora troppo influenzata dal particolare di cronaca che provoca una reazione emotiva e oscura la considerazione complessiva della realtà. Gli amministratori locali sono chiamati a un esercizio di realismo e quindi anche a essere vigili sul rischio di lasciarsi condizionare da gruppi di pressione che promuovono ideologie o punti di vista troppo parziali. Talora la risonanza mediatica di una decisione o di una proposta diventa tentazione che induce ad accondiscendere alle insistenze per un interesse particolare il cui contributo al bene comune è discutibile. L’esercizio di una lettura realistica di questo tempo può individuare alcune priorità che, per quello che mi risulta, sono già condivise.
  In una considerazione pensosa delle prospettive del nostro tempo si dovrà evitare di ridurci a cercare un capro espiatorio: talora, per esempio, il fenomeno delle migrazioni e la presenza di migranti, rifugiati, profughi invadono discorsi e fatti di cronaca, fino a dare l’impressione che siano l’unico problema urgente. Si devono nominare tra le problematiche emergenti e inevitabili: – la crisi demografica che sembra condannare la popolazione italiana a un inesorabile e insostenibile invecchiamento; – la povertà di prospettive per i giovani che scoraggia progetti di futuro e induce molti a trasgressioni pericolose e a penose dipendenze; – le difficoltà occupazionali nell’età adulta e nell’età giovanile e le problematiche del lavoro; – la solitudine il più delle volte disabitata degli anziani. Queste problematiche sono complesse e non si può ingenuamente presumere di trovare soluzioni facili e rapide. Ma certo la complessità non può convincere a rassegnarsi alla diagnosi e all’elenco dei fattori di disagio.
 Autorizzati a pensare, possiamo esplicitare i percorsi che riteniamo promettenti e mettere in atto processi concreti, lungimiranti, da attuare con determinazione. Personalmente invito coloro che hanno responsabilità nella società civile ad affrontare con coraggio le sfide, nella persuasione che questo territorio ha le risorse umane e materiali per vincerle. E nella mia responsabilità di vescovo di questa Chiesa confermo che le nostre comunità sono pronte, ci stanno, sono già all’opera. Io credo che sia onesto riconoscere che le problematiche nominate e anche altre connesse suggeriscono che la famiglia è la risorsa determinante, è la cellula vivente: può infatti tenere insieme le età della vita, la cura per il futuro, la pratica della solidarietà, la prossimità alle fragilità e rendere la città un luogo in cui sia desiderabile vivere, lavorare, studiare, diventare grandi, essere curati e assistiti. La famiglia è – a mio parere – il fattore decisivo. Certo la famiglia non da sola: pertanto mi sembra opportuno invitare le istituzioni e impegnare la Chiesa diocesana a convergere nel propiziare le condizioni perché si possano formare famiglie e queste siano aiutate a essere stabili, a vivere i loro desideri, a praticare le loro responsabilità.
Per questo immagino che i protagonisti pensosi della vita della città condividano il proposito di prendersi cura del legame sociale, di nutrire e rafforzare le identità dei nostri territori (perché sappiano generare ancora energie per processi di aggregazione e di inclusione che contrastino l’isolamento e la solitudine e che sono tipiche della nostra cultura), di rilanciare la generosità pubblica e privata, perché si torni a percepire come un segno di maturità e di intelligenza civica investire risorse anche economiche per far fronte alle povertà che bussano alle nostre porte. La comunità cristiana, nelle sue articolazioni territoriali e nella sua organizzazione centrale, desidera abitare la città per offrire il suo contributo e collaborare con tutte le istituzioni presenti nel comprendere il territorio, nell’interpretare il tempo, nel promuovere quell’ecologia globale che rende abitabile la terra per questa e per le future generazioni. In questo faccio riferimento con affetto e gratitudine alle indicazioni di papa Francesco nella Laudato si’.
5. Propiziare il pensare condiviso
L’invito, forse un po’ provocatorio, per esercitare il pensiero nella sua vocazione alta a dare forma a una visione, vorrebbe anche suggerire pratiche ordinarie, momenti di incontro, dialoghi di vita buona, come ha insegnato e realizzato il cardinale Scola. È del resto tradizione per i credenti coltivare il pensare, pur riconoscendo che nessuno è immune dalla tentazione del fanatismo o della sufficienza sprezzante che diventa meschino esonerarsi dalla ragione. La religione, in questo quadro, vuole mettersi in cordiale confronto con ogni uomo che cerca la verità e così concorrere alla ricerca del bene comune, ben sapendo, come insegna Benedetto XVI, che «la tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei princìpi morali oggettivi» (Benedetto XVI, Discorso alla Westminster Hall, 17 settembre 2010). Nel contesto di questo quadro più ampio, e a titolo esemplificativo, mi permetto di avanzare qualche proposta puntuale. La conoscenza della Costituzione della Repubblica Italiana è un punto di partenza che può ispirare una visione di società comune a tutti gli abitanti del nostro territorio. Si riconosce che la nostra Costituzione è un testo che conserva il suo valore, pur con la necessità di quegli aggiornamenti che il tempo rende inevitabili. Non si potrebbe prendere l’abitudine di aprire ogni consiglio comunale con la lettura e il commento di qualche articolo della prima parte della Costituzione? L’educazione civica è una responsabilità che gli educatori devono esercitare nei confronti delle giovani generazioni. La sinergia tra gli amministratori e gli operatori della scuola può incoraggiare iniziative in atto e avviarne di nuove per contribuire all’educazione degli studenti, che siano italiani da generazioni o che siano provenienti da altri Paesi. L’interazione della scuola con il territorio, oltre che con il mondo del lavoro, mi sembra una via promettente per promuovere l’attenzione al contesto, all’ambiente, al vicinato. Promotori di una educazione civica in senso ampio possono essere molti operatori di diversi settori, e so che molti sono disponibili a interventi nelle scuole a questo scopo: le forze dell’ordine, i giudici, gli operatori sanitari e finanziari. Come si dice abitualmente: «per educare un bambino ci vuole un villaggio»; così noi siamo convinti che per educare al pensiero civico e alle responsabilità di cittadini ci voglia una città che si esprima in modo comprensibile e faccia riferimento a valori condivisi. La Chiesa ambrosiana prega il Signore perché doni ai governanti e agli amministratori che operano nelle nostre terre quella sapienza che viene dall’alto, di cui ci ha parlato l’apostolo Giacomo, perché essi sappiano essere sempre all’altezza del proprio compito e noi tutti possiamo vivere nella pace e lavorare sempre per il bene. La Chiesa ambrosiana, invocando il patrono sant’Ambrogio e ispirandosi al suo esempio, continua a essere presente, disponibile, generosa nel contribuire, per quello che le è possibile, a un convivere sereno, solidale, fiducioso.

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Domenica 15 marzo 2020 – 3° del Tempo di Quaresima Ordinario - sintesi dell’omelia della Messa mandata in onda da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla cappella Gesù Buon Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma  e celebrata dal Cardinal Vicario della Diocesi di Roma Angelo De Donatis.

Carissimi,
il ciclo dell’anno A ci fa percorrere l’itinerario del catecumeno.
  Nella prima domenica di Quaresima siamo entrati nel deserto con Cristo per combattere la buona battaglia.
  Nella seconda abbiamo contemplato la meta del cammino: la Trasfigurazione sull’alto monte. Così abbiamo compreso che lo scopo della prova non è quello di diventare degli eroi, ma di diventare figli. Figli trasformati dalla luce della Pasqua. Questo  è il nostro destino: la vita piena, dove le lacrime e la fatica cederanno il posto alla carezza di Dio.  Siamo cenere? Sì, siamo cenere, ma lo Spirito ci trasformerà in luce.
 Ora il nostro cammino quaresimale giunge alla terza tappa.
 Il Vangelo proclamato è ricchissimo. Mi fermo solo su una parola pronunciata da Gesù. Il Maestro seduto sul pozzo afferma solennemente davanti alla donna samaritana: «l’acqua che io darà diventerà  in  voi una sorgente che zampilla per la vita eterna». Che cos’è quest’acqua, anzi “Chi” è? E’ lo Spirito santo, lo Spirito riversato nei nostri cuori. Questa è una rivelazione grande. Il cristiano, ogni battezzato, non è più un mendicante di felicità, un affamato che va in giro frugando nei rifiuti. Egli stesso è un pozzo, un sorgente inesauribile di vita. Dio ha messo in ciascuno dei suoi figli tutto ciò che serve per vivere, tutto ciò che serve per amarlo.
  Carissimi, non Gerusalemme o il monte Garìzim [montagna ad Ovest della città samaritana di Sichem, in Palestina, dove i samaritani avevano eretto un tempio in contrapposizione con quello di Gerusalemme - nota mia], ma io e i miei fratelli siamo il Tempio di Dio sulla terra.
 In questo tempo tribolato, in cui è anche difficile andare nelle nostre chiese di mattoni, e non possiamo accostarci ai sacramenti, possiamo riscoprire come tutta l’esistenza del cristiano sia canale di grazia.
 Dio non è impotente, è ridicolo pensare che un virus possa impedirgli di consolare i suoi figli amati, di parlargli, di irrobustirli nella prova.
 Certo non possiamo celebrare l’Eucaristia come popolo radunato. I riti sono sospesi, ma non il mistero che in essi è significato. Anche in mezzo all’epidemia possiamo vivere una vita eucaristica, fatta di gratitudine al Padre, fatta di servizio al prossimo.
 Il Dio dell’Esodo parla e insegna nella storia, anche in questa storia che stiamo vivendo. Dio ascolta il nostro grido, ci consola, certo, ma ci interroga anche. Ora che i riti sacramentali tacciono, è il momento di far parlare la profezia. Dio ci chiede, con dolcezza, quanto ciò che fino a ieri hai celebrato  è diventato in te acqua viva che zampilla per la vita eterna. Quella vita divina che nemmeno un virus può cancellare.
 Verifichiamoci: quanti riti senza mistero, quante confessioni senza pentimento, quanto Eucaristie senza ringraziamento, quanti matrimoni a fedeltà intermittente, quanto carità fatta senza amore?  Non chi dice “Signore! Signore!” entrerà nella vita eterna.
 Fratelli e sorelle carissimi, la samaritana è andata al pozzo come una rifiutata ed è tornata a casa da sposa. Ha scoperto che il Tempio di Dio era lei.
 Coraggio!
 Riscopriamo la preghiera nelle nostre famiglie, nel segreto della camera. Riscopriamo la meditazione orante della Scrittura, che cancella i peccati veniali. Riscopriamo la comunione spirituale. Riscopriamo l’esame di coscienza fatto bene, a lungo, in attesa di poter ricevere nuovamente l’assoluzione. E soprattutto, preghiamo con l’orazione ufficiale della Chiesa, che è la Liturgia delle Ore. E poi, ancora, preghiamo con il Rosario.
 In questo momento, tutti, tutti noi battezzati, siamo il popolo sacerdotale che intercede per il mondo e che sparge sul mondo a piene mani l’acqua dissetante del Consolatore.
 Un abbraccio paterno a tutti.

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Domenica 22 marzo 2020 – 4° del Tempo di Quaresima Ordinario - sintesi dell’omelia della Messa mandata in onda da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla cappella Gesù Buon Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma  e celebrata dal Vescovo Ausiliare della Diocesi di Roma mons. Gianpiero Palmieri

  Nella vita ci sono le zone oscure, i momenti bui. Pensiamo che possano capitare solo a qualcun altro. Invece questo tempo è oscuro per tutti, nessuno escluso. E’ segnato da dolori e ombre, che ci sono entrate in casa.
 Meditare questo Vangelo, celebrare questa Eurcaristia, ci possono aiutare. Si tratta di consentire alla luce di Dio diradare le nostre tenebre, dal di dentro: questo lo può fare solo Dio. Da soli noi possiamo darci un po’ di coraggio, rassicurarci, dirci l’un l’altro “Ce la faremo!”. Ma sappiamo bene che questo non basta. Il buio di cui si parla qui è quello del “nato cieco”. Cio cioè dell’uomo che, nel momento stesso in cui è venuto al mondo, è esposto alla precarietà, all’imprevisto, alla malattia e alla morte. In questi istanti ci domandiamo: “Ma io sono solo un’esistenza fragile, appesa a un filo?”, “Sono soltanto questa tenebra fredda che mi entra nelle ossa?”. Oppure il mio cuore è attraversato da una luce increata, quella divina, e che sono impastato di terra, sì, ma di una terra destinata ad essere trasfigurata dalla luce?
  Nella prima pagina della Genesi, nel giorno “uno”, che coincide con l’eternità, Dio dice “Sia la luce!”, e la luce fu. I commentatori ebrei si chiedevano “Da dove proviene questa luce?”, dal momento che Dio crea il sole, la luna, le stelle solo al quarto giorno. E rispondevano “E’ la luce della Parola eterna, uscita dalla bocca di Dio”. Per questo la comunità del Vangelo di Giovanni, rispondendo alla domanda “Ma chi è questo Gesù, che abbiamo veduto, udito, toccato, scrive, fin dall’inizio, nel Prologo, “E’ la Parola”,  è il Verbo di Dio, colui che è presso Dio ed è Dio, che porta la sua tenda in mezzo a noi. In lui è la vita e in lui è la luce. “Io sono la luce del mondo”, dice Gesù.
  Noi uomini, ci dice la Scrittura, non siamo gettati nell’esistenza per caso. Noi siamo creati da questa Parola luminosa di Dio e un raggio della sua luce ci rimane per sempre nel cuore, fa parte di noi. Continua misteriosamente ad agire persino nell’ombra, persino nella disperazione. Da  questo raggio nascono la spinta alla fraternità reciproca, il desiderio di rimanere umani, la speranza al di là delle illusioni ottimistiche, la determinazione a non arrenderci, la spinta ad occuparci dei poveri. Nascono da questa luce interiore che è, per così dire, un pezzo di Dio, dentro di noi. Qualcosa che dobbiamo custodire e lasciare agire a noi anche adesso.
  Per riaccendere questa luce, proviamo a identificarci con il cieco nato di cui parla il Vangelo. E’ una persona per bene. Fin da piccolo ha imparato a saper contare sugli altri, a vivere affidato alla carità dei fratelli e alla Provvidenza di Dio. E’ uno che non ha a dire ciò di cui è manchevole - è un “mendicante”, un “menda dicere” [espressione che in Latino significa “riconoscere i difetti”] -, né a riconoscere di non sapere, per tre volte dice “Non lo so”, “Non lo conosco”. E’ uno che sa bene che cosa significa essere fragili, esposti al rischio, appesi a un filo. E’ uno “autentico”. E’ un figlio saggio di Israele e di Dio. Un povero che partecipa alla fede del suo popolo. Magari quella fede l’ha appresa sulle ginocchia dei genitori. Non sembra aver mai dato retta alla teoria degli scribi teologi farisei del suo tempo, per cui Dio l’avrebbe punito con la cecità in previsione dei suoi peccati o a sconto di quelli dei suoi genitori.
  Basta aver ascoltato almeno una volta qualche brano del libro di Giobbe: ancora oggi Dio non punisce con la pandemia il peccato degli uomini, ma la cecità, la malattia, anche la pandemia ci ricordano che siamo inseparabilmente luce e fango, luce impastata nel fango.
  Il cieco ha invece imparato dalla fede semplice ma vera del suo popolo che Dio ascolta, ascolta chi fa la sua volontà, e che, se Gesù l’ha guarito, è perché Gesù viene da Dio, e che Dio esulta per la guarigione dei suoi figli, non importa se ha rispettato il riposo del Sabato oppure no. Dentro di lui, dentro il cieco, la luce cresce sempre di  più. Quell’uomo di nome Gesù è un profeta, viene da Dio, e nel momento in cui l’incontra, si prostra e fa la sua professione di fede. “Credi nel Figlio dell’uomo?”, “E chi è Signore, perché io creda a lui?”, “Lo hai visto. E’ colui che parla con te”: “Credo, Signore”. Questa luce per lui è sempre più chiara. Lo conquista e lo commuove fin nelle viscere, come il lebbroso su dieci guariti ritornato a rendere grazie. Non vede solo il miracolo della guarigione, ma vede chi è colui che lo ha guarito. Il cieco, il lebbroso, sanno che prima o poi si ammaleranno di nuovo, moriranno.  Ma ora hanno incontrato la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Per questo al cieco non importa se passerà dall’esclusione sociale legata alla cecità a quella dovuta al fatto che è stato cacciato dalla Sinagoga. Ormai è un discepolo di Gesù. Fa parte della fraternità dei suoi discepoli. Ormai ha imparato che Dio è uno che squarcia le tenebre più fitte, quelle legate alla condizione umana.
Custodiamo questa luce nel cuore, anzi lasciamoci  custodire dalla luce di Dio. Rendiamo sempre più profonda la nostra vita spirituale, in questo tempo in cui siamo reclusi forzatamente. Attraverso l’ascolto della parola, la preghiera personale, in famiglia. Coltiviamo, anche se a distanza, quelle relazioni che ci fanno bene al cuore, e prendiamoci cura con tenerezza e con coraggio di chi è povero, di chi è in difficoltà. Manteniamo uno sguardo fermo, ma luminoso, sulle situazioni. E non si lasci avvilire il nostro sguardo. Ma sia pieno di speranza.
 Alla lunga, non basterà la buona volontà: servirà essere davvero in contatto con la luce che viene da dentro.
  Sentiamoci in profonda comunione con tutto il popolo santo di Dio, di ogni luogo e di ogni tempo, che ha saputo affrontare le situazioni più difficili appoggiandosi con fede piena al Signore. Ricordiamo la fede dei nostri nonni, che hanno attraversato la guerra; la salvezza di tanti cristiani che in tante parti del mondo hanno affrontato la persecuzione, le lotte fratricide, le pandemie, come quelle dell’Ebola. Ha detto papa Francesco che è da qui che dovremo ripartire. Dovremo guardare ancora di più alle radici. I nonni, gli anziani. Costruire una vera fratellanza tra noi. Fare memoria di questa difficile esperienza vissuta tutti insieme, e andare avanti, con speranza, la speranza che mai delude. Queste saranno le parole chiave per ricominciare, ci ha detto il Papa: radici, memoria, fratellanza, speranza.
 E così sia.
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Domenica 29 marzo 2020 – 5° del Tempo di Quaresima Ordinario - sintesi dell’omelia della Messa mandata in onda da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla cappella Gesù Buon Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma  e celebrata dal (nostro) Vescovo Ausiliare della Diocesi di Roma mons. Guerino Di Tora


Carissimi fratelli e sorelle,
la Liturgia della Parola di questa quinta Domenica di Quaresima inizia con la visione di Ezechiele: «Aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri; farò entrare in voi lo spirito e rivivrete». Visione profetica e di grande speranza. Ad essa fa eco san Paolo nella lettera ai Romani: «Se lo spirito che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, darà anche ai vostri corpi mortali la vita». E ci introducono nella catechesi del Vangelo. Itinerario di essenzialità, che ci presenta Gesù che disseta la nostra sete, luce che illumina il nostro cammino, vita vera che dà vita.
 L’evangelista ci porta a Betania, luogo dove il Signore si recava presso i suoi amici Lazzaro, Marta e Maria. Siamo al culmine dei segni del Signore: la vittoria della vita sulla morte.
  Lazzaro è malato, mandano a chiamare il Maestro, ma lui non va: l’apparente silenzio di Dio. Quante volte ci chiediamo: “Dove sei Signore?”. Gesù vuole dare un segno di fronte alla morte, “Perché voi crediate”. E si vive la tragedia. Lazzaro, amico di Gesù, è morto. Gesù si fa presente. Le sorelle, come tutti, sono in totale dolore di disperazione, come accade anche oggi. Quanti di noi, di fronte a morti improvvise, dolorose, tragiche, poniamo al Signore la stessa domanda di Marta: “Se tu Signore fossi stato qui, se avessi dato un segno…”.  Gesù dice a lei, allora, ma anche a noi oggi - ricordiamolo, la Parola di Dio è attualità, ci parla, ci interpella nell’oggi del nostro presente-: «Tu fratello risorgerà. Io  sono la resurrezione e la vita, chi crede in me vivrà in eterno.» Questa, fratelli e sorelle, è la nostra fede.
  Anche a noi  Marta oggi ci dice “Vieni, il Maestro è qui e ti chiama”. Ci invita ad alzarci, a non stare fermi nel nostro dolore. Anche di fronte al dolore della morte attuale, Gesù ha compassione.  Cum-passio [parola latina, da cui deriva quella italiana, e che è composta da con  patirepatire con]. Vive anche lui la passione, il dramma, di ognuno di noi di fronte a quell’ultima barriera invalicabile che è la morte. Volle essere partecipe: «Dove l’avete portato?». «Vieni e vedi». Una giorno  lui aveva invitato dei pescatori ad andare a vedere dove lui era.  Ora sono delle persone affrante dal dolore che gli dicono: «Maestro, vieni e vedi». E’ l’uomo, ognuno di noi, che chiama Dio ad essergli vicino e partecipe nel dolore.  Gesù si commuove e piange. Un Dio che piange! L’Assoluto, l’Eterno! Ci rivela il volto del Dio di Gesù Cristo, il vero volto di Dio.
   Fratello, sorella che soffri, che sei nell’angoscia, Dio piange con te. Condivide il dolore, la sofferenza e, sulla Croce, la morte. E Gesù si manifesta Signore della morte e della vita: «Lazzaro, vieni fuori!». Anche a noi grida: «Vieni fuori!». Esci dalla tua tomba, dalle tenebre, dalle piccole sicurezze, dai pregiudizi, dagli egoismi. Torna a vivere!
  Il Signore ci chiama a testimoniare una vita nuova, che va al di là del mistero della morte.
  In questi giorni di vita e di morte, per alcuni di morte atroce, senza conforto, la fede ci fa gridare che Cristo ha vinto la morte, e ci invita, meditando su di essa, ad un rinnovato impegno d’amore, per la vita, per la vita di tutti, familiari, amici, poveri, disagiati, immigrati, rom, nessuno escluso. A lui chiediamo questa forza.

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Sintesi dell’introduzione alla Settimana Santa  pronunciata dal parroco don Remo Chiavarini all’inizio della la Messa della domenica “Delle Palme” celebrata in parrocchia il 5 aprile 2020, senza il popolo a causa delle misure di confinamento sociale per la prevenzione del contagio da Covid-19.
Sintesi di Mario Ardigò, per ciò che ha capito delle parole del celebrante

   Siamo arrivati all’inizio della Settimana Santa, questa domenica delle Palme. Una Settimana Santa inedita, unica, speriamo, nella nostra vita. Una Settimana Santa da ricordare…
 Comunque, sempre Settimana Santa è.
 Sempre ci introduce questa celebrazione nella settimana che ci porterà poi alla domenica di Pasqua.
  Chiediamo al Signore che ci prepari, attraverso il dono della sua misericordia, a ricevere tutta la grazia che il Signore ha preparato per noi in questi giorni.
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Dall’omelia pronunciata dal parroco don Remo Chiavarini durante la Messa del Giovedì santo celebrata in parrocchia il 9 aprile 2020, senza il popolo a causa delle misure di confinamento sociale per la prevenzione del contagio da Covid-19.

 E’ uno strano Giovedì santo.
 Strano perché è così familiare e unico, per lo meno nella mia vita.
 Il Giovedì santo è la celebrazione dell’Ultima Cena: è sempre stata una delle celebrazioni più solenni di tutto l’anno. Da sempre.
  Quando ero in Seminario, si partecipava proprio il Giovedì Santo alla celebrazione presieduta dal Papa, allora era Paolo 6°. La celebrava a San Giovanni in Laterano dove c’era il Seminario. Perché allora le liturgie pasquali iniziavano in San Giovanni in Laterano, con la Messa “In Coena Domini”  [si legge “in cena domini”. E’ espressione in latino che significa “nel ricordo dell’(Ultima) Cena del Signore”]. Poi [continuavano] il venerdì a Santa Maria Maggiore e il sabato a San Pietro. Il Seminario partecipava e serviva anche; quindi diverse volta da seminarista ho prestato servizio a questa celebrazione. Poi, dopo la cena, si andava a casa. Chi partiva subito dopo la celebrazione, chi la mattina dopo, quelli che magari erano più lontani.
 Ma poi anche subito nelle parrocchie dove sono stato. A cominciare da San Saturnino: [lì] la celebrazione del Giovedì Santo era solennissima, era stracolma, pienissima, e così anche in tutte le altre celebrazioni. Perché il popolo cristiano sa che questa è una celebrazione fondamentale. Qui c’è la Pasqua del Signore. C’è il mistero di Gesù che dona se stesso in quella liturgia che ricorda quell’incontro nel Cenacolo. E anche noi qui stasera siamo qui proprio nel Cenacolo: siamo dodici, tredici, quattordici, non di più, come probabilmente erano quella sera nel Cenacolo del Signore, quando, come tutte le famiglie degli ebrei, si iniziava a celebrare la Pasqua.
 [Quest’anno] anche gli ebrei [del nostro tempo] hanno iniziato a celebrare la Pasqua ieri sera.  Ieri sera hanno celebrato nelle famiglie. Si inizia con una liturgia famigliare e poi si continua in quelle altre celebrazioni che coinvolgono poi tutto il popolo, al Tempio e così via.
 Anche noi abbiamo riascoltato come prima lettura l’inizio, addirittura in terra d’Egitto,  [il racconto] dell’uccisione dell’agnello pasquale, di quell’agnello nel cui sangue c’è salvezza: l’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo. Poi abbiamo riascoltato come san Paolo ci dice che, in fondo, in quella Pasqua bisogna inserire anche la nostra Pasqua; quell’agnello non è più l’agnello del gregge, ma è Gesù, e ormai quel sacrificio è nuovo  ed eterno, per cui è l’unico ed eterno sacrificio del Signore nel quale noi ci innestiamo facendone memoria nel tempo. In questo lungo Esodo nel quale la storia si trova e vive in attesa di entrare nella Terra Promessa. Ricordiamoci sempre che la Terra Promessa non è su questa Terra, ma per noi la Terra Promessa è “Cieli nuovi” “Terra Nuova”, nella quale Gesù è entrato con la sua Resurrezione e dove, lì, tutti ci attende.
  Stasera volevo ricordare innanzi tutto il sacramento dell’Eucaristia, che è il luogo dove la comunità si ritrova, l’unica Eucaristia del Signore che continua a vivere nel tempo. L’Eucaristia è il luogo dove la comunità sperimenta di essere la Chiesa di Dio, il Popolo di Dio. E poi il dono del sacerdozio, che è indissolubilmente legato all'Eucaristia, quindi alla Chiesa. Non c’è Eucaristia senza sacerdozio. Non c’è Chiesa senza Eucaristia. Quindi possiamo dire che non c’è Chiesa senza sacerdozio, questo ce lo dobbiamo ricordare.
 Ricordiamo poi in questo momento soprattutto  novantanove sacerdoti, così oggi diceva il giornale, che in questi giorni sono morti a causa dell’epidemia, del corona-virus.  In fondo anche loro, veramente pastori, hanno accompagnato quel gregge, quel numeroso gregge, che in questa epidemia è stato convogliato nel gregge nuovo ed eterno del Paradiso.
 Adesso, come sapete, doveva esserci la Lavanda dei piedi: non  c’è  oggi. C’è subito la preghiera universale, ma quel gesto ce lo portiamo nel cuore e ci ricorda che proprio dalle relazioni primarie che comincia questo comandamento del Signore, quello di far sì che la propria vita sia servizio, perché noi dobbiamo essere discepoli di colui che è venuto non per essere servito  ma per servire.

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Sintesi dell’omelia pronunciata dal parroco don Remo Chiavarini nel corso della liturgia del Venerdì santo celebrata il 10 aprile 2020 nella chiesa parrocchiale, senza il popolo dei fedeli a causa delle prescrizioni sanitarie per la prevenzione del contagio della malattia Covid-19

 Abbiamo proclamato il Vangelo della Passione  secondo Giovanni. Il Venerdì santo è di solito  pieno di tante manifestazioni: quest’anno è caratterizzato dal silenzio. Ma sempre Venerdì santo è.
  Venerdì santo significa la Passione  del Signore. Noi sappiamo che questa Passione  ancora continua nel mondo. Ogni anno ha la sua caratterizzazione: quest’anno pensiamo agli ospedali, alle sale di rianimazione, dei luoghi della sofferenza di chi ha perso qualche caro. Ogni anno, sempre la sofferenza ci accompagnerà. Come ogni sofferenza, si può affrontare in tante maniere.
 Di fronte alla croce c’è chi si ribella, chi prega, chi non l’accetta, chi l’accetta ma non ne comprende il senso, ma se potesse con grande gioia, se dipendesse da lui, la eviterebbe. E c’è l’esempio del Signore che ci presenta questo Vangelo, un racconto estremamente sobrio: racconta in fondo una tortura, la condanna a morte, ma con una serenità straordinaria, come colui che sa che la sofferenza ha un significato e che quella sofferenza si può tradurre in fonte di vita, se vissuta con amore.
 Una delle caratteristiche fondamentali della Passione  del Signore è questa: non la subisce, non è che gli cade addosso e purtroppo la deve portare avanti, ma volontariamente, per ubbidienza, vi entra.
 Il Signore ci doni di entrare in questo Venerdì santo, così come in ogni Venerdì santo della nostra vita, con quello spirito.

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Sintesi dell’omelia svolta dal parroco mons. Remo Chiavarini durante la Messa  di Pasqua celebrata l’11 Aprile 2020, dopo la  Veglia, nella chiesa parrocchiale, senza il popolo dei fedeli a causa delle disposizioni di prevenzione sanitaria del contagio della malattia Covid-19

 Così finalmente siamo arrivati nel cuore della Pasqua, di questa liturgia pasquale che abbiamo iniziato giovedì. E nel cuore di questa liturgia troviamo il Vangelo della Resurrezione. Il comando del Signore: «Andate ad annunciare quello che avete visto!». E’ quello che in fondo la Chiesa fa durante tutto il tempo, e dunque anche in questa notte, in questo anno della storia del mondo, della storia della Chiesa, la Chiesa annuncia questo fatto: Cristo è risorto.
 Ci sono due parole nel Vangelo che forse sentiamo particolarmente presenti nel nostro cuore, in questa Pasqua.
 La prima è «Non abbiate paura!». Che poi è la stessa cosa di «Non temete!». La paura, il timore, è quello che prende sia le donne che vanno al Sepolcro, perché loro vanno per dare una degna sepoltura al corpo del Signore, e naturalmente, trovando la tomba vuota, la tomba aperta, quella grande pietra rotolata via, capiscono che qualche cosa è successo. Ma poi vedremo che la stessa cosa accade anche ai discepoli, gli apostoli, addirittura Pietro, Giovanni: lo sconcerto. Ecco che anche a loro verrà detto «Non temete!». E viene detto alla Chiesa e viene detto a noi oggi: «Non temete! Non temete! Non temete!», «Non abbiate paura!». Come è bello accogliere questo invito del Signore!
  Non abbiate paura, perché… «Perché io ho vinto la morte. Io ho vinto, sono ancora il Crocifisso». Perché poi il Signore si manifesterà con le piaghe, per cui Cristo che vive in eterno è sempre il Crocifisso e porta sempre con sé le piaghe della Crocifissione, ma quelle piaghe non gli hanno portato la morte, perché lui ha vinto, è andato oltre.

  E questo è l’annuncio della Pasqua. Noi siamo qui perché sappiamo che la Pasqua del Signore non è solo la sua  Pasqua, perché se fosse la sua Pasqua in fondo sarebbe una gran cosa ma una cosa che interesserebbe lui, e invece no, interessa anche noi, perché, come ci ha detto Paolo, Cristo  è risorto per donare per donare la sua vita a coloro che vogliono unirsi a lui attraverso i sacramenti, primo fra tutti il Battesimo. Ecco perché nella notte della Pasqua c’è a centro il Battesimo e siamo chiamati, noi tutti, a fare memoria del nostro Battesimo, perché con il Battesimo siamo entrati con la nostra vita vecchia nella tomba del Signore e siamo risorti a vita nuova. E noi anche, perciò, siamo dei risorti. Questa è la cosa incredibile. Non soltanto Gesù è risorto, ma noi siamo risorti già adesso, perché noi abbiamo già la vita nuova.  Quella vita che Gesù ha inaugurato con la sua Risurrezione. 

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Sintesi dell'omelia del parroco mons. Remo Chiavarini  nella Messa di Pasqua celebrata il 12 Aprile 2020, con inizio alle 9, nella chiesa parrocchiale di San Clemente papa, senza il popolo, in osservanza delle prescrizioni sanitarie per la prevenzione della malattia Covid-19


  Domenica: il Vangelo della Pasqua ci racconta proprio quello che accadde in quel primo giorno della settimana. Questo termine ricorrerà spesso, perché veramente con la Risurrezione del Signore inizia un tempo nuovo.
 Come la settimana era in po' il paradigma che racchiudeva tutta la Creazione, e ogni settimana si ripeteva e ci ricordava tutte le grandi opere di Dio, che aveva compiuto, così inizia una nuova settimana, che significa, secondo il linguaggio biblico che inizia una nuova Creazione.
 Siamo in questo primo giorno della settimana. Ecco perché la domenica è il giorno della fede, il giorno dei cristiani. È il giorno che ci dice che noi siamo già in tempi nuovi. Siamo in quella Creazione nuova che la Resurrezione del Signore ha iniziato.
Noi siamo in cammino, come gli Apostoli, per arrivare a vedere e credere: "E videro e credettero", dice il Vangelo. Questo deve essere anche per tutti noi. 
 Questo cammino è certamente molto diverso l'uno dall'altro. Perché vediamo Pietro che va lento e Giovanni c'è questo termine, particolare, che dice "Il discepolo che Gesù amava". In realtà non si parla proprio di Giovanni; probabilmente dietro questa terminologia c'è indicato ciascuno di noi, perché ciascuno di noi è "il discepolo amato dal Signore", che deve fare questa esperienza, mettersi in cammino e andare verso la tomba del Signore. In una  tomba, quindi in un luogo che parla di morte, in una tomba, quindi in un luogo che parla di morte, in un luogo che contiene anche segni di morte. C'è un sudario, ci sono delle bende, tipiche proprio di una sepoltura. Ma in presenza di questi segni e anche di quel luogo che indica il termine ultimo del cammino dell'uomo, lì anche sperimentare né non si ferma lì, che c'è un inizio nuovo. E credere perciò che il Signore Gesù è il Signore della vita. E che noi, insieme con lui, siamo chiamati a questa vita nuova.
  Questo è il senso della Pasqua. Questo è l'annuncio della Chiesa: "Lode a te, o Cristo!".

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Sintesi dell'omelia svolta dal parroco mons. Remo Chiavarini durante la Messa delle nove nella seconda domenica di Pasqua del 2020, il 19 aprile 2020, celebrata senza la presenza fisica de popolo, a causa delle prescrizioni sanitarie per la prevenzione della malattia Covid-19, ma trasmessa in diretta sul canale YouTube della parrocchia e lì visualizzabile nuovamente.

  Allora, come dicevamo, siamo nell'Ottava di Pasqua, quegli otto giorni dopo in cui i discepoli e la comunità Cristiana si riuniscono di nuovo. E, come vedete, c'è al centro dell'attenzione, della nostra attenzione, una persona che si chiama Tommaso. Oggi è la domenica di San Tommaso, possiamo dire.  È una domenica che ha tanti nomi. Il più antico è Domenica in Albis [Depositis. La domenica in cui le persone che sono stare battezzare nella domenica di Pasqua terminano di indossare vesti bianche che indossavano dal  giorno del Battesimo, le depongono].Poi c'è Domenica della Misericordia, recentemente così chiamata su suggerimento del Papa Giovanni Paolo 2^. Oppure la Domenica di Tommaso, perché in questo Vangelo, che si legge sempre in questa domenica, c'è questa persona che ci rappresenta tanto, e che rappresenta un pochino tutta la Chiesa. Perché lui fa un percorso che è quello che  ogni discepolo del Signore, e la comunità cristiana, deve fare lungo la storia, e in modo particolare in questo Tempo di Pasqua.
  Qual è il significato di questo Tempo di Pasqua, di questi cinquanta giorni che vanno dalla Pasqua alla Pentecoste? È proprio quello: rendersi sempre più convinti, fare l'esperienza, che c'è il Signore, che il Signore risorto è presente in mezzo a noi. Quindi non essere più incredulo ma credente. È il cammino della fede. E noi lo facciamo con l'aiuto della Parola di Dio.
  Che cosa ci dice questo Vangelo? Ci dice che: le porte erano chiuse, c'era paura, lo shock era stato grande, la crocifissione del Signore non era stata una  passeggiata. Quindi c'è paura, ci sono i segni della morte intorno che prevalgono. Ma sono riuniti i discepoli. E, la cosa straordinaria: Gesù viene. Sta in mezzo, addirittura dice, con una frase piuttosto forte, il Vangelo. È questo è quel grande compito dello Spirito, lo Spirito Santo che compare, anzi comincia a comparire come dono, questo è quello che lo Spirito Santo realizza: rendere presente Gesù in mezzo
alla comunità. È quello che fa oggi e farà sempre. Lo Spirito Santo rende presente Gesù, che si fa capire essere vivo, nonostante, ecco l'altra caratteristica, porti ancora i segni della morte del suo corpo. Perché Tommaso gli dice "Se io non metto le mie dita nella piaga" -soprattutto nella piaga del costato, quella che rendeva chiaramente presente la morte nel corpo di Gesù, perché era la piaga che arrivava al cuore, che aveva squarciato il cuore - "io non credo!". È lì, ecco la cosa incredibile e straordinaria, Gesù apre le sue piaghe e dice "Io porto dentro di me, nel mio corpo la piaga aperta, il segno della morte, e la porterò per sempre, tutta la storia sarà una storia in cui i segni della morte sono presenti, ma nonostante questi segni però io sono il vivente.
  Ecco qua il grande ostacolo per la fede, di Tommaso e di ciascuno di noi. Capire che, nonostante i segni della presenza della morte, c'è Gesù che è vivo.
 Come fa Tommaso a fare questo passo? C'è lo dice il Vangelo stesso quando dice che Tommaso era insieme con gli altri discepoli. Non dice "Voi siete degli illusi, per cui io vado per conto mio". Ritorna e, quando sono insieme, Gesù si ripresenta.
 Ecco qua allora il senso della nostra riunione domenicale: nel giorno di domenica la Chiesa si riunisce, riunisce i suoi discepoli, i discepoli del Signore, non tutti con una fede forte, anzi molti con dei grossi dubbi, con delle grosse difficoltà di credere: ma nonostante tutto sono presenti. E piano piano Gesù a tutti fa fare questo cammino. Questo cammino che li porterà a rendersi conto che il Signore è  realmente risorto.
 E allora, con grande nostalgia noi celebriamo questa domenica ancora divisi, in attesa di ritrovarci insieme. perché abbiamo bisogno tutti di fare questo cammino.

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Sintesi dell’omelia pronunciata dal parroco mons. Remo Chiavarini durante la messa della 3° Domenica del Tempo di pasqua, il 26 Aprile 2020, celebrata nella chiesa parrocchiale senza la presenza del popolo, per le misure di prevenzione sanitaria in corso di epidemia di Covid-19, ma teletrasmessa mediante Youtube.


 Come domenica  scorsa ci ha  fatto compagnia    Tommaso, così questa domenica, 3° del Tempo pasquale, possiamo dire che ci fanno compagnia questi due discepoli , che scendono  da Gerusalemme  verso Emmaus.  Il giorno è sempre quello: quel primo giorno della settimana, giorno di grandi annunci, di grandi incontri.
 E, come Tommaso rappresentava tutti noi, è la figura del discepolo che è chiamato a fare un cammino per riconoscere che Gesù è il vivente,  anche i discepoli di Emmaus  ci rappresentano, perché anche noi dobbiamo fare questo cammino.
 Il primo tratto è quello di ritornare ciascuno alla propria casa, dopo aver vissuto un’esperienza che poteva essere molto promettente, molto coinvolgente, ma che ormai era finita, i  verbi che utilizzano nel loro linguaggio sono ormai al passato: soprattutto speravamo è il verbo sintomatico.
  Vanno ad Emmaus. Anche lì, vedete, Emmaus   è un grande rebus, nella geografia evangelica, biblica, perché sia gli archeologi che gli esegeti sono alla ricerca di questo luogo, e in Terra Santa, come sa chi qualche volta c’è andato, ci sono tanti luoghi che vogliono essere la Emmaus del Vangelo. Probabilmente non c’è una Emmaus fisica, perché ognuno ha la sua Emmaus, possiamo dire, cioè il luogo dove è chiamato, e soprattutto a riconoscere il Signore.
Quindi ciascuno di noi ritorna, con un cuore un pochino disilluso, e rientra nella sua casa,  a volte con lo stesso atteggiamento del chiudere le porte, si fa sera, e ormai tutto è  finito,  non c’è più, possiamo dire,   possibilità di futuro.
  Ma succede un fatto, che è molto interessante e il Vangelo lo esplicita bene. C’è l’invito: «Rimani con noi!». Quindi si apre la nostra casa, la nostra vita, a uno straniero, uno sconosciuto, e con lui anche si condivide la cena. E la cosa interessante è che, mentre spezzano il pane, i loro occhi si aprono.
  Ecco qua allora che cosa ci dice il Vangelo. Per riconoscere Gesù bisogna fare questo passo: spezzare il pane, che ha un significato grande. Certamente nel Vangelo quello spezzare il pane è il gesto dell’Eurcaristia, Gesù prese il pane e lo spezzò, per cui è nell’Eucaristia domenicale che si aprono i nostri occhi, e siamo chiamati a riconoscere la presenza del Signore. Ma lo spezzare il pane, anche umanamente, significa condividere, non rinchiuderci in noi stessi, saper entrare in questa com-pagnia,  che come sapete significa   spezzare e mangiare lo stesso pane.  E allora lì si  aprono gli occhi e non c’è più bisogno di vederlo fisicamente  il Signore, perché si capisce che il Signore c’è.  E riprende il coraggio,  la forza, e [quei discepoli] sono capaci, nonostante il buio, di riprendere il cammino e di ritornare a Gerusalemme.
  Anche noi abbiamo bisogno di riprendere un cammino, di riprendere forza. Come   possiamo farlo? Secondo quello che ci dice il Vangelo. Se sappiamo condividere, spezzare il pane insieme, allora  i nostri  occhi si aprono,  e riconosciamo che Gesù è sempre stato con noi,  anche quando non lo percepivamo,  anche quando ci diceva che, lui il Messia, doveva  soffrire. Quindi possiamo dire: era necessario passare attraverso la prova, la sofferenza,  che non era fine a se stessa, ma era in preparazione di qualcosa di più grande.
  Allora [quei discepoli] non hanno più paura e riprendono il cammino.

  E’ quello che ci auguriamo anche noi. Lo chiediamo al Signore: di  saperlo riconoscere, attraverso la nostra condivisione,   in mezzo a noi  e  riprendere  con forza e con  entusiasmo il cammino che la vita ci presenta davanti.

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Sintesi dell’omelia svolta dal parroco, mons. Remo Chiavarini, durante la messa delle nove celebrata nella chiesa parrocchiale, il 3 maggio 2020, 4° Domenica del Tempo di Pasqua, senza la presenza del popolo, per le misure di prevenzione del contagio della malattia Covid-19, ma diffusa in televisione mediante il network Youtube.


  È sempre molto bello ascoltare questo brano del Vangelo, che è preso dal capitolo 10° del Vangelo di Giovanni. Nel lungo discorso in cui Gesù, prende l’immagine del pastore, che era molto viva, presente, nella mente, negli occhi, di chi lo ascoltava in Palestina, duemila anni fa, ma anche di tutti coloro che conoscevano bene la Bibbia, perché l’immagine del pastore attraversa un po’ tutta la letteratura biblica. Non per niente abbiamo pregato, dopo la prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, con le parole del salmo 22, «Il Signore è il mio pastore…», che è uno dei salmi che forse conosciamo di più, molto bello, «Se anche dovessi passare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me». Quindi l’immagine del pastore è molto presente.
  Oggi in Israele è sempre più difficile vedere questi pastori, queste greggi, forse trent’anni fa era più facile. Però basta andare in Giordania, in Siria, che ancora si vedono queste immagini.
  Ma che cosa ci vuol dire Gesù?
  Gesù ci vuol dire questo: bisogna stare attenti a chi seguire. Perché ci sono tanti pastori. Pastori, voi lo capite benissimo, sono quelli che guidano. C’è la porta, dice Gesù, che fa entrare e fa uscire. Poi in questo brano del Vangelo Gesù stesso dice «Io  cammino davanti a loro, faccio uscire le mie pecore e le porto al pascolo». E le pecore lo seguono. Ecco è importante capire chi seguire.
  Perché?
  Perché non sempre il pastore che si segue è un pastore che veramente si prende cura delle sue pecore, e si interessa che le pecore arrivino a dei pascoli dove c’è del buon cibo, a delle fonti dove ci sia dell’acqua veramente buona. In giro per il mondo, da sempre, il cibo non è sempre adatto – naturalmente voi capite che cibo significa tante cose -, non sempre le fonti che noi incontriamo danno veramente acqua della vita, a volte sono anche fonti avvelenate.
 Noi  sappiamo sempre – ma anche oggi, basta guardare, aprire la televisione -, quanti si propongono come pastori, come coloro che hanno la ricetta magica, coloro che conoscono il segreto per risolvere i problemi, e naturalmente invitano ad essere seguiti. Molti vanno  loro dietro. Poi purtroppo si capisce che queste persone che si propongono come guide, come pastori, il più delle volte deludono, e alcune volte si capisce che hanno ben altre intenzioni che fare il bene del popolo, delle pecore.
   Gesù ci dice: «Io sono il Buon Pastore: il Buon Pastore perché voglio che voi abbiate la vita, e non soltanto la vita, ma che questa vita sia abbondante, sia bella». Perché non basta vivere, bisogna anche vivere bene, vivere una bella vita.
  Una bella vita la si vive quando si è in pace con se stessi, si è in pace con gli altri, si capisce il senso delle cose che si affrontano, anche delle difficoltà che si devono affrontare e superare.
  Questo è quello che Gesù ci propone. Lui è il Bel Pastore, il Buon Pastore, vuole che anche noi abbiamo una bella vita.
 E allora chiediamo al Signore di essere furbi, di non andar dietro a tutte le lusinghe varie che ci vengono, ma di avere il fiuto della pecora saggia, pecore sagge, non pecore matte come direbbe anche Dante (* vedi sotto), che vanno dietro a tutti; di saper capire chi ha veramente parole di vita, e di vita piena.
   Anche noi, insieme con gli apostoli, i quali ad un certo punto, in un certo momento  della loro vita, si trovarono a dover scegliere e dissero al Signore «Signore, tu solo hai parole di vita eterna», quindi tu solo sei colui che vale la pena di seguire.

(*) citazione da:
Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, canto 5°:
«Avete il novo e l’l vecchio Testamento, / e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo vi basti a vostro salvamento. /  Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate, e non pecore matte,…»

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Sintesi dell’omelia svolta dal parroco, mons. Remo Chiavarini, durante la messa delle nove celebrata nella chiesa parrocchiale, il 10 maggio 2020, 5° Domenica del Tempo di Pasqua, senza la presenza del popolo, per le misure di prevenzione del contagio della malattia Covid-19, ma diffusa in televisione mediante il network Youtube.



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Vangelo
Io sono la via, la verità e la vita.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 14,1-12
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch'egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».
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 Questo brano del Vangelo sembra un po’ complicato. E potrebbe anche esserlo, perché le cose che ci trasmette sono talmente tante, e sono talmente fondamentali, che potrebbero anche lasciarci smarriti.
  Ma una delle cose che poi scopriamo, a mano a mano che si va avanti,  e che in questa fede, che sembra così complicata per le cose che ci dice e che dobbiamo credere, poi alla fine, quando le abbiamo comprese bene, tutto si  semplifica e diventa molto semplice, molto essenziale.
 Così quello che oggi il Signore ci vuol dire è un discorso molto colloquiale, usa delle immagini che ci sono molto care. Per esempio all’inizio si parla di un turbamento.  Turbamento  è una parola che ci parla di paura, di smarrimento, di difficoltà a stare con i piedi per terra, con serenità.
 La paura è qualcosa di molto presente nella nostra vita.
  Teniamo conto che Gesù parla alla vigilia della Passione, del tradimento, della Crocifissione. In quei giorni terribili che sicuramente non devono essere stati semplici. Per lui chiaramente, ma neanche per chi gli stava vicino, per i suoi discepoli, per il suo ambiente: erano cose talmente truci, talmente grandi, che sconvolgevano la mente anche di persone molto solide, abituate a tutto, come Pietro e come tanti altri. Qualcosa di grosso. E quindi Gesù in quel discorso al Cenacolo, in quell’Ultima Cena, prepara i discepoli e dice «Ci sarà un turbamento, ci sarà una paura che vi prenderà».
  La parola pauraturbamento, timore è una delle parole che ricorre più spesso nella Bibbia. Qualcuno sembra che si sia messo a contare quante volte c’è e addirittura la cosa sorprendente è che, ricorre per ben – mi pare – 365 volte: un numero che ci fa subito accendere una lampadina, perché sono tali i giorni dell’anno. In tutta la Bibbia per ben 365 volte c’è proprio questa frase “Non temere! Non avere paura!”. Perché probabilmente si sa che è un sentimento con cui dobbiamo convivere. Un sentimento anche salutare: guai a chi non ha paura di niente, perché è pericoloso! Rischia di fare passi falsi. Però neanche dobbiamo rimanere prigionieri di questo sentimento. E come si fa a non esserlo? Gesù ci dice: «Abbiate fede! Abbiate fede in Dio, abbiate anche fede in me». La fede, il credere, dice Gesù, «Credete in me, credete nel Padre che mi ha mandato», è la medicina per superare lo smarrimento, il turbamento, la paura. E io credo che questa Parola, sempre ma anche in questi giorni, in questo momento, ci arriva proprio diritta al cuore. E l’accogliamo ben volentieri! E chiediamo al Signore che penetri in noi, che aumenti la nostra fede in lui, quella fede che ci fa credere che realmente lui è la presenza dell’amore di Dio. «Chi ha visto me, ha visto il Padre»: perché poi Gesù ci dice proprio questo: il Padre, questo termine che lui usa sempre per indicare Dio – questo termine molto bello -, è in lui e, attraverso di lui, arriva fino a noi, e compie delle opere grandi, che vedremo. Poi la cosa incredibile  - tra le tante che possiamo prendere da questo brano – è quella che c’è quasi verso la fine: «Colui che crede in me compirà cose più grandi di quelle fatte da  me». Naturalmente non le compie lui, ma le compie il Padre attraverso di lui  - quindi attraverso di noi!-. Perché, in fondo, Gesù è venuto per questo, per portarci la vita del Padre. Questa vita che in Gesù, nella sua umanità, ha compiuto cose straordinarie, ma poi, se il Vangelo è vero, come  è vero, questa vita che entra in noi  compirà  attraverso di noi cose più grandi ancora. Che questo sia vero, lo possiamo dire anche tenendo conto che Gesù è sempre stato in Palestina, ha predicato a qualche centinaio, qualche migliaio di persone, ma poi i suoi discepoli sono usciti dalla Palestina, e oggi parlano a tutto il mondo. La Chiesa parla di Dio con forza, con coraggio, senza paura, a tutta l’umanità. Compie cose più grandi di quelle fatte da Gesù, da questo punto di vista.
  Gesù partecipa della vita del Padre e questa vita poi l’ha trasmessa a noi, e  la trasmette a noi ancora!, e ci dà la forza per portare avanti queste opere del Padre. Come ce la trasmette? Ce la trasmette attraverso i sacramenti.
 Per esempio il sacramento dell’Eucaristia. Perché ci manca tanto, in questo tempo? Nel quale  non vediamo l’ora di poter celebrare pienamente l’Eucaristia, di poter ricevere la Comunione. Perché, anche se non lo comprendiamo fino in fondo, sappiamo che attraverso i sacramenti, attraverso quel pane e quel vino, che sono il Corpo e il Sangue del Signore, ci arriva la vita di Dio. Arriva lo Spirito, che entrando in noi ci dà la possibilità di essere vivi e ci dà la possibilità di compiere le opere che il Signore vuole che noi compiamo.
   Per finire: un’immagine. Una delle cose che abbiamo capito che questo maledetto virus fa, è che ad un certo punto blocca i polmoni. E diviene quindi impossibile ai polmoni ossigenare il sangue. L’ossigeno che ci arriva attraverso il respiro entra nel sangue e poi, attraverso il sangue, arriva a tutte le cellule del corpo, che sono vive, perciò possono portare avanti al vita. Se non c’è questo, se non c’è questo ossigeno, che attraverso il sangue arriva a tutte le nostre cellule, non c’è vita.
  Vedete, come ci arriva l’ossigeno di Dio, il suo Spirito? Attraverso  il sangue di Gesù, che entra in noi e, mediante la sua presenza, porta lo Spirito, la vita, l’ossigeno, a tutta la  nostra esistenza, e ci permette di essere vivi e perciò operanti.
 Ecco perché abbiamo bisogno della celebrazione dell’Eucaristia. Ecco perché la desideriamo tanto. Ecco perché ringraziamo Dio se ci dà la possibilità di poter celebrare e di poterci ritrovare insieme. Perché dobbiamo fare cose grandi. Noi siamo fatti per cose grandi, non per piccole cose. Il Signore ci ha dato un compito incredibile, addirittura ci ha detto “Voi farete cose più grandi di quelle fatte da me”. Questo è il nostro sacerdozio, che abbiamo ricevuto nel Battesimo tutti e che dobbiamo esercitare per rendere gloria a Dio.

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Sintesi dell’omelia svolta dal parroco, mons. Remo Chiavarini, durante la messa delle nove celebrata nella chiesa parrocchiale, il 17 maggio 2020, 6° Domenica del Tempo di Pasqua, senza la presenza del popolo, per le misure di prevenzione del contagio della malattia Covid-19, ma diffusa in televisione mediante il network Youtube.

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Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 14,15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Parola del Signore

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 E’ una domenica particolare questa, sesta del Tempo di Pasqua, perché comincia a comparire nella Scrittura che abbiamo ascoltato, in modo particolare con il Vangelo, nonché nel brano degli Atti degli apostoli, un personaggio - chiamiamolo così - che sarà sempre più centrale nelle prossime domeniche.
 E chi  è questo personaggio?
   Ecco vediamo subito … dice così: «Io pregherò il Padre ed egli vi dar un altro Paraclito». Poi dice: «Lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce, voi lo conoscete.»
 Quindi comincia a entrare in gioco questo Spirito, questo Paràclito. E già noi sappiamo, perché siamo un pochino smaliziati!, che siamo proiettati alla Pentecoste, al culmine, al termine, alla conclusione, al frutto maturo, di tutto questo lungo periodo che ha avuto la  Pasqua come cuore, come centro, ma ha avuto tutta la preparazione della Quaresima, e poi a questo sviluppo che porta - come dire? - a questo frutto maturo  che è il dono dello Spirito. Questo Paràclito che ci viene donato, che - impareremo a capirlo - è il modo in cui Dio si rende presente - possiamo dire - nella vita, nella concretezza, nel cuore delle persone, di coloro che, attraverso la fede, hanno aperto la loro vita a questo Dio che si vuole donare.
  Quindi iniziamo idealmente questa novena che ci porterà a Pentecoste, alla conclusione del Tempo di Pasqua.
  Il tempo corre veloce, anche questo tempo che abbiamo vissuto quest’anno in maniera del tutto particolare.  Con una Pasqua inedita, possiamo dire, da un certo punto di vista, almeno come celebrazione.
 Ma la liturgia, con i suoi ritmi, ci accompagna, ci fa capire che andiamo verso questa conclusione, questa maturazione.
 Noi vogliamo chiedere veramente al Signore di non perdere questo ritmo, ma, anche in questo modo inedito, di vivere bene questa Pasqua di questo anno unico e particolare, che la Provvidenza ci ha dato da vivere.
  Perché è il dono dello Spirito che dobbiamo accogliere dentro di noi, perché è quel dono che ci rende figli di Dio veramente, che crea in noi quell’immagine che il Padre vuole che si configuri e che si disegni in maniera perfetta - possiamo dire - ,  in maniera tale che ciascuno di noi possa essere figlio nel Figlio.
  Quando il Padre Dio ci guarda possa vedere in noi l’immagine del Figlio, di Gesù. E questo è opera dello Spirito, che è il vero dono dell’Incarnazione, il vero dono della Passione e il vero dono della Resurrezione del Signore.
  E quindi, con questo atteggiamento, camminiamo verso questa pienezza del Tempo Pasquale, che ci attende, ormai tra due settimane, quando celebreremo la Pentecoste. Domenica prossima ci sarà la celebrazione dell’Ascensione e capiremo anche il messaggio che ci viene dato dalla Parola di Dio, dalla Liturgia, e celebreremo la festa dell’Ascensione finalmente di nuovo  insieme, intorno all’altare del Signore! [Camminiamo]  con  queste parole molto belle che il Vangelo ci lascia,  «Non vi lascerò orfani» -  ricordiamo sempre che siamo ancora nel Cenacolo, proprio alla vigilia della Passione del Signore ed  è Gesù che parla, e apre il suo cuore e ci dice che rimane con noi, che vuole rimanere con noi, lui pregherà e ci sarà donato questo Paràclito, questo avvocato difensore, questa vita nuova, che non ci abbandonerà più-. E poi c’è questa comunione grande: «Chi ama me, sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui». Il grande comandamento dell’amore, che sempre ritorna al centro della predicazione del Signore.  

Dopo la Preghiera dei fedeli

Dio grande e misericordioso che nel Signore risorto riporti l’umanità alla speranza eterna, accresci in noi l’efficacia del mistero pasquale, con la forza di questo sacramento di salvezza, per Cristo nostro Signore!
  E così, come ci siamo detti, siamo in questo tempo particolare che ci porterà alla Pentecoste, passando domenica prossima per la festa dell’Ascensione, alla conclusione di questo bellissimo Tempo di Pasqua.
 Possiamo dire che viviamo questo tempo, nelle ultime due settimane del mese di maggio, come una grande Novena in preparazione alla Pentecoste, per ricevere il dono dello Spirito, che è il vero frutto maturo della Passione, delle Resurrezione del Signore, perché tutto porta lì. Porta al fatto che Dio vuole rimanere in noi, nella nostra vita. Vuole vivere con noi e questo è opera dello Spirito. Quindi viviamo questi quindici giorni con questa invocazione particolare: «Vieni Santo Spirito! Vieni in ciascuno di noi! Vieni sulla tua Chiesa!  Vieni nel mondo intero!». Perché c’è bisogno che lo spirito rinnovi  e faccia nuova  la faccia della Terra, la faccia della Chiesa, la faccia di ciascuno di noi, possiamo dire. Ciascuno si deve rinnovare attraverso questo dono.
 Ci saranno degli appuntamenti importanti.
  Domenica prossima ci sarà il diaconato di Salvatore, in questa chiesa, nel pomeriggio, nella celebrazione del pomeriggio. E, in vista dell’ordinazione di domenica, giovedì prossimo, alle 20:30, faremo una veglia di preghiera.
  Ci sarà da domani, di nuovo, la possibilità di partecipare all’Eucaristia. Quindi si ritorna normalmente all’orario di sempre, nei giorni feriali alle nove del mattino e alle sette del pomeriggio, e poi, da sabato e domenica, nell’orario normale di ogni domenica [agli orari soliti], con la partecipazione anche della gente, con ancora delle regole un po’ particolari, ma poi di volta in volta ci sarà detto come poter partecipare.
 Che il Signore ci aiuti a vivere bene queste norme, come abbiamo sempre fatto finora. Ci hanno permesso di camminare  sulla strada che ci porterà fuori da questo tempo particolare, che la Provvidenza ha voluto che noi vivessimo.  Come tutti i tempi, come in tutte le cose, ci saranno dei messaggi dietro, che vanno anche compresi, capiti. Il Signore che cosa ci ha voluto dire, ci vuol dire, attraverso questa pandemia?
  Detto questo invochiamo il dono della benedizione di Dio per vivere bene anche questo tempo che ci attende, che sia un tempo di grazia, un tempo nel quale si manifesta l’amore del Signore. E noi siamo pronti ad accogliere questo amore e a leggere  i segni dei tempi.  Perché il Signore parla, sempre, e sta a noi capire questo linguaggio, e decifrarlo.   

Prima della benedizione finale

 Da domani la celebrazione delle messe riprenderà negli orari consueti, con la partecipazione anche della gente.
  Non sia semplicemente un ritorno ad una consuetudine, ma sia una ripartenza vera, che ci trovi desiderosi di ripartire con un  nuovo entusiasmo, per rimettere veramente al centro questo appuntamento con il Signore, nella sua Eucaristia, non soltanto per la nostra comunità parrocchiale, ma per tutte quelle comunità sparse nel mondo.