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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

ON THE WEBSITE www.bibbiaedu.it THE ITALIAN TRANSLATIONS OF THE BIBLE CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONAL IN CURRENT LANGUAGE AND THE BIBLICAL TEXTS IN ANCIENT GREEK AND ANCIENT JEWISH MAY BE CONSULTED. WITH A FUNCTIONALITY OF THE WEBSITE THE VARIOUS TEXTS MAY BE COMPARED.

Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

lunedì 21 novembre 2016

PER FARE MEMORIA DELLA STORIA POLITICA CHE HA PRODOTTO LA LEGGE DI REVISIONE COSTITUZIONALE NON CONFERMATA AL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE 2016

PER FARE MEMORIA DELLA STORIA POLITICA CHE HA PRODOTTO LA LEGGE DI REVISIONE COSTITUZIONALE NON CONFERMATA AL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE 2016


Nuova edizione, integrata e ampliata, anche con le osservazioni critiche che mi sono pervenute e la mia opinione su di esse, un capitolo delle note estese (il 28) con la valutazione sulla riforma delle autonomie regionali,  un capitolo (il n.31) sul Senato statunitense, due capitoli (i n.32 e 33) con un bilancio complessivo sul senso della riforma costituzionale e l'ultimo capitolo, il 34, con le argomentazioni pro e contro la riforma di Stefano Ceccanti e di Roberto Scarpinato!
TUTTA la riforma costituzionale del 2016 in poche pillole e poi anche molto di più per approfondire!






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Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana: «Ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali» In tal senso, l’ecologia sociale è necessariamente istituzionale e raggiunge progressivamente le diverse dimensioni che vanno dal gruppo sociale primario, la famiglia, fino alla vita internazionale, passando per la comunità locale e la Nazione. All’interno di ciascun livello sociale e tra di essi, si sviluppano le istituzioni che regolano le relazioni umane. Tutto ciò che le danneggia comporta effetti nocivi, come la perdita della libertà, l’ingiustizia e la violenza. 
 [dall’enciclica Laudato si’, del maggio 2015, di papa Francesco, n.142]

  
 Tutti i maggiori protagonisti dell’attuale fase politica, erano convinti che, dalla conferma della legge di revisione costituzionale del 2016, sarebbe iniziata un’altra fase storica, sciogliendo il patto emergenziale che era stato  all’origine di quella attuale.  Come accadde nel 1991, con il referendum sulla preferenza unica, anche quest’anno  un referendum istituzionale,   quello sulla riforma costituzionale, sarebbe stato alla base di un mutamento di fase della storia nazionale. Attualmente viviamo in un fase di transizione tra la Repubblica dell’alternanza bipolare tra coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra, durata dal 1994 al 2011, e un altro sistema istituzionale-politico  i cui contorni non sono ancora chiari, e che potrebbe essere una vera e propria Terza Repubblica. I teorici della riforma costituzionale del 2016 volevano produrre un rafforzamento della posizione del Governo verso tutti gli altri centri decisionali, in particolare per l'effetto combinato della riforma della legge elettorale per la Camera dei deputati, la quale prevedeva il dominio di quest'ultima da parte del partito del Governo, attribuendogli una solida maggioranza parlamentare nella sola Camera che, secondo la legge di revisione costituzionale avrebbe votato la fiducia. Questa riforma costituzionale trovava origine nella grave crisi economica, politica e istituzionale prodottasi nell’autunno 2011 (sul tema rimando al capitolo 28 degli appunti estesi che seguono).
 Il recente proposito, emerso a seguito di un accordo politico nel principale dei partiti della coalizione di governo, di modificare, dopo il referendum, l’attuale legge elettorale per la Camera dei deputati (che con il ballottaggio porterebbe comunque alla maggioranza assoluta il maggiore dei partiti di minoranza, qualunque sia il numero di voti elettorali raccolto,  costituendolo partito maggioritario, e che era un elemento fondamentale, unitamente alla revisione costituzionale, per il cambio di fase alla Terza Repubblica) non cambia la situazione perché: 
a) l’accordo politico per la modifica di quella legge elettorale  è solo un abbozzo, non sufficientemente dettagliato per apprezzarne gli effetti; 
b) per quanto si dichiari di voler eliminare il ballottaggio (un secondo turno elettorale tra i due maggiori partiti di minoranza), si intende comunque mantenere un premio di maggioranza, senza però precisarne l’entità; 
c) l’accordo non è legge vigente e, essendo stato raggiunto in uno solo dei partiti della coalizione di governo e per di più in un partito travagliato da importanti dissensi interni, potrebbe non essere facile tradurlo in legge, anche tenendo conto della situazione politica piuttosto fluida. 



figura 1. Siamo in una fase di passaggio ad un nuovo sistema istituzionale e politico, che potrebbe essere una  Terza Repubblica. Nella vignetta la Prima Repubblica (1948-1994) è rappresentata da una balena bianca (la Democrazia Cristiana, il partito egemone in quella fase veniva chiamata balena bianca perché era un grande partito capace di movimenti molto veloci e spesso non visibile in tutte le sue dimensioni, come un balena sott'acqua. La Seconda Repubblica (1994-2011), quella dell'alternanza bipolare tra due coalizione di opposte tendenze politiche viene rappresentate da un uccello con due teste, sul modello dell'aquila bicefala che figurava nello stemma degli Asburgo, gli imperatori d'Austria. La Terza Repubblica è raffigurata da un punto interrogativo su una figura umana stilizzata, perché non sappiamo ancora come sarà e chi ne sarà il personaggio egemone. La fase di passaggio in cui siamo, la nicchia della storia, è raffigurata da un'automobile che marcia verso la Terza Repubblica.


But I can’t think for you
You’ll have to decide”
nella canzone With God on our side (1963),  di Bob Dylan (cantautore statunitense, n.Duluth, Minnesota, Usa, nel 1941; Premio Nobel per la letteratura nel 2016)
traduzione:
Non penso per te,
devi decidere tu”

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PILLOLE DI RIFORMA COSTITUZIONALE
L’ESSENZIALE DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 2016, CON CONFERMATA DAL REFERENDUM COSTITUZIONALE DEL 4 DICEMBRE 2016,  IN POCHE PAROLE

IL NUOVO SENATO

 I membri del nuovo Senato saranno 100, oltre agli ex Presidenti della Repubblica, i quali continueranno ad essere senatori a vita di diritto, cessati dalla carica presidenziale.
 95 senatori saranno eletti su base regionale dai consiglieri regionali e dai consiglieri delle Province autonome di Trento e Bolzano; 5 senatori saranno nominati dal Presidente della Repubblica
 I nuovi senatori eletti saranno scelti tra i consiglieri regionali e tra i sindaci. In particolare ogni Consiglio regionale e i Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano nomineranno ciascuno un senatore scelto tra i sindaci dei propri territori.  I senatori-sindaci saranno 21.
 I senatori scelti tra i consiglieri regionali dovranno continuare a fare i consiglieri regioni. Se, per qualsiasi motivo, cesseranno di essere consiglieri regionali, decadranno dalla carica di senatori.
 I senatori scelti tra i sindaci dovranno continuare a fare i sindaci. Se, per qualsiasi motivo cesseranno di essere sindaci, decadranno anche dalla carica di senatori.
   I nuovi senatori nominati dal Presidente della Repubblica dureranno sette anni.
  I nuovi senatori non avranno uno stipendio per il lavoro parlamentare in Senato.
 Nulla cambierà, invece, per i senatori a vita di nomina presidenziale attualmente in carica e per i senatori ex Presidenti della Repubblica.
 Il nuovo Senato non durerà cinque anni come oggi. Il nuovo Senato non avrà una data di scadenza, sarà rinnovato continuamente, ma parzialmente, a mano a mano che scadranno i Consigli regionali e i Consigli delle Province Autonome di Trento e di Bolzano che ne avranno nominati i membri. In quel momento, infatti, i senatori eletti dai Consigli uscenti decadranno dalla carica: ne dovranno essere eletti di nuovi dai nuovi Consigli. E, comunque, quando un senatore cesserà di essere  membro del Consiglio che lo ha eletto o sindaco, ad esempio per dimissioni, decadrà dalla carica al Senato.
 Il nuovo Senato non potrà più essere sciolto dal Presidente della Repubblica.
 Il nuovo Senato non voterà più la fiducia al Governo: la voterà solo la Camera dei deputati. 
  Il bicameralismo perfetto, o paritario, che si ha quando le due Camere del Parlamento devono deliberare sullo stesso disegno di legge che non può essere approvato senza la decisione concorde di entrambe,  non sarà abolito, ma solo ridotto. 
 Dovranno continuare ad essere approvate collettivamente dalle due Camere, come avviene attualmente, diversi tipi di leggi, in particolare le leggi costituzionali, quelle di attuazione della normativa europea e quelle che riguardano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane.
  Tutte le altre leggi dello Stato, comprese quelle che invadono il campo legislativo delle Regioni in considerazione dell’interesse nazionale, saranno approvate definitivamente solo dalla Camera dei Deputati, ma il Senato potrà proporre modifiche che la Camera dei deputati potrà però non accogliere, decidendo definitivamente. Per le leggi che invadono legislativo delle Regioni, la Camera dei deputati solo a maggioranza assoluta potrà respingere proposte di modifica deliberate dal Senato a maggioranza assoluta.
 Il nuovo Senato non potrà fare leggi senza il concorso della Camera dei deputati. Farà meno tipi di leggi rispetto alla Camera dei deputati, ma tutte quelle che farà dovranno essere approvate con procedura bicamerale, come avviene attualmente.



figura 2. Camera e cameretta

RIFORMA DELL’AUTONOMIA REGIONALE

 Le Regioni svolgono funzioni che condizionano da vicino la vita della gente e fanno anche leggi, come il Parlamento.
 In Italia fin dal 1946, quando fu costituita la prima Regione italiana, quella della Sicilia, a statuto speciale approvato con legge costituzionale entrata in vigore prima della Costituzione, si legifera a livello regionale e si legifera con un sistema monocamerale. Le leggi regionali sono infatti  approvate dai Consigli regionali. Per la generalità delle Regioni a statuto ordinario, l’attività legislativa  iniziò nel 1970.
  Vi sono anche due Province Autonome, quelle di Trento e di Bolzano, istituite dallo statuto speciale della Regione Trentino Alto Adige del 1948, successivamente modificato più volte,  che hanno potere legislativo. Saranno le uniche due Province a rimanere in Italia. Ciascuna di queste Province Autonome nominerà un senatore-sindaco nel nuovo senato. 
 I senatori-sindaci del nuovo Senato saranno 21, su 100 senatori (95 eletti dai consiglieri regionali, dei quali 74 tra gli stessi consiglieri regionali,  e 5 nominati  per sette anni dal Presidente della Repubblica), oltre ai senatori a vita ex Presidenti della Repubblica. Il nuovo Senato sarà così collegato con le autonomie locali.
  Le Regioni italiane sono venti, tra le quali il Lazio. Hanno uno statuto speciale, quindi particolari regole di autonomia, la Sicilia (la prima Regione ad essere stata istituita), la Sardegna, il Trentino Alto Adige,  la Valle D’Aosta e il Friuli Venezia Giulia. Le altre Regioni sono regolate dalle norme costituzionali comuni e sono dette a statuto ordinario. La riforma costituzionale, per la parte che riguarda l’autonomia regionale e i rapporti tra Stato e Regioni,  non si applicherà alla Regioni a statuto speciale, salvo in quella parte che, in alcune materie, consente di ampliare ulteriormente con legge dello Stato l’autonomia regionale prevista nella riforma.
  Le materie più importanti di cui si occupano le Regioni, con le loro leggi, sono la sanità (come si cura la gente), l’urbanistica e l'edilizia (dove e come si  costruisce), l’edilizia popolare (dare case a tutti), la mobilità locale (trasporti e viabilità), l’ordinamento e funzioni degli enti locali per la parte non riservata allo Stato. Le Regioni possono anche istituire tributi. Ma le Regioni si occupano anche di molte altre materie. A partire dalla riforma costituzionale del 2001 è previsto che possano fare leggi in tutte le materie non riservate espressamente alle leggi dello Stato. 
 Con la riforma costituzionale approvata quest'anno e sulla quale decideremo nel prossimo referendum amplia lo spazio riservato alle leggi dello Stato, detto di legislazione esclusiva, ci si è proposti di  rimediare a problemi di contrasti di competenza che si erano prodotti tra Stato e Regioni nelle materie di legislazione concorrente, vale a dire quelle in cui potevano legiferare sia lo Stato che le Regioni, ad esempio, e l’argomento  è purtroppo di grande attualità, la protezione civile. In quest’ultimo settore sarà mantenuto il sistema di legislazione  concorrente, perché, nonostante che la materia sia contemplata nel campo della legislazione esclusiva, alle leggi del Parlamento statale competerà di regolare solo il sistema nazionale e il coordinamento del servizio della protezione civile, con ampi spazi di intervento per la legislazione regionale. E’ stato osservato, da alcuni esperti, che il tentativo di eliminare la legislazione concorrente, nel riparto tra competenze legislative statali e regionali,  non appare del tutto riuscito.
  La  norma che dà il senso fondamentale della riforma regionale attuata dalla legge di revisione costituzionale su cui dovremo decidere nel prossimo referendum è quella prevista dal nuovo articolo 117, 4° comma, della Costituzione:
Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale.”
  Questa norma consente al Parlamento di fare leggi nelle materie che sarebbero di competenza legislativa delle Regioni se si ritenga che sia necessario in base all’interesse nazionale, nel quale può ritenersi compresa l’unità giuridica ed economica della Repubblica, un criterio assai vago. Ma il Parlamento potrà farlo solo ad iniziativa del Governo, che pertanto rimane in definitiva l’arbitro dell’interesse nazionale negli affari regionali.  Una legge dello Stato che invada le competenze legislative regionali non potrà invece essere promossa, sia pure in considerazione dell'interesse nazionale, da deputati e senatori, anche se in numero rilevante.
Questo realizza un notevole rafforzamento della posizione del Governo nei confronti sia del nuovo Parlamento, sia delle Regioni.   Tutta l’autonomia locale, quindi l’attività di Regioni, Città Metropolitane, Comuni, ruoterà infatti intorno al Governo, come i pianeti intorno ad una stella, in un sistema solare.



figura 3. Tutto ruoterà intorno al Governo, come i pianeti intorno al sole, nel sistema solare
PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Il Presidente della Repubblica non potrà più sciogliere il Senato.
Viene modificato il sistema per l’elezione del Presidente della Repubblica. Decideranno deputati e senatori in seduta comune, senza più la partecipazione dei delegati regionali. Nelle prime tre votazioni, come ora, per eleggere il nuovo Presidente sarà necessaria la maggioranza di due terzi dell’assemblea. La riforma stabilisce che dal quarto scrutinio sarà sufficiente quella dei tre quinti dell’assemblea e dal settimo in poi quella dei tre quinti dei votanti.
 In caso di impedimento del Presidente della Repubblica, lo sostituirà il Presidente della Camera dei deputati, non, come ora, quello del Senato.




figura 4. I senatori a vita ex Presidenti della Repubblica saranno gli unici senatori a tempo pieno del nuovo Senato

CORTE COSTITUZIONALE
 Attualmente cinque dei quindici giudici della Corte Costituzionale sono nominati dal Parlamento in seduta comune (dai deputati e dai senatori). Nel nuovo sistema introdotto dalla riforma costituzionale, invece, tre giudici saranno nominati dalla Camera dei deputati e due dal Senato.
PROVINCE
 La riforma costituzionale abolisce le Province, salvo quelle autonome  di Trento e di Bolzano. Le Province sono destinate ad essere sostituite dalle Città Metropolitane, ma saranno necessarie altre leggi e procedure attuative piuttosto complesse. Ci saranno sempre, quindi, enti intermedi tra Comuni e Regioni, con un proprio personale politico. Vengono chiamati enti di area vasta. Per la Costituzione riformata la Repubblica sarà costituita dai Comuni, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.  Già ora le Province erano state profondamente modificate, avvicinandole alle Città Metropolitane: i Consigli provinciali non erano più eletti dai cittadini. Il presidente  della Provincia e i consiglieri provinciali erano eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali dei Comuni della Provincia. Alcune Province con capoluoghi grandi città erano già state sostituite dalle Città Metropolitane, come quella di Roma. In questi casi le Città Metropolitane sono grandi quanto le precedenti Province. Ad oggi il Sindaco metropolitano e il Consiglio metropolitano, cioè gli organi direttivi delle Città Metropolitane che già ci sono, non sono eletti dai cittadini, come accadeva in passato per i consigli provinciali. Però è previsto che gli statuti delle Città metropolitane possano stabilire l’elezione diretta, da parte dei cittadini, del Sindaco metropolitano e del Consiglio metropolitano. Ad oggi il sindaco della Città Metropolitana è il sindaco del capoluogo e i consiglieri metropolitani sono eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali dei Comuni della Città Metropolitana.
ABOLIZIONE DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELLA ECONOMIA E DEL LAVORO - CNEL

 La riforma costituzionale abolisce il CNEL - Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro, previsto dall’art.99 della Costituzione. È composto da esperti e di rappresentati della categorie produttive. E’ organo ausiliario di consulenza delle Camere e del Governo in materia di legislazione economica e sociale, in relazione alla quale  può anche proporre leggi. Nella sua storia ha prodotto 1.380 documenti (per informazioni più dettagliate si veda sul WEB la pagina http://www.cnel.it/233), tra i quali diversi disegni di legge.  Iniziò a funzionare nel 1957. Ha 65 membri. Il presidente, il vicepresidente e i consiglieri percepiscono compensi (denominati indennità, diarie di presenza e rimborsi spese) determinati annualmente dallo stesso CNEL secondo criteri generali fissati da un regolamento approvato dal CNEL.

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Dialogando sulla riforma costituzionale

   In questi mesi sono stati molto importanti le occasioni di dialogo, in famiglia, nelle associazioni di varia natura, nelle parrocchie, in altri sedi comunitarie, che si sono avute sui temi della riforma costituzionale in decisione  nel referendum del 4 dicembre 2016. In quel modo,  confrontando le varie prospettive, si è realizzato a pieno il dialogo. Nel dialogo ciascuno non si limita a proclamare la propria verità, ma tiene anche conto delle obiezioni e delle prospettive degli altri e adatta l’esposizione alle esigenze degli altri, approfondendo l’argomento. Il dialogo porta quindi a una migliore conoscenza, perché stimola ad approfondire la questione. Come scrisse la filosofa Hannah Arendt, “Nessuno, da solo, senza compagni, arriva ad avere una visione sufficientemente completa delle cose.”
  Ecco sintetizzati nella figura che segue il metodo e i risultati del dialogo.



figura 5. La struttura del dialogo

 Il risultato del dialogo, condotto come si deve, vale a dire nelle fasi che sono illustrate nella figura, non è una semplice somma  delle conoscenze di ciascuno, ma è una conoscenza più avanzata, una parola comune: non quindi A+B, ma AB!.  E il punto esclamativo esprime la gioia di poter parlare insieme, di esprimere qualcosa di comune nel ragionare sulla realtà. Si tratta di una conoscenza migliore, in quanto tiene conto dei punti di vista e di tutti gli apporti degli altri dialoganti. Nel dialogo ci si può anche correggere e non bisogna prendersela: come disse il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, il migliore scienziato è quello che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo campo di ricerca, correggendoli.
  Vedo che c’è poca informazione e poco dialogo sui temi della riforma costituzionale e molta propaganda. Di questi tempi il compito dei politici, anzitutto, e poi degli operatori dell’informazione, e infine di tutti quelli che ne sanno un po’ di più, per ragioni professionali o perché alla materia si sono appassionati e hanno approfondito, dovrebbe essere quello di non perdere occasione per spiegare alla gente intorno i temi della riforma, perché la decisione degli cittadini chiamati al referendum sia consapevole, informata   e dunque libera, quindi democratica.
  La decisione sulla riforma costituzionale andava al di là della politica del giorno per giorno, della questione di quanto a lungo durerà l’attuale governo: era in questione la qualità della vita nostra e dei nostri figli e nipoti. E’ un tema che è affrontato nell’enciclica Laudato si’ e che dunque mette in gioco anche la nostra fede religiosa. Il disimpegno nell’informarsi  e nel  cercare di capire meglio  dialogando con gli altri, l’affidarsi alla pura propaganda, è colpevole e non solo dal punto di vista civico. La salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per la qualità della vita umana, per cui è necessario un progresso culturale per arrivare ad una ecologia sociale, che è necessariamente istituzionale, per raggiungere progressivamente diverse dimensioni che vanno dal gruppo sociale primario, la famiglia, fino alla vita internazionale, passando per la comunità locale e la Nazione: è scritto in quell’enciclica (n.142). Tutto ciò che danneggia le istituzioni, come può avvenire approvando una riforma costituzionale imperfetta, comporta effetti nocivi, fino alla  perdita della libertà, all’ingiustizia e alla violenza. L’ambiente sociale ne viene sempre pregiudicato in misura maggiore o minore. Ecco quindi la necessità, e  il dovere morale, di trovare  la voglia, il tempo e gli strumenti per capire bene  ciò che è in decisione, senza affidarsi a tutto ciò che è solo propaganda.
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PRECISAZIONI E OBIEZIONI PROPOSTE DAI LETTORI
  Mi sono giunte alcune osservazioni critiche provenienti da persona molto ben informata sui processi di riforma.
L’obiezione: Sulla procedura bicamerale per le materie riguardanti la normativa europea
  Il lettore mi ha scritto che, a suo avviso, il procedimento parlamentare bicamerale non si applicherà a tutte le leggi di attuazione della normativa europea, ma solo alla legge (al singolare) che regola le procedure di partecipazione di Governo, Parlamento, Regioni, Città Metropolitane e Comuni al processo di formazione e di attuazione della normativa europea. Si tratta della legge n.234 del 2012 che è intitolata Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea. La legge prevede informative del Governo al Parlamento e alle autonomie locali e atti di indirizzo del Parlamento nella fase di formazione della normativa europea; prevede, poi, nella fase attuativa, che il Parlamento emani una legge che delega il Governo a fare quanto serve per attuare la normativa europea in Italia (la legge di delegazione europea) e anche, se occorre, una legge europea per cambiare subito la normativa italiana che contrasta con quella europea e, infine, procedure di controllo dell’attuazione della normativa europea da parte degli enti locali, con possibilità che lo Stato si sostituisca alle Regioni in caso di inerzia o di ritardi nel recepire la normativa europea per la parte di loro competenza. Si tratta solo di norme di procedura, non di tutte  le leggi attuative della normativa europea.
 Inoltre la procedura parlamentare bicamerale si applicherà  per le leggi di ratifica dei trattati europei.
 Nel complesso, in materia europea, saranno rari i casi in cui si dovrà utilizzare la procedura bicamerale. Altrimenti, effettivamente, tenuto conto del gran numero di leggi che riguardano il recepimento della normativa europea, la gran parte delle leggi dello Stato dovrebbero seguire la procedura parlamentare bicamerale, quella utilizzata per tutte le leggi dello Stato prima della riforma.
Mie osservazioni
   Una cosa è ciò che il legislatore intende produrre con una legge e altra è quello che riesce  a produrre con un testo di legge, con la formulazione delle norme.
 La norma del nuovo art.70, 1° comma, della Costituzione non fa riferimento alle norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea (il titolo della legge che verosimilmente aveva di mira), ma alle norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea: nel primo caso si è costruito un complemento di argomento, nel secondo caso un complemento di specificazione, aggiungendo alle norme generali, le forme  e i termini.  La seconda formulazione comprende tutta  la legislazione di attuazione della normativa europea. Per produrre l’effetto a cui mirava il legislatore, bisognava scrivere diversamente.  É questione di buona tecnica legislativa.
 Scrivendo una Costituzione, destinata a durare molto a lungo, bisognerebbe usare la migliore tecnica legislativa. Perché non sorgano equivoci che se, come nel nostro caso, riguardano il funzionamento del principale organo costituzionale, il Parlamento, potrebbero provocare danni gravissimi, allo stesso modo in cui una grande autostrada non fosse chiaro che rampa imboccare per rimanere a circolare sulla destra, non rischiando scontri frontali.
 La buona tecnica legislativa consiglierebbe che in un testo costituzionale non si facesse riferimento a una precisa, particolare, legge ordinaria, nel nostro caso appunto alla legge 234 del 2012, che appunto detta norme di procedura sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e attuazione della normativa europea.  Infatti nella revisione costituzionale non lo si è fatto, tenendosi sulle generali, inserendo solo una parafrasi del titolo di quella legge. Purtroppo l'operazione non è riuscita bene. C'è infatti una evidente differenza sintattica tra il titolo della legge 234 del 212 e il testo del 1°comma del nuovo art.70 della Costituzione, introdotto dalla legge di revisione di quest'anno,  e  c’è anche qualcosa di più, le forme  e i termini, e con quella costruzione sintattica e quel di più si è aperta la porta a molto di più, vale a dire a tutte le leggi di attuazione della normativa europea, che sono molta parte della legislazione statale, per cui, come giustamente è stato osservato, si avrebbe ancora un bicameralismo (quasi)perfetto.
  Il futuro legislatore si atterrà al l'intenzione dei revisori costituzionali o alla lettera della legge? Chi lo sa? Il rischio che prenda un'altra strada c'è. Il testo di legge, infatti,  è equivoco. L'attuale Costituzione dura da quasi 70 anni. Chi, tra 70 anni, si ricorderà della legge 234 del 2012? Bisognava legiferare meglio nel modificare la Costituzione. Ma l'approvazione della legge si è svolta in un clima di concitazione, e a volte di vera e propria bagarre, poco propizio a pazienti rifiniture sintattiche...
L’obiezione: i senatori a vita, anche gli ex Presidenti della Repubblica, si fanno vedere poco in Senato
  Mi scrive il lettore: . Venendo a un tema più leggero, non è vero che gli ex presidenti della Repubblica si aggireranno solitari in un Senato deserto. Semplicemente perchè già  oggi i senatori di diritto e a vita non si fanno vedere quasi mai a Palazzo Madama...
Mie osservazioni
 L’interlocutore conosce meglio di me la situazione.
Osservo che l’unico senatore a vita ex Presidente della Repubblica rimasto in  Senato ha svolto, da senatore a vita, un ruolo di primo piano nella politica nazionale italiana.
 Vi è poi l’esempio della senatrice a vita Elena Cattaneo, nominata dal Presidente della Repubblica, la quale divide il suo tempo tra il Senato e l’attività di ricerca scientifica. Ha costituito addirittura un ufficio per il sostegno della sua attività da parlamentare. E’ intervenuta attivamente, e con molta efficacia, sulle materie parlamentari con attinenza ai temi scientifici, andando spesso controcorrente rispetto alla politica nazionale.  E’ accaduto, ad esempio, sul caso Stamina, dove ha sostenuto pervicacemente l’inconsistenza scientifica di terapie mediche proposte per la cura di una grave malattia. Nulla cambierà per la sen. Cattaneo con la riforma costituzionale: continuerà ad essere senatrice a vita con l’indennità parlamentare che oggi le è stata assegnata. I nuovi senatori di nomina presidenziale, in carica per soli sette anni e senza indennità, riuscirebbero ad esprimere un impegno simile?

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Chiarimenti chiesti nelle fasi del Gioco della riforma costituzionale

Nel corso del Gioco della riforma costituzionale mi sono stati chiesti chiarimenti, ci siamo scambiati delle idee e quindi siamo arrivati all’ultima fase del dialogo.
   In particolare abbiamo approfondito, nel dialogo questi  temi:
Durata del nuovo Senato
- il nuovo Senato non avrà una data di scadenza, sarà rinnovato continuamente, ma parzialmente, a mano a mano che scadranno i Consigli regionali e i Consigli delle Province Autonome di Trento e di Bolzano che ne avranno nominati i membri. In quel momento, infatti, i senatori eletti dai Consigli uscenti decadranno dalla carica: ne dovranno essere eletti di nuovi dai nuovi Consigli. E, comunque, quando un senatore cesserà di essere  membro del Consiglio che lo ha eletto o sindaco, ad esempio per dimissioni, decadrà dalla carica al Senato;
Il bicameralismo perfetto non sarà abolito, ma solo ridotto
- Il bicameralismo perfetto, che si ha quando le due Camere del Parlamento devono deliberare sullo stesso disegno di legge che non può essere approvato senza la decisione concorde di entrambe,  non sarà abolito, ma solo ridotto.
 Lo dice il nuovo articolo 70 della Costituzione, modificato dall’art.10 della legge di riforma costituzionale, che si occupa del procedimento legislativo.
il nuovo art.70 della Costituzione
1° comma :
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71, per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.
2° comma: 
Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
  La gran parte della legislazione dello Stato riguarda l’attuazione della normativa dell’Unione Europea: per queste leggi bisognerà seguire il procedimento bicamerale. Ma, come potete constatare leggendo la norma di legge riformata, molte altre leggi dovranno essere approvate con procedura bicamerale, proprio come avviene oggi.
Le due Camere del Parlamento, Camera dei deputati e Senato, saranno molto diverse
- Anche se le due Camere dovranno fare  le stesse cose  su molti temi, quindi continueranno a legiferare con il sistema bicamerale, in particolare in tema di Costituzione, attuazione della normativa europea e autonomie locali, effettivamente non saranno più un doppione  l’una dell’altra, entrambe elette dai cittadini in una stessa tornata elettorale e con sistemi elettorali molto simili, ma il Senato, che non avrà più scadenza quinquennale come la Camera dei deputati e che non potrà più essere sciolto  dal Presidente della Repubblica, sarà più legato a prospettive regionali, essendo composto di consiglieri regionali e di sindaci, e, venendo rinnovato continuamente e parzialmente, man mano che i senatori eletti da un Consiglio regionale decadranno a seguito dalla scadenza del Consigli che li ha eletti, potrà sviluppare, verosimilmente, anche orientamenti politici diversi da quelli della Camera dei Deputati. Questo, però, che è uno dei contenuti fondamentali della riforma, potrà creare problemi di coordinamento tra le due Camere del Parlamento, in particolare nelle materie in cui dovrà legiferarsi in forma bicamerale, come avviene oggi, che sono molte, addirittura il 70% del lavoro legislativo del Parlamento  è stato stimato. Con l’aggravante che il problema non potrà più essere risolto chiamando gli elettori a nuove elezioni politiche, in quanto il Senato non potrà più essere sciolto dal Presidente della Repubblica. Un contrasto in Parlamento tra le due Camere, causato dal Senato, non potrà più essere risolto chiamando i cittadini a nuove elezioni, perché il Senato comunque non cambierà, fino a quando, lentamente, per il parziale mutamento dei senatori, muti anche la sua linea politica. E’ vero però che questo sistema, pur mantenendo la Repubblica italiana una e indivisibile, come continuerà ad essere scritto nella Costituzione, potrà avere come effetto il porre le autonomie locali al riparo degli arbitrii delle maggioranze di governo espresse dalla Camera dei deputati.
Il referendum costituzionale era già previsto nella Costituzione
-il referendum costituzionale non è stato introdotto dalla legge di riforma costituzionale, ma è già previsto in Costituzione, dall’art.138, che trascrivo di seguito:
art.138
Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
  Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.
 
La legge di riforma costituzionale sulla quale voteremo al prossimo referendum non è stata approvata, in seconda votazione, da ciascuna delle camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti. Pertanto, a norma dell’art. 138, 2° comma, della Costituzione poteva essere chiesto un referendum da un quinto dei membri di una Camera, da cinquecentomila elettori o da cinque Consigli regionali. E’ ciò che è avvenuto alla Camera dei deputati e con una raccolta di firme promossa dai Comitati per il SI’.
Il referendum costituzionale non è un referendum abrogativo: la legge di riforma costituzionale sulla quale voteremo non è ancora entrata in vigore
- il referendum costituzionale del  prossimo 4 dicembre non è un referendum abrogativo: la legge di riforma costituzionale, infatti, non è ancora entrata in vigore, benché sia stata approvata dal Parlamento, da ciascuna Camera a maggioranza assoluta dei suoi componenti in seconda votazione, e sia stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Non è stata ancora promulgata dal Presidente della Repubblica. Lo sarà ed entrerà in vigore solo se al referendum costituzionale prevarranno i SI’. Il testo del quesito sul quale dovremo rispondere SI’ o NO è infatti il seguente:
 «Approvate voi il testo della legge costituzionale concernente "Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione" approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016? ».
La Repubblica italiana non uno stato federale e non lo diventerà nemmeno se entrerà in vigore la riforma costituzionale
- La Repubblica italiana non è e non sarà uno stato federale: né nella Costituzione com’è ora, né in quella riformata in caso di vittoria dei SI’ al prossimo referendum, è scritto che il nostro è uno stato federale, anche se le Regioni hanno un’ampia autonomia, anche legislativa. La ragione è nella nostra storia nazionale. Stati come gli Stati Uniti d’America e la Germania si sono formati dall’aggregazione di stati preesistenti. La residua, ampia, autonomia di questi ultimi è manifestata ancora, anche a livello centrale, federale, in genere esprimendo un Senato o Camera analoga. Lo stato italiano si è formato, invece, mediante conquista militare  dei preesistenti regni, compreso quello dei Papi nell’Italia centrale, da parte del Regno dei Savoia, che all’epoca di chiamava Regno di Sardegna, quindi mediante la soppressione delle autonomie statali che c’erano. Si prese a modello, nella costruzione dello Stato, quello, molto accentrato, francese. E’ solo dagli scorsi anni ’80 che in politica si propose di fare dell’Italia uno stato federale, e tale orientamento nel 2005 generò una riforma costituzionale che però venne respinta in un referendum costituzionale svoltosi nel 2006. Nella riforma costituzionale di quest’anno l’autonomia delle regioni viene ridotta a favore dello Stato, in quanto è stata introdotta la possibilità di deliberare leggi statali nel campo delle materie attribuite all’autonomia legislativa delle Regioni, se lo richieda l’interesse nazionale, ed è stata quindi sostanzialmente  abolita la competenza legislativa residuale (per tutte le materie non riservate alle leggi dello Stato) ma  esclusiva delle Regioni, introdotta dalla riforma costituzionale approvata nel 2001. E’ stata formalmente abrogata anche la legislazione  concorrente, vale a dire le materie in cui legiferavano lo Stato e le Regioni, queste ultime però nel quadro di principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale (anche se, di fatto, in diverse materie, Stato e Regioni continueranno a concorrere  nel legiferare, le  Regioni però sotto vincoli più stringenti da pare delle leggi dello Stato). Il fatto che il nuovo Senato sia composto da consiglieri regionali e sindaci non trasforma l’Italia in uno stato federale, innanzi tutto perché, a differenza ad esempio dei senatori tedeschi, membri di un senato di uno stato federale, i nuovi senatori lavoreranno senza vincolo di mandato, quindi non dovranno attenersi alle decisioni dei Consigli regionali che li hanno eletti, e poi perché il Senato è costruito come camera minore, con poteri ridotti rispetto a quelli della Camera di deputati. La recente riforma costituzionale, in definitiva, va nella direzione contraria alla costruzione di una Repubblica federale, perché realizza di nuovo un certo accentramento di poteri nello Stato, rispetto a quelli delle Regioni, per esigenze di uniformità di trattamento dei cittadini e anche in considerazione dell'interesse nazionale. In particolare le leggi dello Stato che invadono il campo di competenza legislativa delle Regioni, per ragioni di uniformità di trattamento e anche solo di interesse nazionale, saranno di competenza della Camera dei deputati, quindi saranno approvate con procedimento legislativo monocamerale, anche se la Camera dei deputati solo a maggioranza assoluta dei proprio componenti potrà respingere proposte di modifiche approvate dal Senato a maggioranza assoluta dei suoi componenti (maggioranza che potrebbe essere problematico radunare, vista la composizione del nuovo Senato).
Perché gli ex Presidenti della Repubblica continueranno a rimanere senatori a vita anche se entrerà in vigore la riforma costituzionale
- gli autori della riforma hanno pensato di inserire gli ex Presidenti della Repubblica ancora nel Senato, e non alla Camera dei Deputati come prevedeva la riforma del 2005, perché si è pensato che con la loro autorità morale, conquistata nel corso del loro mandato presidenziale, potessero essere un fattore di coesione in una Camera i cui partecipanti non rappresentano più la Nazione, è scritto espressamente nella legge di riforma che solo i deputati la rappresentano, ma prospettive regionali.  Ma avranno difficoltà a farlo in una Camera composta di gente che fa anche un altro lavoro politico, nei Consigli regionali e come sindaci, e che quindi starà poco a Roma, impegnata nel lavoro parlamentare nel nuovo Senato, e che, quando ci starà, sarà sempre sul piede di partenza. In fondo, gli unici inquilini stabili nel nuovo Senato saranno proprio gli ex presidenti della Repubblica, in un palazzo che, pensato per oltre 315 senatori e ora abitato saltuariamente da 100 membri, sembrerà loro troppo grande: si aggireranno in tante stanze vuote, prevalentemente disabitate. Come e quando potranno essere fattore di coesione, se non avranno forse nemmeno il tempo di conoscere veramente i colleghi senatori, prima che decadano per la fine dei Consigli regionali che li hanno eletti?
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  Occorre informarsi personalmente  sui temi delle riforme istituzionali, in particolare di quelle costituzionali: c  siamo stati invitati a farlo dal Presidente della Conferenza Episcopale Italiana. E’ un compito che non ci compete solo come cittadini, ma anche come persone di fede. Ha a che fare con la politica, che significa prendersi cura della casa comune, come indicato nell’enciclica Laudato si’.  Ma richiede uno sforzo, per andare oltre gli slogan semplicistici che vengono proposti per convincerci a decidere in un senso o in un altro. Una buona parte di essi non solo  semplificano, ma lo fanno anche arbitrariamente, vale a dire che sono  falsi. Un politico che semplifica  in quel modo non è un buon politico.  Chi lo segue non è un buon cittadino. La prima esigenza della politica è quella della verità, ma quest’ultima va ricercata pazientemente e conquistata, vagliando realisticamente fatti e affermazioni.  E soprattutto: il buon cittadino non accetta cambiali in bianco dai capi politici. Gli atteggiamenti fideistici sono l’antitesi della democrazia.
 Purtroppo i fautori e gli avversari della riforma costituzionale ci spingono proprio verso atteggiamenti fideistici. E’ perché si tratta di valutare una legge complessa, composta di ben 41 articoli, che modificano circa un terzo dell’attuale Costituzione, ed anche un articolo della prima parte, quella sui diritti e doveri dei cittadini, e precisamente il terzo comma dell'art.48, prevedendo che gli italiani all'estero voteranno solo per la Camera dei deputati. Probabilmente si pensa che i più non avranno il tempo e la voglia di leggerli, e soprattutto di capirli. Questo un bel problema, perché la riforma cambierà le nostre istituzioni fondamentali e, quindi, anche la nostra vita sociale.
  I fautori della riforma sostengono che la vittoria del “NO” provocherebbe disastri, ma senza spiegare perché: eppure con l’attuale Costituzione abbiamo affrontato e superato gravissime crisi, in particolare quella economica, lunghissima, che è iniziata nel 2009.  Le riforme,  anche in via d’urgenza, non sono state impedite, tanto che la stessa riforma costituzionale approvata quest’anno  è frutto della Costituzione così com’è.
 Alcuni sostengono che una riforma imperfetta è meglio di niente, ma in materia costituzionale le riforme dovrebbero essere ben ponderate e non avere imperfezioni riconoscibili già all’origine, come quella in discussione. Infatti gli effetti della riforma incideranno anche sulle successive eventuali riforme costituzionali, che dovranno essere approvate con le nuove regole. Sarà più difficile, in particolare, correggere quelle imperfezioni che sono già evidenti ai giuristi, ma che non vengono ritenuti tali dal Governo.
 Ecco alcuni esempi di argomenti a favore e contro la riforma che, a mio parere, non hanno motivazioni convincenti:
- altrimenti non ci saranno più riforme per quindici, anzi trent’anni!
- ce la chiede l’Europa;
- ce la chiedono da 70 anni;
- non esistono alternative;
- meglio che niente;
- fare la riforma aiuta la ricerca e serve alla salute, alleggerisce le bollette, serve per la sicurezza e contro il terrorismo;
- facendola ci sarà più lavoro per tutti;
- facendola la crisi dell’Italia passerà;
- facendola saremo più forti in Europa;
- facendola verrà una dittatura;
- facendola l’attuale Governo, che l’ha proposta e patrocinata, verrà favorito alle elezioni (i sondaggi demoscopici, per ora,  attestano il contrario).
  Ecco le argomentazioni che spesso vengono proposte nei dibattiti televisivi sulla riforma costituzionale.
Per il SÌ                                                                          Per il No
Dite sempre no!                                                         Siete dei corrotti!
Ce la chiedevano da 70 anni!                                  Distruggete la democrazia!
Dite no perché tenete alle vostre                        Siete voi, invece, che ci tenete!
poltrone!
Vi abbiamo rottamato e volete tornare!                  I giovani sono con noi!
Mostrateli questi giovani, siete vecchi!                Votano SÌ solo i vecchi
Volete le solite pastette parlamentari!            Volete che comandino i “cerchi magici”!
Se non si fa ora non si fa più!                  Se si fa ora, poi non si potrà fare più nulla!
La riforma è democratica                                   La riforma non è democratica!
Lo ha detto anche Obama!                              Che cosa gli avete dato in cambio?
 Questi argomenti, però, non fanno conoscere nessun contenuto della riforma costituzionale, sono pura propaganda
  Nel Gioco della Costituzione abbiamo  provato, invece, ad informarci personalmente e a dialogare  sui temi della riforma costituzionale, sui  suoi contenuti,  in modo da coinvolgere tutti, attivamente, nell’apprendimento di una materia non facile.
  Propongo di seguito il testo delle domande e risposte della prima partita del Gioco della Riforma costituzionale e quello, molto più lungo, dei miei appunti sulla riforma costituzionale.
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TUTTE LE DOMANDE E TUTTE LE RISPOSTE
PRIMA PARTITA (schede 1-30)

1.Quando si terrà il referendum sulla riforma costituzionale?
RISPOSTA:
IL REFERENDUM COSTITUZIONALE SI TERRA’ DOMENICA 4 DICEMBRE PROSSIMO
2. Quando il Parlamento ha approvato la riforma costituzionale?
RISPOSTA:
IL PARLAMENTO HA APPROVATO LA RIFORMA COSTITUZIONALE NELL’APRILE DI QUEST’ANNO
3. Che cos’è la riforma costituzionale?
RISPOSTA:
La riforma costituzionale è una legge che modifica o abolisce articoli della Costituzione e di alcune leggi costituzionali
4. Di quanti articoli si compone la riforma costituzionale?
RISPOSTA:
La riforma costituzionale è una legge  costituzionale di 41 articoli
5. Da chi è stato chiesto il referendum costituzionale?
RISPOSTA:
 Il referendum costituzionale è stato chiesto validamente da parlamentari (oltre un quinto dei membri della Camera dei deputati) e dai Comitati per il SI (con oltre cinquecentomila elettori). Il Comitato per il NO non è riuscito a raccogliere adesioni sufficienti
6. Perché il referendum costituzionale sia valido, dovrà partecipare un numero minimo di votanti?
RISPOSTA:
Il referendum costituzionale sarà valido qualunque sia il numero dei votanti
7. Quanti articoli della costituzione vengono  modificati o aboliti dalla riforma costituzionale?
RISPOSTA:
La legge di riforma costituzionale modifica o abolisce 50 articoli della Costituzione su 139
8. Quante leggi costituzionali vengono modificate dalla riforma costituzionale?
RISPOSTA:
La legge  di riforma costituzionale modifica 3 leggi costituzionali
9. Che cosa modifica la riforma costituzionale?
RISPOSTA:
La riforma costituzionale modifica le istituzioni fondamentali della Repubblica
10. Quanti saranno i nuovi senatori?
RISPOSTA:
 I membri del nuovo Senato saranno 100, oltre agli ex Presidenti della Repubblica, i quali saranno senatori a vita
11. Quanti sono attualmente i membri del Senato?
RISPOSTA:
Attualmente i membri del Senato sono 315, oltre a 5 senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica e agli ex Presidenti della Repubblica, anch’essi senatori a vita
12. Chi sceglierà i nuovi senatori?
RISPOSTA
 95 senatori saranno eletti su base regionale dai consiglieri regionali e dai consiglieri delle Province autonome di Trento e Bolzano; 5 senatori saranno nominati dal Presidente della Repubblica
13. Tra chi saranno scelti i nuovi senatori eletti dai consiglieri regionali e di quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano?
RISPOSTA
I nuovi senatori saranno scelti tra i consiglieri regionali e tra i sindaci. In particolare ogni Consiglio regionale e i Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano nomineranno ciascuno un senatore scelto tra i sindaci dei propri territori
14. Quanto durerà il nuovo Senato?
RISPOSTA
 Il nuovo Senato, a differenza della Camera dei deputati, non avrà una scadenza. Scadranno solo i suoi singoli membri. Sarà rinnovato continuamente e parzialmente.
15. Quanto dureranno i senatori eletti dai consiglieri regionali e da quelli delle Province autonome di Trento e Bolzano?
RISPOSTA
I senatori eletti dai consiglieri regionali e da quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano dureranno quanto i Consigli che li hanno eletti
16. Quanto dureranno i senatori nominati dal Presidente della  Repubblica?
RISPOSTA
 I senatori nominati dal Presidente della Repubblica dureranno sette anni.


17. I nuovi senatori riceveranno uno stipendio per il lavoro che faranno in Senato?
RISPOSTA
 I nuovi senatori non riceveranno uno stipendio per il lavoro che faranno in Senato.
18. Che succederà se un senatore eletto dai consiglieri regionali o da quelli delle Province Autonome di Trento e  di Bolzano cesserà di essere consigliere regionale o sindaco prima della scadenza del Consiglio che lo ha eletto?
RISPOSTA
 Il senatore eletto dai consiglieri regionali o da quelli delle Province Autonome di Trento e di Bolzano che cesserà di essere consigliere regionale o sindaco prima della scadenza del Consiglio che lo ha eletto, decadrà da senatore.
19. Il nuovo Senato avrà gli stessi poteri di fare leggi della Camera dei deputati?
RISPOSTA
 Il nuovo Senato avrà meno poteri di fare leggi rispetto a quelli della Camera dei deputati
20. Il nuovo Senato potrà fare leggi senza il concorso della Camera dei Deputati?
RISPOSTA
 Il nuovo Senato non potrà fare leggi senza il concorso della Camera dei deputati
21. La Camera dei deputati potrà fare leggi senza il concorso del nuovo Senato?
RISPOSTA
 La Camera dei deputati potrà fare alcuni tipi di leggi senza il concorso del Senato
22. Il Parlamento continuerà ad essere composto dalla Camera dei deputati e dal Senato?
RISPOSTA
Il Parlamento continuerà ad essere composto della Camera dei deputati e del Senato
23. Il Governo dovrà ottenere la fiducia del nuovo Senato?
RISPOSTA
Il Governo non dovrà più ottenere la fiducia del nuovo Senato.
24. Quale Camera del Parlamento voterà la fiducia al Governo?
RISPOSTA
La fiducia al Governo sarà votata solo dalla Camera dei deputati
25. I cittadini elettori potranno influire sulla scelta dei senatori eletti dai consiglieri regionali e da quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano?
RISPOSTA
 Nella riforma costituzionale è previsto è previsto che quei senatori siano eletti in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei Consigli regionali e dei Consigli delle Province Autonome di Trento e di Bolzano, secondo le modalità stabilite dal una legge ordinaria che dovrà essere approvata dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale.
26. Quali leggi dovranno continuare  essere approvate con il concorso delle due Camere?
RISPOSTA
Dovranno continuare ad essere approvate collettivamente dalle due Camere molti tipi di leggi, in particolare le leggi costituzionali, quelle di attuazione della normativa europea e quelle che riguardano l’ordinamento e le funzioni dei Comuni e delle Città metropolitane.
27. Il nuovo Senato potrà influire sulla formazione delle leggi di competenza esclusiva della Camera dei deputati?
RISPOSTA
 Il nuovo Senato potrà proporre modifiche alle proposte di legge discusse dalla Camera dei Deputati, che delibererà in via definitiva accogliendole o rigettandole.
28. Il nuovo Senato potrà proporre alla Camera dei deputati di approvare una legge nelle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva dei deputati?
RISPOSTA
 Il nuovo Senato potrà proporre alla Camera dei deputati di approvare una legge nelle materie attribuite alla competenza esclusiva dei deputati
29. I membri del Senato eletti dai consiglieri regionali e da quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano dovranno uniformarsi, nel lavoro in Senato, alle decisioni dei Consigli che li hanno eletti?
RISPOSTA
I membri del Senato eletti dai consiglieri regionali e da quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano non dovranno uniformarsi, nel lavoro in Senato, alle decisioni dei Consigli che li hanno eletti. Agiranno senza vincolo di mandato.
30. I nuovi senatori rappresenteranno la Nazione?
RISPOSTA
Nella riforma costituzionale è scritto che solo  i deputati rappresenteranno la Nazione.

Le schede e le regole del gioco possono essere scaricate dal sito acvivearomavalli.blogspot.it , post del 9-10-16
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figura 6. Nell'infuriare della propaganda i santi cittadini studiano la riforma costituzionale.


Per iniziare a conoscere meglio la riforma costituzionale
Per contribuire a quell’informarsi  a cui tutti dobbiamo sentirci chiamati, e soprattutto per fornire materia per il dialogo, ripubblico in un solo documento il testo dei vari interventi sulla recente riforma costituzionale che ho pubblicato sul blog acvivearomavalli.blogspot.it.
 Si tratta di un testo lungo, di 107 pagine. Consiglio di farne il copia/incolla e di leggerlo piano piano off line. Ho consigliato anche altri testi di approfondimento, scritti dai fautori e dagli avversari della riforma. In queste cose è bene sentire più voci.

Indice:
0. Il contesto storico della riforma costituzionale
1. Il  testo della riforma costituzionale
2. La riforma a volo d’angelo
3. Servizio parlamentare come tirocinio di governo democratico
4. La Nazione
5. Tempo per fare politica
6. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte prima
7. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte seconda
8. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte terza
9. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte quarta
10. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte quinta
11. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte sesta
12. Il Senato come imputato
13. Ho conosciuto uno dei nuovi padri costituenti
14. Un Senato depotenziato: farà meno cose, ma quelle che farà saranno quasi tutte le stesse della Camera dei Deputati
15. La riforma costituzionale e le "riforme"
16. La controriforma regionale
17. La società atomizzata, il referendum, la democrazia
18. Prendersi cura della casa comune
19. Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica sulla base di valori condivisi
20. L’illusione dell’«uomo forte»
21. Come bambini
22. Non un referendum sulla Costituzione, ma solo su una legge di revisione costituzionale
23. Capire la politica
24.Informazione e propaganda: sui temi della riforma costituzionale manca la prima
25. Per chi vota Barak Obama?
26. Una Camera e un pezzetto.
27. Il senso della riforma delle Regioni: un rafforzamento della posizione del Governo nei confronti del Parlamento dell’autonomia regionale
28. Regioni ed Unione Europea diffamate nel corso della propaganda per il referendum
29.  In una nicchia della storia
30. La Terza Repubblica  del partito maggioritario
31. Un esempio di antico bicameralismo: il Senato degli Stati Uniti d’America, un importante contrappeso  contro il rischio di cambiamenti in peggio
32. Informarsi per decidere consapevolmente e responsabilmente: un impegno ogni giorno più urgente. Il referendum costituzionale del 4 dicembre prossimo è l’ultimo “freno di emergenza” costituzionale
33. Una riforma epocale e una responsabilità epocale per i cittadini

34.“Perché SÌ” - Ceccanti -, “Perché No”- Scarpinato: due argomentazioni a confronto sul voto al referendum sulla riforma costituzionale


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Il contesto storico della riforma costituzionale

 Per capire le istituzioni fondamentali di uno stato bisogna conoscere un po’ la sua storia.  In un certo senso è la storia che disegna le costituzioni. Da che storia viene la riforma costituzionale sulla quale dovremo decidere nel referendum del prossimo 4 dicembre?
  Per conoscere la storia recente i più giovani potranno riprendere in mano l’ultimo volume del corso di storia delle superiori. Per i meno giovani consiglio il volume 3 del corso  Nuovi Profili Storici  di Giardina - Sabbatucci - Vidotti, edizione Laterza.
  Il problema è però che la riforma costituzionale di quest’anno non nasce molto lontano nel tempo, ma in un periodo che non è ancor finito nei libri di storia, anche se processi di riforma della struttura della Repubblica furono avviati dall’inizio degli anni ’80, per rispondere a quella che all’epoca veniva definita crisi di legittimazione della politica, espressione con la quale si intendeva che la gente non credeva più alle parole nobili della politica democratica ed era disposta a dare consenso politico solo in cambio di una qualche partecipazione alle risorse pubbliche ricavate essenzialmente dai tributi e dal debito pubblico, in un processo di scambio  politico. Questa tendenza ebbe anche un risvolto regionalistico, quando si produsse un movimento politico per limitare o eliminare del tutto il contributo di solidarietà che le regioni più ricche davano a quelle meno ricche attraverso la politica di perequazione dello stato. Negli anni ’90 si giunse anche a proporre la secessione  delle prime dalla Repubblica, e quindi la fine della Repubblica, o, almeno, la ristrutturazione della Repubblica in senso federale, ampliando l’autonomia regionale fino ad arrivare a quella degli stati federati, come in Svizzera, Germania o negli Stati Uniti d’America, riducendo al minimo le competenze dello  stato federale.
  L’attuale fase storica è molto più recente e nasce nel 2011. 
  Qualche volta l’attuale Presidente del Consiglio viene accostato al personaggio politico più significativo della fase storica che va dal 1994 al 2011, Silvio Berlusconi, nel senso che si colgono tratti simili nelle loro politiche e nelle loro personalità, ma il paragone è errato. E lo è perché il Berlusconi lavorò innanzi tutto sul Parlamento, federando forze politiche di impostazione molto diversa, facendone una coalizione di governo, mentre l'attuale Presidente del Consiglio segue l'ideologia del partito con vocazione maggioritaria, di cui tratterò più avanti. Nel campo opposto, quindi in quello  del centro-sinistra, in reazione, si produsse un movimento politico analogo e un'analoga coalizione. Questo, sotto il vigore della legge elettorale per Camera dei deputati e Senato del 1993, creò quello che agli inizi degli anni ’90 si pensava fosse il sistema politico migliore sull’esempio britannico, vale a dire il bipolarismo, con due coalizioni politiche, di centro-destra e di centro-sinistra, che si alternavano al governo. Il bipolarismo politico nelle maggioranze di governo nazionale durò dal 1994 al 2011, un lungo periodo, diciassette anni, che nei libri di storia verrà detto del berlusconismo, perché l’ideologia politica e soprattutto lo stile politico personale del leader  del centro-destra costituì in quegli anni il modello di riferimento, sia pure per opporvisi in qualcosa, anche per i politici dello schieramento opposto. In quegli anni i temi principali del dibattito politico furono infatti quelli posti da Silvio Berlusconi.
  La legge elettorale del 1993 prevedeva un sistema maggioritario, con gruppi di elettori (collegi elettorali) molto piccoli in cui veniva eletto il candidato che aveva riportato il maggior numero di voti, temperato da una quota di parlamentari eletti con il sistema proporzionale, come si era fatto fino al 1992. Questo fu il motore del bipolarismo, che però non si sarebbe potuto produrre senza che la politica creasse due grandi coalizioni di opposte tendenze politiche. Quel nuovo sistema elettorale fu catalizzato da un referendum tenutosi nel 1991 che introdusse il sistema della preferenza unica, rafforzando il collegamento dell’elettore con un candidato e impedendo che, attraverso la collocazione dei voti di preferenza sulla scheda elettorale, divenissero riconoscibili, e quindi contrattabili in una sorta di mercato, i voti elettorali.
 In definitiva nel 1991, come verosimilmente accadrà quest'anno, un referendum istituzionale fu alla base di un mutamento di fase della storia nazionale.
 Quel sistema politico del bipolarismo divenne instabile dopo l’entrata in vigore, nel 2005 di una nuova legge elettorale che abolì il sistema maggioritario, introdusse le liste di candidati bloccate, formate dai partiti e proposte agli elettori senza possibilità di esprimere voti di preferenza,  e introdusse il premio di maggioranza, una quota aggiuntiva di parlamentari che andava alla coalizione che, su scala nazionale per la Camera dei deputati e su scala regionale per il Senato, avesse ottenuto il maggior numero di voti, fino ad assegnarle una solida maggioranza assoluta di parlamentari. Questo modo di scegliere i membri del Parlamento staccava i candidati dagli elettori e li collegava molto più strettamente ai capi delle maggiori coalizioni. Questi ultimi, però, trovarono sempre più difficoltà a mantenere la disciplina politica tra i parlamentari da loro sostanzialmente nominati. Si manifestò in maniera crescente un problema che era stato caratteristico del sistema politico liberale della prima fase del Regno d’Italia, dal 1861 all’emergere dei grandi partiti politici di massa, dopo la Prima Guerra Mondiale, quello del trasformismo,  quindi di parlamentari che cambiavano con una certa libertà gli schieramenti politici. E, soprattutto, il differente sistema di attribuzione del premio di maggioranza tra Camera dei Deputati e Senato creò un’asimmetria tra le due Camere, per cui le maggioranze di governo furono molto meno solide al Senato rispetto alla Camera dei Deputati. L’esperienza di questo problema spiega anche il perché nell’ultima riforma ci si sia tanto occupati di riformare il Senato. Con la legge elettorale del 2005 fu sempre più difficile produrre e, soprattutto, mantenere stabile il bipolarismo. Ideata dal centro-destra, nelle elezioni politiche del 2006 la riforma favorì, contro le aspettative, il centro-sinistra.  Ma quest’ultimo entrò rapidamente in crisi e alle elezioni politiche anticipate del 2008 vinse la coalizione di centro-destra, che però a sua volta entrò in crisi terminale dopo soli tre anni, nel 2011, passando la mano, a seguito dei problemi creati dalla durissima fase di depressione economica globale manifestatasi proprio a partire dal 2008,  con inizio negli Stati Uniti d’America per il crollo del valore di prodotti finanziari collegati al mercato immobiliare, e nonostante che la coalizione di governo potesse ancora contare su una maggioranza parlamentare di governo piuttosto solida. Questo dimostra che non basta rafforzare, per così dire artificialmente, agendo sui sistemi elettorali, le maggioranze di governo, per avere governi stabili e  politiche di governo di lungo periodo.  E’ appunto nel 2011 che inizia l’attuale fase politica, caratterizzata da una eclisse del Parlamento e dall’intento di fare del Governo il cardine dell’intero sistema costituzionale. 
  Nel 2011 l’impotenza di fatto dimostrata dalla maggioranza parlamentare di governo produsse anche la crisi del governo da essa espresso. Bisogna ricordare che nelle dinamiche della crisi incise anche un pronunciamento nel settembre 2011, invocato anche da diversi organi di stampa, del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, che richiamava l’attenzione della politica sulla questione morale [testo in http://www.focl.it/index2.php?option=com_docman&task=doc_view&gid=198&Itemid=9 ]. Al vertice della Repubblica rimaneva integra, in definitiva, un’unica istituzione fondamentale ancora capace di indirizzo politico ed era la Presidenza della Repubblica. Quest’ultima scelse ed accreditò, con la nomina a senatore a vita, quindi al di fuori di elezioni politiche, un nuovo Presidente del Consiglio dei ministri, a capo di un governo tecnico, con il limitato compito di fronteggiare l’emergenza economica, sostenuto da entrambi i maggiori schieramenti politici, ma non sulla base di un accordo organico di lungo periodo tra di essi. È in questo periodo che iniziarono i processi di riforma costituzionale che hanno portato nell’aprile di quest’anno all’approvazione della più estesa revisione costituzionale dal 1948, con la modifica di 50 articoli su 139.  Prima fu nominata, dal Presidente della Repubblica, una commissione di esperti composta da Valerio Onida, Mario Mauro, Gaetano Quagliarello e Luciano Violante, con il compito di dare indicazioni su una riforma costituzionale. Sotto il successivo Presidente del Consiglio, nel giugno 2013, il Governo, che ancora fondava la sua autorità essenzialmente sull’autorità del Presidente della Repubblica in quanto dalle elezioni politiche del 2013 era scaturita una maggioranza politica parlamentare instabile, nominò poi una Commissione per le riforme costituzionali di 35 esperti non parlamentari, con un comitato di redazione di sette professori di diritto. Da questo momento la riforma costituzionale entrò nel programma di governo e ebbe nel Governo il suo primo motore. L’attuale Presidente del Consiglio, in carica dal febbraio 2014 sulla base di un accordo politico con il leader  del centro-destra denominato Patto del Nazareno che prevedeva nel programma di governo la riforma costituzionale, ha mantenuto questa impostazione, vale a dire di considerare la revisione costituzionale come un affare essenzialmente del Governo, dando un forte impulso ai processi parlamentari di deliberazione, conclusisi nell’aprile di quest’anno, con l’approvazione della legge di riforma costituzionale da parte del Parlamento in seconda votazione, secondo la procedura prevista dall’art.138 della Costituzione.

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Il testo della riforma costituzionale

CAMERA DEI DEPUTATI

Testo di  legge  costituzionale  approvato  in  seconda  votazione  a maggioranza assoluta,  ma  inferiore  ai  due  terzi  dei  membri  di ciascuna  Camera,  recante:  «Disposizioni  per  il  superamento  del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento  dei  costi  di  funzionamento  delle  istituzioni,   la soppressione del CNEL e la revisione del  titolo  V  della  parte  II della Costituzione». (16A03075) 
(Gazzetta Ufficiale n.88 del 15-4-16)


Avvertenza: 
 
Il testo della legge costituzionale è stato approvato  dal  Senato della Repubblica, in seconda votazione, con la  maggioranza  assoluta dei suoi componenti, nella seduta del 20 gennaio 2016, e dalla Camera dei deputati, in seconda votazione, con la maggioranza  assoluta  dei suoi componenti, nella seduta del 12 aprile 2016.  
Entro tre mesi dalla pubblicazione  nella  Gazzetta  Ufficiale  del testo seguente, un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori, o  cinque  Consigli  regionali  potevano   domandare  che  si proceda al referendum popolare.  Ciò è avvenuto. Il prossimo 4 dicembre si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale.

Capo I
MODIFICHE AL TITOLO I DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE 


Art. 1. 
(Funzioni delle Camere). 

1. L'articolo 55 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 55. – Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l'equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza.
Ciascun membro della Camera dei deputati rappresenta la Nazione.
La Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell'operato del Governo.
Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all'esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l'Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle politiche dell'Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l'attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l'impatto delle politiche dell'Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l'attuazione delle leggi dello Stato.

Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione». 


Art. 2. 
(Composizione ed elezione del Senato della Repubblica).

1. L'articolo 57 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 57. – Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica.
I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori.
Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha due.
La ripartizione dei seggi tra le Regioni si effettua, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, in proporzione alla loro popolazione, quale risulta dall'ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.
La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma.
Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio».


Art. 3. 
(Modifica all'articolo 59 della Costituzione).

1. All'articolo 59 della Costituzione, il secondo comma è sostituito dal seguente:
«Il Presidente della Repubblica può nominare senatori cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Tali senatori durano in carica sette anni e non possono essere nuovamente nominati».


Art. 4. 
(Durata della Camera dei deputati). 

1. L'articolo 60 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 60. – La Camera dei deputati è eletta per cinque anni.
La durata della Camera dei deputati non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra».


Art. 5. 
(Modifica all'articolo 63 della Costituzione).

1. All'articolo 63 della Costituzione, dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Il regolamento stabilisce in quali casi l'elezione o la nomina alle cariche negli organi del Senato della Repubblica possono essere limitate in ragione dell'esercizio di funzioni di governo regionali o locali».


Art. 6. 
(Modifiche all'articolo 64 della Costituzione). 

1. All'articolo 64 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«I regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari.

Il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo statuto delle opposizioni»; 

b) il quarto comma è sostituito dal seguente:
«I membri del Governo hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute delle Camere. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono»;

c) è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«I membri del Parlamento hanno il dovere di partecipare alle sedute dell'Assemblea e ai lavori delle Commissioni».


Art. 7. 
(Titoli di ammissione dei componenti del Senato della Repubblica). 

1. All'articolo 66 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Il Senato della Repubblica prende atto della cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente decadenza da senatore».


Art. 8. 
(Vincolo di mandato). 

1. L'articolo 67 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 67. – I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato».


Art. 9. 
(Indennità parlamentare). 

1. All'articolo 69 della Costituzione, le parole: «del Parlamento» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati».


Art. 10. 
(Procedimento legislativo). 

1. L'articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71, per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.
  Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
  Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all'esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata.
  L'esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all'articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. 
I disegni di legge di cui all'articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. 
I Presidenti delle Camere decidono, d'intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. 
Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all'esame della Camera dei deputati». 


Art. 11. 
(Iniziativa legislativa). 

1. All'articolo 71 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Il Senato della Repubblica può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, richiedere alla Camera dei deputati di procedere all'esame di un disegno di legge. In tal caso, la Camera dei deputati procede all'esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato della Repubblica»;

b) al secondo comma, la parola: «cinquantamila» è sostituita dalla seguente: «centocinquantamila» ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «La discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d'iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari»;

c) è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d'indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione».


Art. 12. 
(Modifica dell'articolo 72 della Costituzione). 

1. L'articolo 72 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 72. – Ogni disegno di legge di cui all'articolo 70, primo comma, presentato ad una Camera, è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e con votazione finale.
Ogni altro disegno di legge è presentato alla Camera dei deputati e, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e con votazione finale.
I regolamenti stabiliscono procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l'urgenza.
Possono altresì stabilire in quali casi e forme l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni, anche permanenti, che, alla Camera dei deputati, sono composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi, fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della Commissione richiedono che sia discusso e votato dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto. I regolamenti determinano le forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni. 
La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, per quelli di delegazione legislativa, per quelli di conversione in legge di decreti, per quelli di autorizzazione a ratificare trattati internazionali e per quelli di approvazione di bilanci e consuntivi. 
Il regolamento del Senato della Repubblica disciplina le modalità di esame dei disegni di legge trasmessi dalla Camera dei deputati ai sensi dell'articolo 70. 
Esclusi i casi di cui all'articolo 70, primo comma, e, in ogni caso, le leggi in materia elettorale, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e le leggi di cui agli articoli 79 e 81, sesto comma, il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l'attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione. In tali casi, i termini di cui all'articolo 70, terzo comma, sono ridotti della metà. Il termine può essere differito di non oltre quindici giorni, in relazione ai tempi di esame da parte della Commissione nonché alla complessità del disegno di legge. Il regolamento della Camera dei deputati stabilisce le modalità e i limiti del procedimento, anche con riferimento all'omogeneità del disegno di legge». 


Art. 13. 
(Modifiche agli articoli 73 e 134 della Costituzione). 

1. All'articolo 73 della Costituzione, il primo comma è sostituito dai seguenti:
«Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall'approvazione.
Le leggi che disciplinano l'elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, su ricorso motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro dieci giorni dall'approvazione della legge, prima dei quali la legge non può essere promulgata. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata».

2. All'articolo 134 della Costituzione, dopo il primo comma è aggiunto il seguente:
«La Corte costituzionale giudica altresì della legittimità costituzionale delle leggi che disciplinano l'elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica ai sensi dell'articolo 73, secondo comma».


Art. 14. 
(Modifica dell'articolo 74 della Costituzione). 

1. L'articolo 74 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 74. – Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. 
Qualora la richiesta riguardi la legge di conversione di un decreto adottato a norma dell'articolo 77, il termine per la conversione in legge è differito di trenta giorni. 
Se la legge è nuovamente approvata, questa deve essere promulgata». 


Art. 15. 
(Modifica dell'articolo 75 della Costituzione). 

1. L'articolo 75 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 75. – È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti gli elettori.
La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del referendum».


Art. 16. 
(Disposizioni in materia di decretazione d'urgenza). 

1. All'articolo 77 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «delle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «disposta con legge»;

b) al secondo comma, le parole: «alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono» sono sostituite dalle seguenti: «alla Camera dei deputati, anche quando la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere. La Camera dei deputati, anche se sciolta, è appositamente convocata e si riunisce»;

c) al terzo comma:

1) al primo periodo sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: « o, nei casi in cui il Presidente della Repubblica abbia chiesto, a norma dell'articolo 74, una nuova deliberazione, entro novanta giorni dalla loro pubblicazione»;

2) al secondo periodo, le parole: «Le Camere possono» sono sostituite dalle seguenti: «La legge può» e le parole: «con legge» sono soppresse;

d) sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:
«Il Governo non può, mediante provvedimenti provvisori con forza di legge: disciplinare le materie indicate nell'articolo 72, quinto comma, con esclusione, per la materia elettorale, della disciplina dell'organizzazione del procedimento elettorale e dello svolgimento delle elezioni; reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi; ripristinare l'efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento.
I decreti recano misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.
L'esame, a norma dell'articolo 70, terzo e quarto comma, dei disegni di legge di conversione dei decreti è disposto dal Senato della Repubblica entro trenta giorni dalla loro presentazione alla Camera dei deputati. Le proposte di modificazione possono essere deliberate entro dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di conversione, che deve avvenire non oltre quaranta giorni dalla presentazione.

Nel corso dell'esame dei disegni di legge di conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee all'oggetto o alle finalità del decreto». 


Art. 17. 
(Deliberazione dello stato di guerra). 

1. L'articolo 78 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 78. – La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari».


Art. 18. 
(Leggi di amnistia e indulto). 

1. All'articolo 79, primo comma, della Costituzione, le parole: «di ciascuna Camera,» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati,».


Art. 19. 
(Autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali). 

1. All'articolo 80 della Costituzione, le parole: «Le Camere autorizzano» sono sostituite dalle seguenti: «La Camera dei deputati autorizza» ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le leggi che autorizzano la ratifica dei trattati relativi all'appartenenza dell'Italia all'Unione europea sono approvate da entrambe le Camere».


Art. 20. 
(Inchieste parlamentari). 

1. L'articolo 82 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 82. – La Camera dei deputati può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. Il Senato della Repubblica può disporre inchieste su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali. 
A tale scopo ciascuna Camera nomina fra i propri componenti una Commissione. Alla Camera dei deputati la Commissione è formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La Commissione d'inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria». 


Capo II 

MODIFICHE AL TITOLO II DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE 

Art. 21. 
(Modifiche all'articolo 83 della Costituzione in materia di delegati regionali e di quorum per l'elezione del Presidente della Repubblica). 

1. All'articolo 83 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il secondo comma è abrogato;

b) al terzo comma, il secondo periodo è sostituito dai seguenti: «Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell'assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti».


Art. 22. 
(Disposizioni in tema di elezione del Presidente della Repubblica). 

1. All'articolo 85 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al secondo comma, le parole: «e i delegati regionali,» sono soppresse e dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: «Quando il Presidente della Camera esercita le funzioni del Presidente della Repubblica nel caso in cui questi non possa adempierle, il Presidente del Senato convoca e presiede il Parlamento in seduta comune»;

b) al terzo comma, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Se la Camera dei deputati è sciolta, o manca meno di tre mesi alla sua cessazione, l'elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione della Camera nuova».


Art. 23. 
(Esercizio delle funzioni del Presidente della Repubblica). 

1. All'articolo 86 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «del Senato» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati»;

b) al secondo comma, le parole: «il Presidente della Camera dei deputati indice» sono sostituite dalle seguenti: «il Presidente del Senato indice», le parole: «le Camere sono sciolte» sono sostituite dalle seguenti: «la Camera dei deputati è sciolta» e la parola: «loro» è sostituita dalla seguente: «sua».


Art. 24. 
(Scioglimento della Camera dei deputati). 

1. All'articolo 88 della Costituzione, il primo comma è sostituito dal seguente:
«Il Presidente della Repubblica può, sentito il suo Presidente, sciogliere la Camera dei deputati».


Capo III 

MODIFICHE AL TITOLO III DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE 

Art. 25. 
(Fiducia al Governo). 

1. All'articolo 94 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «delle due Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati»;

b) al secondo comma, le parole: «Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia» sono sostituite dalle seguenti: «La fiducia è accordata o revocata»;

c) al terzo comma, le parole: «alle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «innanzi alla Camera dei deputati»;

d) al quarto comma, le parole: «di una o d'entrambe le Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati»;

e) al quinto comma, dopo la parola: «Camera» sono inserite le seguenti: «dei deputati».


Art. 26. 
(Modifica all'articolo 96 della Costituzione). 

1. All'articolo 96 della Costituzione, le parole: «del Senato della Repubblica o» sono soppresse.


Art. 27. 
(Modifica all'articolo 97 della Costituzione). 

1. Il secondo comma dell'articolo 97 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento, l'imparzialità e la trasparenza dell'amministrazione».


Art. 28. 
(Soppressione del CNEL). 

1. L'articolo 99 della Costituzione è abrogato.


Capo IV 

MODIFICHE AL TITOLO V DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE 

Art. 29. 
(Abolizione delle Province). 

1. All'articolo 114 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «dalle Province,» sono soppresse;

b) al secondo comma, le parole: «le Province,» sono soppresse.


Art. 30. 
(Modifica all'articolo 116 della Costituzione). 

1. All'articolo 116 della Costituzione, il terzo comma è sostituito dal seguente:
«Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui all'articolo 117, secondo comma, lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, m), limitatamente alle disposizioni generali e comuni per le politiche sociali, n), o), limitatamente alle politiche attive del lavoro e all'istruzione e formazione professionale, q), limitatamente al commercio con l'estero, s) e u), limitatamente al governo del territorio, possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, anche su richiesta delle stesse, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119, purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio. La legge è approvata da entrambe le Camere, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata».


Art. 31. 
(Modifica dell'articolo 117 della Costituzione). 

1. L'articolo 117 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 117. – La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea e dagli obblighi internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:

a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;

b) immigrazione;

c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;

d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;

e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari e assicurativi; tutela e promozione della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; perequazione delle risorse finanziarie;

f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;

g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l'uniformità sul territorio nazionale;

h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;

i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;

l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;

m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare;

n) disposizioni generali e comuni sull'istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica;

o) previdenza sociale, ivi compresa la previdenza complementare e integrativa; tutela e sicurezza del lavoro; politiche attive del lavoro; disposizioni generali e comuni sull'istruzione e formazione professionale;

p) ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane; disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni;

q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; commercio con l'estero;

r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati, dei processi e delle relative infrastrutture e piattaforme informatiche dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;

s) tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo;

t) ordinamento delle professioni e della comunicazione;

u) disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile;

v) produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia;

z) infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale.

 Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia di rappresentanza delle minoranze linguistiche, di pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, di dotazione infrastrutturale, di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, di promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale; salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche, in materia di servizi scolastici, di promozione del diritto allo studio, anche universitario; in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo, di regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica, nonché in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato.
 Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale.
 Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi dell'Unione europea e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
 La potestà regolamentare spetta allo Stato e alle Regioni secondo le rispettive competenze legislative. È fatta salva la facoltà dello Stato di delegare alle Regioni l'esercizio di tale potestà nelle materie di competenza legislativa esclusiva. I Comuni e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, nel rispetto della legge statale o regionale. 
 Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive. 
La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni. 
Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato». 


Art. 32. 
(Modifiche all'articolo 118 della Costituzione). 

1. All'articolo 118 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, la parola: «Province,» è soppressa;

b) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Le funzioni amministrative sono esercitate in modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell'azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli amministratori»;

c) al secondo comma, le parole: «, le Province» sono soppresse;

d) al terzo comma, le parole: «nella materia della tutela dei beni culturali» sono sostituite dalle seguenti: «in materia di tutela dei beni culturali e paesaggistici»;

e) al quarto comma, la parola: «, Province» è soppressa.


Art. 33. 
(Modifica dell'articolo 119 della Costituzione). 

1. L'articolo 119 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 119. – I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea.
I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio, in armonia con la Costituzione e secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.
Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni. Con legge dello Stato sono definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell'esercizio delle medesime funzioni.
Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Città metropolitane e Regioni.

I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i princìpi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l'equilibrio di bilancio. È esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti». 


Art. 34. 
(Modifica all'articolo 120 della Costituzione). 

1. All'articolo 120, secondo comma, della Costituzione, dopo le parole: «Il Governo» sono inserite le seguenti: «, acquisito, salvi i casi di motivata urgenza, il parere del Senato della Repubblica, che deve essere reso entro quindici giorni dalla richiesta,» e sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e stabilisce i casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall'esercizio delle rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell'ente».


Art. 35. 
(Limiti agli emolumenti dei componenti degli organi regionali ed equilibrio tra i sessi nella rappresentanza). 

1. All'articolo 122, primo comma, della Costituzione, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e i relativi emolumenti nel limite dell'importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione. La legge della Repubblica stabilisce altresì i princìpi fondamentali per promuovere l'equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza».


Art. 36. 
(Soppressione della Commissione parlamentare per le questioni regionali). 

1. All'articolo 126, primo comma, della Costituzione, l'ultimo periodo è sostituito dal seguente: «Il decreto è adottato previo parere del Senato della Repubblica».


Capo V 

MODIFICHE AL TITOLO VI DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE 

Art. 37. 
(Elezione dei giudici della Corte costituzionale). 

1. All'articolo 135 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il primo comma è sostituito dal seguente:
«La Corte costituzionale è composta da quindici giudici, dei quali un terzo nominati dal Presidente della Repubblica, un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative, tre dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica»;

b) al settimo comma, la parola: «senatore» è sostituita dalla seguente: «deputato».


Capo VI 

DISPOSIZIONI FINALI 

Art. 38. 
(Disposizioni consequenziali e di coordinamento). 

1. All'articolo 48, terzo comma, della Costituzione, le parole: «delle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati».

2. L'articolo 58 della Costituzione è abrogato.

3. L'articolo 61 della Costituzione è sostituito dal seguente: 
«Art. 61. – L'elezione della nuova Camera dei deputati ha luogo entro settanta giorni dalla fine della precedente. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dall'elezione. 
Finché non sia riunita la nuova Camera dei deputati sono prorogati i poteri della precedente». 

4. All'articolo 62 della Costituzione, il terzo comma è abrogato.

5. All'articolo 73, secondo comma, della Costituzione, le parole: «Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti, ne dichiarano» sono sostituite dalle seguenti: «Se la Camera dei deputati, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, ne dichiara».

6. All'articolo 81 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al secondo comma, le parole: «delle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati» e la parola: «rispettivi» è sostituita dalla seguente: «suoi»;

b) al quarto comma, le parole: «Le Camere ogni anno approvano» sono sostituite dalle seguenti: «La Camera dei deputati ogni anno approva»;

c) al sesto comma, le parole: «di ciascuna Camera,» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati,».

7. All'articolo 87 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al terzo comma, le parole: «delle nuove Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della nuova Camera dei deputati»;

b) all'ottavo comma, le parole: «delle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati. Ratifica i trattati relativi all'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, previa l'autorizzazione di entrambe le Camere»;

c) al nono comma, le parole: «dalle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «dalla Camera dei deputati».

8. La rubrica del titolo V della parte II della Costituzione è sostituita dalla seguente: «Le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni».
9. All'articolo 120, secondo comma, della Costituzione, dopo le parole: «, delle Province» sono inserite le seguenti: «autonome di Trento e di Bolzano».
10. All'articolo 121, secondo comma, della Costituzione, le parole: «alle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «alla Camera dei deputati».
11. All'articolo 122, secondo comma, della Costituzione, le parole: «ad una delle Camere del Parlamento» sono sostituite dalle seguenti: «alla Camera dei deputati».
12. All'articolo 132, secondo comma, della Costituzione, le parole: «della Provincia o delle Province interessate e» sono soppresse e le parole: «Province e Comuni,» sono sostituite dalle seguenti: «i Comuni,».
13. All'articolo 133 della Costituzione, il primo comma è abrogato.
14. Il comma 2 dell'articolo 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

«2. Il Comitato di cui al comma 1 è presieduto dal Presidente della Giunta della Camera dei deputati».

15. Alla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) l'articolo 5 è sostituito dal seguente:
«Art. 5. – 1. L'autorizzazione prevista dall'articolo 96 della Costituzione spetta alla Camera dei deputati, anche se il procedimento riguardi altresì soggetti che non sono membri della medesima Camera dei deputati»;

b) le parole: «Camera competente ai sensi dell'articolo 5» e «Camera competente», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «Camera dei deputati».

16. All'articolo 3 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, al primo periodo, le parole: «da questo in seduta comune delle due Camere» sono sostituite dalle seguenti: «da ciascuna Camera» e le parole: «componenti l'Assemblea» sono sostituite dalle seguenti: «propri componenti»; al secondo periodo, le parole: «l'Assemblea» sono sostituite dalle seguenti: «di ciascuna Camera».


Art. 39. 
(Disposizioni transitorie). 

1. In sede di prima applicazione e sino alla data di entrata in vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dall'articolo 2 della presente legge costituzionale, per l'elezione del Senato della Repubblica, nei Consigli regionali e della Provincia autonoma di Trento, ogni consigliere può votare per una sola lista di candidati, formata da consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori. Al fine dell'assegnazione dei seggi a ciascuna lista di candidati si divide il numero dei voti espressi per il numero dei seggi attribuiti e si ottiene il quoziente elettorale. Si divide poi per tale quoziente il numero dei voti espressi in favore di ciascuna lista di candidati. I seggi sono assegnati a ciascuna lista di candidati in numero pari ai quozienti interi ottenuti, secondo l'ordine di presentazione nella lista dei candidati medesimi, e i seggi residui sono assegnati alle liste che hanno conseguito i maggiori resti; a parità di resti, il seggio è assegnato alla lista che non ha ottenuto seggi o, in mancanza, a quella che ha ottenuto il numero minore di seggi. Per la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti, può essere esercitata l'opzione per l'elezione del sindaco o, in alternativa, di un consigliere, nell'ambito dei seggi spettanti. In caso di cessazione di un senatore dalla carica di consigliere o di sindaco, è proclamato eletto rispettivamente il consigliere o sindaco primo tra i non eletti della stessa lista.

2. Quando, in base all'ultimo censimento generale della popolazione, il numero di senatori spettanti a una Regione, ai sensi dell'articolo 57 della Costituzione, come modificato dall'articolo 2 della presente legge costituzionale, è diverso da quello risultante in base al censimento precedente, il Consiglio regionale elegge i senatori nel numero corrispondente all'ultimo censimento, anche in deroga al primo comma del medesimo articolo 57 della Costituzione. Si applicano in ogni caso le disposizioni di cui al comma 1. 

3. Nella legislatura in corso alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, sciolte entrambe le Camere, non si procede alla convocazione dei comizi elettorali per il rinnovo del Senato della Repubblica. 

4. Fino alla data di entrata in vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dall'articolo 2 della presente legge costituzionale, la prima costituzione del Senato della Repubblica ha luogo, in base alle disposizioni del presente articolo, entro dieci giorni dalla data della prima riunione della Camera dei deputati successiva alle elezioni svolte dopo la data di entrata in vigore della presente legge costituzionale. Qualora alla data di svolgimento delle elezioni della Camera dei deputati di cui al periodo precedente si svolgano anche elezioni di Consigli regionali o dei Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano, i medesimi Consigli sono convocati in collegio elettorale entro tre giorni dal loro insediamento. 

5. I senatori eletti sono proclamati dal Presidente della Giunta regionale o provinciale.

6. La legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dall'articolo 2 della presente legge costituzionale, è approvata entro sei mesi dalla data di svolgimento delle elezioni della Camera dei deputati di cui al comma 4. 
7. I senatori a vita in carica alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale permangono nella stessa carica, ad ogni effetto, quali membri del Senato della Repubblica. 
8. Le disposizioni dei regolamenti parlamentari vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, fino alla data di entrata in vigore delle loro modificazioni, adottate secondo i rispettivi ordinamenti dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica, conseguenti alla medesima legge costituzionale. 
9. Fino all'adeguamento del regolamento della Camera dei deputati a quanto previsto dall'articolo 72, settimo comma, della Costituzione, come modificato dall'articolo 12 della presente legge costituzionale, in ogni caso il differimento del termine previsto dal medesimo articolo non può essere inferiore a dieci giorni. 
10. In sede di prima applicazione dell'articolo 135 della Costituzione, come modificato dall'articolo 37 della presente legge costituzionale, alla cessazione dalla carica dei giudici della Corte costituzionale nominati dal Parlamento in seduta comune, le nuove nomine sono attribuite alternativamente, nell'ordine, alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica. 
11. In sede di prima applicazione, nella legislatura in corso alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, su ricorso motivato presentato entro dieci giorni da tale data, o entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale, da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o un terzo dei componenti del Senato della Repubblica, le leggi promulgate nella medesima legislatura che disciplinano l'elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte al giudizio di legittimità della Corte costituzionale. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni. Anche ai fini di cui al presente comma, il termine di cui al comma 6 decorre dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale. 

Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano conformano le rispettive disposizioni legislative e regolamentari a quanto ivi stabilito. 
12. Le leggi delle Regioni adottate ai sensi dell'articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, nel testo vigente fino alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle leggi adottate ai sensi dell'articolo 117, secondo e terzo comma, della Costituzione, come modificato dall'articolo 31 della presente legge costituzionale. 
13. Le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, e sino alla revisione dei predetti statuti speciali, alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome si applicano le disposizioni di cui all'articolo 116, terzo comma, ad esclusione di quelle che si riferiscono alle materie di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, nel testo vigente fino alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale e resta ferma la disciplina vigente prevista dai medesimi statuti e dalle relative norme di attuazione ai fini di quanto previsto dall'articolo 120 della Costituzione; a seguito della suddetta revisione, alle medesime Regioni a statuto speciale e Province autonome si applicano le disposizioni di cui all'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale. 
14. La Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste esercita le funzioni provinciali già attribuite alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale. 


Art. 40. 
(Disposizioni finali). 

1. Il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL) è soppresso. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, nomina, con proprio decreto, un commissario straordinario cui è affidata la gestione provvisoria del CNEL, per le attività relative al patrimonio, compreso quello immobiliare, nonché per la riallocazione delle risorse umane e strumentali presso la Corte dei conti e per gli altri adempimenti conseguenti alla soppressione. All'atto dell'insediamento del commissario straordinario decadono dall'incarico gli organi del CNEL e i suoi componenti per ogni funzione di istituto, compresa quella di rappresentanza.
2. Non possono essere corrisposti rimborsi o analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali.
3. Tenuto conto di quanto disposto dalla presente legge costituzionale, entro la legislatura in corso alla data della sua entrata in vigore, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica provvedono, secondo criteri di efficienza e razionalizzazione, all'integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari, mediante servizi comuni, impiego coordinato di risorse umane e strumentali e ogni altra forma di collaborazione. A tal fine è istituito il ruolo unico dei dipendenti del Parlamento, formato dal personale di ruolo delle due Camere, che adottano uno statuto unico del personale dipendente, nel quale sono raccolte e coordinate le disposizioni già vigenti nei rispettivi ordinamenti e stabilite le procedure per le modificazioni successive da approvare in conformità ai princìpi di autonomia, imparzialità e accesso esclusivo e diretto con apposito concorso. Le Camere definiscono altresì di comune accordo le norme che regolano i contratti di lavoro alle dipendenze delle formazioni organizzate dei membri del Parlamento, previste dai regolamenti. Restano validi a ogni effetto i rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati anche con i terzi. 
4. Per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale. Il mutamento delle circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione. 
5. Fermo restando quanto stabilito dall'articolo 59, primo comma, della Costituzione, i senatori di cui al medesimo articolo 59, secondo comma, come sostituito dall'articolo 3 della presente legge costituzionale, non possono eccedere, in ogni caso, il numero complessivo di cinque, tenuto conto della permanenza in carica dei senatori a vita già nominati alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale. Lo stato e le prerogative dei senatori di diritto e a vita restano regolati secondo le disposizioni già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale. 
6. I senatori della Provincia autonoma di Bolzano/Autonome Provinz Bozen sono eletti tenendo conto della consistenza dei gruppi linguistici in base all'ultimo censimento. In sede di prima applicazione ogni consigliere può votare per due liste di candidati, formate ciascuna da consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori.
  
Art. 41. 
(Entrata in vigore). 


1. La presente legge costituzionale entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale successiva alla promulgazione. Le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano a decorrere dalla legislatura successiva allo scioglimento di entrambe le Camere, salvo quelle previste dagli articoli 28, 35, 39, commi 3, 7 e 11, e 40, commi 1, 2, 3 e 4, che sono di immediata applicazione.
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La riforma costituzionale a volo d'angelo
 

  Esaminare il testo  e capire i contenuti della riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum è impegnativo per chi sa di diritto e molto di più per chi non ne è pratico. Occorrerebbe avere almeno dei rudimenti di educazione civica, al livello delle scuole medie inferiori di oggi. Si tratta di una legge che incide profondamente nella Costituzione, in particolare in quella parte, la seconda, che disciplina la struttura e il funzionamento delle istituzioni di vertice della Repubblica. Da essa però dipendono la difesa e lo sviluppo dei principi e valori civili che sono trattati nella prima parte della Costituzione.
 La campagna per il referendum, fatta in genere per slogan, sul modello della pubblicità commerciale, non aiuta. Gli argomenti che principalmente vengono proposti o sono superficiali o sono parzialmente fuorvianti.
   Il risparmio di denaro pubblico che si conseguirà sarà poca cosa rispetto all'intero bilancio pubblico. Si è calcolato che, quanto alle spese per il Senato, potrebbe aggirarsi intorno ad un 10%, ma avremo meno senatori e soprattutto senatori a mezzo servizio, perché dovranno fare anche i consiglieri regionali e i sindaci. La semplificazione delle procedure parlamentari sarà anch'essa poca cosa, sia per il fatto che in molte materie le leggi dovranno continuare ad essere approvate da entrambe le Camere, sia perché il nuovo Senato potrà comunque deliberare di chiedere alla Camera dei Deputati modifiche delle leggi di competenza esclusiva di quest'ultima, sia perché, data la non chiarissima formulazione delle nuove norme, è prevedibile che insorgano controversie interpretative che, coinvolgendo organi di vertice, non saranno di facile soluzione. La riforma non garantirà "le" riforme alle quali spesso si accenna genericamente e che si dice siano indispensabili per la ripresa dell'economia nazionale. Si tratta infatti di una legge che modifica o abolisce organi dello Stato, quindi che non incide direttamente sulla società. Se e come fare le riforme dipenderà dalla formazione di una sufficiente forza politica riformatrice e la riforma costituzionale oggetto del referendum  è in un certo senso indifferente rispetto alla successiva azione riformatrice nella società, in altre parole non garantisce riforme "buone", e non è detto neanche che garantisca riforme più celeri.
 Stanno uscendo diversi libri divulgativi per orientarsi nella riforma costituzionale. L'altro giorno ho indicato quello di Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale", "Loro diranno, noi diciamo", edito da Laterza, orientato in senso negativo alla riforma. Della medesima opinione sono Luigi Ciotti, Alessandra Agostino, Tomaso Montanari e Livio Pepino nel libro "Io dico no", pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele. Favorevoli alla riforma sono due professori universitari di diritto che da giovani furono presidenti della FUCI, gli universitari cattolici: Stefano Ceccanti, in "La transizione e (quasi finita)" edito da Giappichelli, e Giovanni Guzzetta, in "Italia, si cambia", edito da Rubettino. Guzzetta fin da liceale fu per qualche tempo nel gruppo romano della Fuci di cui facevo parte anch'io, ma iniziò precocemente a collaborare nella presidenza dell'organizzazione, perché era un ragazzo molto capace.  Ceccanti è fonte particolarmente affidabile in quanto è considerato uno dei "Padri", vale a dire degli ideatori e autori, della riforma; ha fatto parte della commissione di saggi nominata dal Presidente della Repubblica Napolitano per formulare proposte per la riforma dello stato. Altro testo scritto da esperti autorevoli è "Perché è saggio dire no", pubblicato da Rubettino è scritto da Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale, e da Gaetano Quagliarello, professore universitario, costituzionalista e già membro della menzionata commissione di saggi. Informarsi su uno di questi testi, o su uno degli altri analoghi che stanno uscendo di questi tempi, è utile perché radio e televisione, le fonti informative più utilizzate dagli italiani espongono prevalentemente le ragioni favorevoli alla riforma e lo fanno in modo superficiale e soprattutto indicando, in genere, quelle sul risparmio di spesa pubblica e sulla velocizzazione delle procedure parlamentari che abbiamo visto prestare il fianco a diverse e serie obiezioni, che però in genere non vengono esposte. Le ragioni dei contrari alla riforma vengono presentate, quando lo sono, come dei partiti presi. Non si entra mai nel merito. E soprattutto non viene trattato l'argomento che mi appare quello che realmente ha motivato la riforma e che ho letto esposto in un sito web politico del Trentino, vale a dire quello di potenziare la capacità di azione del Governo, in modo che non sia un "governicchio". Questo effetto sicuramente si otterrebbe con la promulgazione della riforma costituzionale, perché tutti i governi che si sono succeduti dal '94 ad oggi, compreso quello attuale, hanno avuto difficoltà e dispiaceri nel cercare di ottenere la "fiducia" dal Senato e il nuovo Senato non sarà più competente a dare questa fiducia.
  All'inizio di questi appunti sulla riforma costituzionale, trovate il testo della legge costituzionale oggetto del prossimo referendum. Essa è stata approvata dal Parlamento, con le speciali modalità previste dalla Costituzione, quindi con una doppia deliberazione conforme di Camera dei Deputati e Senato, ma entrerà in vigore, con la promulgazione del Presidente della Repubblica, solo se otterrà il consenso dei cittadini elettori nel prossimo referendum costituzionale.
 La legge si compone di 41 articoli, che cambiano il testo della Costituzione della Repubblica. L'importanza della riforma è evidente se si tiene conto che la Costituzione ha 139 articoli e 18 disposizioni transitorie e finali.
  Il cuore della riforma è nella modifica della struttura, modalità di elezione e funzioni del Senato, delle funzioni della Camera dei Deputati, e del riparto del potere di fare leggi tra lo Stato e le Regioni. Innova però anche in altre materie: sulle leggi di iniziativa popolare e sul referendum abrogativo delle leggi; sulle modalità di elezione e sulle funzioni del Presidente della Repubblica, sulle modalità di nomina dei giudici della Corte Costituzionale e sulle funzioni della Corte, sui poteri del Governo di emanare decreti legge, limitandoli; sull'attività della pubblica amministrazione, introducendo i criteri costituzionali di trasparenza e semplificazione. Infine abolisce le Province, tranne quelle, con statuto particolare, di Trento e Bolzano, e il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, organo ausiliario previsto dalla Costituzione che si è dimostrato scarsamente produttivo nella sua storia, anche dopo la riforma che di esso è stata attuata nel 1986. 
 Una prima osservazione che faccio è che la legge costituzionale oggetto del referendum contiene non una ma varie riforme e che il giudizio su ciascuna di esse, ad esempio quello sulla modifica del Senato e quello sul l'abrogazione del CNEL, potrebbe essere diverso, ma che dovremo pronunciarci, al referendum, con un sì o un no complessivo: si dovrà tener conto quindi delle parti più importanti, quelle che costituiscono il "cuore" della legge ed è un peccato, perché, se prevarrà il no, saranno pregiudicate anche riforme sulle quali, se presentate separatamente, ci sarebbe stato un consenso molto largo.


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Servizio parlamentare come tirocinio di governo democratico
   
 Prima di ragionare sulla riforma costituzionale recentemente approvata dal Parlamento e su cui tra pochi mesi dovremo dire la nostra in un referendum, come cittadini e secondo modalità di sovranità popolare, è utile scrivere qualcosa sul servizio parlamentare. Di questi tempi lo sento spesso descrivere come un privilegio inutile alla società, utile solo a chi riesce ad aggiudicarsi i ricchi stipendi parlamentari e i molti servizi gratuiti ad essi connessi. In ambienti religiosi non aiuta certamente la struttura non democratica dell'organizzazione delle nostre collettività di fede.  In religione siamo governati da una oligarchia, un sistema di potere in cui i pochi dominano sui più, cooptata, vale a dire scelta da gerarchi di livello superiore. Sopra tutti governa uno solo, il cui potere è configurato come quello di un imperatore religioso. In realtà, come può immaginarsi che una sola persona possa veramente dominare   diverse centinaia di milioni di persone, quante sono quelle che seguono la nostra confessione? E in effetti i nostri imperatori religiosi confessano qualche volta di sentirsi come prigionieri nella cittadella vaticana, centro del loro potere. È più verosimile pensare che al vertice vi siano oligarchie autoreferenziali, quali, ad esempio, si manifestano nel collegio cardinalizio. 
 Dunque, il servizio parlamentare sarebbe uno spreco, una fonte di spesa non produttiva. Un sovrano illuminato, competente, o meglio oligarchie illuminate e competenti farebbero meglio e con minor dispendio di denaro pubblico, che viene raccolto prelevando una quota dei redditi dei cittadini.
  Del resto l'economia delle nostre società, quella che produce i beni essenziali della vita, è organizzata per oligarchie cooptate: è la struttura delle imprese capitalistiche. Di fronte ad esse l'altra gente assume due ruoli, quello di lavoratore e quello di consumatore. Finché essi furono rivestiti dalla stessa gente, in un unico contesto nazionale, tutto è andato, in fondo, per il meglio. Infatti le imprese, per avere consumatori, dovevano anche fornire ai propri lavoratori retribuzioni che consentissero di spendere per i consumi. Nel mondo contemporaneo, invece, in cui la produzione economica e il commercio sono globalizzati, e ciò significa che le imprese e il capitale in esse investito non hanno più frontiere davanti a sé sia nella produzione come nel commercio, la situazione è diversa. Si produce dove costa meno produrre e si vende dove si possono fare i prezzi più alti. In Italia la gran parte degli oggetti di uso quotidiano (verificate) sono prodotti in Asia. I costi di produzione più bassi hanno comportato anche prezzi più bassi al consumo, da noi, per cui i lavoratori italiani, da consumatori, hanno beneficiato dei salari più bassi pagati ai lavoratori asiatici. Alla lunga, però, lo spostamento delle produzioni all'estero ha comportato una riduzione dell'occupazione in Italia. Le imprese potrebbero ritornare a produrre in Italia? Certo, se a loro convenisse. Se le condizioni di lavoro e le retribuzioni diventassero più simili a quelle asiatiche. Da qui, Italia, un progressivo peggioramento delle condizioni di lavoro, che si sono fatte più precarie, e delle retribuzioni. Così l'occupazione in Italia è in lenta ripresa in alcuni settori, per la stessa ragione per cui, ad esempio, avvenne la stessa cosa in Romania, al tempo in cui le produzioni italiane vennero "de-localizzate", vale a dire trasferite in quello stato. Perché costa di meno produrre. Questo processo ê stato assecondato negli ultimi anni dalla nostra politica nazionale. Ma i lavoratori italiani hanno perso qualcosa, rispetto ai tempi dei loro genitori. Sebbene siano in maggioranza nella Repubblica, sui loro interessi hanno prevalso quelli dei pochi che, in oligarchie private, dominano produzione e commercio. In definitiva, si vede che le oligarchie non funzionano tanto bene quando devono fare gli interessi dei più. Sono insofferenti dei limiti posti nell'interesse generale e di fronte ad esse i lavoratori/consumatori sembrano, e in effetti sono, impotenti, salvo che si elevino alla cittadinanza, alla sovranità politica di massa, ciò che richiede di uscire dal proprio micromondo familiare o aziendale e farsi carico, collettivamente, della politica generale. Questo richiede un tirocinio, è cosa che si impara, non è innata. È una conquista culturale che va rinnovata di generazione in generazione.  Non basta studiarla sui libri. I luoghi dove si fa questo tirocinio sono gli organi collegiali elettivi delle istituzioni pubbliche, il Parlamento in primo luogo. In Parlamento, se si fa il servizio parlamentare come si deve, si cresce, in umanità, sapienza, competenza, capacità di sviluppare una politica democratica. È quello che è appunto accaduto negli anni della nostra Repubblica: la creazione e il mantenimento, dopo il ventennio del fascismo storico, di una classe dirigente politica di derivazione popolare, che ha "reso presenti", questo appunto significa "rappresentanza parlamentare", gli interessi dei più. E che, nelle gravi emergenze che l'Italia ha vissuto, in particolare negli scorsi anni '70, hanno salvato pace politica e democrazia.
 In un sistema di democrazia di popolo, come il nostro vuole ancora essere, non si dovrebbe arrivare a dirigere un governo nazionale senza aver fatto quel tirocinio parlamentare. Eppure, come è stato osservato e come si può facilmente verificare, oggi le figure di riferimento dei due maggiori partiti politici nazionali non l'hanno svolto. In un certo senso la recente riforma costituzionale riguardante il Parlamento è opera di neofiti nel lavoro parlamentare, di persone che solo da poco hanno fatto esperienza parlamentare, o addirittura mai. E questo anche che se si sono serviti di consulenti costituzionalisti. La decisione finale, tra le diverse forme parlamentari possibili, è stata però loro, hanno avuto l'ultima parola. Non è stato così, in fondo, si potrebbe ribattere, anche nel 1946 e 1947, in quell'anno e mezzo in cui fu scritta la nostra Costituzione, da persone molte delle quali molte, in particolare quelle più giovani, erano neofite nel lavoro Parlamentare? È vero, fu così. Ma tra quei tempi e quelli nostri c'è una grande differenza: dopo l'esperienza della dittatura fascista, c'era negli anni Quaranta una gran voglia di Parlamento, visto come il più importante antidoto alla ripresa del totalitarismo, che solo da pochissimo era stato vinto è abbattuto. Oggi il clima è un altro, come tutti possono accorgersi.
 Nei sessantacinque anni della storia parlamentare della nostra Repubblica gli interessi dei più, tre generazioni di italiani, che sono state compresenti e nel tempo si sono succedute, tra morti e viventi forse un centinaio di milioni di persone o giù di lì,  sono stati rappresentati da circa 15.000 parlamentari, 900 ogni quattro anni in media tenuto conto delle legislature chiuse anticipatamente, che si sono succeduti nel servizio parlamentare. Davvero li possiamo considerare troppi o inutili? Tenuto conto che da essi è dipesa la nostra vita sociale, quasi tutta, ogni nostra libertà e il benessere e la pace.
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La Nazione

  Nella Costituzione vigente si fa riferimento al concetto di nazione in tre punti, e in due di essi si parla di "Nazione", con l'iniziale maiuscola. È scritto che i "parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la "Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della "Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l' "unità nazionale" (art.87).
 Con la riforma costituzionale i senatori non rappresenteranno più la "Nazione". Nel commento alla riforma preparato dall'Ufficio studi della Camera dei Deputati si ricorda che questa modifica è tra i principi fondanti della riforma, prevista nell'iniziale disegno di legge costituzionale del Governo e non oggetto di successive modifiche. Si vuole infatti che il Senato sia espressione delle autonomie locali. Questa modifica è stata oggetto di aspre critiche tra i costituzionalisti.
 Che cosa è la "Nazione"?  La Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione, perché esse non possono essere fattori di particolare connotazione della Repubblica: lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in campo culturale, si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che significa anche una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in particolare sotto il profilo politico, e solidarietà civile.
 La storia della nostra costruzione nazionale è stata particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche resistenze politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato, nell'Ottocento. Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu osservato. Da un certo punto di vista, l'Italia unita, politicamente organizzata intorno alla monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna con una propria storia particolare, una propria lingua e una propria cultura. L'Italiano era solo lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente francese e piemontese. La gran parte della gente era analfabeta e quindi confinata nelle culture particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci riferisce alla Nazione, si intende una realtà che si è venuta costruendo nell'arco di circa un secolo tra Ottocento e Novecento, in particolare sulla base dell'ideologia politica di Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che volle vivere insieme, per non essere "calpesti e derisi", e lo eravamo perché non eravamo popolo, perché eravamo divisi, proprio come si canta nell'inno nazionale. L'unità culturale italiana fu conseguita però, veramente, solo nel secondo dopoguerra, in particolare per le vie dell'istruzione pubblica di massa e di radio e televisione. È a partire da questa epoca che veramente la Nazione si manifestò. Ed è significativo l'abbandono dei progetti secessionistici che ebbero corso negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai popoli ma tra i popoli italiani ebbero un limitato seguito. Tuttavia ogni processo storico-culturale lascia sempre qualche strascico. Togliere ai senatori la rappresentanza della "Nazione" può essere considerato uno di essi. Proprio nella riforma che si propone di fare del Senato una sede di "raccordo" (viene utilizzato proprio questo termine, piuttosto criticato da alcuni esperti perché non tecnico, impreciso) tra Stato e autonomie locali, si toglie dai riferimenti ideali del nuovo Senato uno dei più potenti motori ideologici unificanti, quello di Nazione come comunanza di storia di progressivo avvicinamento delle diverse culture italiane e di pacifica e solidale convivenza.
 Come si sentiranno, è stato osservato, nel nuovo Senato gli ex Presidenti della Repubblica, il cui titolo di onore per essere senatori è quello di aver rappresentato l'unità nazionale? E i cinque senatori di nomina presidenziale per aver "illustrato la Patria"? Che c'entreranno con gli altri senatori? Ma soprattutto che c'entra nel Parlamento un gruppo di parlamentari che non ha più riferimento alla Nazione? Si è voluto "raccordare" ma sembra, è stato osservato dai critici della riforma, che si sia introdotto un forte elemento di potenziale divisione, nel cuore della Repubblica.

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Tempo per fare politica
 
 Chi sostiene la recente riforma costituzionale sulla quale, nel prossimo referendum di autunno, dovremo pronunciarci, elenca, tra gli argomenti a favore, la riduzione di due terzi dei senatori, da oltre  trecento (compresi gli ex Presidenti della Repubblica e i membri di nomina presidenziale) a cento, e il fatto che i senatori non avranno stipendio per il loro lavoro parlamentare. In effetti i senatori saranno eletti tra i consiglieri regionali e sindaci e avranno solo lo stipendio che già spetterà loro negli enti locali di appartenenza. Sarà difficile però non riconoscere loro  un rimborso spese, in particolare per quelli che risiedono fuori Roma. Li pagheremo meno, ma saranno, per così dire, a mezzo servizio. Continueranno infatti ad essere consiglieri regionali e sindaci e, cessando da quegli incarichi cesseranno anche di essere senatori. Come si farà a sostituirli lo deciderà una futura legge. Sarebbe stato meglio approvarla con la riforma costituzionale, per darci un'idea più completa della nuova istituzione. Ci  conviene avere, in un ruolo così importante gente a mezzo servizio? Avranno il tempo sufficiente per occuparsi dello Stato e, insieme, degli enti locali di appartenenza? Con un solo stipendio dovranno fare un doppio lavoro. Ma ci daranno anche meno tempo.
 La riduzione del numero dei parlamentari non è, in sé, un fatto positivo. Significa meno gente che fa tirocinio nel servizio parlamentare. Ma anche un servizio parlamentare meno intenso, visto che lo si fa a mezzo servizio. E soprattutto  con meno autonomia, visto che la carica di senatore viene a dipendere, per i senatori elettivi, da come vanno le cose negli enti locali di appartenenza. È un vantaggio, tenendo conto che i senatori avranno voce in capitolo negli affari di stato più importanti, nella nomina del Presidente della Repubblica e nella nomina dei giudici costituzionali?
  Occuparsi dello Stato richiede tempo. Nell'antica Atene, dove originò la cultura democratica, solo gli uomini liberi, la piccola minoranza dei cittadini che non lavoravano  essendo i lavori necessari alla vita quotidiana affidati alla grande maggioranza degli schiavi, facevano politica. L'elevazione di tutti  il popolo alla cittadinanza è stato possibile solo con il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, che hanno avuto tempo, istruzione e libertà per la politica. Ma la formazione di una ceto di politici di derivazione popolare in Parlamento ha richiesto la liberazione dei parlamentari da ogni altro lavoro al di fuori della politica democratica: a questo servono gli stipendi dei parlamentari.
 Suo sito www.camera.ti,, scheda "documenti"' poi "temi dell'attività parlamentare" e "il testo di legge della riforma costituzionale" trovate il testo della riforma comparato con la Costituzione vigente, un sunto della riforma e un commento articolo per articolo. Leggeteli tutti, cercate di comprenderli bene, e vedete quanto tempi vi serve. Pensate quanto tempo ci è voluto per ideare e scrivere la riforma. Sono cose che possiamo affidare a gente a mezzo servizio? 
 I nuovi senatori finiranno per essere parlamentari di complemento, ma potranno essere decisivi su questioni molto importanti. 

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 Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte prima


   Nel corso dei passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento come un'istituzione troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel decidere, troppo costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La ragione può essere individuata nel degrado della politica che si era manifestato nel corso del decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente dalla degenerazione della politica controllata dai partiti, che si presentarono platealmente, nel corso di inchieste giudiziarie svolte con una certa sistematicità dal 1992, come minati dalla corruzione. Essi infatti avevano preso a finanziarsi pretendendo una quota del denaro pubblico erogato per appalti pubblici da chi aveva assunto gli appalti. E influivano sulla scelta degli appaltatori, facendo preferire illegalmente quelli che avevano accettato di versare quel tributo. I partiti avevano preso consapevolezza di questi fatti molto prima che emergessero in sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta si iniziò a parlare di " questione morale" e si faceva riferimento proprio al fatto che i partiti avevano iniziato a controllare a proprio beneficio, non nell'interesse pubblico, ogni settore della vita nazionale in cui venivano spese risorse pubbliche.
 Ma la corruzione pubblica non fu l'unica ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione del sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena attuazione dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica irriducibile, colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti si opponevano a tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una più attenta selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli affari di stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non ebbe lo stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse addirittura di  una "fine della storia". In Italia l'idea di sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo ideologico della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università religiose.
 Che c'entrano i partiti con il Parlamento? La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del progressivo minor credito dell'istituzione tra la gente?
 In realtà, nel sistema istituzionale disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, approvata dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori svolti dalla metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era fondamentale per realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico in cui le masse avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il popolo che i costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da individui atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti, attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare la politica nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano stati infatti i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro l'ultimo fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e ideologiche della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere la guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche le basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e proposte in seno ai partiti.
  Il faticoso processo di elevazione del popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso nei partiti di popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di popolo, che si proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo democratico fu una conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata dal fatto che la democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era stata un fatto elitario, essenzialmente espressione di una borghesia illuminata, in una situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del 10% della popolazione.
 Il primo grande partito politico di massa italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza, la Chiesa cattolica e fu antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia nazionale.
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Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte seconda
 
 Ho scritto di degrado della politica come origine della crisi dei partiti, trattando della riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum, perché si tratta di fatti collegati. Più precisamente, la riforma indebolisce il Parlamento come espressione della sovranità popolare, in quanto istituisce un Senato come espressione di un ceto politico di apparato, del governo locale. Può essere considerata come un'eclisse del Parlamento. Essa è conseguita ad una crisi dei partiti provocata dal degrado della politica.
 L'affermazione della democrazia di popolo fu storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei partiti di massa e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi democratici. Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che determinò la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al popolo collegata in maniera vitale.
 Il primo partito politico italiano popolare, di massa, fu la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
  Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto precocemente, fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a cui è intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente, dal Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento, agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa configurazione è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur dopo le molte riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo (1962-1965). Ha cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in concomitanza con la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano e più precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento, quando la gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo piccolo regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri sovrani europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del laicato di fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per sostenere le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle loro mani la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di movimento di massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito politico di massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera dei Congressi, fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del Regno pontificio, la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo molti riferimenti ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a favore delle masse. L'enciclica "Le novità", del papa Gioacchino Pecci, diffusa nel 1891, fu il suo manifesto ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì, dando loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il via libera all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione sociale.
 Altri partiti di massa furono il Partito socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia mazziniana, fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse il divieto per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale nell'attività parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don Luigi Sturzo e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati il Partito Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati all'esperienza socialista,  in quanto il primo originò per scissione dai socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi esponenti del socialismo  italiano, il suo "Duce", vale a dire il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942, sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in particolare nella FUCI  (gli universitari cattolici), nel Movimento Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista fondarono il Movimento Sociale Italiano,  partito che ebbe un seguito popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista, un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
 Ecco dunque descritti i principali attori dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del secolo scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni Novanta. La recente riforma costituzionale può essere considerata una manifestazione di questa crisi. Essa infatti allontana il popolo dal Parlamento introducendo in quest'ultimo un'anomalia, elevando alla sovranità esponenti politici locali svincolati dal dovere di considerare, nell'occuparsi delle questioni di stato, gli interessi della Nazione.
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Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - terza parte


  Per valutare la recente riforma costituzionale  occorre avere a portata di mano il libro di storia dell'ultimo anno delle scuole superiori: infatti essa scaturisce, come tutti i fatti politici, da un lungo processo storico e sociale, che per chi ha meno di cinquant'anni è iniziato prima della sua partecipazione consapevole alla vita civile. Non basta quindi leggere e cercare di capire i quarantuno articoli della legge costituzionale di riforma e confrontare la Costituzione vigente con quella progettata. E non basta neanche cercare di immaginare come funzionerà la nuova Costituzione. Poiché la riforma scaturisce da un processo storico, le cose tenderanno ad evolvere nella direzione che hanno preso, salvo che si decida di correggerne il movimento, ciò che appunto si può fare nel prossimo referendum costituzionale, che si terrà il prossimo 4 dicembre. E' necessario quindi comprendere il senso del movimento in atto.
 La riforma incide profondamente nella struttura della Repubblica, in particolare in quella del Parlamento e delle autonomie locali, ma ha riflessi importanti anche sulla Presidenza della Repubblica e sulla Corte Costituzionale. E i principi costituzionali sono sostanzialmente nelle mani  di chi svolge quelle funzioni, o nella fase normativa o in quella attuativa.
 Il processo storico dal quale è scaturita la riforma è quello di una crisi della politica. La riforma ne è il rimedio o una delle manifestazioni?
 La politica italiana è entrata in crisi negli scorsi anni '70. 
 Nel secondo dopoguerra si era prodotto in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di espansione economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del lavoro. Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere sociale a favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia del partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale della Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso" elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti  i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.
 L'attuale riforma costituzionale si inserisce nei tentativi di rendere il governo più indipendente dalla base sociale, realizzando così quella "governabilità" di cui si iniziò a discutere molto nel corso degli anni '80, in particolare sulle sollecitazioni del politico di governo più connotante quel periodo storico, il neo- socialista Bettino Craxi. Essa va letta insieme alla recente riforma del sistema elettorale della Camera dei Deputati, che consente alla formazione politica che "vince" le elezioni, raggiungendo anche solo una maggioranza "relativa", vale a dire inferiore al 50%, ed essendo preferita nel "ballottaggio" tra le due formazioni che hanno avuto il maggior numero di voti, di avere una solida e sicura maggioranza parlamentare, sufficiente anche per modificare la Costituzione.
 Negli anni della Repubblica democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici e politici, il Parlamento, con le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si attendeva, vale a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva attuazione della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il sistema fu "bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i partiti che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e capitalista avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i suoi legami culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano, per quelli con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo.  Tuttavia il lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere, traducendole in norme di legge, alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione comunista e di dare comunque voce a quella "missina" ( come venivano chiamati gli aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle attese aveva riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera "alta" che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora invecchiata come l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici, nello scegliere i candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini nominati da questi ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il Senato non apparì assolutamente come una istituzione inutile, anche se i costituzionalisti, fin dai tempi della Costituente, consigliavano di specializzarne le funzioni in modo che non fosse un puro e semplice "doppione" della Camera dei deputati. In effetti il Senato non lo fu mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si manifestò la politica come ora la viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata "Seconda Repubblica", che è quella in cui caddero tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al governo e, insieme, la politica parlamentare iniziò ad essere considerata una perdita di tempo.

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Degrado della politica e degrado del parlamento - parte quarta
 
  Coloro che condividono la riforma costituzionale, sulla quale il prossimo 4 dicembre dovremo decidere come cittadini in un referendum, sostengono che essa ridurrà i costi dell'attività parlamentare e che renderà più veloce il procedimento legislativo. Sono questi i soli argomenti che dovrebbero indurci a dare il nostro consenso alla riforma? In realtà la riduzione dei costi si limiterà agli stipendi dei nuovi senatori, che però saranno, per così dire, a mezzo servizio, perché dovranno occuparsi anche di altro. Sarà difficile però non riconoscere loro rimborsi spese e indennità di partecipazione ai lavori parlamentari, in particolare per quelli che non risiedono a Roma. Il Senato non viene abolito e richiederà l'impiego dei dipendenti che attualmente vi prestano servizio, così come di disporre degli immobili, molti di gran pregio e quindi di costosa gestione, in cui ha sede. Quanto alle procedure parlamentari, le nuove norme contemplano molti e importanti casi in cui le due Camere esercitano collettivamente la funzione legislativa e inoltre  è previsto che il Senato possa richiedere modifiche ai disegni di legge approvati dalla Camera dei Deputati, con necessità, in questi casi, di tre delibere parlamentari (Camera dei Deputati>Senato>Camera dei deputati, in via definitiva). Infine la formulazione dell'elenco delle materie di competenza legislativa bicamerale appare imprecisa e lascia molti margini di dubbio, per cui si può immaginare un contenzioso costituzionale in merito. Insomma, quanto a costi e a velocità del procedimento legislativo i vantaggi non appaiono poi così eclatanti. Come controindicazioni vi sono il fatto che i nuovi senatori non saranno eletti dal popolo, ma dalla classe politica locale, che ha manifestato molti problemi di adeguatezza negli anni passati, ed inoltre il fatto che saranno parlamentari a mezzo servizio con la conseguente difficoltà a impratichirsi nelle questioni di stato e di sviluppare reti di relazioni con i colleghi e l'assai problematica rappresentatività delle autonomie locali regionali di rispettiva appartenenza, tenuto conto che i nuovi senatori lavoreranno senza vincolo di mandato e anche in considerazione della procedura per la loro elezione (non è detto  infatti che siano scelti gli esponenti  dai quali dipende l'indirizzo politico delle autonomie regionali),
  Alle obiezioni che precedono, i fautori della riforma riconoscono i difetti della riforma segnalati, ma ritengono che sia stato comunque un grande risultato abolire il Senato come è attualmente. Eppure l'esperienza costituzionale dal 1948 dimostra che il Parlamento bicamerale così com'è oggi ci ha consentito di superare molte brutte esperienze, tempi difficili. I regolamenti parlamentari e la tradizione parlamentare, che si è tramandata da ufficio di presidenza ad ufficio di presidenza, hanno consentito di affinare i procedimenti legislativi, risolvendo nella pratica molte questioni controverse. Sostituire a ciò che c'è e funziona norme che gli stessi loro artefici riconoscono per lo meno come perfettibili, costituisce un bel rischio. Ma è poi vero che il problema che ha oggi la politica risiede nel bicameralismo "perfetto", in un Parlamento con due Camere che fanno le stesse cose e che per produrre leggi devono approvare testi normativi identici? La mia tesi, basata innanzi tutto sulla mia esperienza di cittadino, è che non è così. Il principale problema della politica è il suo progressivo degrado e, quando parlo di politica, non mi riferisco solo a quella espressa dalla classe dei politici, ma innanzi tutto alla politica che è manifestata, consapevolmente o non, da noi cittadini. Questa è una storia molto più lunga e complessa e, innanzi tutto, è storia.
 A che servono gli anziani, dei quali dal gennaio prossimo inizierò a fare parte raggiungendo i sessant'anni? Servono proprio a fare memoria della storia dei quali sono stati partecipi e responsabili.
 Scrivendo di storia, ho accennato agli anni '70 e '80, dove risiedono gli inizi del degrado della politica di oggi. Il mondo, e anche l'Italia, cambiò improvvisamente tra le elezioni politiche italiane del 1987 e del 1994...

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Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte  quinta

  Com'è che, cercando di ragionare sulla recente riforma costituzionale per arrivare preparato al prossimo referendum che si farà per decidere se bloccarla o farla diventare parte della Costituzione, ho cominciato a scrivere del degrado della politica e di educazione alla democrazia? È perché sono argomenti collegati e la riforma costituzionale è concepita anche come una soluzione al degrado della politica democratica. È la soluzione giusta o essa stessa è manifestazione di quel degrado?
  Che cosa è la democrazia e, in particolare, la democrazia di popolo che si è voluto attuare con la Costituzione repubblicana progettata e approvata dai membri dell'Assemblea Costituente tra il 1946 e il 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948? Sarebbe importante discuterne in parrocchia, nel quadro di attività di autoformazione alla politica democratica. E questo perché la Chiesa cattolica è oggi in Italia  uno dei più importanti attori politici e l'unico ad aver mantenuto un'organizzazione di educazione alla politica analoga a quelle dei partiti politici "forti" e "solidi" che ebbero corso in Italia fino alla fine degli anni '80, quando il mondo improvvisamente cambiò.
 Si sostiene che democrazia è quando decide la maggioranza, ma, in realtà, nella concezione contemporanea e, in particolare, nelle democrazie popolari è molto più di questo: è un sistema molto esteso di valori e di procedure che servono a proteggerli e che impediscono quello che fu definito fin dal Settecento, agli albori del pensiero democratico moderno, il "dispotismo" delle maggioranze. Tra i valori più importanti e fondativi vi è quelli della partecipazione di tutti, e di ognuno, alla sovranità, vale a dire alle decisioni più importanti per una collettività, anche quando si tratta di vita o di morte. In una democrazia di popolo si vorrebbe che tutti, e ognuno, fossero re: questo richiede di essere re giusti, non come gran parte dei re della storia dell'umanità, che furono dei despoti e predarono e mantennero il potere con l'arbitrio e la violenza, pretendendo anche di sacralizzare il loro potere di despoti. La via della democrazia come oggi la concepiamo e uno sforzo per essere virtuosi, che si vorrebbe coinvolgesse tutti. Nell'antichità si pensò invece che la democrazia, proprio perché "potere di tutti", quindi espressione delle masse, non fosse la migliore forma di organizzazione politica perché le masse non sanno essere virtuose. Si pensò che lo stato dovesse essere diretto da "illuminati", che si ritenne di volta in volta di individuare nei filosofi, in certi sovrani, in certi capi religiosi ai quali si volle riconoscere la virtù soprannaturale dell'infallibilità. La democrazia moderna sorge quando si ritenne possibile "illuminare" le masse. Essa ne richiede l'elevazione e questo fu uno di principali obiettivi sia del socialismo storico che della dottrina sociale. Zagrebelsky nel libro "La difficile democrazia" critica questo obiettivo, perché in tal modo il potere non sarebbe più in mano al popolo, ma, con pretesto di fare gli interessi del popolo, in mano, di nuovo, a un gruppo di sedicenti "illuminati".  Su questo non mi sento di poter essere d'accordo con lui. E questo sulla base innanzi tutto della mia storia personale di cittadino: non si è cittadini "democratici" per natura, anzi è il contrario. Come scrisse pessimisticamente il grande giurista romano Marco Tullio Cicerone nel suo libro intitolato "Lo Stato", la gente, specie se inserita in una massa di individui, può assumere aspetto e abitudini di belva. E dalle belve noi tutti, in fondo, discendiamo. La democrazia è una faticosa conquista culturale e un fatto sociale, per cui ognuno, nello sforzo per attuarla, deve sentirsi maestro e discepolo. In questo consiste l'autoformazione. È impegno di illuminazione interiore che, in un certo senso, richiede di emanciparsi dagli "illuminati" che pretendano di avere il monopolio della dottrina democratica. In questo senso è anche azione di liberazione. Questa la rende sospetta ai gerarchi sociali in carica.
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Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte sesta
 
Il nuovo art.57 della Costituzione, sostituito dalla legge costituzionale che  entrerà in vigore se al prossimo referendum costituzionale i Sì saranno più dei No, prevede che il Senato sia composto da novantacinque membri (ora i senatori elettivi sono trecentoquindici) nominati dai consiglieri regionali e dai consiglieri delle Provincie autonome di Trento e di Bolzano scegliendoli, su base regionale, tra i consiglieri regionali e i sindaci. A questi si aggiungono cinque senatori che il Presidente della Repubblica può nominare scegliendoli tra i cittadini che abbiano "illustrato la Patria" e che durano in carica sette anni, senza possibilità di nuova nomina, ( ora è prevista la nomina di cinque senatori a vita) e gli ex Presidenti della Repubblica (che rimangono gli unici senatori a vita, unitamente ai senatori a vita di nomina presidenziale in carica al momento di entrata in vigore della riforma). I senatori eletti tra i membri degli enti locali e i nuovi senatori di nomina presidenziale non avranno stipendio. A parte gli ex Presidenti della Repubblica, i nuovi senatori saranno a mezzo servizio, perché quelli scelti negli enti locali dovranno anche fare il loro lavoro di consiglieri regionali e di sindaci e quelli di nomina presidenziale avranno il proprio lavoro, a meno che non siano scelti tra i pensionati. I senatori scelti tra i membri di enti locali dureranno in carica quanto i relativi consigli regionali e comunali.  Se cesseranno di essere consiglieri regionali o sindaci decadranno anche dalla carica di senatori. Le modalità di elezione dei senatori scelti tra i consiglieri regionali e i sindaci saranno stabilite da una futura legge approvata da entrambe le Camere.
 La deliberazione delle due Camere del Parlamento, quindi della Camera dei Deputati e del Senato, sarà necessaria, come ora, per molti tipi di leggi, in particolare per quelle più importanti e riguardanti i massimi principi della Repubblica, come le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per quelle concernenti l'ordinamento degli enti locali e, soprattutto, per quelle che riguardano i rapporti tra la Repubblica e l'Unione Europea e l'attuazione della normativa europea, vale a dire, si è stimato, circa il 70% delle leggi dello Stato. In queste decisioni i senatori però non rappresenteranno la Nazione, come è scritto per i deputati, ma le "istituzioni territoriali". Però decideranno senza vincolo di mandato, vale a dire che non saranno semplici portavoce degli enti locali di appartenenza. Dovrebbero "raccordare" lo Stato e gli "altri elementi costitutivi della Repubblica". Ma come assicurarsi che questo raccordo si effettivo? E se ad un certo punto decidessero di fare di testa propria? Ed è possibile occuparsi degli affari di stato senza tener conto della Nazione? 
  L'idea che senatori a mezzo servizio, eletti a suffragio ristretto da membri di altri organi pubblici e non direttamente dal corpo elettorale, potessero andare bene per occuparsi degli affari di stato al massimo livello sarebbe apparsa stravagante in altre ere della storia della Repubblica. Ad certo punto gli stessi riformatori costituzionali hanno avuto qualche remora e hanno introdotto nel nuovo testo dell'art.57 della Costituzione un quarto comma in cui, in un testo zoppicante dal punto di vista sintattico, sembra che i consiglieri regionali destinati ad essere eletti senatori debbano essere indicati dal corpo elettorale in occasione della loro nomina a consiglieri regionali. Ho scritto "sembra", perché il testo non è chiaro e, soprattutto, non dà un'idea di come sarà la procedura di scelta dei nuovi senatori in modo da tener conto della volontà del corpo elettorale. Tutto è rinviato a una legge ordinaria. Quel comma è stato introdotto per realizzare un accordo politico con chi voleva che, nella scelta dei nuovi senatori, si tenesse conto della volontà del cittadini. Il testo costituzionale poco chiaro si rifletterà sul giudizio di costituzionalità della nuova legge elettorale sul nuovo Senato, rendendolo problematico.
 Per inciso: le norme costituzionali dovrebbero essere scritte in modo chiaro, in buona lingua italiana sotto il profilo sintattico e grammaticale. La legge di riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum non sembra essere stata sottoposta a revisione sotto questo aspetto, come invece lo fu il testo della Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Anche la cattiva qualità sintattica e grammaticale delle norme può essere considerata una manifestazione del degrado della politica.
 Concepire i consigli eletti dal corpo elettorale come istituzioni inutili, dispendiose e fonti di  complicazioni ingiustificate è un'altra manifestazione del degrado della politica democratica. In parte si tratta di pregiudizi ingiustificati, in parte della constatazione del reale scadimento del personale della politica. Si tratta di un fenomeno che può ricondursi alla crisi della forma sociale dei partiti politici che, originata verso la metà degli anni '70, è giunta ad uno stadio per così dire terminale a seguito della riforma della legge elettorale del 2005 ( quella che ha previsto liste bloccate ed elevato premio di maggioranza alla coalizione vincente), dichiarata incostituzionale nel 2014 sia con riferimento al premio di maggioranza sia in quanto negava ai cittadini elettori la possibilità di esprimere preferenze per i candidati. La crisi ha cominciato a prodursi al momento del passaggio del controllo della politica democratica dalla generazione che aveva partecipato alla Resistenza contro il fascismo storico e l'occupazione nazista alle generazioni successive di politici. Ha trovato storicamente terreno fertile tra i partiti di governo nel potere sul sistema, un tempo molto più vasto di oggi, delle industrie pubbliche, gestite direttamente o mediante partecipazione al loro capitale sociale. Non ha riguardato solo il personale politico, ma anche il corpo elettorale. Il consenso politico iniziò ad essere contrattato sulla base delle elargizioni fatte alle diverse categorie sociali, le cui pretese sono andate crescendo. I partiti politici iniziarono a prelevare una quota crescente di denaro pubblico come pezzo della mediazione sociale. Il personale della politica iniziò ad essere autoreferenziale, perdendo il contatto vitale con, le formazioni sociali dalle quali era emerso: iniziò a concepire sé stesso come un insieme di "tecnici" della politica, quasi al modo dei "manager", dei capi delle imprese industriali, e a pretendere corrispondenti gratificazioni economiche. Si produsse in tal modi una crisi di legittimazione della politica, fatta, di disprezzo reciproco tra cittadini e personale della politica, che i sociologi iniziarono a segnalare a partire dagli anni '80. In quel decenni si tentò di porvi rimedio occupandosi nuovamente di formazione alla politica: furono gli anni delle "scuole di politica" (famosa quella creata in Sicilia dai padri gesuiti Pintacuda e Sorge). A cavallo tra gli anni '80 e '90 i partiti politici italiani cambiarono volto a seguito del crollo del comunismo sovietico e della fine della "guerra fredda" a sfondo ideologico tra gli alleati degli statunitensi e gli alleati dei sovietici. Il Partito Comunista Italiano, storicamente legato al comunismo sovietico, cambio nome e struttura, completando la sua trasformazione in partito di tipo occidentale e rinunciando alla sua particolare diversità ideologica. Correlativamente, si trasformarono anche i partiti che gli si opponevano, in particolare la Democrazia Cristiana, partito-federazione di molte componenti eterogenee che presero a dividersi. In quella fase emerse in sede giudiziaria l'immane corruzione della politica organizzata dai partiti. Ciò accrebbe enormemente il discredito di questi ultimi, che divennero instabili e più simili a comitati elettorali catalizzati da singole personalità. Venute meno molte delle risorse di un tempo, alcuni dei maggiori partiti entrarono in crisi economica e dovettero chiudere le loro grandi sedi e licenziare gran parte del loro personale, a favore del quale nel 1993 vennero anche disposti ammortizzatori sociali. Il collegamento con la base sociale di cittadini si fece episodico, generalmente solo in occasione delle elezioni. Conseguito il risultato elettorale, chi aveva "vinto" si aspettò di avere le mani libere fino alle successive elezioni. A quel punto, concentrata la direzione politica intorno alle segreterie nazionali dei partiti si perse il senso dell'utilità  degli organi collegiali elettivi, vista la sempre più ridotta autonomia degli eletti, i quali sempre più spesso vennero scelti per il loro potenziale richiamo verso gli elettori, ad esempio tra il personale dello spettacolo, a prescindere dal loro legame vitale con i cittadini e della reale disponibilità di tempo per la politica.
 La prima manifestazione di politici a mezzo servizio si ebbe, tra il 2011 e il 2015, con l'abolizione dei consigli provinciali eletti dai cittadini, sostituiti da consigli eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni compresi nella provincia. Per le 14 città metropolitane che sostituirono altrettante province, nelle province in cui erano comprese le più grandi città italiane, si provvide nello stesso modo. Con la legge di revisione costituzionale oggetto di referendum anche le residue province verranno soppresse e le loro funzioni sono destinate ad essere svolte da città metropolitane.
 Con la riforma del senato si è seguita la stessa logica.
 Come per province e città metropolitane si avrà una riduzione del personale della politica e politici che dovranno occuparsi contemporaneamente di problemi su scala diversa. Questo può essere considerato un vantaggio solo se si pensa che la politica non sia redimibile, che non possa recuperare un rapporto vitale con i cittadini e che meno politici ci sono meglio è. In questo modo però la politica diventerà sempre più questione di apparato, autoreferenziale. Verrà ridotta l'autonomia del personale della politica, che dipende dall'esistenza di quel rapporto vitale. Le organizzazioni di partito e le stesse istituzioni pubbliche di derivazione elettiva diverranno sempre più simili alle organizzazioni delle imprese industriali, in cui sono egemoni le oligarchie dei dirigenti d'azienda, che pretendono di essere obbediti. Come faranno i cittadini, a prescindere dagli eventi elettorali, a concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, come prevede L'art.49 della Costituzione? E, soprattutto lo vogliono ancora fare?

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Il Senato come imputato
   Dietro la riforma costituzionale vi è l’accusa al Senato  di  costituire un inefficiente, inutile e costoso fattore di rallentamento dell'attività parlamentare. Questa è l'accusa che, secondo gli ideatori e i fautori della recente riforma costituzionale, ne ha comportato, come urgenza prioritaria, la metamorfosi (non l'abolizione).
 Una delle qualità più apprezzabili in chi fa politica è una certa veridicità nell'esporre i propri programmi.
 Può sembrare ovvio raccontarla giusta agli elettori, ma se consideriamo le vicende della nostra vita privata possiamo convincerci facilmente del contrario. Molto spesso prima prendiamo una certa decisione e poi cerchiamo di giustificarla di fronte al prossimo che ce ne chiede ragione. A volte accade che anche i politici facciano così.
 Di fronte alle accuse mosse al Senato dovremmo cercare di immedesimarsi nel lavoro di un giudice, che vaglia con imparzialità gli argomenti, cercando di capirne il fondamento, non determinandosi per sentito dire, superficialmente, o per simpatie o fedeltà personali. 
 È fondata l'imputazione?
  E la soluzione proposta è adeguata a risolvere il problema?
  Quando il Senato com'è organizzato attualmente è stato d'impaccio alla realizzazione delle più importanti riforme della Repubblica? Quando si cerca di andare nei particolari, di ricevere risposte precise, non se ne esce mai soddisfatti. In effetti dagli anni '90 l'Italia è cambiata moltissimo mediante riforme legislative prodotte da Parlamento com'è ora. Da un'economia controllata in larga parte dallo Stato si è passati ad una privatizzazione spinta. Il sistema elettorale per il Parlamento è cambiato non una, ma due volte. Non c'è stato praticamente nessun settore delle attività pubbliche e della vita sociale su cui non abbiano inciso leggi approvate dal Parlamento com'è ora. Ad esempio è stato abolito il servizio militare di leva, sono cambiate le norme in materia di igiene e sicurezza del lavoro, quelle in materia di ambiente, in materia di commercio e industria, quelle in materia di formazione del bilancio dello stato, quelle in materia di banche e assicurazioni, quelle in materia di adozione, stato giuridico dei figli e poteri e responsabilità dei genitori e via seguitando, fini all'approvazione di due riforme fortemente controverse come quelle sulla disciplina dei contratti di lavoro, detta "Jobs act" e quella sulle unioni civili delle persone omosessuali e sulle convivenze. Sono state anche approvate due importanti ed estese leggi di modifica della costituzione, nel 2001 e nel 2006, entrambe sottoposte a referendum costituzionale, con esito positivo per la prima e negativo per la seconda. La riforma  del 2006, bocciata nel referendum costituzionale, prevedeva un senato "federale", con competenze limitate a certe materie che riguardavano le autonomie locali, che possiamo considerare il modello della riforma sulla quale si svolgerà il prossimo referendum costituzionale. Nel sistema ideato nel 2006 i senatori erano però eletti direttamente dal corpo elettorale, anche se contemporaneamente all'elezione dei consiglieri regionali. E, con scelta più coerente dal punto di vista logico-istituzionale, si prevedeva, una volta trasformato il senato in una "camera delle autonomie locali", che i "senatori a vita" divenissero "deputati a vita". Dunque il Parlamento com'è ora non ha impedito di cambiare l'Italia per via legislativa. Ha certamente impedito, in particolare nel corso dei lavori delle Commissioni bicamerali a cui si vollero affidare poteri in qualche modo simili a quelli dell'Assemblea costituente del 1946, che la Costituzione fosse riformata in senso sostanzialmente presidenziale, secondo il desiderio di alcune parti politiche. Ma possiamo considerarla una colpa? Dal 1990,comunque, i poteri del Consiglio dei ministri e dei singoli ministri sono stati comunque notevolmente incrementati, sia prevedendo che il dettaglio delle maggiori riforme fosse deciso dal Governo, all'interno di principi generali dettati dal Parlamento con leggi delega, sia attraverso una estesa opera di "delegificazione", affidando ai poteri normativi del Governo, attuati con regolamenti, materie che prima erano regolate da leggi dello Stato. 
  Ragionando sugli argomenti che ho sopra proposto, come trovate il Senato: colpevole o innocente?
  Concludo osservando che può essere individuata facilmente una ragione di marcata inimicizia tra i Governi, di opposta tendenza, succedutisi dal 1994 ad oggi e il Senato com'è ora.  Il motivo risiede proprio nel fatto che il Senato non è un "doppione" della Camera dei deputati: a causa della sua elezione su base regionale, ha prodotto, sia vigente la legge elettorale proposta dall'allora deputato Mattarella con cui votammo dal 1994, sia vigente quella proposta dal senatore Calderoli con cui abbiamo votato dal 2008, forze parlamentari leggermente differenti tra Camera dei deputati e Senato. Proprio come i Costituenti avevano voluto e previsto, Con la conseguenza che i Governi hanno avuto più difficoltà ad ottenere la fiducia e a far approvare i loro disegni di legge in Senato. Questo ha costretto i Governi a trattative per cercare di consolidare e allargare  le loro maggioranze parlamentari, facendo concessioni nel quadro di questi accordi. Questo inconveniente (dal punto di vista governativo naturalmente), sicuramente si è verificato: ma lo possiamo veramente considerare un male? Non si è trattato semplicemente del fatto  che il Senato ha svolto la funzione che i Costituenti del '46/'47 gli avevano assegnato, vale a dire di essere un limite a governi tendenzialmente troppo autosufficienti e di garantire una migliore ponderazione dei temi in discussione e delle decisioni proposte?
 Il nuovo Senato non avrà più la funzione di votare la fiducia ai Governo. Un impedimento di meno dal punto di vista governativo. I Governi, sula base della nuova legge elettorale per la Camera dei deputati approvata l'anno scorso, potranno contare su una solida maggioranza nelle questioni in cui è implicata la "fiducia", anche se dovessero essere espressione di un singolo partito che non riesca ad ottenere la maggioranza assoluta dei voti, ma almeno il 40% dei voti, una maggioranza "relativa". Nel nuovo Senato, comunque, a causa della procedura di nomina dei suoi membri, è prevedibile un risultato simile: i nuovi senatori saranno prevalentemente espressione della maggioranza in Consiglio regionale. Non sappiamo se e in che modo le minoranze potranno avere comunque una loro rappresentanza: la legge che disciplina i dettagli della elezione dei nuovi senatori ancora non c'è. Quindi un risultato sicuramente sarà conseguito con la riforma costituzionale: un rafforzamento della posizione dei governi. Dopo le elezioni non solo si saprà subito chi ha vinto, ma anche chi governerà e sarà più difficile per i cittadini  condizionare democraticamente l'azione di governo. I governi avranno quindi le mani più libere. Governi con le mani più libere potrebbero trasformare a loro immagine e somiglianza le istituzioni chiave dello Stato. È un'opportunità o un rischio? Abbiamo avuto presidenti del Consiglio dei ministri della levatura di De Gasperi e di Moro, ma siamo anche la nazione in cui fu capo del Governo Mussolini. E qualche lezione sul tema potremmo trarre dalla storia politica degli ultimi venti anni, in cui il Parlamento, nelle sue due Camere, ha avuto un ruolo molto attivo nel sindacare l'azione governativa.

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Ho conosciuto uno dei nuovi Padri Costituenti
 
  Su un numero del settimanale L'Espresso si è scritto di uno dei nuovi Padri Costituenti, uno degli artefici della riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati a pronunciarci come cittadini in un referendum, ed è un professore universitario che fu presidente della FUCI, l'organizzazione degli universitari cattolici dei miei tempi di gioventù: lo conobbi allora e l'ho incontrato nuovamente in eventi organizzati dal MEIC, il Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, come si chiama ora l'antico Movimenti Laureati. È un po' più giovane di me. Negli anni '80 in FUCI si discuteva di una "nuova" politica. Il suo impegno è stato quello di una vita. È stato anche parlamentare, senatore.
 Un po' meglio ho conosciuto altri due antichi fucini, che furono rispettivamente presidente della FUCI e condirettore di "Ricerca" nei miei tempi da universitari e che ora sono rispettivamente senatore e deputato. Hanno avuto un ruolo importante nell'elaborazione e approvazione della recente riforma costituzionale. Con il secondo partecipai, all'inizio degli anni '80, alla fondazione di un gruppo politico di giovani cattolici catalizzati da Paolo Giuntella, un giornalista che fu uno straordinario formatore di coscienze giovanili. All'inizio fu chiamato "setta" e poi "Rosa Bianca", richiamandosi all'omonimo gruppo di resistenti tedeschi sotto il regime nazista, ed esiste ancora. Organizza scuole di politica. Le prime, a cui partecipai, furono a Limone sul Garda e a Malcesine. Io poi smisi di frequentare quel gruppo, per il dovere di imparzialità inerente all'ufficio pubblico che presi a svolgere dall' '85.
 Quei tre antichi fucini sono a favore della riforma costituzionale, della quale, a diverso titolo, sono stati tra gli artefici.
 Ho ricordato quelle biografie per evidenziare una continuità di impegno politico democratico che è andata dall'esperienza fucina, e la FUCI all'epoca era ancora una organizzazione di Azione Cattolica, alla politica parlamentare. L'Azione Cattolica fu anche scuola di politica democratica e, soprattutto, sede di tirocinio democratico. Fu in FUCI che quei Padri Costituenti di oggi iniziarono, ad esempio, a organizzare e a presiedere assemblee deliberanti, a scrivere regolamenti e statuti, a dirigere amministrazioni, ad avere relazioni internazionali con altre organizzazioni giovanili simili. 
 Mi stupisce sempre chi propone di insegnare ad occuparsi di "bene comune" senza far svolgere tirocinio democratico, gestendo tutto da autocrate. E, a ben vedere, purtroppo questo è in genere il modo in cui lo si fa in molte parrocchie. Individuare e promuovere il "bene comune" richiede processi democratici e la democrazia la si impara studiando ma soprattutto facendone tirocinio. La democrazia è una conquista culturale, non si è democratici "per natura". È stata una conquista culturale (recente) anche nelle nostre organizzazioni religiose, nelle quali se ne continua comunque a diffidare. E per questa diffidenza che non se ne consente il tirocinio, quindi di metterla in pratica e ciò anche nei processi decisionali in piccoli gruppi. Affidare il potere al  "popolo" è ancora considerato rischioso. Perché il popolo che si ha intorno non appare ancora pronto a ragionare in termini di bene comune. Ma soprattutto perché sembra troppo superficiale, volubile e influenzabile dal punto di vista ideologico. E in religione la teologia corrente ci spinge a dipendere da "pastori", Però poi si tralascia di lavorare per elevarlo alla democrazia. Che quindi rimane sempre una "difficile democrazia", il titolo di un bel libro divulgativo di formazione alla democrazia scritto da Gustavo Zagrebelsky nel 2010 e disponibile anche come e-book. Ve lo consiglio. Lo stesso autore ha pubblicato quest'anno anche un libro sulla recente riforma costituzionale: "Loro diranno, noi diciamo", edito da Laterza: l’ho letto e l’ho trovato un ottimo strumento per informarsi. Entrambi i testi sono disponibili su e-book: acquistandoli in questo formato, li potrete leggere anche su un telefono cellulare avanzato, uno smart phone.
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Un Senato depotenziato: farà meno cose, ma quelle che farà saranno quasi tutte le stesse della Camera dei Deputati

1. Una delle critiche al Parlamento com'è ora è che è composto di due Camere, la Camera dei Deputati e il Senato, che fanno le stesse cose.
 Con la riforma costituzionale approvata quest'anno ( dal Parlamento com'è ora), la situazione cambierebbe? 
 Sì e no.
 È vero che, nel Parlamento riformato, il Senato farebbe meno cose della Camera dei Deputati, ma le cose che farebbe sarebbero le stesse della Camera dei Deputati, salvo, principalmente, tre: l'elaborazione e approvazione (con delibera dell'assemblea del Senato) del proprio regolamento (che stabilisce le procedure parlamentari e altro), la richiesta di modifica a leggi approvate solo dalla Camera dei Deputati  e l'elaborazione e presentazione (anche in questi casi con delibera dell'Assemblea del Senato) di disegni di legge alla Camera dei Deputati. La maggior parte di queste attività, e in particolare quelle più importanti, sarebbero svolte dal nuovo Senato, come ora, collettivamente con la Camera dei Deputati, quindi con necessità di deliberazioni conformi del Senato e della Camera dei Deputati. In nessuna delle materie attribuite dalla riforma costituzionale alla legislazione statale il Senato delibererebbe senza il concorso della Camera dei Deputati, anche se quest'ultima in alcune potrebbe deliberare senza il concorso del Senato, il quale tuttavia potrebbe richiedere, con propria deliberazione assembleare, modifiche, sulle quali la Camera dei Deputati dovrebbe effettuare una ulteriore deliberazione, pronunciandosi in via definitiva.
  Di seguito riassumo le varie funzioni che la Costituzione riformata attribuirebbe al nuovo Senato.
  Vi invito a verificare personalmente la correttezza della mia esposizione, utilizzando i testi della Costituzione attualmente vigente e di quella riformata che potete leggere accostati, in quella che viene definita "sinossi", per un più agevole confronto, nel documento in formato PDF pubblicato sul sito WEB della Camera dei Deputati, nella sezione "Documenti", sottosezione "riforma costituzionale".
2. Dunque il nuovo Senato delibererebbe collettivamente con la Camera dei Deputati su:
- leggi di revisione costituzionale e altre leggi costituzionali,
- leggi attuative delle disposizioni costituzionali riguardanti le minoranze linguistiche, i referendum popolari e le altre forme di consultazione popolare previste dalla Costituzione;
- leggi sull'ordinamento, elezioni, organi di governo e funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e sulle disposizioni di principio sulle associazioni di Comuni;
- leggi sulle norme generali riguardanti forme e termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e attuazione della normativa e della politica dell'Unione Europea;
- leggi sull'ineleggibilità e incompatibilità relative all'ufficio di senatore, previste dall'art.65,1^ comma della Costituzione;
- elezione del Presidente della Repubblica (in seduta comune con la Camera dei Deputati);
- elezione di otto membri del Consiglio Superiore della Magistratura (in seduta comune con la Camera dei Deputati);
- concorso nel dare pareri a nomine di competenza del Governo;
ed inoltre sulle leggi statali riguardanti:
-l'attribuzione dei seggi senatoriali alle Regioni, l'elezione dei senatori e la loro sostituzione a seguito di cessazione delle cariche negli enti locali (art.57, 6^ comma, Costituzione);
- ratifica dei trattati sull'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea (art.80, 2^ periodo, Costituzione);
- ordinamenti di Roma Capitale ( art. 114, 3^ comma, Costituzione);
- ulteriore forme e condizioni particolare di autonomia delle Regioni (art.116, 3^ comma, Costituzione);
- poteri delle Province autonome di Trento e di Bolzano in materia di attuazione ed esecuzione di accordi internazionali e di atti dell'Unione Europea e competenza delle Regioni in materia di accordi con altri stati e con enti territoriali di altri stati (art.117, commi 5 e 9, Costituzione);
- principi generali in materia di patrimoni dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni (art.119, 6^ comma, Costituzione);
- poteri del Governo di sostituirsi agli organi degli enti locali (art.120, 2^ comma, Costituzione);
- principi fondamentali in materia di elezione e ineleggibilità del presidente e dei componenti delle Giunte regionali e dei consiglieri regionali, durata degli organi elettivi delle Regioni, equilibrio tra uomini e donne nella rappresentanza in tali organi, determinazione degli stipendi dei componenti della Giunta regionale e dei consiglieri regionali nel limite di quelli dei sindaci dei Comuni capoluogo di Regione (art.122, 1^ comma, Costituzione);
- spostamento di un Comune da una regione all'altra (art.132, 2^ comma, Costituzione).
 Il Senato delibererebbe senza il concorso della Camera dei Deputati su:
- richiesta di modifica di disegni di legge approvati solo dalla Camera dei Deputati e presentazione di disegni di legge alla Camera dei Deputati (art. 70, 3^ comma, e 71,2^ comma,  Costituzione)
- nomina di due giudici della Corte Costituzionale (art.135, 1^ comma, Costituzione. È un potere analogo a quello esercitato dalla Camera dei Deputati, che nominerà tre giudici costituzionali);
- approvazione del proprio regolamento, che disciplinerebbe anche le limitazioni alla elezione e nomina di senatori in ragione dell'esercizio di funzioni di governo negli enti locali (art. 63, 2^ comma, Costituzione);
- presa d'atto della decadenza dei propri membri nel caso di cessazione di carica elettiva regionale o locale (art.66, 2^ comma, Costituzione);
- ricorso di almeno 1/3 dei senatori per promuovere un giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali riguardanti il Senato e la Camera dei Deputati ( art. 73,2^ comma, Costituzione);
- attività conoscitive, osservazioni su atti e documenti all'esame della Camera dei Deputati (art.70, ultimo comma, Costituzione), inchieste su materie di pubblico interesse riguardanti gli enti locali (art.82,1^ comma, Costituzione; è un potere analogo a quello più ampio attribuito alla Camera dei Deputati).
 Il nuovo Senato, in particolare, non avrebbe più competenza a deliberare la fiducia al Governo e in materia di bilancio e rendiconto consuntivo (atti elaborati e presentati dal Governo). Questo eliminerebbe complicazioni (dal punto di vista governativo) che i Governi hanno incontrato nell'attuale sistema parlamentare bicamerale su quei temi.
3. Le materie attribuite dalla riforma costituzionale al nuovo Senato non riguardano solo problemi locali. Comprendono principi e funzioni fondamentali in una società democratica e, in particolare, quello compresi nella Costituzione.
 Che cosa rende il Senato riformato, composto in massima parte da consiglieri regionali e sindaci eletti senatori da consiglieri regionali proprio in quanto membri di quegli organi di enti locali, più idoneo, o almeno egualmente idoneo, del Senato com'è attualmente a occuparsi anche di quei delicati affari di stato, oltre che delle questioni locali?
  Il nuovo Senato ci costerà un po' meno (hanno calcolato circa il 10% in meno ogni anno), in quanto i suoi membri eletti dai consiglieri regionali e i nuovi membri di nomina presidenziale non avranno uno stipendio da parlamentari (ma sarà difficile non riconoscere loro, in particolare a quelli che non abitano a Roma, un qualche rimborso spese e anche altri sussidi che oggi integrano in maniera significativa gli stipendi dei senatori). Ma questo nuovo Senato, che ci costerà un po' di meno, funzionerà almeno con lo stesso livello di qualità di quello attuale, o addirittura meglio?
 Dipenderà naturalmente dalla qualità degli eletti, che saranno molto meno di oggi. La scelte dei parlamentari oggi dipende da due fattori: il lavori dei partiti per l'individuazione dei candidati alle elezioni e un giudizio dei cittadini che compongono il corpo elettorale, quelli che hanno diritto di voto per la Camera dei Deputati e per il Senato. Nel Senato riformato avranno un ruolo preponderante le componenti regionali, quindi locali, dei partiti politici, in quanto i senatori elettivi saranno scelti mediante una procedura che coinvolgerà essenzialmente un ceto politico concentrato sui problemi locali e i cui membri eletti senatori continueranno a occuparsi di quelle materie. Saranno infatti senatori a mezzo servizio. È vero che una disposizione introdotta nel faticoso percorso di deliberazione della riforma costituzionale, per superare forti riserve espresse dai parlamentari ad una Camera svincolata da un giudizio dei cittadini, prevede che, con modalità che gli stessi costituzionalisti hanno difficoltà ad immaginare e che dovranno essere previste da una legge ordinaria successiva, i candidati consiglieri regionali destinati, in caso di loro elezione, ad essere anche senatori siano indicati dal corpo elettorale chiamato ad eleggere il consiglio regionale, ma, comunque, l'ultima parola sulla scelta dei nuovi senatori tra i consiglieri regionali eletti l'avranno i consiglieri regionali, i nuovi senatori emergeranno dal loro stesso ceto politico locale. Quest'ultimo li selezionerà principalmente in vista dell'esercizio di funzioni locali, che i senatori continueranno ad esercitare contemporaneamente a quelle parlamentari. E, comunque, la scelta dei senatori scelti tra i sindaci non vedrà coinvolto il corpo elettorale, ma solo i consiglieri regionali. Ma i senatori in Parlamento non dovranno occuparsi di questioni relative alle autonomie locali, ma di affari di stato fondamentali, come le questioni costituzionali e quelle relative ai rapporti della Repubblica con l'Unione Europea, ad esempio se si dovesse decidere l'uscita dell'Italia dall'organizzazione, come taluni chiedono. Parteciperanno alla elezione del Presidente della Repubblica e alla nomina di otto membri del Consiglio superiore della magistratura; nominando due giudici della Corte Costituzionale influiranno sugli equilibri di questo importantissimo organo dello Stato, e quest'ultima  funzione eserciteranno senza il concorso dei colleghi deputati.
  Pagheremo meno per il nuovo Senato, che però avrà molti meno membri e per di più a mezzo servizio e farà meno cose.
  Tenuto conto che lavorerà con senatori a tempi parziale e scelti principalmente per occuparsi di questioni locali, si può seriamente temere che la qualità del servizio reso dal nuovo Senato possa non essere all'altezza di quello fornito dall'attuale Senato. Dunque è possibile che si paghi di meno, ma per un servizio peggiore.
 Storicamente il Senato fu istituito nel 1848 nel Regno di Sardegna, poi divenuto Regno d'Italia nel 1861 e poi Repubblica italiana dal 1946, come organo costituzionale, a fianco di una Camera dei Deputati elettiva (a suffragio estremamente ristretto, si calcola inferiore al 10% della popolazione e solo con voti di uomini), composto da membri particolarmente qualificati (ad esempio deputati di lungo corso, ministri, alti magistrati, ufficiali, vescovi cattolici e anche persone che avessero "illustrato" la Patria) e di età superiore ai quarant'anni, nominati a vita dal Re. Il nuovo Senato repubblicano, eletto nel 1948 a suffragio elettorale universale e diretto maschile e femminile sulla base della nuova Costituzione entrata in vigore quello stesso anno, si caratterizzò formalmente rispetto alla Camera dei deputati solo per un minor numero di membri (315 invece dei 630 dell'altra Camera), per un'età minima dei senatori più elevata (venne mantenuta quella di quarant'anni) e anche per un'età minima più elevata, venticinque anni, per partecipare alle elezioni. Tuttavia il Senato repubblicano conservò, per consuetudine dei partiti politici, il carattere di "Camera alta", in quanto i candidati al Senato furono scelti, almeno fino a qualche anno fa, tra gli esponenti più qualificati della politica nazionale. Questa connotazione venne avvalorata dalla partecipazione al l'organo, come senatori a vita, degli ex Presidenti della Repubblica e dei senatori di nomina presidenziale per aver "illustrato la Patria". Progressivamente questa caratteristica si venne perdendo con il nuovo corso istituzionale inaugurato nel 1994, con le prime elezioni politiche svolte con una nuova legge elettorale che introdusse un sistema parzialmente maggioritario, che poi produsse, come si voleva, l'alternanza al Governo di due contrapposte coalizioni politiche. Poiché il sistema elettorale del Senato era strutturato su base regionale, si ebbe, come conseguenza non prevista, che la forza parlamentare della maggioranza di governo era minore al Senato che alla Camera dei deputati, per cui i Governi incontrarono più difficoltà ad ottenere la "fiducia" in Senato. Si ebbe allora sempre più di vista, nell'individuare i candidati al Senato, il consenso elettorale che essi potevano riscuotere, più che la qualità e la costanza del lavoro parlamentare che essi potevano garantire. L'autorevolezza del Senato finì per esserne coinvolta, come mai prima, anche se continuarono indubbiamente ad essere elette persone significative. Questo processo può essere  considerato l'ambiente in cui è maturata l'idea di un Senato come "Camera minore", depotenziata in particolare della competenza sulla "fiducia" al Governo, espressione di interessi locali, destinati a cedere dinanzi a un indefinito "interesse nazionale" ( criterio introdotto dalla riforma costituzionale per consentire l'ingerenza statale negli affari regionali) rappresentato sostanzialmente dalla sola Camera dei deputati, i cui membri, e solo loro, diverranno appunto rappresentanti della "Nazione".
 Ma lo stesso collegamento del Senato con gli interessi locali appare piuttosto problematico, in quanto l'azione parlamentare dei senatori eletti dai consiglieri regionali non sarà determinata meccanicamente dagli enti locali di appartenenza, ma sarà decisa autonomamente dai senatori, senza vincolo di mandato. I primi commentatori tra i costituzionalisti hanno notato che essi verosimilmente decideranno secondo le indicazioni dei dirigenti locali di partiti politici di riferimento, quindi del ceto politico locale da cui emergeranno, più che secondo quelle delle loro comunità politiche locali, e che, date le modalità della loro elezione, saranno poi più sensibili alle pressioni del ceto politico locale, quello in cui negli ultimi anni si sono manifestati problemi molto seri in materia di etica pubblica, evidenziati in diversi casi giudiziari venuti all'attenzione delle cronache. Ciò tanto più in quanto provocando la crisi politica degli enti di appartenenza, lo scioglimento dei consigli regionali e le dimissioni dei sindaci senatori, sarà possibile provocare la decadenza dei senatori eletti.
  Nel dibattito referendario sulla riforma costituzionale si è poi presa consapevolezza che, in ragione dei tempi diversi di elezione di deputati e senatori (la durata di quelli elettivi coinciderà con quella dei consigli regionali che li eleggeranno e i senatori elettivi decadranno da senatore cessando dalla carica regionale o locale in base alla quale vennero individuati; i senatori di nomina presidenziale dureranno sette anni) si potranno avere maggioranze politiche sensibilmente diverse alla Camera dei deputati e al Senato, con paralisi dei lavori parlamentari nelle questioni più importanti, quelle in cui le Camere devono deliberare collettivamente. Una situazione molto peggiore dell'attuale.
 In definitiva gli unici effetti veramente importanti della riforma costituzionale sicuramente ottenibili saranno quelli di rendere più agevole e veloce al Governo di ottenere la fiducia, di far approvare il bilancio (che è il presupposto indispensabile perché il Governo possa manovrare i fondi statali) e di varare nuove normative in materia di economia e lavoro e dell'organizzazione della pubblica amministrazione statale, giustizia compresa, appunto ciò che si intende quando si allude genericamente alle "riforme". Il risparmio di spesa sarà invece modesto con conseguenze temibili, però, sulla qualità del lavoro parlamentare, mentre la semplificazione delle procedure parlamentari è piuttosto dubbia, potendo prodursi addirittura una più grave paralisi del Parlamento, non rimediabile con lo scioglimento del Senato, che non rientrerà più tra i poteri del Presidente della Repubblica (nuovo art.88, 1^  comma, Costituzione).

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La riforma costituzionale e le "riforme"
 
  Esaminando la parte della recente riforma costituzionale che riguarda la struttura e le funzioni del Senato, emerge che le motivazioni proposte dai fautori delle nuove norme e riguardanti il risparmio di denaro pubblico e la semplificazione delle procedure parlamentari non convincono del tutto. Infatti, a un modesto risparmio negli stipendi dei parlamentari corrisponderà una Camera, il Senato, con molti meno membri, e per di più a mezzo servizio, scelti tra persone individuate principalmente per occuparsi di affari locali, non delle più delicate questioni di stato, con un prevedibile decrementi della qualità del lavoro parlamentare, che sarà inoltre più sensibile alle influenze dei partiti di appartenenza dei nuovi senatori.
 D'altro canto, il collegamento che anche la riforma costituzionale prevede tra il lavoro della Camera dei Deputati e quello del nuovo Senato, mentre mantiene il bicameralismo "perfetto", vale dire paritario con necessità di deliberazione conforme delle due Camere, per un buona parte del lavoro legislativo, e in particolare per quella più importante consentirà comunque al nuovo Senato, con la presentazione di disegni di legge (sui quali la Camera dei deputati dovrà deliberare) e con la richiesta di modifiche di leggi approvate solo dall'altra Camera, di provocare ulteriori deliberazioni della Camera dei deputati, anche nelle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva di quest'ultima. Una situazione che potrebbe addirittura sfociare in una vera e propria paralisi del Parlamento, in particolare nelle materie più importanti, qualora, come potrebbe accadere con buona probabilità, si creassero maggioranze parlamentari di diverso orientamento nelle due Camere. Questo accade già nell'attuale Parlamento, per le diverse modalità di elezione delle due Camere, ma potrebbe  verificarsi in maniera molto maggiore perché, a seguito della riforma costituzionale, le due Camere si rinnoveranno in tempi diversi e con modalità completamente diverse. In particolare, il nuovo Senato sarà un organo  a rinnovamento "parziale e continuo", come osservato nella relazione dell'Ufficio studi della Camera dei deputati che potrete trovare sul Web, all'indirizzo <www.camera.it>, sezione " documenti", sottosezione "riforma costituzionale".
 Dunque, sotto questi profili, mentre i vantaggi economici sarebbero modesto, i problemi presentati dall'attuale Parlamento potrebbero addirittura aggravarsi.
 Abbiamo anche notato che uno degli effetti, solitamente non evidenziato dai sostenitori della riforma costituzionale, che effettivamente si produrrebbe secondo le intenzioni degli artefici delle nuove norme sarebbe un rafforzamento dei poteri del Governo rispetto al Parlamento (e alle Regioni, come in seguito si dirà), in quanto, nel nuovo ordinamento, è previsto che sarà solo la Camera dei deputati a deliberare la "fiducia" al Governo, legittimando l'azione politica e amministrativa. A questo va aggiunto che sarà solo la Camera dei deputati a legiferare in via definitiva si una serie di materie, in sintesi nei campi dell'economia e lavoro, pubblica amministrazione e giustizia, tributi, che, nel complesso, inquadrano lo spazio di quelle che i sostenitori della riforma costituzionale definiscono genericamente come "le riforme", che a loro avviso sarebbero indispensabili e urgenti per lo sviluppo nazionale. Essi presentano la riforma costituzionale oggetto del referendum come lo strumento per approvare quelle ulteriori riforme. In questo senso la riforma costituzionale è stata presentata come parte molto importante dell'attuale programma di Governo, anche se non è detto che essa, se approvata con il referendum, servirà ad approvare proprio le riforme alle quali pensa il Governo attualmente in carica: dipenderà da quale partito politico avrà il controllo della maggioranza della forza parlamentare alla Camera dei deputati. Infine, in quelle stesse materie delle "riforme", L'art.72, 6° comma, della Costituzione, nel testo introdotto dalla riforma costituzionale, prevede che il Governo possa ottenere dalla Camera dei deputati l'esame prioritario, con termini procedurali abbreviati, di disegni di legge indicati come essenziali per l'attuazione del suo programma.
  Il rafforzamento della posizione del Governo, in particolare nelle materie concernenti le "riforme", risulta ancora maggiore se si tiene conto dell'effetto della nuova legge elettorale per l'elezione della Camera dei deputati. In base ad essa, un partito, non la coalizione di partiti, di sola maggioranza relativa, vale a dire uno che ottenga alle elezioni per la Camera dei deputati un numero di voti superiore agli altri sebbene non superiore al 50%, potrebbe vedersi attribuita una forza parlamentare, quindi in numero di deputati, ampiamente superiore al 50%, quindi la maggioranza assoluta. Con questa maggioranza parlamentare, quel partito potrebbe votare la fiducia al Governo da esso espresso e far approvare, con la sola deliberazione della Camera dei deputati, le "riforme" di cui sopra.
 Questo, del rafforzamento della posizione del Governo, viene considerato dai critici della riforma costituzionale il principale effetto delle nuove norme, che ne evidenziano le temibili controindicazioni. Ma, in fondo, sono della stessa opinione i sostenitori della riforma, quando dichiarano che la riforma costituzionale aprirà la strada alle "riforme" che rientrano nel programma di governo.
  Il problema, evidenziato da diversi commentatori della riforma, è che al centro del successivo movimento riformatore non sarà più, in effetti, il Parlamento, ma, in definitiva, il partito di governo e il Governo da esso espresso.
 Infatti in Senato riformato non avrà più competenza in quei campi in cui l'attuale Governo vuole riformare, mentre la Camera dei deputati sarà dominata da una forza parlamentare espressa dal partito di governo. Va aggiunto che, negli ultimi anni, vi è stata la tendenza ad attribuire la direzione del Governo, quindi la presidenza del Consiglio dei ministri, al principale esponente del partito egemone della maggioranza di governo, segretario o presidente che fosse a seconda degli statuti di quel partito, in ciò volendosi ispirare alle consuetudini inglesi. Questo per evitare che la posizione della coalizione di governi potesse differenziarsi politicamente dal Governo da essa espresso, come storicamente era accaduto durante l'egemonia politica della Democrazia Cristiana. Con la coincidenza del capo del Governo e del capo del partito politico di governo si potrebbe verificare il caso di una maggioranza parlamentare di governi controllata dal Governo da essa sostenuto, invece del contrario. Ciò comporterebbe una eclisse del Parlamento.
 Quel processo di declino del Parlamento ha cominciato in realtà a manifestarsi in un'epoca recente della storia nazionale particolarmente travagliata, precisamente dagli ultimi mesi del 2011, quando, a fronte di serie difficoltà di Governo e Parlamento a far fronte ad una grave crisi economica internazionale, che richiedeva anche importanti aggiustamenti nella gestione della finanza pubblica, le forze politiche nazionali convennero per affidare la direzione politica del Governo ad una persona ritenuta autorevole individuata dall'allora Presidente della Repubblica, che ne rafforzò l'immagine pubblica e politica nominandolo senatore a vita. A differenza però degli altri senatori a vita, nominati per aver "illustrato la Patria" ma con una funzione tutto sommato marginale nel lavoro parlamentare, quel particolare senatore a vita ebbe affidata dal Presidente della Repubblica una missione prettamente politica di altissimo livello. Egli riuscì poi, da Presidente del Consiglio dei ministri incaricato, a coalizzare una maggioranza politica di governo, diversa da quella che aveva espresso il precedente governo e risultante da un accordo politico di emergenza tra forze politiche di opposto orientamento, e ad attuare in tempi brevi varie riforme, in particolare in materia economica, che incisero significativamente nelle prestazioni rese alla pubblica amministrazione ai cittadini, ad esempio in materia pensionistica. L'obiettivo fu principalmente quello di riportare sotto controllo la spesa pubblica, finanziata in misura crescente mediante debito pubblico dipendente dalle condizioni dei mercati finanziari internazionali, non solo con, le "tasse", in modo che crescesse mercati finanziari la fiducia nei titoli del debito pubblico italiano, con conseguente discesa dei tassi di interesse da pagare agli acquirenti di tali titoli, portandolo più vicini a quelli offerti dalle nazioni europee più forti, in particolare la Germania.
  Ora, le "riforme" che poi, dalla fine del 2012, sono state attuate dai successivi governi "politici", detti così per distinguerli da quello "tecnico" di quel senatore a vita, sono andate più o meno nella stessa direzione. L'idea dei sostenitori della riforma costituzionale è che, continuando ad attuarle, riducendo gli "sprechi" e liberando l'iniziativa privata da ostacoli burocratici, non solo potranno essere ottenute in sede europea deroghe ai limiti rigidi all'indebitamenti pubblico, ma anche si libereranno risorse mediante le quali l'economia privata inizierà un ciclo positivo, di sviluppo e di espansione, anche con un aumento dell'occupazione;  in quest'ottica sono stati considerate ostacoli da rimuovere anche le norme limitative dei licenziamenti individuali. Esse sono star modificate per quanto riguarda i rapporti di lavoro privati, ma le si vuole modificare anche in quelli pubblici.
  Un politico di primo piano dei nostri tempi, a chi gli proponeva obiezioni al suo progetto riformatore basate sulla sofferenza sociale che l'attuazione delle "riforme" aveva e avrebbe ancora prodotto ha replicato che l'era delle ideologie politiche del benessere portato dalle strutture pubbliche è finita e che il mercato si è mangiato tutto. Dunque, in definitiva, si vorrebbe che il Governo avesse le mani più l'onere per varare riforme che assecondino le dinamiche di mercato. Questa direzione riformistica è però antitetica a quella inaugurata con quella che può essere considerate la "riforma delle riforma", la più importante di tutte le riforme, vale a dire con la Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Essa infatti prevede che il mercato non abbia l'ultima parola, ma che le istituzioni pubbliche intervengano per correggerne le dinamiche dove limitino la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana (art.3, 2° comma, della Costituzione, uno dei principi costituzionali fondamentali). Si tratta di proteggere da dinamiche distorte di mercato beni come il lavoro, la salute, l'istruzione, la previdenza sociale, la libertà sindacale, la partecipazione di tutti attraverso i partiti a determinare la politica nazionale, e si assicurare il coordinamento dell'economia pubblica e privata perché possa essere indirizzata a fini sociali. Nella Costituzione, dunque, il mercato non è il legislatore supremo, e l'iniziativa economica privata, seppure libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art.41 della Costituzione).
 Dal '48 all'inizio degli anni '90 il movimento riformatore è stato indirizzato dai principi sociali costituzionali ed ebbe come criterio fondamentale la giustizia sociale. Esso fu promosso da due agenti sociali: il Parlamento, nel quale le istanze di promozione sociale dei lavoratori proposte dalle opposizioni socialiste e comuniste furono accolte dal partiti di governo, in particolare quando i socialisti divennero parte delle maggioranze di governo,  e la Corte costituzionale, la quale, prevista dalla Costituzione ma funzionante solo dal 1956, svolse un lavoro di rimozione dalla legislazione delle norme contrastanti con quelle Costituzionali, promuovendo anche una corrispondente cultura giuridica di alto livello.
 In concomitanza con le crisi economiche ricorrenti verificatesi dall'inizio degli anni '90, il criterio di riferimento di invece sempre più quello dello sviluppo, nella convinzione, in particolare, che le conquiste sociali dei decenni precedenti fossero troppo onerose per le finanze pubbliche, comportando tributi e costi del lavoro troppo onerosi per il sistema delle imprese, con la conseguenza che essi, venendo computati nel prezzo delle merci praticato ai consumatori, rendevano le merci prodotte in Italia meno competitive sul mercato. Con la fine delle tensioni politiche determinato dalla contrapposizione dei sistemi economici capitalisti e comunisti, a seguito della dissoluzione del comunismo di tipo sovietico e la profonda metamorfosi di quello cinese, e con la creazione di un mercato globale della produzione e commercio in cui le imprese di tipo capitalistico potevamo produrre e vendere in ogni parte del mondo, la produzione venne trasferita nelle nazioni in cui il costo del lavoro e i tributi erano più bassi e la vendita dei prodotti nei mercati dove i consumatori erano disposti ad accettare di pagare prezzi più alti. Quindi, ad esempio, imprese europee trasferirono le produzioni in Asia, vendendo però i prodotti in Occidente. Questo comportò una forte diminuzione dei posti di lavoro in Europa, ma anche una diminuzione dei prezzi al consumo. I governi occidentali assecondarono questa dinamica, nella convinzione che, alla fine, uniformandosi le condizioni di lavoro sui mercati mondiali, si sarebbe tornato a produrre in Occidente. In realtà questo effetto non si verificò mai, perché, da un lato, i governi delle nazioni in cui il costo del lavoro e i tributi erano più bassi non lavorarono per cambiare questa situazione, in particolare migliorando le condizioni dei lavoratori mediante prestazioni sociali finanziate, come in Occidente, con tributi più alti, dall'altro lato, mente alle imprese era  consentito di muoversi liberamente nel mondo "globalizzato", altrettanto non era consentito ai lavoratori, come quotidianamente possiamo constatare nell'Europa contemporanea: si cerca infatti, con misure di polizia, e addirittura militari, di fermare le migrazioni di forza lavoro dall'Asia e dall'Africa, dove i salari sono più bassi o addirittura inesistente l'occupazione, all'Europa. Le politiche di governo basate sullo sviluppo assecondando le dinamiche dell'economia capitalistica di mercato hanno comportato invece modesti risultati sul fronte dell'occupazione, in particolare a causa della crescente automazione delle lavorazioni, e un marcato peggioramento delle condizioni di lavoro, sia sotto il profilo salariale che della stabilità dei rapporti di lavoro. Di questi giorni è la pubblicazione di statistiche economiche secondo le quali i livelli di benessere delle famiglie dei lavoratori italiani sono regrediti più o meno a quelli di diversi decenni addietro.
 Si è pensato che assecondando le dinamiche di mercato si sarebbero ottenuto lo sviluppo economico e, con questo, la giustizia sociale. Tuttavia le aspettative sono andate deluse nell'uno e nell'altro campo. In particolare, per quanto si siano attuate misure che sempre più hanno inciso sulla giustizia sociale, ad esempio in materia di stabilità dei rapporto di lavoro, non si è riusciti ad innescare lo sviluppo. I redditi delle famiglie sono diminuiti e la stessa possibilità di costituirsi una famiglia e di progettare una prole ne è risultata pregiudicata, per la difficoltà di trovare lavoro, per l'instabilità crescente dei rapporti di lavoro, per le retribuzioni insufficienti (in contrasto con quanto previsto dall'art 36 della Costituzione) per la difficoltà di trovare, a prezzi commisurati alle retribuzioni lavorative, appartamenti adatti per famiglie con figli. Giorgio La Pira, politico cattolico di primo piano ispirato alla dottrina sociale, disse che "Il lavoro è sacro, il pane è sacro, la casa è sacra", principi che ispirarono la legislazione sociale Italiana fino agli anni '90. "Sacro" significa che si tratta di bene che non può essere lasciato alle dinamiche di mercato perché ha un valore correlato alla dignità della persona umana. È evidente che si tempi nostri si ragiona diversamente.
 I fautori della riforma costituzionale hanno dato la colpa dell'insuccesso delle politiche degli anni passati basate sull'idea di sviluppo al Senato elettivo, per le complicazioni derivate dal fatto che era sostanzialmente in doppione della Camera dei deputato, e l'hanno soppresso. In realtà, a ben vedere, le difficoltà che sono derivate dagli anni '90 ai riformatori che intendevano assecondare le dinamiche di mercato dipendevano proprio dal fatto che il Senato NON era un doppione della Camera dei deputati e il Governo ha incontrato maggiori difficoltà ad ottenere la fiducia al Senato. Se la riforma costituzionale verrà approvata al prossimo referendum questo non accadrà più perché la fiducia sarà votata solo alla Camera dei deputati dove il partito di governo, per l'effetto della nuova legge elettorale per tale Camera, disporrà di una solida maggioranza assoluta. Il Governo, non è detto che sia sempre quello attualmente in carica, avrà mano libera per le "riforme".
 Perché però occorre affidarsi a questa riforma di struttura per ottenere il consenso politico ad un'azione riformatrice la cui necessità i sostenitori delle nuove norme reputano ovvia, indiscutibile? Non dovrebbero tutte le forze politiche concordare con il progetto riformatore. Il problema è che le riforme che vengono indicate come necessarie allo sviluppo incidono sul benessere dei più e favoriscono le imprese, controllate dalla minoranza della gente che sta meglio. È questo il problema: andare contro gli interessi di una maggioranza del popolo, per favorire una minoranza. Si suppone che, però, favorendo le imprese queste creeranno sviluppo e occupazione, dei quali beneficerà anche la maggioranza.
 Bisogna però ricordare che la riforma costituzionale modifica solo strutture, procedure e funzioni di organi costituzionali e di enti territoriali locali della Repubblica, ma non consiste delle "riforme" che attraverso di essa ci si propone di facilitare, né ne indica la direzione: rispetto ad esse è, per così dire, neutrale. Così, studiando la riforma costituzionale, non si può avere un'idea precisa di come saranno le successive "riforme". Esse dipenderanno dalle idee di chi conquisterà il Governo, che poi avrà le mani più libere. E i partiti che si contendono il Governo in genere rimangono piuttosto sul vago, quando si tratta di rendere un'idea precisa delle "riforme" che hanno in progetto di varare. Questo dovrebbe essere un segnale di allarme, soprattutto per la maggioranza di chi dalle passate riforme (tutte attuare dal Parlamento com'è ora) ci ha rimesso in benessere.
 In merito agli effetti della riforma costituzionale in discussione si può dire quanto segue.
 Con un Senato depotenziato come quello riformato, e sostanzialmente nelle mani dei partiti egemoni nelle Regioni più popolose, il partito che, con i meccanismi di premio di maggioranza introdotti anche negli enti locali come per la Camera dei deputati, riuscisse a controllare maggioranze parlamentari omogenee nelle due Camere, avrebbe a disposizione del suo virtuosismo riformatore l'intera Costituzione, anche nei suoi principi fondamentali, che oggettivamente costituiscono ostacoli all'assecondamento delle leggi di mercato.
 In caso contrario, di maggioranze parlamentari non omogenee nelle due Camere, si aprirebbe una lunga stagione di conflitti tra le due Camere, con l'impossibilità di legiferare nelle materie più importanti, quelle che ancora richiederanno una deliberazione conforme delle due Camere, aggravati dalle incertezze interpretative sulle norme sulla competenza delle due Camere e sul riparto di competenza legislativa tra Stato Regioni causate dalla non ottimale formulazione delle modifiche costituzionali (eclatante il caso del nuovo art.70 della Costituzione, veramente di difficile lettura).
  Insomma, con la riforma costituzionale si aprirà  verosimilmente  una stagione di riforme di iniziative governativa, ma non si può sapere dove esse andranno a parare, quali conseguenze avranno per la vita della maggioranza della gente, che dipende per il proprio benessere da prestazioni sociali pubbliche, e neanche quale Governo cercherà di attuarle. La riforma costituzionale agevolerà la via al Governo, qualunque esso sia, nei confronti del quale, una volta che abbia conseguito il controllo politico delle due Camere, o anche della sola Camera dei deputati, per l'effetto dei meccanismi elettorali maggioritari stabiliti dalle leggi vigenti, sarà più difficile esercitare un'azione politica diretta a incidere sui suoi progetti. Un'azione politica del genere, possibile nel Parlamenti com'è ora, ha invece moderato l'azione riformatrice dispiegatasi dall'inizio degli anni '90 ad opera di Governi di opposte tendenze, ad esempio nel campo della giustizia, quando la giustizia diventò materia di scontro politico.
 Sulla valutazione dell'incidenza delle dinamiche di mercato sui valori fondamentali inerenti alla dignità delle persone umane, e sui compiti dei pubblici poteri in merito, a livello nazionale e internazionale possono leggersi pagine significative, specialmente per persone religiose, nell'enciclica papale Laudato si', del 2015, che potete leggere sul Web sul sito <www.vatican.va>.

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La controriforma regionale
  Oltre che della struttura e delle funzioni del Senato, la recente riforma costituzionale si occupa delle Regioni, dei Comuni e delle Città metropolitane, enti questi ultimi che andranno a sostituire le Province (come già avvenuto per quattordici Province, tra le quali quella di Roma). La parte riguardante le Regioni è in realtà una "controriforma", perché limiterà significativamente l'autonomia legislativa e amministrativa regionale rispetto alla disciplina introdotta nella Costituzione nel 2001.
  L'istituzione delle Regioni come enti territoriali con governo di natura politica espresso da un consiglio di origine elettiva venne prevista dalla Costituzione fin dalla sua entrata in vigore, nel 1948, ma iniziarono a funzionare solo nel 1970. Tuttavia solo dal 1979 l'adeguamento della normativa e dell'amministrazione statali consenti alle Regioni di operare realmente nelle materie che la Costituzione attribuiva alla loro competenza. Dagli anni '80 si svilupparono  movimenti politici che reclamavano una maggiore autonomia della Regioni, fino a fare della Repubblica italiana uno stato federale. Si prendeva come riferimento talvolta gli Stati Uniti e la Repubblica federale di Germania, ma anche, sopratutto nella fase drammatica della sua dissoluzione, negli anni '90, la Federazione Iugoslava. Il regionalismo settentrionale si pose talvolta l'obiettivo della secessione dalla Repubblica Italiana, proponendosi la creazione di un nuovo stato nel Nord Italia, a settentrione del fiume Po, individuato culturalmente, storicamente e sociologicamente come "Padania". L'esigenza di una maggiore autonomia regionale venne ampiamente condivisa dalle forze politiche nazionali, che però erano in contrasto tra loro sulle modalità concrete della sua attuazione, portando nel 2001 a una revisione costituzionale in quella direzione, confermata da un referendum popolare analogo a quello che si terrà il prossimo autunno.
 Fin dall'inizio le Regioni si occuparono di materie molto importanti: tra di esse l'urbanistica (in particolare dei "piani" che disciplinano le costruzioni di edifici), la sanità, le strade, i trasporti e i lavori pubblici locali, l'agricoltura e foreste. Dovevano però operare secondo principi fondamentali fissati da leggi dello Stato e, sopratutto, senza entrare in contrasto con l' "interesse nazionale". Quest'ultimo costituiva quindi, con quello dei principi fondamentali, uno dei principali criteri per valutare la legittimità costituzionale della legislazione regionale.
 Con la revisione costituzionale del 2001 la competenza regionale venne molto aumentata. Quella statale divenne residuale. Alcune materie erano riservate allo Stato, come la politica estera, la difesa, la moneta, il sistema tributario, la giustizia, la previdenza sociale, la legislazione elettorale, la tutela dell'ambiente e dei beni culturali. In altre la legislazione regionale doveva svolgersi nel quadro di principi fondamentali fissati da leggi dello Stato: ad esempio in materia di sanità, professioni, sicurezza sul lavoro, istruzione, protezione civile, banche locali. Tutte le altre materie divennero di competenza regionale. Venne tolto il limite dell'interesse nazionale e fu attribuito alle Regioni, ma anche agli altrimenti territoriali quindi ai Comuni, alle Città Metropolitane e alle Province, il potere di stabilire tributi propri.  Il nuovo sistema costituzionale delle autonomie locali creò dei problemi perché le Regioni presero a contestare davanti alla Corte Costituzionale le leggi dello Stato, lamentando che avevano invaso illegittimamente la competenza regionale. Tensioni tra Stato e Regioni si crearono in particolare dove i movimenti secessionisti ebbero più seguito.  Divenne più difficile assicurare l'uniformità di certe prestazioni pubbliche sul territorio nazionale, ad esempio in materia sanitaria. Alcune Regioni funzionarono meglio, altre peggio. 
 Nel 2005 il Parlamento approvò una legge di revisione costituzionale che aumentava ulteriormente la competenza legislativa e amministrativa delle Regioni, avvicinandola a quella delle istituzioni territoriali costitutive degli stati federali, introducendo però un potere di ingerenza governativa nel caso lo richiedesse l'interesse nazionale: il governo, dopo aver inutilmente richiesto modifiche alla disciplina regionale, poteva ottenere una deliberazione del Parlamento in seduta comune per annullare la legge regionale ritenuta contrastante con l'interesse nazionale. Questo meccanismo giuridico si ritrova sostanzialmente nella revisione costituzionale oggetto del prossimo referendum, con la differenza che l'ultima parola l'avrà solo la Camera dei deputati. Questa riforma non entrò in vigore perché non confermata dal referendum costituzionale svoltosi nel 2006.
 L'idea di fare della Repubblica italiana uno stato federale contrasta con il processo storico con cui si realizzò l'unità d'Italia. Quest'ultima non avvenne per aggregazione degli stati in cui l'Italia era divisa ad inizio Ottocento, ma per conquista militare da parte del Regno di Sardegna, che nel 1861 divenne il Regno d'Italia. Le attuali Regioni, salvo la Toscana,  non corrispondono agli stati italiani precedenti l'unità nazionale. Ricalcano invece circoscrizioni amministrative definite dal Regno d'Italia, con una certa arbitrarietà, sulla base di affinità linguistiche e territoriali. Lo stato liberale e poi quello fascista, fortemente accentratori, si proposero di destrutturare le autonomie statali precedenti l'unità d'Italia, al fine di "fare gli italiani". Ci riuscirono. 
 Grosso modo gli stati in cui l'Italia era divisa prima dell'unità nazionale comprendevano Piemonte, Liguria e Sardegna, sotto la monarchia dei Savoia; il Lombardo-Veneto sotto dominazione austriaca; il Granducato di Toscana; l'Italia centrale sotto il dominio pontificio, e l'Italia meridionale sotto il dominio della monarchia dei Borboni. Le città di Parma, Piacenza, Guastalla, Modena e Reggio erano governate da monarchie locali, costituite in ducati. Il Regno dei Savoia si espanse nelle altre regioni d'Italia, destituendo le altre monarchie locali, compresa quella romana del Papa, e annettendosi il lombardoveneto sotto dominazione austriaca. L'autonomia politica di queste regioni italiane venne annientata: bisogna considerare che la partecipazione politica del popolo agli stati abbattuti era limitata ai ceti dei nobili e dei borghesi.
   L'Italia conserva ancora una marcata diversità culturale sul suo territorio, in particolare linguistica, e forti diversità di struttura economica. Pensare, ad esempio, ad un Settentrione omogeneo è superficiale. L'idea  proposta dai  federalisti/secessionisti italiani  "nordisti" dagli anni '80 era che le regioni del nord Italia, con economie più ricche, non fossero più onerate del sostegno di quelle delle altre parti d'Italia. Le economie del centro-meridionali venivano presentate come parassitarie. In realtà la storia economica d'Italia evidenzia che le regioni settentrionali, durante la fase dello statalismo liberale e fascista, furono maggiormente sostenute dallo stato, anche attraverso il sistema delle commesse pubbliche e delle partecipazioni statali. Solo dalla caduta del fascismo in avanti, quindi dal 1945, si cominciarono ad attuare politiche di sviluppo nel Centro e Meridione d'Italia. In questo quadro vennero delineate nella Costituzione entrata in vigore nel 1948 le nuove autonomie regionali. Queste ultimi erano sostenute in particolare dal democratici cristiani. La destre e i social-comunisti erano diffidenti. Favorevoli anche i repubblicani e gli azionisti (del Partito d'Azione, che ora non c'è più). Si temeva l'impossibilità di attuare politiche nazionali, in caso di divergenze di quelle regionali. Come detto, solo nel 1970 le nuove Regioni italiane iniziarono ad operare, ma solo alla fine degli anni '70 furono loro trasferite realmente gran parte delle funzioni che la Costituzione attribuiva loro. 
 Il regionalismo del secondo dopoguerra riteneva che lo sviluppo locale sarebbe stato più efficacemente realizzato da una classe politica più vicina ai problemi del territorio. Nei primi anni dell'esperienza regionale questo obiettivo fu limitato dall'assenza di risorse proprie delle Regioni, le cui risorse erano fornite sostanzialmente da trasferimenti statali. A ciò si rimediò con la revisione costituzionale del 2001. 
  Con la revisione costituzionale approvata quest'anno e oggetto del prossimo referendum costituzionale, la competenza regionale viene limitata. Nel tentativo di limitare motivi di contrasto si è soppresso il comma dell'art.117 della Costituzione che prevedeva la cosiddetta legislazione concorrente, vale a dire le materie in cui le Regioni potevano legiferare nel quadro di principi fondamentali fissati da una legge statale. Tuttavia è stato osservato che anche la nuova formulazione di quell'articolo prevede ancora, sostanzialmente, una legislazione concorrente analoga, con la conseguenza che sono prevedibili gli stessi problemi di competenza del passato. Ma la novità più importante è che si è introdotto, sulla scia della precedente riforma del 2005 non confermata dal referendum costituzionale dell'anno seguente, il potere esclusivo del Governo di ottenere che la Camera dei deputati legiferi nelle materie di competenza regionale sulla base del criterio dell' "interesse nazionale", quanto mai generico. In mano ad un Governo autoritario, che per l'effetto della nuova legge elettorale maggioritaria controllasse la Camera dei Deputati, ciò potrebbe portare ad una compressione significativa dell'autonomia regionale. Queste leggi di supremazia in base all'interesse nazionale sono soggette ad una procedura di approvazione "rafforzata", nel senso che la Camera dei deputati dovrà pronunciarsi a maggioranza assoluta dei propri componenti, qualora non intenda accogliere modifiche proposte a maggioranza assoluta dei propri componenti dal nuovo Senato. La disposizione che prevede questa procedura, il nuovo articolo 70, 4° comma, della Costituzione,  è formulata in modo impreciso e lascia spazi a molti dubbi interpretativi, come evidenziato nel commento preparato dall'Ufficio studi della Camera dei deputati. Comunque, tenendo conto dell'effetto della legge elettorale maggioritaria sulla composizione della Camera dei deputati, può prevedersi che il Governo non avrà difficoltà a far approvare leggi invasive della competenza regionale. 
  In conclusione: la legge di revisione costituzionale di quest'anno realizza un notevole rafforzamento dei poteri del Governo anche in materia di autonomia regionale. In questo senso si tratta di una "controriforma".

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La società atomizzata, il referendum, la democrazia

 Che cosa è in ballo nel prossimo referendum costituzionale?
  E’ credibile che possa aprire la strada ad una dittatura?
  Se ne è discusso ieri in radio e televisione. L’argomento è affrontato anche sui giornali di oggi. Infatti ieri un politico di primo piano, in un breve messaggio telematico, ha paragonato l’esperienza politica dell’attuale Presidente del Consiglio dei ministri a quella del dittatore militare Augusto Pinochet, il quale nel 1973 in Cile capeggiò un colpo di stato militare destituendo il governo socialista del presidente  Salvator Allende, e rimanendo poi al potere, come capo di stato, fino al 1990, attuando un governo autoritario e antidemocratico. Alla gente fu vietata la politica e l’azione degli oppositori al regime venne repressa con misure di polizia non rispettose della dignità e incolumità delle persone e senza possibilità di reale difesa in sede  giudiziaria. Si legge in  http://www.treccani.it/scuola/tesine/dittature_extraeuropee_degli_anni_70/2.html in un articolo sintetico sul colpo di stato di Pinochet dedicato agli studenti delle scuole la cui lettura consiglio a tutti: “Dal 1973 al 1990 in Cile sparirono oltre trentamila persone, uccise e torturate barbaramente”.
 Vanno sottolineate alcune importanti differenze del caso italiano rispetto alla svolta cilena degli anni ’70.
  L’attuale presidente del Consiglio è il capo di un partito politico, non un capo militare. Egli governa con la fiducia di una maggioranza parlamentare. Il suo è un partito che ingloba parte della sinistra politica nazionale e non ha propositi reazionari, di restaurazione contro una politica socialista. Il suo è e rimarrà un potere costituzionale, in un contesto costituzionale democratico. Quindi, anche in caso di conferma della revisione costituzionale sottoposta al referendum, rimarranno gli altri partiti e sarà possibile cambiare linea con elezioni politiche. Per quanto infatti la revisione costituzionale rafforzi molto la posizione del Governo nei confronti degli altri poteri dello stato, essa non dà tutto il potere al capo del Governo, né al Presidente della Repubblica. Continueranno a svolgersi elezioni politiche e amministrative, a seguito delle quali il Parlamento sarà rinnovato. Per il nuovo Senato si adotterà un metodo diverso di elezione dei suoi membri, che verranno scelti dai consiglieri regionali e non più, direttamente, dal corpo elettorale, vale a dire da tutti i cittadini elettori. Ma comunque i consiglieri regionali saranno scelti dagli elettori. I diritti fondamentali delle persone continueranno ad essere rispettati, perché la riforma riguarda solo parte dell’organizzazione degli organi fondamentali dello stato.
 Va infine notato che l’esperienza politica di Pinochet ebbe fine proprio a seguito di un referendum costituzionale celebrato nel 1988.
  Ciò posto è vero che il prossimo referendum è in grado di modificare molte cose nella nostra vita, molte di più di quelle che sono scritte nel testo della riforma costituzionale.
  Innanzi tutto, in un testo di legge come la nostra Costituzione le varie parti che lo compongono influenzano l’insieme, non sono indipendenti le une dalle altre. Modificando l’assetto del Parlamento e delle Regioni in modo da aumentare la sfera di influenza del Governo si produrranno conseguenze, ancora difficili da immaginare in tutta la loro estensione, sui  diritti politici dei cittadini, vale a dire su quella che viene definita sovranità popolare e che è la partecipazione dei cittadini al governo d della nazione. Sarà diverso il modo in cui i cittadini potranno concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, secondo l’espressione che troviamo nell'art. 49 della Costituzione. Questo però non solo per l’effetto delle modifiche costituzionali sottoposte a referendum ma di esse  della nuova legge elettorale per l’elezione della Camera dei deputati. E’ l’associazione delle nuove norme costituzionali e di quelle, ordinarie, elettorali che rafforzerà molto l’azione del Governo nei confronti degli altri organi costituzionali dello Stato: Parlamento, Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale. Infatti la nuova legge elettorale, che riguarda l’elezione della Camera dei deputati, la quale in molte materie, in particolare ad esempio in materia di economia e lavoro, avrà l’ultima parola, consegna una solida maggioranza parlamentare al partito che, o avendo raggiunto il 40% dei voti alle elezioni o anche non avendo raggiunto tale soglia di voti ma avendo vinto il ballottaggio tra i due partiti che hanno raggiunto più voti, abbia vinto  le elezioni. Quindi un solo partito, anche non raggiungendo la maggioranza assoluta (oltre il 50% dei voti) alle elezioni, e addirittura rimanendo molto lontano da essa (nel caso si proceda al ballottaggio) potrebbe esprimere un governo, accordandogli la fiducia, e cambiare profondamente la vita sociale, con meno possibilità per la gente di opporvisi efficacemente e rapidamente. In alcune materie, in particolare nelle riforme costituzionali, è previsto però che si legiferi con il concorso delle due Camere, quindi anche del Senato. Tuttavia bisogna considerare che anche l’elezione dei consiglieri regionali e dei sindaci, tra i quali saranno scelti i nuovi senatori, si svolge con procedure che prevedono premi di maggioranza: quindi è possibile che un medesimo partito di maggioranza solo relativa, non assoluta, e anche piuttosto esigua,  in termini di voti elettorali, ma di maggioranza assoluta in termini di membri nelle assemblee regionali e nei consigli comunali, come anche alla Camera dei Deputati, arrivi a controllare l'intero  il Parlamento. A quel punto sarebbe nelle sue mani l’intera Costituzione, anche nei suoi principi fondamentali. Se poi si trattasse di un partito controllato da una o da una cerchia di poche persone, come è accaduto e  accade nella politica italiana contemporanea, fortemente personalizzata intorno al leader  di partito (si parla di  partiti personali), è possibile che tutta la vita dello stato e i suoi principi fondamentali finiscano per essere determinati da oligarchie (i cerchi magici) piuttosto ristrette, senza reale possibilità per la gente di influire sul corso politico. E’ vero che  si saprà subito chi ha vinto, ma potrebbe non essere tanto bello scoprirlo. Dipenderà dai progetti politici di chi ha vinto e qui, oggi, sorgono dei problemi. Perché sembra difficile alle parti politiche che attualmente si contendono il potere precisare i dettagli delle loro proposte politiche. Si parla sempre di riforme, ma, al dunque, come saranno queste riforme non si sa. Sembra quasi che si proponga agli elettori di accettare una cambiale in cui  lo spazio relativo all'importo è lasciato in bianco, per cui non  si sa bene che cosa attendersi dal futuro.
  Una persona decisa, determinata, con una certa fascinazione popolare, come ne sono nate in Italia in passato, potrebbe utilizzare gli effetti dell’associazione tra riforma costituzionale e nuova legge elettorale per la Camera dei deputati per rafforzare un proprio potere personale e cambiarci la vita profondamente? Senz'altro sì. Potrebbe essere in meglio o in peggio, naturalmente. Ma se fosse in peggio sarebbe più difficile contrastarlo. Questo perché controllando una maggioranza parlamentare significativa il Governo espresso da un solo partito, il partito del suo leader, avrebbe anche mano libera nel cercare controllare l’informazione pubblica, attraverso la quale i cittadini si formano opinioni politiche. E avrebbe buone possibilità di successo. Le elezioni, a quel punto, ci sarebbero ancora, periodicamente, ma sarebbe più difficile per la gente capire che cosa sta succedendo e reagire. Ed è stato notato che, già ora, in televisione le ragioni dei contrari alla riforma costituzionale sottoposta a referendum hanno poco spazio e che le informazioni sull'attività del Governo hanno la preponderanza. Verificate: in base all'informazione che avete avuto dalle televisioni, siete riusciti a farvi un’idea di che cosa precisamente  tratti la riforma costituzionale sottoposta a referendum?
  E’ stato osservato (Bauman) che viviamo in una società atomizzata, in cui ognuno sta per sé e tutti sono contro tutti. I legami tra di noi si fanno più labili. Le conseguenze si sono fatte sentire, ad esempio, sulla stabilità delle famiglie. Ma  è cosa che si può constatare facilmente in tutte le realtà sociali, ad esempio in una parrocchia come la nostra. Ci si stanca facilmente degli impegni di lunga durata. E quando se ne assume uno, subito sembra troppo oneroso e si pensa come liberarsene.
  I più giovani vivono una parte importante della loro vita interagendo telematicamente sul WEB. Lì uno può illudersi di essere onnipotente, di poter cancellare la realtà, ed anche le persone, pigiando sull’icona “elimina”. Si può rapidamente uscire da un gruppo ed entrare in un altro. La realtà virtuale è un gioco che possiamo costruire, interamente nelle nostre mani. Ma la realtà sociale, quella dalla quale dipendono le nostre vite, la casa, il lavoro, il pane, non è così.  Certe scelte che si fanno non possono poi essere cambiate tanto facilmente. Quindi, affrontare il referendum costituzionale con lo stesso spirito con cui si interagisce sul WEB è pericoloso.
  Se, riflettendoci, si capisce che sarà difficoltoso cambiare gli effetti di una nostra decisione, si cerca di ragionarci su bene. E’ quello che si dovrebbe fare, ad esempio, sposandosi, decidendo di fare o di non fare un figlio, di aderire ad una fede religiosa o di lasciarla,  o scegliendo un corso di studi superiori o un lavoro. Il tasto elimina  in queste cose non c’è.
  E’ lo stesso per una riforma costituzionale: cambierà la società che ci consente di vivere. Potremo poi sognarne un’altra giocando sul WEB, ma quest’ultima rimarrà sempre un sogno.  
 Mentre gli effetti di un’elezione politica di solito si esauriscono entro le successive elezioni, quelli di una riforma costituzionale sono di lunga durata. Anche senza dover fare un colpo di stato alla Pinochet e senza brutalizzarci ammazzandoci, un pugno gente decisa, a cui noi abbiamo aperto la strada, potrebbe cambiarci molto la vita. E bloccarla, cambiando nuovamente la Costituzione, potrebbe divenire molto, molto difficile, se non impossibile, se lo si dovesse fare mediante maggioranze parlamentari controllate proprio da quelli che si vorrebbe contrastare e con un’informazione pubblica da loro controllata.
 Concludo osservando che, se è vero che  la svolta politica (l’avvio delle  riforme) che si prefiggono i fautori della revisione costituzionale si produrrà dall'associazione degli effetti della riforma costituzionale e di quelli della riforma elettorale attuata con legge ordinaria, il quesito proposto agli elettori non è completo, riguardando solo la riforma costituzionale.  Infatti se la legge elettorale per la Camera dei deputati fosse diversa ci si potrebbe determinare diversamente anche sulla riforma costituzionale. E ancora: indipendentemente da come andrà il referendum, gli effetti della riforma costituzionale potrebbero essere cambiati cambiando la legge elettorale per la Camera dei deputati. Non sarebbe stato meglio inserire anche nella riforma costituzionale qualcosa sul sistema elettorale della Camera dei deputati, tenendo conto, in particolare, che una precedente legge elettorale, quella del 2005, è stata dichiarata parzialmente incostituzionale  nel 2014? In modo da dare  modo ai cittadini di esprimere un giudizio completo su tutta la materia di questa che è proposta come la  riforma delle riforme, la riforma  che dovrebbe aprire la strada a tutte le altre  riforme, che però, allo stato, non si sa quali saranno, sia perché  i capi dei partiti non ce lo precisano sia perché dipenderanno da chi riuscirà a conquistare la maggioranza parlamentare e quindi il governo della nazione.
  Di questi tempi ci cominciamo a rendere conto che la società atomizzata, quella fatta da individui che si ritengono onnipotenti e che pensano che la realtà intorno a loro possa essere cancellata con una specie di tasto “elimina”, non produce una buona politica. Da che cosa e, soprattutto, da chi dipende la politica in democrazia? Dipende da tutti noi, non come singoli però, ma nei legami che riusciamo a creare e a mantenere con gli altri. E’ infatti una realtà sociale, vera non virtuali, che richiede di stringere e rafforzare legami effettivi e stabili tra le persone e i gruppi. Bisogna conoscere altra gente, imparare a dialogare con gli altri, ad esaminare le questioni realisticamente e razionalmente. La nostra vita non si svolge in un video-gioco. E’ cosa a cui siamo stati chiamati anche in religione: è questo il senso, in realtà piuttosto misconosciuto in genere, degli argomenti proposti nell'enciclica Laudato si’. Ecco che l’Azione Cattolica ha quindi progettato un percorso formativo specifico fin dai suoi piccolissimi. Ne ho scritto nei precedenti interventi. Dovremmo forse sentirne la necessità anche in una realtà sociale come la parrocchia. Tra le cose in ballo, nelle possibili riforme, ci sono anche i diritti religiosi. Ma, nonostante il grande impegno dei sacerdoti, sembra tanto difficile raccogliere gente che abbia ancora voglia di impegnarsi in attività come questa. E questo nonostante il ruolo importantissimo che il movimento politico espresso da nostre persone di fede ed ispirato alla dottrina sociale ha avuto nella storia repubblicana dal secondo dopoguerra.


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Prendersi cura della casa comune

L’enciclica Laudato si’,  dell’anno scorso, ha come sottotitolo: “sulla cura della casa comune”. Si tratta di un testo che non ha precedenti nella dottrina sociale. Questo risulta in modo evidente in particolare dalle note di citazione, che fanno pochi riferimenti a precedenti documenti analoghi. Vi sono invece molte citazioni di documenti di conferenze episcopali. Vi sono citazioni di documenti dei papi regnanti dagli anni ‘70, ma con molti  testi diversi dalle encicliche, contenuti in discorsi e messaggi. Di documenti conciliari vi sono tre  citazioni e riferimenti tratti tutti dalla Costituzione La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (nota 50, sull’autonomia delle realtà terrene; nota 100, sull’uomo quale autore, centro e fine di tutta la vita economico-sociale; nota 122, sul concetto di bene comune come l’insieme delle condizioni delle vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente). Ma è la prospettiva che viene proposta che è molto diversa da quella dei precedenti insegnamenti della dottrina sociale e anche dalla teologia francescana, a cui pure si fa riferimento come principio ispiratore. Non basta rispettare e contemplare la natura, e riconoscervi l’opera del Creatore: occorre averne cura. Non si tratta solo di soggiogare  e sfruttare  senza inaridire le risorse, lasciando ciò che serve alle generazioni successive: occorre anche mantenere, e ove occorre ristabilire, l’armonia del creato, di cui gli stessi esseri umani sono parte. Occorre un’azione comune, collettiva, che non è più riferita, come nei precedenti documenti che trattavano il tema, solo ai governanti, ma a tutti.  Questo richiede una conversione su larga scala, la giustizia sociale tra le generazioni, un nuovo spirito civico e nuove politiche. E’ in questione uno stile di vita. Ma anche il sistema economico che regge le società contemporanee. Si parla di ecologia, parola che significa studio dell’ambiente, ma l’ambiente  a cui si fa riferimento non è solo quello naturale, ma in primo luogo quello sociale. Perché sono gli esseri umani ad essere chiamati a prendersi cura della creazione. Si è chiamati ad una rivoluzione culturale:

114. Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane.

  Passare da una civiltà della crescita illimitata e dello spreco ad una della sobrietà e della cura dell’ambiente richiede un lavoro specificamente politico, che nella Laudato si’  è specificamente indicato come compito di tutti.

178. Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri. 179. […

 ] Poiché il diritto, a volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni  ambientali. 181. […] Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.

 Una politica in cui il popolo abbia parte  è una politica democratica. E’ la prima volta che in un’enciclica vi è un così forte appello al popolo per una politica democratica. In passato appelli del genere erano rivolti ai governanti. Si tratta di un portato della difficile accettazione dei processi democratici da parte della dottrina sociale, che si è avuta compiutamente piuttosto recentemente, solo con l’enciclica Il centenario, del 1991, di Karol Wojtyla. Questo documento fu pubblicato in un anno in cui tutto iniziò a cambiare molto velocemente in Europa: fu l’anno della dissoluzione del comunismo sovietico in Russia. In Europa il processo politico era iniziato nel 1989. Si trattò di sviluppi che in Occidente non si erano previsti e che, quindi, sorpresero non poco.  Si produsse, nell’Europa Orientale dominata dal comunismo sovietico, una rivoluzione di sistema. Molto più, quindi, di una rivoluzione politica, che comporta un cambio di chi comanda in politica. A quell'epoca si volle fondare, progettare e stabilire un nuovo sistema sociale, economico e politico insieme. E allora il Wojtyla condusse i fedeli verso la democrazia, nei confronti della quale, fino ad allora, vi erano state sempre molte riserve, e ancora per certi versi vi sono, tanto che essa viene poco praticata nell’organizzazione religiosa e viene riservata a quella civile.
  Wojtyla fu tra i pochi, e il solo tra i grandi della Terra, a prevedere il cambiamento dei sistemi politici integrati dell’Europa orientale, che tenevano sostanzialmente prigioniere le Chiese di quelle regioni, e in particolare la Chiesa polacca nella quale egli si era formato. Egli intuiva la fragilità di quei governi nazionali. Ma, con il senno del poi, possiamo riconoscere che non aveva veramente capito i moventi della rivoluzione in corso. Egli si illudeva che fossero spirituali, che i popoli dell’Europa orientale volessero rientrare nuovamente nel consesso delle genti della fede che era alle radici della cultura civica europea.
 Furono strani moti rivoluzionari, quelli che cambiarono l’Europa in quegli anni. Ci fu poca violenza. Non ci fu una classe contro l’altra. Non insorsero i ceti più poveri. Si osservò che le piazze si riempirono di giovani e di professionisti, di gente dei ceti più elevati della società. I governi, dinanzi a quelle piazze, e a volte solo addirittura alla minaccia di raduni di piazza, mollarono tutto, come convinti della propria inesistenza, come fu scritto. E’ stato osservato (Zygmunt Bauman) che fu l’anelito al consumismo, alla libertà di creare e di soddisfare sempre nuovi bisogni, che motivò gran parte delle folle che manifestarono in piazza. Nella Germania orientale, dove, nel novembre 1989 si produsse l’evento che viene denominato Crollo del muro di Berlino, e che, in realtà, non comportò alcun crollo, ma solo l’apertura, su ordine del Governo della Repubblica Democratica Tedesca, della frontiera che all’epoca divideva in due la città di Berlino, non furono assaltati i palazzi della politica, ma la gente si accalcò alla frontiera per andare in Occidente, vedere che c’era, fare acquisti, incontrare parenti che da decenni non vedeva, però poi facendo ritorno a casa attraverso la medesima frontiera.
  Nei sistemi economici e politici comunisti era vietato non lavorare e tutti avevano una casa. Tutti potevano studiare e curarsi gratuitamente. Tutti avevano a basso costo di che vivere. C’era tempo libero e venivano organizzati gratuitamente svaghi e vacanze. Ma lo stato pretendeva di controllare i bisogni  della gente, di decidere quali erano meritevoli di soddisfazione  e quali no. E non riusciva neppure a soddisfare tutti i bisogni che riconosceva come degni. Per cui nei negozi di stato c’era poca roba e, quando c’era, occorreva spesso fare lunghe file per acquistarla. C’era il costume di comprare, ai bassi costi che venivano praticati dallo stato, anche cose che non servivano al momento, ad esempio scarpe di una taglia diversa da quella propria, per farne poi baratto. Tutti i maggiori sforzi dello stato venivano dedicati all’industria pesante, non a quella che produceva beni di consumo, per sorreggere i bisogni dell’apparato militare. Infatti i governi di quel mondo vivevano in un perenne clima di assedio, come agli esordi della rivoluzione bolscevica (quella che poi produsse lo stato sovietico russo), nel 1917. E nell’industria si aveva di mira innanzi tutto lo sviluppo sempre più rapido e imponente, non la sostenibilità ambientale. Fu il desiderio di più beni di consumo la molla principale che indusse le stesse classi dirigenti dei sistemi comunisti dell’Europa orientale a cambiare politica, producendo una rivoluzione di sistema. A tutto ciò gli strati meno ricchi, meno colti e più anziani delle popolazioni, infatti anche in quelle società l’egualitarismo non era completo, rimasero sostanzialmente estranei. Furono i più giovani  e i ceti colti il motore di quelle rivoluzioni.
  Un indizio significativo della dinamica che ho descritto può essere visto in un fatto di cronaca avvenuto proprio a Roma.  Nel 1991, venne in visita di stato in Italia il nuovo presidente della Russia, Boris Eltsin. Sua moglie, mentre il marito si intratteneva in colloqui politici, fu portata in visita per la città e, in particolare, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, che è in una zona della città non particolarmente elegante, si tratta infatti di un quartiere popolare come il nostro, anche se situato in centro. Uscendo dalla Basilica, la signora Eltsin vide lì di fronte un supermercato popolare, che ancora c’è, volle entrare, lo girò tutto e fece anche acquisti, sotto lo sguardo sbalordito delle commesse. Ne fu entusiasta. Fu criticato e preso in giro questo suo ingenuo entusiasmo per un supermercato popolare. Fu osservato che non aveva mostrato lo stesso entusiasmo durante la visita allo storico chiesone. Era questo profluvio di merce che c’era nei supermercati occidentali il sogno degli europei orientali.
[Cronaca dell'evento all'indirizzo WEB:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/04/25/quella-prima-volta-di-eltsin-in-italia.html ]
  Ora tutta l’Europa sta di fronte alla sostenibilità del suo modello di sviluppo consumistico, quello che è stato uno dei moventi più importanti delle rivoluzioni nell’Europa orientale. Non ce n’è per tutti. L’induzione di sempre nuovi bisogni genera spreco di risorse. Per cui mentre c’è chi non ha di che vivere, ci sono quelli che consumano molto di più di ciò che ragionevolmente sarebbe loro sufficiente per stare molto bene. Tutto è concentrato nella soddisfazione dei bisogni individuali di chi  è riuscito a integrarsi nel sistema economico, mentre per i bisogni sociali, ad esempio per i servizi pubblici e per le pensioni sembra che, nelle nostre società straricche dell’Occidente, manchino sempre le risorse. Il sistema economico non è stabile, perché, per sostenersi, ha necessità di crescere  sempre. Ma può crescere solo soddisfacendo i bisogni dei sempre meno che hanno di che pagare certi prezzi. Così, sembra che più aumenta la capacità di soddisfare bisogni più diminuisca il numero di chi può pagare e, dunque, più sia in pericolo la crescita costante.  Il lavoro diventa precario perché la sua stabilità è uno di quei costi per i quali non si trovano mai le risorse. Divenendo precario viene retribuito meno, e quindi diminuisce la capacità di spesa delle masse. Quindi diminuiscono i consumi e la gente si indebita per consumare. E’ stato osservato che il debito privato impone un pesante servaggio alle persone, così come l’entità del debito pubblico ,ora che la si vuole tenere sotto controllo, limita la spesa sociale con decremento del benessere collettivo. E’ un modello di sviluppo squilibrato e fondamentalmente irrazionale, tanto che riesce difficile anche ad istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea tenerlo sotto controllo. Nelle crisi, poi, ognuno pensa che la soluzione sia di liberarsi dall’onere della solidarietà verso gli altri. Ci si rinchiude nuovamente nei confini nazionali, e, all’interno di essi, dentro  quelli regionali o comunali, e infine nel proprio privato. Ognuno vuole tenersi il suo. Spendere ciò che produce. Il grido che sorge dalle masse è, in fondo: “Meno tasse!”. Chi oggi si adatterebbe ad uno stile di vita più sobrio? Chi rinuncerebbe al miraggio della crescita costante?
 Scrive Bergoglio nella Laudato si’:

222. La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo. Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione di piaceri.

 Vedete come ragionando sulla Laudato si’  ci si  è messa di mezzo tanta storia recente? E come  sono venuti in primo piano argomenti politici? Siamo invitati a costruire un nuovo modello di sviluppo, a realizzare nell’Europa finalmente (ma per quanto ancora?) unita un nuovo modello di civiltà, una rivoluzione sistemica analoga a quelle che cambiarono il nostro continente a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. 
  E' perché lo vuole, lo ordina, un papa?
 Le encicliche sociali sono state sempre un lavoro collettivo, anche se poi è il sovrano religioso che le firma. Ci sono sempre stati molti redattori. Per la Laudato si’,  per ciò che si è saputo, non è andata proprio così. C’è effettivamente proprio il pensiero, e addirittura il lessico, del Papa. Ma le idee che Bergoglio propone non sono in gran parte sue originali, bensì sono state sviluppate in tutto il mondo da un movimento politico - religioso molto vasto, come dimostrano le tante citazioni da testi di Conferenze episcopali. C’è insomma, un popolo che reclama un nuovo modello di sviluppo. Noi, da che parte stiamo?
 Si tratta, come  è chiaro, di un lavoro che coinvolge innanzi tutto la sfera di azione dei laici di fede. La cura della casa comune  compete in primo luogo a loro.
 Ecco dunque l’esigenza di una specifica formazione, che va molto oltre quella catechistica e che deve essere potenziata in particolare a partire da quella post Cresima. C’è necessità di studiare e di fare esperienze. Di incontrare gente, anche al di fuori dell’Italia. Conoscere per progettare il cambiamento. Di imparare a praticare il metodo democratico nella discussione e nelle decisioni. Perché bisogna decidersi in masse e solo la democrazia consente di farlo. Un’organizzazione che bisognerebbe creare anche a livello parrocchiale: è da qui che la gente di fede deve essere educata ad andare oltre, in particolare a ragionare su scala europea e mondiale. A essere consapevole della prospettiva storica dei problemi.
 Nella nostra parrocchia siamo ancora ai primi passi e la dispersione della biblioteca parrocchiale non aiuta.

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Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica sulla base di valori condivisi


  Se consideriamo la storia recente dell’umanità, possiamo constatare facilmente che qualsiasi sistema di potere che abbia voluto correggere la società introducendo limiti basati sull’idea di giustizia sociale, quindi di valori e diritti fondamentali delle persone incomprimibili dai sovrani e dall’economia, ha dovuto far ricorso a livelli vari di violenza politica, per costringere la gente ad adattarsi ai nuovi comandi. Anche la dottrina sociale della nostra fede non ha fatto eccezione. I livelli più intensi di violenza politica a fini di giustizia sociale furono senz’altro espressi dal comunismo sovietico. Ma anche la legislazione sociale democratica è stata presidiata sia dal potere giudiziario che da quello amministrativo, anche con misure coercitive. La legge, anche in un regime democratico sociale,  è tale se ci sono autorità che riescono a farla rispettare.
  Se noi guardiamo all’esperienza politica sovietica, ci rendiamo conto che la rivoluzione che essa espresse fu violenta all’origine, e  quindi fu attuata anche mediante la soppressione e incarceramento di avversari ideologici, comprese persone che appartenevano ad diversi filoni del socialismo rivoluzionario, ma che la violenza politica, con assassinii su larga scala intesi addirittura come decimazioni  di etnie che si ritenevano resistere al potere centrale organizzato dal partito comunista sovietico, si intensificò nel corso del dominio assoluto espresso da Giuseppe Stalin, nativo della Georgia,  dal 1924 al 1953. Questi assassini politici sono apprezzabili addirittura nelle indagini demografiche perché portarono a un decremento della popolazione inspiegabile con altre cause (ad esempio epidemie, guerre ecc.). Fin dall’inizio della rivoluzione sovietica fu organizzato un sistema di deportazione e di lavoro forzato dei condannati politici in appositi campi, chiamati Gulag. Esso rimase in vigore fino al 1987, venendo soppresso durante il dominio politico di Mikhail Gorbaciov, dal 1985 al 1991, durante il quale il sistema politico sovietico si dissolse a seguito di processi democratici inaspettati in Occidente. Durante il dominio politico degli ucraini Nikita Krusciov, dal 1955 al 1964, e Leonida Breznev, molto più lungo,  dal 1964 al 1982, lo sterminio sistematico di coloro che venivano individuati come nemici politici cessò, ma non cessò la persecuzione politica, amministrativa e giudiziaria, punendo i dissidenti anche con l’esilio in Occidente e la revoca della cittadinanza.
  Della violenza politica sovietica fecero le spese molti gruppi sociali, considerati nemici politici, e anche esponenti di alto livello dello stesso partito comunista. In particolare furono colpite le Chiese cristiane e i loro fedeli. La manifestazione della fede cristiana spesso portava all’emarginazione sociale e politica. Nell’Unione sovietica e in altre nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio la religione non era proibita, ma veniva promossa una propaganda di ateismo: le religioni e il clero venivano considerati infatti come strumenti di oppressione della classe operaia e di quella contadina.  
  Con tutto ciò l’Unione Sovietica e le nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio ebbero Costituzioni molto avanzate, con affermazione di diritti sociali che nel resto d’Europa cominciarono ad essere proclamati, in genere, dopo la Seconda guerra mondiale (se si eccettua la costituzione della repubblica tedesca detta di Weimar, corrente tra il 1919 e il 1933).
Ecco, ad esempio il catalogo dei diritti fondamentali contenuto  nella Costituzione sovietica del 1936, fatta approvare da Stalin, quando l’Italia era ancora sotto il dominio del fascismo mussoliniano:

118. I cittadini dell’URSS hanno diritto al lavoro, cioè diritto di ricevere un lavoro garantito e retribuito secondo la quantità e la qualità [delle loro prestazioni].
Il diritto al lavoro è assicurato dall’organizzazione socialista dell’economia nazionale,
dall’aumento incessante delle forze produttive della società sovietica, dall’eliminazione della possibilità di crisi economiche e dalla liquidazione della disoccupazione.
119. I cittadini dell’URSS hanno diritto al riposo.
Il diritto al riposo è assicurato dalla riduzione della giornata lavorativa fino a 7 ore per l’immensa maggioranza degli operai, dall’istituzione di congedi annuali per gli operai e gli impiegati con mantenimento del salario, e dalla predisposizione di un’ampia rete di sanatori, case di riposo e club, posta al servizio dei lavoratori.
120. I cittadini dell’URSS hanno diritto all’assistenza materiale durante la vecchiaia, nonché in caso di malattia e di perdita della capacità lavorativa.
Questo diritto è assicurato dall’ampio sviluppo dell’assicurazione sociale degli operai e degli impiegati a carico dello Stato, dall’assistenza medica gratuita ai lavoratori, e dall’ampia rete di stazioni di cura messa a disposizione dei lavoratori.
121. I cittadini dell’URSS hanno diritto alla istruzione. Questo diritto è assicurato dall’istruzione elementare, generale ed obbligatoria, dal carattere gratuito  dell’istruzione, compresa l’istruzione superiore, da un sistema di borse di studio statali per l’immensa maggioranza degli studenti delle scuole superiori, dall’insegnamento scolastico nella lingua materna e dall’organizzazione dell’insegnamento professionale, tecnico e agronomico gratuito per i lavoratori nelle officine, nei  sovchoz, nelle stazioni di macchine e trattori e nei kolchoz.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica.
La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto dell’uomo al lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale e all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla donna, con mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità, di nidi e di giardini d’infanzia.
123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
124. Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.
125. In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di consolidare il regime socialista, ai cittadini dell’URSS è garantita dalla legge:
a) la libertà di parola;
b) la libertà di stampa;
c) la libertà di riunione e di comizi;
d) la libertà di cortei e manifestazioni di strada.
Questi diritti dei cittadini sono assicurati mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni le tipografie, le scorte di carta, gli edifici sociali, le strade, i mezzi di comunicazione e le altre condizioni materiali necessarie per il loro esercizio.
126. In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di sviluppare l’autonomia organizzativa e l’attività politica delle masse popolari, è assicurato ai cittadini dell’URSS il diritto di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, consorzi cooperativi, organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa, associazioni culturali, tecniche e scientifiche, mentre i cittadini più attivi e più coscienti provenienti dalle file della classe operaia e da altri strati di lavoratori si riuniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, che è il reparto d’avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento e lo sviluppo del regime socialista, e che rappresenta il nucleo direttivo di tutte le organizzazioni dei lavoratori, sia sociali che statali.
127. Ai cittadini dell’URSS è assicurata l’inviolabilità della persona. Nessuno può essere sottoposto ad arresto se non in base a sentenza(postanovlenie) di un tribunale o con la conferma del procuratore.
128. L’inviolabilità del domicilio dei cittadini e il segreto della corrispondenza epistolare sono tutelati dalla legge.
129. L’URSS accorda il diritto di asilo ai cittadini stranieri perseguitati per avere difeso gli interessi dei lavoratori, o per la loro attività scientifica, o per avere partecipato a lotte di liberazione nazionale.
130. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto ad osservare la Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ad eseguire le leggi, ad osservare la disciplina del lavoro, a comportarsi con onestà nei confronti del dovere sociale e a  rispettare le regole della convivenza socialista.
131. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto a salvaguardare e a consolidare la proprietà sociale socialista, come base sacra e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza e della potenza della patria, fonte di vita agiata e civile per tutti i lavoratori.
Coloro che attentano alla proprietà sociale, socialista, sono nemici del popolo.

  E’ chiaro che, tuttavia, la gran parte dei diritti di incolumità sociale e libertà rimasero solo proclamazioni formali nei sistemi sovietici e in quelli che ad essi si ispiravano, perché nei fatti veniva repressi e negati. Nell’Europa occidentale cominciarono ad essere proclamati e attuati nel secondo dopoguerra, dopo la caduta dei regimi nazifascisti. Un esempio di ciò è  stata storicamente la Repubblica italiana.
  In particolare, nei sistemi sovietici e di ispirazione sovietica, non era ammessa l’iniziativa economica privata, se non su minima scala. I regimi comunisti si proponevano di selezionare i bisogni degni di essere soddisfatti e di soddisfarli con una propria organizzazione produttiva. In realtà non si riuscì mai a conseguire questo scopo e la vita nelle nazioni governate da regimi comunisti appariva significativamente più misera di quella delle popolazioni degli stati Occidentali. Anche l’arte e la scienza ne risentirono. Il penetrante controllo politico ne limitò l’efficacia e l’originalità.
  L’attuazione dei diritti sociali fondamentali nell’Europa Occidentale si sviluppò con procedure democratiche dal secondo dopoguerra, dalla metà degli anni ‘40. Questo consentì di ottenere risultati importanti con il minor grado di coercizione possibile. Infatti in democrazia si fa conto sull'adesione volontaria alle decisioni collettive, a prescindere da sanzioni. La nuova Europa dei nostri tempi, che affratella anche nazioni che si liberarono dai regimi comunisti a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, segue ancora questo metodo. La democrazia comporta che non possano esistere poteri pubblici o privati illimitati: ogni potere deve averne un altro che lo limiti e lo controlli. Il problema dei nostri tempi è l’eclissi dei diritti sociali sotto l’aggressione dei sistemi di potere privati globalizzati, in grado di condizionare interi stati. Gli stati e le istituzioni sovranazionali, come l’Unione Europea, non si trovano a dover combattere poteri che loro esplicitamente  si oppongano, ma si trovano a dover soggiacere ad un sistema economico e sociale al quali essi stessi partecipano, trovandone risorse per i programmi pubblici. I problemi economici appaiono quindi come provocati da una sorta di fenomeni naturali, come i terremoti, contro i quali c’è poco da fare, in particolare per indirizzare a fini sociali, come la nostra Costituzione ancora prevede, l’iniziativa economica privata, che è libera, ma anch’essa, in quanto potere privato, ha dei limiti, in particolare nella sicurezza, libertà e dignità umana e nei programmi e controlli pubblici perché possa essere indirizzata e coordinata  a fini sociali  (così è scritto nell’art.41 della Costituzione). Possiamo dire che questi obiettivi siano raggiunti, oggi, in Italia?
  Mantenere una via democratica all’affermazione dei diritti fondamentali sociali nelle società avanzate Occidentali contemporanee è il grande problema dei nostri tempi.
 La dottrina sociale è piena di proclamazione di grandi diritti sociali, come gli articoli della costituzione sovietica che ho sopra trascritto, ma renderli vivi tra la gente richiede che ci si addestri nel metodo democratico, perché è esso che fa funzionare i poteri pubblici nell’Europa di oggi: non c’è da attendersi da nessun uomo forte che produca il risultato a cui si mira. I governi, anzi, appaiono deboli di fronte alle temperie economiche globali che minacciano i diritti fondamentali della gente. Ecco dunque che devono essere incalzati dalla gente, appunto con metodo democratico.
 E’ quanto siamo invitati a fare nella Laudato si’:
178. Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri.
179. [… ] Poiché il diritto, a volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni  ambientali.
181. […] Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.
 Ecco perché la formazione e soprattutto il tirocinio alla democrazia dovrebbe rientrare in quella alla vita di fede, in particolare per il laico.

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L’illusione dell’«uomo forte»

 C’è sempre, nell’esperienza sociale, la tentazione di affidare la realizzazione del bene comune all’azione di un “uomo forte”. C’è  in politica, come in religione e in tutti gli altri campi della vita umana in cui certi risultati possono ottenersi solo con un lavoro collettivo.
  Che cos’è il bene comune? Se ne sono date molte definizioni. Si parte sempre, però, dall’idea che gli esseri umani per essere felici dipendono dagli altri. La loro felicità dipende dall’ambiente in cui sono inseriti. E non basta l’appagamento dei bisogni: è esperienza comune che anche i ricchi soffrono. Tanto più che nell’era contemporanea l’economia delle società più ricche sembra dipendere dalla creazione incessante di nuovi bisogni e, quindi, su un costante loro inappagamento. E infatti nelle straricche società occidentali l’esperienza della gioia, del sentimento di appagamento interiore, è rara. Si può concludere che viviamo in un ambiente sociale che non favorisce la felicità, che è difficile da raggiungere nonostante ognuno nella propria vita si sforzi di farlo. Bisognerebbe introdurre delle modifiche, ma trattandosi lavorare su una società,  c'è da fare un lavoro collettivo. Ci siamo però disabituati a svolgerlo: esso  è propriamente la politica. Ognuno tende a fare per sé, a sviluppare una propria idea di società che gli consentirebbe di essere felice. Così ci sono moltissime idee di società felici, ma poi la società corre come abbandonata a sé stessa, perché non ci si riesce a mettere d’accordo su come modificarla. Bisognerebbe infatti tener conto anche delle aspirazioni alla felicità altrui.  Ma c’è sempre il sospetto che ciascuno voglia fare solo gli affari propri. E spesso esso risulta fondato. Così manca la fiducia nel prossimo e quindi la possibilità di svolgere un lavoro comune. E’ difficile fare unità dalla molteplicità delle nostre vite. E’ in questo momento che sorge la tentazione dell’ “uomo forte”: una persona a cui affidare tutte le nostre speranze e che, con autorità non più contestabile, ponga fine alle discordie e decida una linea. Trattandosi di una persona sola, sia pure con molta autorità, pensiamo che sia più facile liberarsene, quando non ci andrà più bene. Nell’immaginazione comune i molti prevalgono sui singoli. Temiamo di più i molti, per di più anarchici, senza una forza che li tenga a bada e ci protegga da loro, che la singola autorità personalizzata. Questo però è un grave errore. Prendendo consapevolezza della storia dell’umanità possiamo facilmente convincerci che nulla è più stabile, nelle società umane, dei poteri molto personalizzati, come erano quelli dei monarchi assoluti che dominarono l’Europa fino al faticoso emergere delle democrazie, dalla fine del Settecento. O come furono i despoti sovietici che ho ricordato in un post  di due giorni fa: Giuseppe Stalin, Nikita Krusciov, che pure dichiarò di voler liberare la politica da quello che chiamò il culto della personalità, Leonida Breznev (del fondatore del comunismo sovietico, Lenin, non possiamo dire se sarebbe divenuto un despota, perché regnò solo per sette anni, mentre l’ultimo capo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov non volle più essere un despota, ma, a quel punto, il sistema sovietico si dissolse). O, in Italia, il capo del Governo in epoca fascista, Benito Mussolini, che chiamammo Duce, il condottiero di un’intera nazione, un padre  della patria, in tutti i sensi il modello a cui noi italiani pensiamo subito quando parliamo di  “uomo forte”. Egli ebbe nelle sue mani l’Italia per un ventennio. E anche in religione, nella nostra fede, noi facciamo molto conto su “uomini forti”: le nostre collettività religiose sono infatti organizzati, almeno formalmente, sotto il potere assoluto di un’unica persona, la cui autorità è stata storicamente costruita come quella di un imperatore religioso: questo sistema di governo dura ormai da mille anni.
    Nel corso della campana per il referendum costituzionale, si è evocata, a proposito dei possibili effetti della riforma costituzionale che tra poco sarà oggetto di un referendum, l’esperienza politica dispotica del capo di stato Augusto Pinochet, che dominò il suo popolo dal 1973 al 1990.  Ma il paragone con l’esperienza cilena è improprio ed esagerato, se riferito all’attuale situazione politica italiana, che si muove ancora saldamente entro procedure democratiche. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’90, di fronte all’apparente disgregazione e dispersione della politica nazionale, si seguì la via di personalizzare  molto il confronto politico, creando quelli che vengono definiti partiti personali, quelli che fanno riferimento ad un preciso capo politico, del quale spesso viene inserito in nome nel simbolo di partito. I maggiori partiti politici nazionali sono attualmente organizzati come partiti personali. Se si pensa a quelle formazioni non viene in mente un preciso programma politico, ma la persona del capo di riferimento. E’ questo il metodo migliore per capire se un partito è o non è personale. I capi dei partiti personali  reclamano poi mano libera, e chiedono la fiducia  in questo la fiducia di chi li vota. Così spesso i cittadini elettori sono posti nelle condizioni di coloro che firmano cambiali completamente in bianco.
  Tutti i capi dei partiti personali  parlano di riforme. Quali saranno precisamente? Non lo dicono. Ci assicurano che ci cambieranno la vita in meglio. Ma come facciamo a valutarne l’affidabilità senza che ci vengano esposte nel dettaglio? Quando però viene fatto, emergono tanti problemi e soprattutto ciascuno capisce che, quando ci viene detto che le riforme sono necessarie  ma  dolorose, non è solo agli altri che recheranno dolore. Rimanendo sul vago questo problema viene superato. Ognuno pensa al  bene comune  che ha in mente, e non viene contraddetto dagli aspiranti riformatori,  i quali spesso sono in buona fede perché neppure loro hanno in testa un preciso progetto di riforme, e può prevedere che il dolore  sarà solo a carico di altri.
  E’ stato osservato che la recente riforma costituzionale riduce di molto il peso del Senato nelle decisioni che il Parlamento deve prendere in seduta comune, vale a dire riunendo deputati e senatori e facendoli votare. E questo perché il Senato passa da trecentoquindici membri, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della Repubblica) e quelli di nomina presidenziale (per aver “illustrato” la Patria), a cento membri, compresi nomina presidenziale, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della Repubblica). Tenendo conto che il sistema elettorale per la Camera di deputati assegna al partito che riesca a conseguire il 40% dei voti validi degli elettori o riesca a vincere il ballottaggio tra i due più forti partiti di minoranza una solida maggioranza assoluta, e tenuto conto dell’analogo effetto che viene prodotto dai sistemi elettorali regionali e comunali e dunque sulla composizione dei consigli regionali (che, secondo la riforma costituzionale, nomineranno i senatori) e sulla scelta dei sindaci (tra i quali verranno scelti alcuni senatori), possiamo prevedere che probabilmente, quando il Parlamento deciderà in seduta comune, il partito che esprime il Governo avrà la possibilità di far approvare le sue scelte. Il Parlamento, secondo la riforma costituzionale, nominerò  in seduta comune il Presidente della Repubblica  e un terzo (otto membri) dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. Poiché può prevedersi che, nell’attuale scenario politico, i partiti che avranno la possibilità di vincere le elezioni politiche saranno partiti personali, ecco che si può temere che il capo del partito personale  vincitore avrà la possibilità di far approvare le sue scelte personali  in materia. Dunque che la più importante istituzione di garanzia costituzionale, la Presidenza della Repubblica, finisca ad essere assegnato a persona di fiducia del capo del partito personale. E che l’influenza del medesimo capo politico sulla magistratura, dalla quale dipende l’attuazione dei diritti dei cittadini, in modo che non rimangano solo sulla carta come begli enunciati formali, aumenti di molto rispetto alla situazione attuale, incidendo sull’indipendenza dei giudicanti dal potere di governo. Anche sotto questo profilo la riforma costituzionale va verso un maggior potere personale  di governo. Del resto è proprio questa la soluzione che i capi politici contemporanei propongo in Italia: un potere personale, di un uomo  forte (i capi personali  dei maggiori partiti politici sono attualmente uomini), per superare lo stallo che in politica è determinato che non ci si riesce a mettere d’accordo, quindi dal fatto che, in definitiva, la gente non sa più fare politica. Infatti la politica non è fatta solo di  chiacchiere, in cui ognuno dice la propria  e rimane della propria opinione, che risulta poi incomponibile con quella degli altri, ma si costruisce sul dialogo,  che significa tener conto anche delle ragioni degli altri e proporsi di arrivare ad un’intesa. Dal dialogo  poi scaturiscono decisioni  condivise.
 Un’ultima considerazione: gli  uomini forti  degradano rapidamente. Un potere senza sufficienti e autorevoli contrappesi, innanzi tutto nella politica democratica espressa dalla base dei cittadini, tende all’abuso e all’eccesso. Per ricordare l’esempio sovietico, viene riferito  che Leonida Breznev, il quale dominò un immenso impero socialista  per circa un ventennio, sviluppò una passione personale per le automobili più costose prodotte in Occidente, che amava guidare personalmente: ne aveva una vasta collezione e, personalmente, non vi trovava alcuna contraddizione con gli ideali socialisti proclamati. E’ questa una dinamica che si riscontra, in genere, nella gran parte degli uomini forti, papi compresi (se si eccettua quelli, molto più sobri in questo, degli ultimi due secoli). L’orgoglio di uomo forte  grida veramente sfacciato, ad esempio, dal frontone del grande chiesone vaticano.  Leggere per credere. Dice sostanzialmente: "L'ho fatto io!".

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Come bambini


Diventare come bambini?
  Non in tutto è bene proporselo.
  E’ scritto anche che quando si è bambini si ragiona da bambini, ma quando si è adulti…
  In particolare: negli affari di stato è un atteggiamento giusto ragionare e agire come bambini?
  Perché educare  la gente se poi, ad esempio in politica, deve tornare bambina?
  L’anti-politica, che poi sarebbe meglio chiamare non-politica, si basa proprio su questo rimbambimento della gente, per cui ci si decide senza tanto pensarci su, per ripicca, per contrapposizione superficiale, e, soprattutto, in opposizione ai grandi.
  Che succederebbe se ai bambini riuscisse di controllare i grandi? Proverebbero a farlo, poi però, non sapendo che fare senza di loro, e vedendo rapidamente degradare l’ambiente intorno, li riporterebbero al potere. Un bambino fatalmente dipende dai grandi, proprio perché è bambino e ha dei limiti. Può anche giocare a fare  l’adulto e allora questo è un modo di imparare a crescere, ma se tutto fosse affidato a lui andrebbe rapidamente  in malora.
  Il principale problema politico oggi in Italia è che molta gente, nelle questioni di stato, ragioni e agisca da bambina. La pratica della rete telematica, i rapporti via WEB, incoraggia a farlo. Sul WEB una persona si può sentire onnipotente, come nei videogiochi. Toccando l’icona “CANCELLA”  si può ripartire da capo.  E’ più facile seguire la corrente e non c’è tanto bisogno di studiare sui problemi. Può sembrare strano, ma la vita sul WEB induce molto conformismo: si tende a fare come gli altri. Del resto non c’è tempo per riflettere. Le decisioni devono essere immediate: “SI’” o “NO”. Si sa subito chi ha vinto. E ricomincia la partita.  
  Bisogna però considerare che certe decisioni politiche sono difficilmente reversibili. Una scelta sbagliata può peggiorare la vita di un popolo molto rapidamente e molto a lungo. In particolare questo accade quando si modificano i principi fondamentali che reggono la struttura degli stati, quelli contenuti nelle costituzioni. E’ appunto quello che sta per accadere in Italia, in una data che non si sa ancora quando sarà ma che sarà a breve, entro il prossimo dicembre. Quando voteremo al referendum sulla recente riforma costituzionale.
  I fautori della riforma dicono che essa non riguarda diritti e doveri delle persone, ma solo l’organizzazione dei principali organi dello stato. Essa tuttavia può potenzialmente incidere su quei diritti e doveri, perché, riformando Parlamento, Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale, incide sugli organi ai quali compete la  formulazione e tutela dei principi costituzionali. Se si mettono questi tre organi costituzionali potenzialmente nelle mani di una minoranza, nella specie del maggiore dei partiti di minoranza, e questo potrebbe essere l’effetto della riforma costituzionale combinata con quella precedente del sistema elettorale della Camera dei deputati, tutta  la Costituzione potrebbe rapidamente cambiare, anche nei principi fondamentali, ad esempio nel principio di uguaglianza e nel diritto al  lavoro e alla salute, e nel breve periodo non ci si potrebbe fare nulla. Non c’è un tasto “CANCELLA” in queste cose.
   In precedenti interventi ho analizzato la riforma costituzionale sotto vari aspetti.   
  Voglio qui segnalare che essa, come detto, riguarda anche la Corte Costituzionale. Attualmente un terzo dei suoi membri, cinque, vengono eletti dal Parlamento in seduta comune.  Anche dopo la riforma in alcuni casi le Camere decideranno in seduta comune: per la nomina del Presidente della Repubblica e per la nomina di otto membri del Consiglio superiore della magistratura, l’organo che è alla base dell’indipendenza dei giudici da ogni altro potere dello stato e, quindi, dell’indipendenza della giurisdizione dall’influsso degli altri poteri. In questa sede il nuovo Senato conterà molto meno perché avrà due terzi di membri in meno.  Possiamo immaginare, quindi che la decisione del partito di minoranza relativa, quello che secondo la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati avrà vinto  le elezioni, e lo si saprà subito, conseguendo la maggioranza  assoluta  dei deputati, conterà molto di più in quelle decisione.
  Per quanto riguarda la scelta dei giudici costituzionali, invece, il Senato, quel Senato piuttosto depotenziato che uscirà della riforma, scaturito da una classe politica locale in genere controllata dai partiti egemoni a livello nazionale, conterà invece molto di più. Pur avendo un sesto dei membri rispetto a quelli della Camera dei deputati, nominerà due giudici costituzionali su cinque. Perché? Non è ben chiaro la ragione di questa scelta, che potenzialmente può pesantemente incidere sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale e quindi sull’attuazione dei diritti della gente.
  Possono immaginarsi tre  scenari.
  Il primo: sfruttando le possibilità offerte dai sistemi maggioritari vigenti per le elezioni regionali e comunali un partito riesce a controllare la maggioranza delle Regioni. A quel punto esso controllerà anche la nomina dei due giudici costituzionali da parte del Senato. Ma, poiché la nomina di quei giudici si farà in molto meno senatori di oggi, sarà più facile controllarla. Controllare i novantacinque persone, quanti saranno i nuovi senatori nominati dai consiglieri regionali, sarà più facile che controllarne trecentoquindici, quanti sono oggi i senatori. Ma, soprattutto, poiché la carica di senatore dipenderà da quella come consigliere regionale e sindaco, sarà più facile controllare i senatori con la minaccia di provocare in sede locale una crisi politica che porti alla decadenza anche dalla carica in Senato.
 Il secondo: per le procedure di nomina dei senatori, che con la riforma non saranno più contestuali con quelle dei deputati, in quanto il nuovo Senato si rinnoverà parzialmente ad ogni elezione regionale, ci potrebbe essere una marcata divergenza politica tra Camera dei deputati e nuovo Senato. In questo caso la nomina dei giudici costituzionali fatta dal Senato potrebbe essere fatta dalla maggioranza di controllo del Senato per organizzare una resistenza contro la maggioranza che controlla la Camera di deputati. Questo inciderebbe sull’unitarietà e sullo spirito di collaborazione nel collegio dei giudici costituzionali. Potrebbero essere molto di più di oggi le decisioni prese con esigue maggioranze.
 Il terzo: il Senato potrebbe cadere in mano a politiche centrate su  particolarismi locali, secondo i quali ad esempio che ogni Regione debba fare da sé, con le proprie risorse, senza poter contare sulla solidarietà delle Regioni più ricche. In questo caso questa tendenza si rifletterà sulla giurisprudenza costituzionale attraverso i membri nominati dal Senato.
  I riformatori costituzionali sono ben consapevoli di quei problemi, come anche degli altri che nei precedenti interventi ho segnalato. Ritengono che, comunque, si debba procedere perché una riforma imperfetta  è pur sempre meglio che nessuna riforma. Questo però non è condivisibile, trattandosi di una riforma  costituzionale. Come tale essa sarà difficilmente reversibile e potrebbe produrre, sotto l’azione di minoranze spregiudicate favorite dai sistemi elettorali maggioritari vigenti per le elezioni nazionali e locali, ulteriori importanti effetti sul sistema dei diritti e doveri dei cittadini: del resto è proprio a questo che si punta, quando si dice che la riforma costituzionale aprirà la strada alle riforme.  Di queste ultime si sa poco, perché chi ne parla non fornisce di solito particolari. Di solito quelle recenti sono state dolorose per le masse dei lavoratori: hanno ridotto le prestazioni di stato sociale. E’ stato osservato che, paradossalmente, le prestazioni di stato sociale, l’intervento dello stato a sostegno di componenti della società in difficoltà, sono state mantenute, e incrementate solo per i ceti più ricchi. Il principio “Meno tasse!”  e il sostegno alle banche ne sono stati espressione.
 Una riforma imperfetta, che è tale fin dall'inizio, che nasce imperfetta, funzionerà in maniera imperfetta. Essendo una riforma costituzionale essa influirà sul complessivo funzionamento dello stato, rendendolo imperfetto. La sua imperfezione  renderà difficile correggerla, perché le  riforme della riforma imperfetta  dovranno farsi proprio con le procedure costituzionali della riforma  imperfetta che ci si propone di riformare.
 Le riforme costituzionali devono essere fatte bene, molto bene, fin dall'inizio, pena grossi guai.
 Come funzionerà una riforma imperfetta? A volte è difficile prevederlo. Proprio la sua imperfezione la rende imprevedibile. Alcuni costituzionalisti pronosticano gravi problemi di coordinamento tra le istituzioni di vertice. Hanno osservato, ad esempio, che, al posto dell'unica procedura per fare le leggi, dopo la riforma ce ne saranno una decina. 
 Bisogna anche tener presente che non è vero che il sistema costituzionale attualmente vigente abbia impedito riforme, anche costituzionali. Gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo millennio, ad esempio, sono stati epoche di intense riforma. Tra l’altro anche la riforma costituzionale attualmente in questione è stata approvata dal Parlamento com’è oggi. Quello che in genere si è riusciti a impedire è la prevaricazione di maggioranze risicate ma intraprendenti. Nel nuovo sistema, tutto rischia addirittura di essere posto nelle mani della maggiore tra le minoranze politiche.
  La riforma costituzionale in questione cambia una parte significativa della Costituzione vigente e tratta quindi molte materie. Studiare i problemi costa tempo e fatica. E la decisione con un “SI’” o un “NO” non rende le cose più semplici, anzi. Tende a ridurre tutto a qualcosa come un videogioco. E genera la tendenza a decidersi sulla base della fiducia che si ha in uno dei capi dei partiti  personali  di oggi.
 La riforma è stata approvata su impulso dell’attuale Governo e allora si potrebbe pensare di avere un’idea dei suoi effetti tenendo conto del programma politico del suo attuale capo. Ma, una volta approvata la riforma, non è sicuro che sarà proprio lui a beneficiarne. E le statistiche, infatti, segnalano che il suo partito, se si votasse oggi per l’elezione dei deputati, non vincerebbe le elezioni. Sarà la maggiore delle minoranze, anzi il maggiore dei partiti  di minoranza,  a controllare la Camera dei deputati e, probabilmente, prima o poi, man mano che lo si rinnoverà di elezione regionale in elezione regionale, anche il Senato.
 Se i bambini potessero scegliere, quali grandi  vorrebbero avere per genitori? Se glielo si chiede, in genere, pensano che i loro attuali genitori siano i migliori per loro. I bambini in genere sono piuttosto conservatori. Oppure, se in un certo momento sono in urto con i genitori, magari dicono di volere come genitori dei grandi  che li assecondino in tutto. Ma non sempre, in realtà, i genitori che hanno sono i migliori che si possano pensare per loro e sicuramente un genitore che assecondi in tutti i suoi figli da bambini non è un buon genitore. Per i bambini la capacità realistica  di giudizio sui grandi  e poi l'acquisizione della  piena cittadinanza, sviluppando la medesima capacità di giudizio, sono conquiste culturali che dovrebbero raggiungere crescendo, all’interno di un processo educativo. Alla fine non ragionano più come bambini. Perché il ragionamento dei bambini è imperfetto, insufficiente.
  Com’è che gli adulti, talvolta, di fronte a scelte cruciali per la vita della nazione, sembrano ragionare come bambini? Si può pensare che non si sia curata sufficientemente la loro formazione politica permanente, per cui poi essi si siano lasciati andare, o siano regrediti, si siano lasciati trascinare dalla corrente, abbiano dimenticato l’educazione civica ricevuta a scuola, e in definitiva ora non sappiano più fare altro che ragionare e comportarsi  come i bambini.
 Del resto, lo vediamo in parrocchia: quando mai nella formazione religiosa, che dovrebbe comprendere anche la consapevolezza e la pratica dei principi della dottrina sociale, si è trattato del modo in cui si deve fare il cittadino in una nazione democratica come la nostra, in cui il voto è decisivo per imprimere svolte alla vita pubblica? I cattolici hanno dato un grandissimo contributo alla costruzione della Repubblica democratica e li troviamo anche tra gli ideatori dell’attuale riforma costituzionale. Il problema però non è nelle classi colte, negli elementi di punta dei cattolici italiani, ma nelle masse cattoliche, quelle stesse che, negli anni Venti del secolo scorso, assecondarono l’avvento del fascismo mussoliniano.
  L’Azione Cattolica, in ACR, sta svolgendo un progetto di formazione alla politica fin dai bambini più piccoli. Possiamo immaginare che tra una decina d’anni avremo adulti di fede più consapevoli e maturi. Ma è oggi  che, per certi versi, si decide il loro futuro. Vivranno infatti nello stato che scaturirà dal prossimo referendum costituzionale.

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Non un referendum sulla Costituzione, ma solo su una legge di revisione costituzionale

    Nel settembre 2016 il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha invitato gli italiani a informarsi personalmente in merito al prossimo referendum sulla Costituzione. Avverto però che quello del prossimo 4 dicembre non sarà, in realtà, un referendum sulla Costituzione, ma solo su una legge di revisione costituzionale che, benché piuttosto estesa, comunque lascia immutata la gran parte del testo costituzionale. I diritti e di doveri dei cittadini nei rapporti civili, etico sociali,  economici, politici non vengono mutati. Non cambieranno il principio di eguaglianza tra i cittadini  e il riconoscimento dei diritti inviolabili degli esseri umani. Tuttavia è vero che, incidendo sulla struttura e il funzionamento del Parlamento, sulla nomina e poteri del Presidente della Repubblica e sulla nomina dei giudici della Corte Costituzionale, vale a dire sugli organi di vertice della Repubblica nelle cui mani è affidata l’intera Costituzione, la riforma è suscettibile di avere riflessi importanti anche sulle parti non formalmente modificate. La Costituzione potrebbe cambiare rapidamente anche in quelle parti, sotto l’impulso di un processo riformatore  del governo che è la principale finalità che si propongono i fautori della riforma. Infatti la riforma costituzionale è presentata come il passo necessario per arrivare a riforme in grado di risolvere i problemi italiani. Quali saranno queste riforme non si sa bene, i riformatori  sono piuttosto vaghi e, soprattutto, volubili in merito. Ecco che, ad esempio, solo qualche settimana fa, nell’emozione del terremoto dell’Italia centrale, pensavano di avviare un programma di messa in sicurezza dal punto di vista sismico di tutti gli edifici sul territorio, che richiederebbe ingentissime risorse pubbliche, e ieri invece hanno rispolverato il progetto di un ponte sospeso sullo stretto di Messina, che si presenta anch’esso costosissimo: questo mentre il Governo si dibatte tra gravi difficoltà di bilancio, non avendo di che finanziare progetti molto meno costosi e addirittura l’ordinario, come le pensioni e la sanità, e proponendosi, per di più, di ridurre le tasse.
   Ho analizzato nel dettaglio la riforma costituzionale oggetto del referendum. Essa è fortemente controversa tra i partiti politici. E’ stata ideata e approvata sotto l’impulso dell’attuale Governo, che ne ha fatto uno dei principali punti del suo programma. L’approvazione della riforma, come notato da diversi commentatori, ha visto delle forzature, nella specie delle restrizioni, del dibattito parlamentare mediante procedure di eliminazione degli emendamenti. Si è proceduto, insomma, a tappe forzate. E di questa fretta, inusuale in un dibattito su una riforma costituzionale, per di più così estesa come l’attuale, si è anche data la colpa all’«Europa», presentando la riforma come qualcosa che ci veniva chiesta in sede europea. In realtà non è così. La riforma è integralmente un prodotto nazionale. E’ patrocinata dall’attuale Governo perché rafforzerebbe la posizione del Governo nel quadro costituzionale. E questo in particolare per l’effetto di un’altra riforma, attuata con legge ordinaria, quella sul sistema elettorale per la Camera dei deputati. Quest’ultima mette la maggioranza assoluta della Camera dei deputati nelle mani del maggiore dei partiti di minoranza, anche se piuttosto piccolo: poiché gli attuali maggiori partiti sono partiti  personali, vale a dire egemonizzati da una singola figura politica, ciò significa mettere la Camera dei deputati nelle mani di quella singola persona egemone. E la riforma Costituzionale assegna alla competenza esclusiva della Camera dei deputati le materie che si fanno rientrare in quelle da riformare, l’ambito della cosiddette future  riforme. Va anche detto che la maggioranza assoluta assegnata dalla nuova legge elettorale della Camera dei deputati al maggiore dei partiti di minoranza è piuttosto prossima ai due terzi dei componenti: basterebbe al partito favorito ottenere l’alleanza con una formazione minore per raggiungerla. A quel punto, veramente, l’intera Costituzione sarebbe nelle mani della maggioranza politica egemonizzata da un partito personale  e, in definitiva, dalla persona egemone.
 Purtroppo la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati non  è oggetto del prossimo referendum. In questi giorni molti vorrebbero cambiarla: come non si sa bene. Di fatto gli effetti della riforma costituzionale dipenderanno molto da che tipo di legge elettorale sarà in vigore per l’elezione della Camera dei deputati. Vigente quella approvata recentemente, gli effetti saranno quelli che ho sopra ricordato. Però essi potrebbero cambiare se mutasse il sistema elettorale per la Camera dei deputati. Si ha quindi il paradosso di una riforma costituzionale i cui effetti dipenderanno da una legge ordinaria. Questo non dovrebbe mai avvenire. E’ un segno della frettolosa e non sufficientemente meditata stesura della riforma costituzionale, che anche in altre parti, come ho ricordato nei precedenti post, reca le tracce evidenti di una tecnica legislativa insufficiente. Trattandosi di materia costituzionale sarebbe stato meglio rifletterci in modo più approfondito: ma è appunto il tempo per farlo che è mancato a causa delle strozzature del dibattito parlamentare, della fretta di fare quello che ci chiedeva l’Europa. Salvo poi scoprire che nessuna istituzione europea ha mai chiesto all’Italia ciò che si è voluto realizzare.
  Informarsi sulla riforma richiede tempo e una certa fatica. Incide su una materia molto estesa e piuttosto tecnica. Sulla struttura del Parlamento, sui poteri parlamentari, su quelli del Governo e della Presidenza della Repubblica, sul bilanciamento di poteri tra Stato e Regioni.
 Nei giorni passati si è dibattuto aspramente sul testo del quesito referendario sul quale dovremmo esprimerci con un “Si’” o con un “No”. Esso riporta il titolo  della legge di riforma, che, a sua volta, richiama gli scopi dei riformatori. In particolare fa riferimento alla riduzione dei costi del funzionamento delle istituzioni: i contrari alla riforma pensano che la gente, leggendo questo, sia spinta emotivamente a confermare la riforma. E potrebbe essere così, visto il generale discredito di molte nostre istituzioni e, in particolare, della “politica”. Ma non ci si può fare nulla, se non aiutare la gente a informarsi meglio. E’ vero che viene ridotto il numero dei parlamentari, ma questo rafforza la posizione del Governo a scapito del Parlamento. Ci conviene? I costi della politica risulteranno ridotti, ma di quanto? I calcoli che si fanno realisticamente indicano un risparmio piuttosto modesto, perché, in particolare, il Senato, con palazzi e dipendenti, non sarà abolito, e le Province lo saranno ma saranno sostituite da organizzazioni analoghe, le Città metropolitane.
 Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, con i suoi sessantacinque membri, sarà effettivamente abolito, con un risparmio, ho letto, di circa otto milioni di euro all’anno. Doveva consentire alla categorie produttive, alle forze del lavoro, di contribuire all’elaborazione della legislazione economica e sociale. Di fatto il suo contributo è stato sempre insufficiente. Perché? Fondamentalmente perché la legislazione economica e sociale è stata sempre monopolizzata dal partito di governo. Ma anche perché i suoi membri, in maggioranza scelti tra le categorie produttive non hanno dimostrato una sufficiente autonomia rispetto alle forze politiche e sindacali nazionali. Abolire il CNEL comporterà un risparmio, ma verrà anche meno una importante, anche se mai veramente colta, opportunità per le forze produttive di incidere sulla politica nazionale.
 Spenderemo un po’ di meno, per Parlamento, autonomie locali e CNEL, ma avremo anche di meno. Un Senato e Città metropolitane composti da membri a mezzo servizio, non più eletti dai cittadini. Si ridurrà il ceto politico rappresentativo dei cittadini a vantaggio del Governo, che verosimilmente sarà espresso da uno dei partiti personali che vanno per la maggiore. Si ridurranno le occasione per partecipare a determinare la politica nazionale.
 Un’ultima notazione. Si dice che con la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati si saprà subito  chi ha vinto. Però scoprirlo potrebbe non essere tanto bello.
 L’attuale Governo, ad esempio, pensa di beneficiare della riforma costituzionale e di essere il Governo che, dopo la riforma, procederà alle successive riforme. Tuttavia  i sondaggi demoscopici non confermano questa previsione. Così, non potendosi prevedere realisticamente chi gestirà le  riforme, non è possibile nemmeno avere un’idea di come esse saranno.  E questa incertezza riguarda anche materie molto importanti. Infatti il capo di uno degli attuali partiti personali  che risultasse egemone in politica grazie agli effetti combinati della riforma costituzionale e di quella per l’elezione della Camera dei deputati avrebbe la concreta possibilità di cambiare rapidamente il volto della Repubblica, senza che i cittadini possano fare granché. E’ appunto ciò che la Costituzione approvata nel 1947 intendeva evitare, essendo all'epoca ancora viva la memoria recente e dolorosa dell’esperienza politica del fascismo mussoliniano, l’archetipo, il primo e fondamentale modello, dei partiti politici personali  italiani.

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Capire la politica

  Informarsi sulla legge di revisione della Costituzione sulla quale voteremo al referendum del prossimo 4 dicembre richiede di sforzarsi di capire la politica. In Italia le masse delle persone di fede sono state protagoniste della politica dalla fine del Settecento e, sotto certi aspetti, lo sono ancora. La differenza rispetto al passato è che lo sono in modo molto meno consapevole e convinto. Del resto è un problema che riguarda più in generale la democrazia italiana, come anche quella europea. Ognuno è spinto nel proprio privato e i capi politici pensano di poter influire sulla gente, raccogliendone il consenso, non innescando processi collettivi, ma raggiungendo le persone, ad una ad una, in quei piccoli mondi separati in cui si sono recluse. Questo impedisce di ragionare insieme sulle cause sociali dei problemi della gente. Si tratta di un atteggiamento deresponsabilizzante, sia per i capi politici sia per le masse. E' l'antipolitica, il contrario della politica: politica è ragionare e programmare insieme agli altri, consapevoli di vivere in quella che è stata definita recentemente, con un bella immagine, la "casa comune". Le soluzioni proposte dalla politica ne risentono. Si cerca di venire incontro al privato della gente, senza tener conto della coerenza dell’insieme, in particolare della sostenibilità economica delle misure progettate. Si cerca di sollecitare dai cittadini atteggiamenti fideistici, insomma l’accettazione di cambiali sociali in bianco. Si propone come positivo il cambiamento per il cambiamento, come se la direzione del cambiamento non fosse importante, soprattutto quando si tratta di riformare le fondamenta dello stato. Si propone una riduzione della classe politica che, a ben vedere, comporta anche un suo degrado, meno autonomia di giudizio, meno collegamenti con i cittadini elettori. Si tace che si cerca di ottenere la coerenza dell’azione di governo sostituendo una classe politica pluralista, rappresentativa delle varie componenti della società, con una di stretta osservanza partitica, scelta da capi autoreferenziali. E i maggiori partiti nazionali sono oggi partiti personali,  vale a dire centrati sulla figura di un capo carismatico, e i loro capi non sono parlamentari. In un certo senso quello che negli anni ’70 fu una anomalia limitata, una politica extraparlamentare, oggi è diventata la normalità.  L’eclisse del Parlamento, che è il senso della riforma costituzionale sulla quale voteremo al prossimo referendum, è la manifestazione di una grave crisi della politica nazionale, la presa d’atto che non è possibile fondare una nuova politica democratica, che coinvolga nuovamente la partecipazione informata, consapevole, responsabile delle masse.
  Capire la politica richiede uno sforzo e, innanzi tutto, la volontà di essere parte dei processi democratici. Una vita di fede persa dietro fantasie neobibliche e spiritualismi vari, centrata su neocomunità fortezza timorose di tutto ciò che si muove intorno a loro nella società e pronte a vedervi l’azione del demonio, non è l’ambiente giusto. Non basta l’invito autorevole a informarsi personalmente.  Come e dove farlo? Bisogna creare le occasioni sociali per approfondire questioni che sono tanto rilevanti anche per la vita di fede. Se non se ne è capaci anche la fede può essere facilmente strumentalizzata al servizio della politica egemone. Si vorrebbe, secondo la fede, aiutare gli altri e invece si finisce per respingerli, convinti del proprio buon diritto di farlo per salvare una qualche propria identità. E sempre risorge la malattia clericale, che si sviluppa poi nel clerico-moderatismo, il quale storicamente è stato, in Italia, l’ambiente favorevole per ogni tendenza politica reazionaria e per lo stesso fascismo storico. Così il cambiamento per il cambiamento rischia di riproporre un tremendo passato, che appare nuovo  solo perché se ne è persa la memoria storica.
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Informazione e propaganda: sui temi della riforma costituzionale manca la prima

  Esclusi gli addetti ai lavori, ad esempio i professori e gli studenti di diritto, gli avvocati e alcuni funzionari pubblici, la gran parte della gente non conosce ancora, a meno di due mesi dal referendum costituzionale, la riforma costituzionale sulla quale dovranno decidere tracciando un SI’ o un NO sulla scheda che sarà loro consegnata alle urne. Come lo so? Ho un riscontro pratico: quando cerco di spiegare la riforma, faccio prima qualche domanda sui suoi temi ed è raro ottenere una risposta corretta.
  Sui mezzi di comunicazione di massa infuria, e questo verbo dà un’idea precisa del clima, la propaganda per il referendum costituzionale. Vale a dire che si cerca di tirare i cittadini dalla propria parte: i fautori del referendum mettendo in luce i propositi della riforma, ad esempio la riduzione delle spese mediante la riduzione dei senatori e l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro - CNEL; gli avversari della riforma spiegando  i loro timori sugli effetti negativi sugli effetti della riforma. Ma chi spiega il contenuto della riforma? Ecco, questa che sarebbe  informazione, è molto carente. Non se ne occupa, in particolare, l’ente radiotelevisivo di stato. Certo, come le altri emittenti, manda in onda tribune  referendaria, vale a dire trasmissioni  dove studiosi e politici di opposti schieramenti si confrontano tra loro, con giornalisti o con il pubblico, ma non ha programmato una informazione sistematica sui temi del referendum. Pochi stanno veramente facendo informazione  sistematica. In genere si propone propaganda. In questo modo però i cittadini non sono messi in condizione di scegliere consapevolmente, perché:
         -non basta conoscere gli scopi della riforma;
-non basta conoscere i timori degli avversari della riforma, occorrerebbe prima conoscere la riforma.
  Negli anni ’60, a fronte di un analfabetismo ancora molto diffuso nella popolazione soprattutto tra le fasce degli adulti, l’ente radiotelevisivo di stato programmò sistematicamente dei corsi di istruzione elementare in televisione affidandoli al maestro elementare Alberto Manzi. La rubrica si chiamava Non è mai troppo tardi. Io la ricordo perché guardavo quelle trasmissioni. Non riguardavano solo il leggere e lo scrivere e il far di conto, ma si parlava anche di un po’ di educazione civica. Conoscere, in effetti, è la base della cittadinanza consapevole. Ora, di fronte ai temi del prossimo referendum, penso che la maggior parte degli italiani chiamati al voto sia un po’ nella condizione degli analfabeti a cui si rivolgeva Non è mai troppo tardi, ma pochi si occupano veramente di un’istruzione popolare.  Ognuno dovrebbe fare da sé, ad esempio comprando uno dei libri che sono usciti sul tema. Ma quanti l’hanno fatto, quanti lo faranno? Mancano meno di due mesi al referendum. Tra un po’ potrebbe essere troppo tardi. Allora, molti probabilmente decideranno in base a quanto sentiranno nell’ultima settimana prima del referendum, quando veramente si farà solo propaganda. O addirittura, emotivamente, il giorno stesso del referendum. Gli esperti di sondaggi demoscopici avvertono che il tempo meteorologico influenza il voto. Il giorno dell’elezione piove e molta gente si sente più triste? Questo si rifletterà sui risultati elettorali.
  In questo modo, però, con un voto non realmente consapevole, coloro che andranno a votare si assumeranno la responsabilità storica di una riforma che potrebbe effettivamente cambiare l’Italia decidendo praticamente ad occhi chiusi. Che cosa succederebbe se adottassimo lo stesso criterio guidando un’automobile? Per prendere la patente di guida si fanno degli esami, per verificare se il candidato conosce il codice della strada, il funzionamento del motore, ha requisiti psicofisici minimi e, soprattutto, sa guidare una macchina. Guidare un’automobile è un’attività molto meno importante del voto ad un referendum costituzionale: si può vivere bene anche senza guidare, ma non si vive bene con una cattiva Costituzione.
 Propongo di seguito alcuni esempi per spiegare un esempio di come dovrebbe svolgersi un confronto informato  tra sostenitori del SI’ e del NO, vale a dire  la differenza tra informazione  e propaganda.
  I fautori del referendum sostengono che riducendo il numero dei senatori da 315 a 95 e privandoli dello stipendio si spenderà di meno. E questo è credibile.
  Gli avversari della riforma replicano:
- quando si tratta di occuparsi degli affari fondamentali dello stato, vale a dire di ciò da cui dipende il benessere e la felicità di tutti, è giusto risparmiare?
         - anche volendo ridurre il numero dei senatori, perché non continuare a farli eleggere direttamente dai cittadini e farli invece scegliere dai consiglieri regionali, vale a dire da una classe politica locale, e tra gli stessi consiglieri regionali e i sindaci? In questo modo è possibile che i politici, in particolare quelli selezionati per un lavoro locale, conteranno di più e i cittadini di meno.
  I fautori della riforma rispondono che  è proprio perché i senatori saranno, e in primo luogo, anche  consiglieri regionali e sindaci che si è potuto decidere di non dar loro uno stipendio, stabilendo che debbano accontentarsi di quello che prendono per le loro cariche locali.
 Gli avversari della riforma, allora, osservano, che i risparmi fatti con le nuove norme, che si stimano intorno al 10% della spesa attuale (infatti il Senato non viene abolito), non possono giustificare l’esclusione dei cittadini  dalla scelta dei senatori: si spenderà di meno, ma si avrà anche di meno, anzi molto di meno, troppo di meno.
 I fautori della riforma, però, osservano che nella legge di riforma c’è un comma del nuovo articolo 57 della Costituzione che prevede che la scelta dei senatori tra i consiglieri regionali si faccia in conformità delle scelte dei cittadini, fatte al momento delle elezioni per il rinnovo dei Consigli regionali.
 Chi è per il NO replica che è difficile immaginare come si farà a far contare le scelte dei cittadini, visto che, secondo la riforma, i senatori saranno eletti dai consiglieri regionali, e poi che, comunque, le scelte dei cittadini al momento delle elezioni regionali non potranno dare indicazioni sulla scelta dei senatori tra i sindaci, e i senatori-sindaci saranno ben 21 sui 95 eletti. Tutto è comunque rinviato a una futura legge ordinaria: sarebbe stato meglio inserire indicazioni più precise nella Costituzione. Non è corretto far dipendere gli effetti di una norma costituzionale da una legge ordinaria.
  I fautori della riforma inseriscono tra i benefici del nuovo Parlamento il fatto che le due Camere, la Camera dei deputati e il Senato, non faranno più le stesse cose.
  I sostenitori del NO replicano che non è così in quanto:
-il nuovo Senato potrà fare meno tipi di leggi della Camera dei deputati, ma le leggi che farà le potrà fare solo insieme alla Camera dei deputati e saranno la maggior parte delle leggi, comprendendo, oltre alle leggi costituzionali, quelle di attuazione della normativa europea;
- il nuovo Senato continuerà ad occuparsi anche delle leggi che saranno approvate solo dalla Camera dei deputati, potendo proporle e proporre modifiche a quella già approvate.
In definitiva le due Camere continueranno ad occuparsi delle stesse cose. In particolare non ci saranno leggi che una Camera potrà fare senza il concorso o, comunque, l’interlocuzione con l’altra Camera. E, in particolare, il Senato non potrà approvare da solo, in via definitiva, alcuna legge.
  I fautori della riforma sostengono che, con le nuove norme, non avverrà più che Camera dei deputati e Senato si blocchino a vicenda essendo dominati ciascuno da maggioranze parlamentari diverse.
  I sostenitori del NO rispondono che non è prevedibile che andrà sempre così. Infatti, mentre la Camera dei deputati continuerà a rinnovarsi ogni cinque anni, il Senato non avrà più una scadenza e si rinnoverà continuamente e parzialmente ogni volta che, scadendo i Consigli regionali che avranno eletto i senatori, decadranno anche i senatori eletti dai consigli uscenti. Quindi è prevedibile che, nel caso di  tempeste politiche come quelle che portarono alle elezioni del 2013 a un notevole ricambio del ceto parlamentare, i cambiamenti si riflettano prima su una Camera e poi sull’altra, e al Senato più lentamente che alla Camera dei deputati. Quindi è ancora prevedibile che alla Camera e al Senato possano crearsi maggioranze parlamentari diverse: questo si rifletterà sull’approvazione delle leggi che ancora le due Camere dovranno deliberare collettivamente. Con l’aggravante che il Presidente della Repubblica non potrà più sciogliere il Senato, ma solo la Camera di deputati.
  Senza  vera  informazione non c’è una decisione consapevole, vale a dire libera. La verità rende liberi, è scritto. Ma se una persona non è messa in condizione di conoscere? Allora quello che dovrebbe essere un esercizio della sovranità popolare, la partecipazione di tutti i cittadini al governo della Repubblica, si trasforma nel suo contrario, vale a dire nel seguire il capo politico di riferimento, accettando da lui una bella cambiale in bianco che non si sa se potrà mai onorare. Ma il referendum di dicembre non si farà per scegliere il capo politico a cui consegnare le sorti dell’Italia, ma per decidere come cambiare 50 articoli della Costituzione e 3 leggi costituzionale, vale a dire l’ordinamento delle istituzioni fondamentali della Repubblica. La fiducia in un capo politico conta poco o nulla: conta capire come si pensa di far funzionare quelle istituzioni fondamentali.
 Spesso mi sento chiedere, quando spiego i temi della riforma, se bisogna  votare SI’ o NO. Io rispondo che ciascuno deve rispondere in coscienza da sé, come in tutte le decisioni che implicano un responsabilità morale, e quella sulla riforma è tra quelle, innanzi tutto conoscendo  la riforma e poi vagliando  gli argomenti a favore e contro e cercando di prevedere i risultati dei cambiamenti proposti. Nessuno può scaricarsi della responsabilità civile del voto referendario facendo riferimento all’autorità di un altro. Infatti in questa materia  lasciarsi ingannare è altamente colpevole. La cittadinanza politica si esercita a mente ed occhi aperti. Il merito o la colpa degli effetti della riforma costituzionale sarà comunque tutta nostra, davanti alla storia nazionale, davanti alle generazioni future.
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Per chi vota Barak Obama?

 Il 19 ottobre 2016, ricevendo nella capitale statunitense il nostro Presidente del Consiglio accompagnato da un gruppo di personaggi pubblici italiani, il presidente statunitense Barak Obama, per come hanno riferito i mezzi di comunicazione di massa, ha dichiarato che gli Stati Uniti d’America “sostengono il referendum, per un sistema politico più responsabile”. Ma che significa “sostenere il referendum”? Si è inteso che Obama si riferisse al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, nel quale si può votare SÌ o No, quindi approvare la riforma costituzionale e farla entrare in vigore o non approvarla, in modo che non entri in vigore. Obama è per il SÌ o per il NO? Poiché ha caldamente apprezzato il lavoro del nostro attuale Presidente del Consiglio e quest’ultimo vorrebbe che la riforma costituzionale, che è stata un elemento importante del suo programma di governo, entrasse in vigore, si è inteso che Obama fosse per il SÌ al referendum, quindi perché la riforma entri in vigore.  Che ne sa Obama della riforma costituzionale? Gli unici elementi che abbiamo per capirlo sono le sue parole, riportate dai mezzi di comunicazione di massa. Ha proposto due argomenti: la riforma ammoderna le istituzioni italiane e consentirà al governo di muoversi più velocemente. Si tratta, come è evidente, di effetti previsti della riforma, non della riforma. Obama, nell'argomentare, non ha esaminato e valutato alcun contenuto della riforma. Alcuni commentatori sostengono che non ne sa nulla, al di là di quello che ne ha saputo parlando con il nostro Presidente del Consiglio e dalle brevi note dei suoi collaboratori in preparazione dell’incontro con gli italiani. Infatti non è entrato nei dettagli. In che senso la riforma costituzionale ammoderna  le istituzioni? E, soprattutto, le ammoderna in meglio o in peggio? La modernità non è sempre in meglio, come a tutti è chiaro. Il fascismo italiano, ad esempio, si proponeva come fautore di modernità rispetto al vecchio  regime liberale, ma possiamo considerare la sua modernità come positiva? Ma come fare a giudicare la bontà della modernità della riforma, se non si esaminano i suoi contenuti perché non li si conosce o non li si conosce a sufficienza? Ma difficilmente un presidente statunitense può occuparsi, nella sue convulsa giornata di lavoro, di una faccenda come questa, riguardante un particolare aspetto della politica italiana. Che cosa lo ha spinto a intervenire sul tema? Questa è un problema importante. Lo ha fatto di sua iniziativa o è stato sollecitato a farlo? E se lo ha fatto di sua iniziativa, perché lo ha fatto? Dal contesto dell’evento della visita degli italiani, è risultato chiaro che Obama volesse esprimere un apprezzamento per la politica del nostro attuale Presidente del Consiglio. Lo considera il capo di un governo amico. E' stato scritto che vorrebbe dagli italiani un impegno militare più intenso su diversi fronti caldi, ad esempio nella guerra in Libia, oltre che un'intesa sui problemi europei e su quelli dell'immigrazione verso l'Europa, e probabilmente si attende, su questi temi, una comune prospettiva con l'Italia, e in particolare con il suo Governo.  “Patti chiari, amicizia lunga” ha detto in italiano: non so se si sia reso conto che la frase, nella lingua italiana, ha un senso minaccioso. Che patti  sono stati fatti? E questi eventuali patti, che i governi talvolta possono lasciare segreti, c’entrano qualcosa con l’appoggio di Obama alla politica del nostro attuale Presidente del Consiglio? Sono domande che per ora non hanno avuto risposta. Probabilmente ci vorrà del tempo perché l’abbiano, ci dovranno lavorare su gli storici, quando l’attuale fase politica sarà conclusa e ci sarà tempo per vagliare più serenamente, senza l'assillo dell'attualità dello scontro politico e in dettaglio le varie fonti disponibili. E questo momento potrebbe non essere molto lontano, comunque vada il referendum. Potremo essere in un'epoca in cui sta maturando quello che gli storici chiamano un cambio di fase,  come si ebbe all'inizio degli anni '90 a seguito del referendum sulla preferenza unica nelle elezioni politiche che poi fece maturare una nuova legge elettorale, a seguito della quale si produsse il bipolarismo, l'alternanza al governo tra due opposte coalizioni. C’è chi sostiene infatti che in caso di entrata in vigore della riforma l’anno prossimo ci saranno elezioni anticipate e, per l’effetto congiunto della riforma e della nuova legge elettorale per la Camera dei deputati, ci sarà una diversa maggioranza di governo, stando ai sondaggi attualmente diffusi. Nel caso che, invece, la riforma non entri in vigore, l’attuale Presidente del Consiglio sarà probabilmente costretto, nelle dinamiche congressuali del suo partito,  a ridimensionare il suo ruolo politico, scegliendo se fare il segretario di partito o il presidente del Consiglio. 
  Gli Stati Uniti d’America hanno sempre cercato di influenzare la politica italiana, fin dalle origini della Repubblica. E i Presidenti del Consiglio italiani hanno sempre cercato di accreditarsi presso i presidenti statunitensi, considerando un successo essere ricevuti da loro. Sembra che in Italia non si possa presiedere un governo senza il favore degli statunitensi. Ma, a mia memoria, non c’era mai stato un intervento esplicito come quello di Barak Obama nelle questioni politiche italiane, durante una campagna per elezioni politiche o referendum e nel corso della visita di un nostro Presidente del Consiglio. Per certi versi le parole del presidente statunitense possono suonare umilianti per un elettore italiano. Gli Stati Uniti d’America sono tanto orgogliosi e gelosi della loro autonomia nazionale da avere in costituzione una regola per cui chi non è nato negli Stati Uniti non può diventare Presidente. Ed ora un Presidente statunitense si ingerisce pesantemente nella riforma della nostra Costituzione, nonostante non siano in questione i principi fondamentali, ad esempio il carattere democratico dello stato. Non mi figuro un De Gasperi, un Fanfani, un Moro, nel ruolo che, nel corso della recente visita di stato negli Stati Uniti d’America, ha impersonato il nostro Presidente del Consiglio. Se al referendum vinceranno i favorevoli alla riforma, si dirà che sarà anche merito di Obama, di un capo di stato straniero, e la nostra Repubblica potrebbe essere considerata a sovranità limitata, come lo furono a lungo alcuni stati del Centro America. E che accadrebbe se, sostituito Obama con un altro Presidente come accadrà tra poco, il nuovo arrivato avanzasse altre pretese politiche nei nostri confronti?
 Ma, soprattutto, spiace che l’appoggio politico di Obama non sia stato fondato su argomenti ricavati dai contenuti della riforma. Si è trattato, in definitiva, solo di propaganda, senza alcun vero riferimento al merito della complessa legge costituzionale in decisione nel referendum. E questo è avvenuto alla presenza del nostro Presidente del Consiglio, il quale non ha mosso obiezioni. Eppure il compito dei politici, in questo frangente, dovrebbe essere quello di non perdere occasione per approfondire i temi della riforma, perché la decisione degli cittadini chiamati al referendum sia consapevole, informata   e dunque libera.
  La decisione sulla riforma costituzionale va al di là della politica del giorno per giorno, della questione di quanto a lungo durerà l’attuale governo: è in questione la qualità della vita nostra e dei nostri figli e nipoti. E’ un tema che è affrontato nell’enciclica Laudato si’ e che dunque mette in gioco anche la nostra fede religiosa. Il disimpegno nell’informarsi  e nel  cercare di capire meglio  dialogando con gli altri, l’affidarsi alla pura propaganda, è colpevole e non solo dal punto di vista civico. La salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per la qualità della vita umana, per cui è necessario un progresso culturale per arrivare ad una ecologia sociale, che è necessariamente istituzionale, per raggiungere progressivamente diverse dimensioni che vanno dal gruppo sociale primario, la famiglia, fino alla vita internazionale, passando per la comunità locale e la Nazione: è scritto in quell’enciclica (n.142). Tutto ciò che danneggia le istituzioni fondamentali di uno stato, come può avvenire approvando una riforma costituzionale imperfetta, può comportare effetti nocivi, sempre gravi, fino anche ad arrivare alla perdita della libertà, all'ingiustizia e alla violenza. L’ambiente sociale ne viene pregiudicato. Ecco quindi la necessità, e  il dovere morale, di trovare  la voglia, il tempo e gli strumenti per capire bene  ciò che è in decisione, senza affidarsi a tutto ciò che è solo propaganda, anche se proposta dall'uomo considerato finora quello più potente della Terra, e dal suo amico italiano.
  In che cosa consiste l’ammodernamento  che viene proposto con la riforma costituzionale? E’ una modernità  buona  o cattiva? E questo ammodernamento  può funzionare bene? I rapporti tra le istituzioni fondamentali della Repubblica sono organizzati in modo da non creare conflitti insolubili o da non rendere più debole o meno efficiente il sistema di garanzie  e  contrappesi  che distingue una democrazia, il regime della sovranità di tutti, da una oligarchia,  il regime in cui comandano in pochi? E’ vero che la riforma costituzionale rafforzerà la posizione del Governo, che quindi potrà intervenire più velocemente, come sostiene Barak Obama? In quale parte della riforma ci sono norme che realizzano questo effetto? E, se vi sono, come in effetti vi sono perché è previsto che il Governo possa accelerare l’esame di suoi disegni di legge alla Camera dei deputati, questo risultato non si poteva ottenere anche incidendo di meno sull'assetto costituzionale delle istituzioni fondamentali dello Stato? O il rafforzamento  della posizione del Governo  è più intenso di quello che è prevedibile dalle sole norme della riforma costituzionale e dipende, come sostengono alcuni, dall'effetto congiunto di un’altra riforma, quella del sistema elettorale della Camera dei deputati, che dà al maggiore dei partiti di minoranza, qualunque sia l’entità del suo consenso tra gli elettori, la possibilità di ottenere una solida maggioranza di controllo alla Camera dei deputati, quella che dovrà votare la fiducia al Governo e che sarà una Camera maggiore, dominante,  in molte materie importanti? Ed è giusto che l’effetto reale di una riforma costituzionale, in particolare questa posizione molto rafforzata  del governo, dipenda da una legge ordinaria, mentre dovrebbe essere quest’ultima a dipendere da quella costituzionale? Ed è giusto che gli elettori siano stati chiamati a pronunciarsi su una riforma costituzionale, ma non su quella legge ordinaria che influirà molto sugli effetti di quella costituzionale, tanto che la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità della nuova legge elettorale per la Camera dei deputati, ha inteso differire la decisione a data successiva a quella del referendum? Non sarebbe stato meglio, in considerazione dell'importanza degli effetti della legislazione elettorale su quelli  della riforma costituzionale,  integrare la riforma con norme più dettagliate sui sistemi elettorali per le due Camere, in modo di ridurre la discrezionalità del legislatore ordinario e di dare modo ai cittadini di pronunciarsi anche su questo tema nel referendum costituzionale?
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Una Camera e un pezzetto

Una camera e un pezzetto


  In questi giorni cerco di spiegare alla gente che incontro la riforma costituzionale su cui dovremo decidere nel referendum che si terrà il prossimo 4 dicembre. Le persone con cui parlo, però, sono impazienti.  Mi pare che prendano esempio dai dibattiti sul tema che vedono in televisione. Vorrebbero che prendessi posizione e argomentassi parlando di tutto meno che della riforma, ad esempio:
Per il SÌ                                                                          Per il No
Dite sempre no!                                                         Siete dei corrotti!
Ce la chiedevano da 70 anni!                                  Distruggete la democrazia!
Dite no perché tenete alle vostre                        Siete voi, invece, che ci tenete!
poltrone!
Vi abbiamo rottamato e volete tornare!                  I giovani sono con noi!
Mostrateli questi giovani, siete vecchi!                Votano SÌ solo i vecchi
Volete le solite pastette parlamentari!            Volete che comandino i “cerchi magici”!
Se non si fa ora non si fa più!                  Se si fa ora, poi non si potrà fare più nulla!
La riforma è democratica                                   La riforma non è democratica!
Lo ha detto anche Obama!                             Che cosa gli avete dato in cambio?
 Questi argomenti non vi fanno conoscere nessun contenuto della riforma costituzionale, sono pura propaganda.  Diffidate di chi ve li propone. Il politico che li usa, infatti, non è un buon politico. Il giornalista che li usa non fa informazione: la propaganda  non è  informazione, e ora ci occorre quest’ultima. Come considerereste il commerciante che vi proponesse di acquistare merce a scatola chiusa e senza darvi nessun dettaglio su che cosa c’è dentro, anzi cercando di distogliere la vostra attenzione dall’argomento?
 Certo, conoscere la riforma richiede impegno, è un testo lungo, di 41 articoli che modificano 50 articoli della Costituzione e cambiano profondamente le istituzioni fondamentali dello Stato, in particolare la struttura e il funzionamento del Parlamento che è l’organo in cui si esprime la sovranità popolare, vale a dire il potere di tutti i cittadini di partecipare al governo della Repubblica.
 Senza un Parlamento espresso dai cittadini non c’è sovranità popolare e non c’è democrazia, e cambiando la struttura e le funzioni del Parlamento cambia il modo in cui il potere di tutti si può esprimere, vale a dire che cambia la democrazia.
  In questione, il prossimo 4 dicembre, non ci sono solo questioni di riduzione della burocrazia e di risparmio di spesa pubblica, ma c’è la democrazia repubblicana. Siatene consapevoli. Sentite il dovere morale, civico e anche religioso, come parte importante del prendersi cura della casa comune per costruire e mantenere un ambiente sociale buono, di informarvi personalmente  sui contenuti della riforma su cui dovremo decidere, e di farlo anche dialogando  veramente con gli altri, senza riversarsi addosso slogan propagandistici, secondo il pessimo esempio che ci viene dalla politica di oggi.
  Nel post  di sabato 22 ottobre scorso potete trovare molto materiale per informarsi i  e dialogare. Nel post  del 9 ottobre scorso trovate le schede della prima partita e le regole del Gioco della Costituzione: giocando potete iniziare a informarvi  e a  dialogare  divertendovi.
 Il Parlamento. E’ vero che sarà abolito il bicameralismo perfetto, che è quando le due Camere devono decidere sulle stesse cose e non si può decidere nulla senza una decisione di entrambe?
 Che ne pensate?
 Il bicameralismo perfetto non sarà abolito, ma solo ridotto.
 Lo dice il nuovo articolo 70 della Costituzione, modificato dall’art.10 della legge di riforma costituzionale, che si occupa del procedimento legislativo.
il nuovo art.70 della Costituzione
1° comma :
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71, per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.
2° comma: 
Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
  La gran parte della legislazione dello Stato riguarda l’attuazione della normativa dell’Unione Europea. Ma, come potete constatare leggendo la norma di legge riformata, molte altre leggi dovranno essere approvate con procedura bicamerale, proprio come avviene oggi.
 Dovranno essere approvate con procedura bicamerale le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma.”  Riuscite a capire, dal testo del nuovo articolo 70 della Costituzione, di che cosa si tratta? Non potete farlo: dovete andare a leggere, nella nuova Costituzione, gli articoli richiamati. Questa tecnica legislativa, che crea difficoltà alla comprensione del testo, è stata molto criticata dagli specialisti. Non dovrebbe mai essere usata in un testo costituzionale, che dovrebbe essere facilmente e rapidamente comprensibile da tutti, anche da chi non ha studiato legge e non ha dimestichezza con articoli  e commi. Tutta la riforma è piena di imperfezioni simili. Del codice civile varato nell’Ottocento dall’imperatore Napoleone Bonaparte, il modello anche degli attuali codici civili dell’Europa continentale, si diceva che fosse scritto tanto bene, con tanta cura linguistica, che studiandolo si poteva imparare un buon francese. Della Costituzione riformata non si potrà sicuramente dire lo stesso. Del resto la riforma costituzionale è stata approvata con molta concitazione, a colpi di maggioranza, comprimendo il dibattito parlamentare, che, del resto, si è manifestato subito di scarso livello, con continue ragazzate nelle aule che dovrebbero essere sacre per la nostra democrazia repubblicana. Un clima generale poco favorevole a rifiniture linguistiche. Ma la scarsa cura letteraria ha provocato in più punti incertezze interpretative che già ora si manifestano, ancora prima dell’entrata in vigore della riforma.  L’altro giorno, ad esempio, su La Repubblica, un professore di diritto ha detto che la conversione dei decreti leggi la farà solo la Camera dei Deputati, anche nelle materie in cui dovrebbe seguirsi la procedura bicamerale, in cui quindi Camera dei Deputati e Senato dovrebbero decidere insieme come ora, mentre altri professori e l’Ufficio studi della Camera dei Deputati sono di diversa opinione e ritengono che, presentato alla sola Camera dei Deputati i disegno di legge di conversione del decreto legge, la procedura legislativa continuerà ad essere sempre monocamerale o bicamerale a seconda della materia trattata.
 Un’incertezza interpretativa nel procedimento legislativo parlamentare significa la possibilità di contrasti al vertice dello Stato. Contrasti che non sarà più possibile risolvere sciogliendo le Camere, perché il Senato non potrà più essere sciolto dal Presidente della Repubblica.
  Quanto alla struttura del nuovo Parlamento, colpisce, ad un primo sguardo, la sproporzione numerica tra Camera dei Deputati e Senato. Il Senato ha circa un sesto dei membri della Camera dei deputati. E non sarà più eletto direttamente dai cittadini: eppure dovrà occuparsi di questioni importantissime, come le leggi costituzionali. In più sarà composto, a parte gli ex Presidenti della Repubblica, di parlamentari per così dire  a mezzo servizio, perché dovranno fare anche i consiglieri regionali e i sindaci. Avranno molto meno tempo per informarsi sulle questioni da trattare, che non saranno solo quelle che riguardano le autonomie locali. Ho ricordato che gli unici inquilini stabili del Senato saranno gli ex Presidenti della Repubblica: oggi ne è rimasto uno solo, il senatore  a vita Giorgio Napolitano. Che cosa comporta tutto questo per la democrazia repubblicana?

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Il senso della riforma delle Regioni: un rafforzamento della posizione del Governo nei confronti del Parlamento dell’autonomia regionale

  La riforma costituzionale sulla quale dovremo decidere nel prossimo referendum costituzionale contiene alcune norme importanti sulle Regioni. Di solito, quando si parla della riforma, ci si occupa di come cambierà il nuovo Senato. Ma le modifiche riguardanti le Regioni sono altrettanto rilevanti. Questo perché le Regioni svolgono funzioni che condizionano da vicino la vita della gente e fanno anche leggi, come il Parlamento. Possiamo dire che, in effetti, in Italia fin dal 1946, quando fu costituita la prima Regione italiana, quella della Sicilia, a statuto speciale approvato con legge costituzionale entrata in vigore prima della Costituzione, si legifera a livello locale e si legifera con un sistema monocamerale. Per la generalità delle Regioni a statuto ordinario, l’attività legislativa  iniziò nel 1970. Ma in Italia vi sono anche due Province Autonome, quelle di Trento e di Bolzano, istituite dallo statuto speciale della Regione Trentino Alto Adige del 1948, successivamente modificato più volte,  che hanno potere legislativo. Saranno le uniche due Province a rimanere in Italia. Ciascuna di queste Province Autonome nominerà un senatore-sindaco nel nuovo senato. I senatori-sindaci del nuovo Senato saranno 21, su 100 senatori (95 eletti dai consiglieri regionali, dei quali 74 tra gli stessi consiglieri regionali,  e 5 nominati  per sette anni dal Presidente della Repubblica), oltre ai senatori a vita ex Presidenti della Repubblica.
  Le Regioni italiane sono venti, tra le quali il Lazio. Hanno uno statuto speciale, quindi particolari regole di autonomia, la Sicilia (la prima Regione ad essere stata istituita), la Sardegna, il Trentino Alto Adige,  la Valle D’Aosta e il Friuli Venezia Giulia. Le altre Regioni sono regolate dalle norme costituzionali comuni e sono dette a statuto ordinario. La riforma costituzionale, per la parte che riguarda l’autonomia regionale e i rapporti tra Stato e Regioni,  non si applicherà alla Regioni a statuto speciale, salvo in quella parte che, in alcune materie, consente di ampliare ulteriormente con legge dello Stato l’autonomia regionale prevista nella riforma.
  Le materie più importanti di cui si occupano le Regioni, con le loro leggi, sono la sanità (come si cura la gente), l’urbanistica e l'edilizia (dove e come si  costruisce), l’edilizia popolare (dare case a tutti), la mobilità locale (trasporti e viabilità), l’ordinamento e funzioni degli enti locali per la parte non riservata allo Stato. Le Regioni possono anche istituire tributi. Ma le Regioni si occupano anche di molte altre materie. A partire dalla riforma costituzionale del 2001 è previsto che possano fare leggi in tutte le materie non riservate espressamente alle leggi dello Stato. La riforma costituzionale approvata quest'anno e sulla quale decideremo nel prossimo referendum amplia lo spazio riservato alle leggi dello Stato, per cui, rispetto alla riforma costituzionale del 2001, questa è una controriforma, vale a dire una riforma che va in direzione opposta. Ci si è proposti di  rimediare a problemi di contrasti di competenza che si erano prodotti tra Stato e Regioni nelle materie di legislazione concorrente, vale a dire quelle in cui potevano legiferare sia lo Stato che le Regioni, ad esempio, e l’argomento  è purtroppo di grande attualità, la protezione civile. La gran parte di questi problemi si erano creati perché lo Stato aveva voluto incidere sull’autonomia regionale oltre quello che le Regioni ritenevano essere consentito, non viceversa. In realtà rimarranno molte aree di competenza legislativa concorrente, in cui quei problemi potranno riproporsi. 
 Tuttavia la norma che dà il senso fondamentale della riforma regionale attuata dalla legge di revisione costituzionale su cui dovremo decidere nel prossimo referendum è quella prevista dal nuovo articolo 117, 4° comma, della Costituzione:
Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale.”
  Questa norma consente al Parlamento di fare leggi nelle materie che sarebbero di competenza legislativa delle Regioni se si ritenga che sia necessario in base all’interesse nazionale, nel  quale  può ritenersi compresa l’unità giuridica ed economica della Repubblica, un criterio assai vago. Ma il Parlamento potrà farlo solo ad iniziativa del Governo, che pertanto rimane in definitiva l’arbitro dell’interesse nazionale negli affari regionali.  Una legge dello Stato che invada le competenze legislative regionali non potrà invece essere promossa, sia pure in considerazione dell'interesse nazionale, da deputati e senatori, anche se in numero rilevante.
Questo realizza un notevole rafforzamento della posizione del Governo nei confronti sia del Parlamento, sia delle Regioni. Questa nuova disciplina, in particolare, può essere considerata espressione di quella  che ho chiamato eclisse del Parlamento a favore del Governo, il cui attuale presidente, e leader del maggiore partito italiano, non è (ancora) parlamentare, così come non lo sono i leader degli altri due maggiori partiti nazionali.
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Regioni ed Unione Europea diffamate nel corso della propaganda per il referendum

   Nel corso della propaganda per il referendum, Le Regioni e l'Unione Europea sono sbrigativamente diffamate dal populismo emergente. 
 E si confonde il principio dell'equilibrio di bilancio, che anche le Regioni dovranno seguire, con quello del pareggio tra entrate e spese di cassa. Invece sono cose diverse. Si applicano quindi a entità macroeconomiche, al funzionamento di grandi enti territoriali,  ragionamenti che funzionano solo su scala microeconomica, nell’economia delle famiglie. Le Regioni e i Comuni vengono sospettati di scialacquare risorse pubbliche e la realtà  è invece che si pretende da loro troppo in rapporto al denaro che hanno a disposizione. Le istituzioni dell’Unione Europea sono accusate  accusata di dispotismo finanziario perché pretendono il rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio, in base a decisioni delle quali anche l’Italia è stata partecipe e consenziente, e invece quel principio vuole indurre una politica virtuosa, tra chi governa le istituzioni ma anche tra i cittadini, nel senso che occorre limitare l’indebitamento, che va a carico delle generazioni future.
 La polemica contro le Regioni e l’Unione Europea manifesta l’intenzione di rafforzare il Governo nazionale italiano. Con la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati e con la revisione costituzionale oggetto del prossimo referendum è appunto questo l’effetto che si vuole proporre: un Governo più forte.
 L'integrazione politica, sociale ed economica europea si è basata sul principio di sussidiarietà. Questo ha portato ad una riduzione dei poteri degli stati nazionali e soprattutto dei governi nazionali, storicamente responsabili di tutte le carneficine europee dal Seicento alla metà del Novecento. Ma, contemporaneamente, anche all'affermazione delle autonomie locali, in particolare di quelle regionali. Un esempio chiaro di come  si fa la pacificazione tra popoli potenziando le autonomie locali è  quello del Trentino Alto Adige. Il particolare assetto di Regione e Province da quelle parti dipende anche da accordi di pacificazione tra Italia e Austria. L'integrazione europea ha concluso l'opera. Ricordo la grande emozione del giorno in cui  furono smontate le barriere ai posti di frontiera tra le due nazioni. Tutto questo è cancellato nella polemica populista di questi tremendi ultimi giorni di campagna elettorale. Ragionamenti analoghi possono farsi per tutte le Regioni a statuto speciale, le più diffamate tra le Regioni. 
  L'autonomia regionale  è recente. Risale al secondo dopoguerra. I governi liberali della prima fase del Regno d'Italia e quello fascista furono fortemente accentratori e governavano mediante burocrazie statali. L'autonomia regionale era nell'ideologia cristiano sociale e di non molte altre componenti della politica italiana. Le Regioni a statuto ordinario, previste nella Costituzione entrata in vigore nel 1948, iniziarono a funzionare solo nel 1970 e furono una grande e positiva novità. L'idea fu quella di avvicinare la soluzione dei problemi alla loro origine. Nella campagna per le prime regionali si faceva l'esempio dei lavori pubblici locali: bisognava sempre "informare il Parlamento" che spesso rispondeva tardi e/o male. Il successo delle nuove Regioni fu travolgente. Furono palestra di nuova politica, ad esempio in Emilia  - Romagna.  Alcune Regioni, in particolare, si distinsero per la buona amministrazione. Le Regioni consentivano la programmazione a livello locale. Il Servizio Sanitario Nazionale nacque, in particolare, su scala regionale. In precedenza la sanità pubblica era governata per enti. Erano enti le "mutue", gli istituti previdenziali che garantivano l'assistenza sanitaria ai lavoratori e alle loro famiglie, non a tutti i cittadini, ed erano enti, spesso di derivazione religiosa e con statuti particolari, gli ospedali. Mancava la programmazione. Lo straordinario sviluppo del sistema sanitario pubblico negli anni '70-'90 del secolo scorso, che ha portato a prolungare di molto la speranza di vita e a successi enormi nella cura delle malattie gravi, è avvenuto su scala regionale, in particolare per effetto della programmazione sanitaria. La programmazione regionale ha consentito infatti di strutturare le sanità locali secondo i bisogni della popolazione. Ci sono state amministrazioni regionali meno virtuose? Certo. Ma nello stesso periodo ci sono stati anche governi con alcuni loro esponenti, diciamo così, piuttosto  chiacchierati, e mi esprimo senza calcare la mano. E le compagini ministeriali risultarono a volte pesantemente permeate da fattori di corruzione e, per quanto ne so, non sono mai state considerate prodigi di efficienza. 
 La revisione costituzionale in decisione al referendum limita significativamente l'autonomia locale, in particolare quella regionale. Materie tipiche delle autonomie locali come la sanità e l'urbanistica vengono trasferite nella competenza esclusiva dello Stato, sia pure con riferimento ai principi generali. Ma i governi, con la cosiddetta clausola di supremazia, che consentirà loro di promuovere leggi invadendo la competenza regionale sulla base di criteri piuttosto elastici, ad esempio sulla base dell'interesse nazionale, possono completare l'opera. Governi accentratori e populisti, basati sull’idea di una persona sola al comando, come quelli che la revisione costituzionale rende possibili, possono ridurre l'autonomia locale a stato larvale. La cosa strana è che il nuovo Senato (delle autonomie locali), che continuerà come ora a legiferare collettivamente con la Camera dei deputati (procedimento legislativo bicamerale) in materie molto importanti come le riforme costituzionali e i trattati europei,  non potrà farlo proprio nelle materie riguardanti le autonomie locali. Lì dominerà la Camera dei deputati, la quale, a maggioranza assoluta, potrà superare ogni resistenza del nuovo Senato. E, per effetto della nuova legge elettorale, la Camera dei deputati sarà dominata da una solida maggioranza assoluta del partito di governo. E' stato osservato che, quindi, per quanto riguarda le autonomie locali, la riforma è in realtà una controriforma. Il costituzionalista De Siervo ha osservato che le  Regioni potrebbero finire  in balìa delle burocrazie ministeriali: nelle mani di governi ardimentosi, diciamo così, potrebbero divenire solo enti strumentali dello Stato, con un’autonomia molto limitata. Le venti "capitali della libertà" come le definì lo scrittore Manganelli, nell'epoca d'oro del nostro regionalismo! Ma che cosa ci garantisce che i Governi nazionali saranno veramente più virtuosi ed efficienti su scala locale di quelli regionali? In passato certe volte non lo sono stati. E l'incredibile degrado della politica nazionale, manifestato nella sconcertante propaganda referendaria di questi giorni (e purtroppo c'è da temere che vada ancora peggio di ora in ora), non lascia tranquilli in merito. Il populismo di matrice trumpiana impera, più o meno in tutti i maggiori partiti politici: tutti sembrano fare a gara a spararle grosse, senza più informare la gente sui contenuti della riforma costituzionale. Le Regioni, tutte, quelle ben amministrate e quelle amministrate meno bene, saranno messe nelle mani di questa politica, anzi, meglio, della burocrazia ministeriale dominata da questa politica, di capi dipartimento e direttori generali. 
 La riforma regionale del 2001. Ha cambiato il sistema costituzionale delle autonomie locali. Anche questa è imprudentemente diffamata. La si accusa di aver generato conflittualità tra lo Stato e le Regioni. Nella pratica ha presentato aspetti critici, certo. La Corte costituzionale è dovutaintervenire ripetutamente per risolvere conflitti tra Governi e amministrazioni regionali. Ma, ricorda il costituzionalista Zagrebelsky, il più delle volte è accaduto per l'ingerenza dei Governi nazionali, che con la riforma costituzionale avranno sostanzialmente mano libera. In particolare avranno il completo controllo dell'autonomia tributaria locale. In passato la politica dei Governi è stata quella di limitare le risorse delle autonomie locali aumentando però i loro compiti. Il regionalismo secessionista, animato da destra, reagì cercando di mantenere a livello locale tutte le risorse prodotte in ciascuna Regione, rifiutando di aiutare le Regioni meno ricche e sostanzialmente pretendendo che fossero lasciate a loro stesse. Senza però  considerare che non è un caso che in Italia le Regioni più ricche siano al Nord: è dipeso dal modo con cui si è realizzata l'unità nazionale e dalle politiche accentratrici del Regno d'Italia. Si è fatto fatica a contenere il regionalismo secessionista, che arrivò a minacciare espressamente l’unità nazionale. La riforma approvata nel 2001, in un clima emergenziale, ha cercato impedire che questo disegno secessionista fosse portato alle estreme conseguenze. La riforma del 2005, abortita a seguito di referendum costituzionale, andava molto oltre nel senso del regionalismo separatista Di tutto questo, però, sembra essersi  persa memoria. Il paradosso è che il populismo referendario grida e strepita contro le Regioni e poi mette sostanzialmente nelle mani della classe politica regionale il nuovo Senato, ridotto povera larva di Camera parlamentare, cameretta di precari senatori.

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In una nicchia della storia

Per capire le istituzioni fondamentali di uno stato bisogna conoscere un po’ la sua storia.  In un certo senso è la storia che disegna le costituzioni. Da che storia viene la riforma costituzionale sulla quale dovremo decidere nel referendum del prossimo 4 dicembre?
  Per conoscere la storia recente i più giovani potranno riprendere in mano l’ultimo volume del corso di storia delle superiori. Per i meno giovani consiglio il volume 3 del corso  Nuovi Profili Storici  di Giardina - Sabbatucci - Vidotti, edizione Laterza.
 Il problema è però che la riforma costituzionale di quest’anno non nasce molto lontano nel tempo, ma in un periodo che non è ancor finito nei libri di storia, anche se processi di riforma della struttura della Repubblica furono avviati dall’inizio degli anni ’80, per rispondere a quella che all’epoca veniva definita crisi di legittimazione della politica, espressione con la quale si intendeva che la gente non credeva più alle parole nobili della politica democratica ed era disposta a dare consenso politico solo in cambio di una qualche partecipazione alle risorse pubbliche ricavate essenzialmente dai tributi e dal debito pubblico, in un processo di scambio  politico. Questa tendenza ebbe anche un risvolto regionalistico, quando si produsse un movimento politico per limitare o eliminare del tutto il contributo di solidarietà che le regioni più ricche davano a quelle meno ricche attraverso la politica di perequazione dello stato. Negli anni ’90 si giunse anche a proporre la secessione  delle prime dalla Repubblica, e quindi la fine della Repubblica, o, almeno, la ristrutturazione della Repubblica in senso federale, ampliando l’autonomia regionale fino ad arrivare a quella degli stati federati, come in Svizzera, Germania o negli Stati Uniti d’America, riducendo al minimo le competenze dello  stato federale.
  L’attuale fase storica è molto più recente e nasce nel 2011. 
  Qualche volta l’attuale Presidente del Consiglio viene accostato al personaggio politico più significativo della fase storica che va dal 1994 al 2011, Silvio Berlusconi, nel senso che si colgono tratti simili nelle loro politiche e nelle loro personalità, ma il paragone è errato. E lo è perché il Berlusconi lavorò innanzi tutto sul Parlamento, federando forze politiche di impostazione molto diversa, facendone una coalizione di governo, mentre l'attuale Presidente del Consiglio segue l'ideologia del partito con vocazione maggioritaria, di cui tratterò più avanti. Nel campo opposto, quindi in quello  del centro-sinistra, in reazione, si produsse un movimento politico analogo e un'analoga coalizione. Questo, sotto il vigore della legge elettorale per Camera dei deputati e Senato del 1993, creò quello che agli inizi degli anni ’90 si pensava fosse il sistema politico migliore sull’esempio britannico, vale a dire il bipolarismo, con due coalizioni politiche, di centro-destra e di centro-sinistra, che si alternavano al governo. Il bipolarismo politico nelle maggioranze di governo nazionale durò dal 1994 al 2011, un lungo periodo, diciassette anni, che nei libri di storia verrà detto del berlusconismo, perché l’ideologia politica e soprattutto lo stile politico personale del leader  del centro-destra costituì in quegli anni il modello di riferimento, sia pure per opporvisi in qualcosa, anche per i politici dello schieramento opposto. In quegli anni i temi principali del dibattito politico furono infatti quelli posti da Silvio Berlusconi.
  La legge elettorale del 1993 prevedeva un sistema maggioritario, con gruppi di elettori (collegi elettorali) molto piccoli in cui veniva eletto il candidato che aveva riportato il maggior numero di voti, temperato da una quota di parlamentari eletti con il sistema proporzionale, come si era fatto fino al 1992. Questo fu il motore del bipolarismo, che però non si sarebbe potuto produrre senza che la politica creasse due grandi coalizioni di opposte tendenze politiche. Quel nuovo sistema elettorale fu catalizzato da un referendum tenutosi nel 1991 che introdusse il sistema della preferenza unica, rafforzando il collegamento dell’elettore con un candidato e impedendo che, attraverso la collocazione dei voti di preferenza sulla scheda elettorale, divenissero riconoscibili, e quindi contrattabili in una sorta di mercato, i voti elettorali.
 In definitiva nel 1991, come verosimilmente accadrà quest'anno, un referendum istituzionale fu alla base di un mutamento di fase della storia nazionale.
 Quel sistema politico del bipolarismo divenne instabile dopo l’entrata in vigore, nel 2005 di una nuova legge elettorale che abolì il sistema maggioritario, introdusse le liste di candidati bloccate, formate dai partiti e proposte agli elettori senza possibilità di esprimere voti di preferenza,  e introdusse il premio di maggioranza, una quota aggiuntiva di parlamentari che andava alla coalizione che, su scala nazionale per la Camera dei deputati e su scala regionale per il Senato, avesse ottenuto il maggior numero di voti, fino ad assegnarle una solida maggioranza assoluta di parlamentari. Questo modo di scegliere i membri del Parlamento staccava i candidati dagli elettori e li collegava molto più strettamente ai capi delle maggiori coalizioni. Questi ultimi, però, trovarono sempre più difficoltà a mantenere la disciplina politica tra i parlamentari da loro sostanzialmente nominati. Si manifestò in maniera crescente un problema che era stato caratteristico del sistema politico liberale della prima fase del Regno d’Italia, dal 1861 all’emergere dei grandi partiti politici di massa, dopo la Prima Guerra Mondiale, quello del trasformismo,  quindi di parlamentari che cambiavano con una certa libertà gli schieramenti politici. E, soprattutto, il differente sistema di attribuzione del premio di maggioranza tra Camera dei Deputati e Senato creò un’asimmetria tra le due Camere, per cui le maggioranze di governo furono molto meno solide al Senato rispetto alla Camera dei Deputati. L’esperienza di questo problema spiega anche il perché nell’ultima riforma ci si sia tanto occupati di riformare il Senato. Con la legge elettorale del 2005 fu sempre più difficile produrre e, soprattutto, mantenere stabile il bipolarismo. Ideata dal centro-destra, nelle elezioni politiche del 2006 la riforma favorì, contro le aspettative, il centro-sinistra.  Ma quest’ultimo entrò rapidamente in crisi e alle elezioni politiche anticipate del 2008 vinse la coalizione di centro-destra, che però a sua volta entrò in crisi terminale dopo soli tre anni, nel 2011, passando la mano, a seguito dei problemi creati dalla durissima fase di depressione economica globale manifestatasi proprio a partire dal 2008,  con inizio negli Stati Uniti d’America per il crollo del valore di prodotti finanziari collegati al mercato immobiliare, e nonostante che la coalizione di governo potesse ancora contare su una maggioranza parlamentare di governo piuttosto solida. Questo dimostra che non basta rafforzare, per così dire artificialmente, agendo sui sistemi elettorali, le maggioranze di governo, per avere governi stabili e  politiche di governo di lungo periodo.  E’ appunto nel 2011 che inizia l’attuale fase politica, caratterizzata da una eclisse del Parlamento e dall’intento di fare del Governo il cardine dell’intero sistema costituzionale. 
  Nel 2011 l’impotenza di fatto dimostrata dalla maggioranza parlamentare di governo produsse anche la crisi del governo da essa espresso. Bisogna ricordare che nelle dinamiche della crisi incise anche un pronunciamento nel settembre 2011, invocato anche da diversi organi di stampa, del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, che richiamava l’attenzione della politica sulla questione morale [testo in http://www.focl.it/index2.php?option=com_docman&task=doc_view&gid=198&Itemid=9 ]. Al vertice della Repubblica rimaneva integra, in definitiva, un’unica istituzione fondamentale ancora capace di indirizzo politico ed era la Presidenza della Repubblica. Quest’ultima scelse ed accreditò, con la nomina a senatore a vita, quindi al di fuori di elezioni politiche, un nuovo Presidente del Consiglio dei ministri, a capo di un governo tecnico, con il limitato compito di fronteggiare l’emergenza economica, sostenuto da entrambi i maggiori schieramenti politici, ma non sulla base di un accordo organico di lungo periodo tra di essi. È in questo periodo che iniziarono i processi di riforma costituzionale che hanno portato nell’aprile di quest’anno all’approvazione della più estesa revisione costituzionale dal 1948, con la modifica di 50 articoli su 139..  Prima fu nominata, dal Presidente della Repubblica, una commissione di esperti composta da Valerio Onida, Mario Mauro, Gaetano Quagliarello e Luciano Violante, con il compito di dare indicazioni su una riforma costituzionale. Sotto il successivo Presidente del Consiglio, nel giugno 2013, il Governo, che ancora fondava la sua autorità essenzialmente sull’autorità del Presidente della Repubblica in quanto dalle elezioni politiche del 2013 era scaturita una maggioranza politica parlamentare instabile, nominò poi una Commissione per le riforme costituzionali di 35 esperti non parlamentari, con un comitato di redazione di sette professori di diritto. Da questo momento la riforma costituzionale entrò nel programma di governo e ebbe nel Governo il suo primo motore. L’attuale Presidente del Consiglio, in carica dal febbraio 2014 sulla base di un accordo politico con il leader  del centro-destra denominato Patto del Nazareno che prevedeva nel programma di governo la riforma costituzionale, ha mantenuto questa impostazione, vale a dire di considerare la revisione costituzionale come un affare essenzialmente del Governo, dando un forte impulso ai processi parlamentari di deliberazione, conclusisi nell’aprile di quest’anno, con l’approvazione della legge di riforma da parte del Parlamento in seconda votazione, secondo la procedura prevista dall’art.138 della Costituzione. La legge di riforma costituzionale approvata quest’anno risente del clima emergenziale, di patto per la salvezza nazionale, in cui è maturata, con le due maggiori coalizioni politiche che, sotto il magistero del Presidente della Repubblica, si accordavano per riforme  indifferibili richieste per superare la grave crisi che da economica si era fatta sociale, a causa della crescente perdita di posti di lavoro, in particolare nelle fasce dei più giovani, e per la necessità di ridurre, per esigenze di finanza pubblica, le prestazioni di stato sociale. Essa presenta infatti significative assonanze, per quanto riguarda la struttura del Parlamento, con quella varata dalla coalizione di centro-destra nel 2005 e respinta nel referendum costituzionale tenutosi l’anno successivo, proprio dieci anni fa. Va invece in direzione contraria alla riforma del 2005 quanto all’autonomia regionale. 
  In politica stiamo vivendo in conclusione, in una specie di nicchia della storia, in una fase di transizione. Infatti, tutti i maggiori protagonisti dell’attuale fase politica, sia nel centro destra che nel centro sinistra, come anche nel nuovo movimento che è venuto a costituirsi come terzo polo, in una classifica che nei sondaggi lo vede a volte al primo posto  o comunque al secondo sul podio della politica nazionale, sono convinti che a breve inizierà un’altra fase storica, sciogliendo il patto emergenziale che fu all’origine di quella attuale. La convinzione di essere alle soglie di quello che gli storici chiamano passaggio di fase  è quindi abbastanza condivisa.
 Quali sono state le caratteristiche dall’attuale  fase della politica?
 Al centro delle preoccupazioni di tutti è stata la dinamica della depressione economica globale che non sembra ancora dare segni di risolversi, caratterizzata in particolare dalla rilevante perdita di posti di lavoro. Tutte le manifestazioni, finora effimere, di miglioramento indicano che se, ad un certo punto, ci sarà una ripresa, essa sarà, come dicono gli economisti, job-less, senza aumento di posti di lavoro. A fronte di questa situazione gli stati dell’Unione Europea hanno adottato misure emergenziali, tra le quali un accordo molto impegnativo  per la stabilità della finanza pubblica, nel 2012, che richiede, oltre al mantenimento di una proporzione definita e obbligatoria tra debito pubblico e la produzione annuale di  ricchezza nazionale,  anche la riduzione della pressione tributaria sull’economia e una corrispondente riduzione delle prestazioni di  benessere sociale al fine di  contenere la spesa pubblica nel limite delle entrate di finanza pubblica, ad esempio di quelle per sanità e pensioni. Inoltre le politiche dell’Unione spingono verso un recupero della competitività del fattore di produzione costituito dal costo del lavoro, riducendo i meccanismi legali di protezione della stabilità del posto di lavoro e di fissazione di limiti salariali. Si pensa che queste ultime misure potranno rendere più conveniente produrre in Europa e che quindi portino ad un aumento dell’occupazione: previsione questa finora non avveratasi, in quanto il costo del lavoro europeo, gravato di oneri sociali, per garantire ai lavoratori dignità e protezione nelle malattie, gravidanze e vecchiaia, non potrà mai competere con quello di altri stati del mondo in cui quegli oneri o non ci sono o sono molto più bassi. La crisi globale dell’economia può essere affrontata dall’Europa solo in unità di intenti tra tutti gli stati membri dell’Unione, perché la crisi è globale  e non può essere affrontata se non con risposte e soluzioni globali. Ma le soluzioni finora escogitate sono fortemente impopolari perché comportano la forte diminuzione di servizi e altre prestazioni sociali. In un sistema politico come quello italiano che, dagli anni ’80, si era sempre più basato sullo scambio tra consenso elettorale e vantaggi corporativi ottenuti presso i  politici favoriti da quel consenso, questa situazione ha comportato la necessità dei governi nazionali di affrancarsi da quel tipo di consenso.  Questo ha portato alla crisi politica, nell’autunno del 2011,  dell’ultima formazione politica di governo di quella che viene chiamata Seconda Repubblica(per distinguerla da quella di De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti, Togliatti, Berlinguer, Nenni e Craxi, La Malfa, Malagodi e Almirante per intenderci), quella caratterizzata dal sistema dell’alternanza bipolare.  I governi, dal 2011, non potevano più promettere alla maggioranza degli elettori se non, e parafraso un celebre detto di Winston Churchill in una fase drammatica del Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale, lacrime e sangue. In un certo senso i governi della fase di nicchia apertasi alla fine del 2011 sono stati spinti dall’emergenza nazionale a rendersi autonomi dal Parlamento e dal corpo elettorale che l’esprimeva. Tanto che, al prodursi della crisi politica del 2011, non si andò a nuove elezioni politiche. L’autorità dei governi, che possiamo definire di salvezza nazionale, si basò sull’autorità morale del Presidente della Repubblica e sull’apprezzamento delle autorità dell’Unione Europea. La gestazione della riforma costituzionale, dalla fine del 2011 all’aprile 2016,  riflette il tentativo di rendere stabile questa nuova situazione e, infatti, la riforma costituzionale modifica il sistema delle istituzioni fondamentali della Repubblica centrandolo sul governo (mentre prima era centrato sul Parlamento), intorno al quale ruotano gli altri  vari centri di decisione: le Camere del Parlamento, le Regioni, le Città Metropolitane e i Comuni, tutto il sistema economico, insomma, secondo un’espressione che si trova nella legge di riforma, “l'unità giuridica ed economica della Repubblica”E’ questo il senso effettivo della riforma costituzionale ed è pertanto su questo, essenzialmente, che dovrebbe basarsi, a mio parere, la valutazione dei votanti nel prossimo referendum.
  Come è stato osservato da molti esperti di diritto pubblico, il disegno della riforma è stato anticipato dalla nuova legge elettorale per la Camera dei deputati, approvata nel 2015. Il disegno politico che sta alla base della riforma costituzionale, in effetti, non può veramente funzionare se non insieme a quella precedente riforma elettorale. La nuova legge elettorale per la Camera dei deputati assegna una solida maggioranza di controllo, in quella che con la riforma costituzionale diventerà la Camera prevalente, quella da cui dipenderà in particolare la legittimazione dei governi mediante i voti di fiducia, al partito, non più alla coalizione, di maggioranza relativa, quindi, come è stato osservato al maggiore dei partiti  di minoranza. E il premio di maggioranza è in effetti un premio di minoranza (così l'ha definito Gustavo Zagrebelski).  Il governo quindi sarà espresso da quel partito, non più da una coalizione  di partiti. L’impostazione di quella legge elettorale per la Camera dei deputati dipende dall'ideologia politica cosiddetta "del partito a vocazione maggioritaria" promossa da alcuni settori del centro-sinistra nel corso ed a fronte delle  difficoltà politiche, paralizzanti, emerse durante la  legislatura 2006-2008 nella maggioranza di centrosinistra. In base a quell'ideologia ci si propone di realizzare un governo espressione di un solo partito, maggioritario nella Camera dei deputati in base ai voti ricevuti o per effetto  del premio di maggioranza, non di una coalizione, superando in tal modo i problemi creati al governo dalle divergenze insanabili ciclicamente manifestatisi all'interno delle coalizioni e anche il potere di ricatto di partiti minori facenti parte di esse e decisivi per il mantenimento della maggioranza parlamentare.
   Il partito di maggioranza relativa e il suo governo, con elezioni condotte con i nuovi criteri, saranno posti così al centro del sistema politico italiano, quindi di una specie di sistema solare nel quale essi saranno al posto del sole, con intorno, ad orbitare come pianeti satelliti, gli altri centri di decisione politica. Per l’effetto della legge elettorale, che darà a quel partito una solida maggioranza parlamentare, non sarà più necessario contrattare ulteriormente con le parti sociali il consenso politico. Ma nella nostra epoca i partiti non sono più quelli,  solidi,  che ci sono stati fino alla fine degli anni ’80: sono invece definiti liquidi, basati più su un consenso instabile ottenuto mediante strategie analoghe a quelle utilizzate per la vendita dei prodotti commerciali che su un forte radicamento sociale sul territorio nazionale. E, infatti, come i prodotti commerciali, i partiti nazionali contemporanei cambiano spesso, con molta disinvoltura, le denominazioni e i profili proposti al corpo elettorale. In una situazione così, sarà il governo espresso dalla maggioranza politica al centro di tutto il sistema politico, perché, in definitiva, il partito sarà tenuto coeso dapprima dal gruppo politico candidato al governo e poi, vinte le elezioni, dal governo in carica. Quindi invece che ruotare intorno ai 730 (più gli ex Presidenti della Repubblica) parlamentari del Parlamento riformato, il sistema politico nazionale ruoterà intorno alle circa venti persone, o meno, che, presidente del Consiglio dei ministri compreso, comporranno, il governo, ma, in definitiva, intorno al presidente del Consiglio, che verosimilmente continuerà ad essere anche il leader del partito di maggioranza, l’unico in grado di dare coesione sia al sistema di governo che a quello di partito. 
 Le prime elezioni politiche della Camera dei deputati condotte con la nuova legge elettorale e dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale determineranno la fine della fase di nicchia  della politica nazionale apertasi a fine 2011. In quel momento, infatti, l’autorità del governo in carica non dipenderà più da una informale legittimazione aggiuntiva, potenziante,  concessa dal Presidente della Repubblica e dall’Unione Europea, per gestire un fase emergenziale.
 Difficile prevedere chi vincerà quelle elezioni, che potrebbero riservare notevoli soprese, secondo gli attuali sondaggi. E’ però verosimile che il leader  del partito vincente avrà in mano la Repubblica, per la posizione rafforzata che il Governo avrà nella Costituzione rafforzata. Ma per fare che? E’ un bel problema capirlo. 
 Finita la fase emergenziale gestita in accordo con le autorità dell’Unione Europea, che in qualche modo tracciavano quella via di lacrime e sangue  di cui ho parlato, e quindi un preciso programma di governo, quali saranno le nuove politiche nazionali? 
 I maggiori partiti nazionali, e i loro leader, parlano di riforme, genericamente, quindi si propongono di essere attivi, ma i loro programmi politici non sono per ora intelligibili in dettaglio, perché in genere ci si limita alla propaganda, mediante la quale, sostanzialmente si propone agli elettori di accettare, in cambio del consenso politico, una cambiale  in bianco a lunga scadenza. Si chiede il consenso politico, ma anche mani libere. Il nostro futuro nazionale sarà, in definitiva, affidato alla buona volontà e alle capacità di quella ventina di persone che, sulla base di quel consenso, avranno raggiunto il potere. Di lì, per effetto anche della riforma costituzionale, potranno cambiare veramente l’Italia, come mai a un governo del passato è stato concesso. E i cambiamenti potrebbero essere difficilmente reversibili. Le remore poste dal Parlamento non saranno più sufficienti a impedirli, perché la Camera dei deputati sarà controllata dalla maggioranza di partito che sostiene il Governo e il Senato sarà Camera minore, destinata a soccombere in molti affari di stato. Il Governo, infine, attraverso la Camera da esso controllata potrà invadere piuttosto liberamente il campo che in Costituzione è assegnato alla Regioni e nel nuovo Senato, espressione tendenzialmente di particolarismi territoriali locali, potrebbe non essere facile coalizzare, tra gli esponenti eletti da tante  Regioni, la maggioranza assoluta dei suoi componenti necessaria per tentare di bloccare l’invasione da parte di una  legge dello stato delle competenze legislative di una  Regione  (le leggi statali che invadono il campo legislativo regionale sono soggette a una procedura  di approvazione rafforzata  che potenzia il ruolo del Senato, restando comunque l'ultima parola alla maggioranza assoluta della Camera dei deputati).
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La Terza Repubblica del partito maggioritario

   La Terza Repubblica, quella che verrà dopo l’attuale fase di transizione dal sistema bipolare  dell’alternanza tra coalizioni di opposti orientamenti, sarà caratterizzata dal dominio di un partito maggioritario. Questo però non è scritto nella riforma costituzionale sulla quale decideremo nel  referendum del prossimo 4 dicembre. E’ un effetto combinato di quella riforma  e  della nuova legge elettorale per la Camera dei Deputati. E’ un peccato che i teorici della riforma costituzionale non abbiano inserito nella revisione costituzionale qualcosa su questo effetto istituzionale, in modo che i cittadini potessero pronunciarsi in merito.
 Il nuovo Parlamento rimane bicamerale, ma con una delle sue Camere predominante: la Camera dei deputati. In questa Camera, per effetto della  sua nuova legge elettorale, un solo partito  avrà, comunque, per effetto di un premio di maggioranza, la maggioranza assoluta, vale a dire più della metà dei deputati, 340 deputati su 630. Questo non era mai avvenuto nella storia della Repubblica democratica
  La Camera dei deputati eserciterà poi la supremazia statale sulle Regioni. Con quella maggioranza assoluta potrà superare l’opposizione del Senato in quella materia. 
 Per l’elezione del Presidente della Repubblica da parte del Parlamento in seduta comune (che sarà composto solo dai deputati e dai senatori) la riforma prevede che dal settimo scrutinio sia sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti. E’ stato osservato che questo potrebbe abbassare molto il numero di voti necessario per l’elezione, fino a 220, se si tiene conto che le delibere saranno valide se sarà presente la maggioranza, la metà più uno, dei componenti (per quanto è difficilmente pensabile che in un’occasione politica così importante ci sia una rilevante diserzione dei parlamentari). In queste votazioni il Senato conterà molto meno che nel passato, perché avrà meno di un terzo dei membri attuali. Non sono più previsti delegati regionali, perché sarà il nuovo Senato ad esprimere le autonomie locali.  Il partito maggioritario in questa elezione disporrà di 340 voti alla Camera dei Deputati e probabilmente di una cinquantina al Senato, a seconda delle Regioni che controllerà: in totale circa 390 voti. Gli mancheranno solo una cinquantina di voti per eleggere un proprio  presidente alla quarta votazione, quando saranno necessari i tre quinti dei componenti dell’assemblea, e ancora meno dalla settima. Un obiettivo non difficile da raggiungere se si considera l’elevato trasformismo  che ha caratterizzato le ultime legislature, con parlamentari che cambiavano di schieramento con una certa disinvoltura. Con un proprio  Presidente della Repubblica il partito maggioritario, che controllerà sostanzialmente il Parlamento, potrà affrancarsi dall’autorità morale dell’istituzione che, nella fase di transizione che stiamo vivendo, iniziata nell’autunno 2011, gli aveva dato un sovrappiù di legittimazione, ma ne aveva anche condizionato le strategie politiche. 
  Ma vi è di più: l’intera Costituzione, molto più di ora, sarà nelle mani del partito maggioritario. Già ora la riforma costituzionale in decisione nel referendum è stata approvata a colpi di maggioranza parlamentare, da una coalizione parlamentare ben determinata a farlo. Ma in futuro, rimosso l’ostacolo che in passato aveva costituito il Senato con la sua maggioranza asimmetrica rispetto a quella della Camera dei deputati, l’iniziativa di revisione costituzionale di quel partito  maggioritario avrà ancora meno ostacoli, tenendo presente che esso, a causa dei sistemi elettorali regionali che prevedono premi di maggioranza, potrebbe controllare molte Regioni e quindi esprimere anche la maggioranza dei senatori. Infatti, nonostante diversi specialisti di diritto pubblico lo richiedessero, non è stato modificato il primo comma dell’art.138 della Costituzione, che prevede che le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali siano approvate  a maggioranza assoluta  dei  componenti di ciascuna camera, per mettere al sicuro la Costituzione dagli effetti dei premi di maggioranza parlamentare richiedendo invece maggioranze più elevate per modificare la Costituzione.
 Quale sarà il partito maggioritario  che inaugurerà la Terza Repubblica? Difficile prevederlo, stando agli attuali sondaggi. Ognuno, in cuor suo, pensa, spera, che sia il proprio, ma non è detto. Prudenzialmente sarebbe meglio ragionare come se fosse quello che gli si oppone.
 E poi: ci sarà ancora l’alternanza  tra partiti maggioritari, come quella che si è prodotta tra coalizioni  di partiti tra il 1994 e il 2011? Anche questo è difficile prevederlo. Non è scontato. Perché un partito maggioritario  tenderà a rimanerlo, quindi a produrre strategie di governo che consolidino il suo potere politico. In una coalizione questo, in passato, si è rivelato più difficile. Ma in un solo partito…
  Ma, si può osservare, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America non è così che si governa, con partiti maggioritari? E’ vero, ma è tutta questione di pesi  e di  contrappesi, ciò che appunti distingue una democrazia, il governo di tutti, da una oligarchia, il governo di pochi. Il  Presidente degli Stati Uniti d’America, il quale, per ora, è considerato la persona più potente del mondo, ha subito molte limitazioni al suo grande potere, ad esempio ad opera del Senato federale, della Corte Suprema, delle stesse autonomie degli stati federati. E’ stato osservato che, nel quadro della riforma, questi contrappesi  al potere dell’esecutivo sono troppo deboli, ad esempio con una Corte Costituzionale in cui la componente di origine parlamentare potrebbe diventare  di orientamento esclusivamente filogovernativo, come anche quella di origine presidenziale, se riuscisse al partito maggioritario  di nominare un proprio  Presidente della Repubblica.
 Mi pare di poter concludere così:  nel prossimo referendum costituzionale non  è questione solo di modifiche di dettaglio, per rimuovere inefficienze e lungaggini del sistema e per ridurre i costi  della politica, ma si tratta di decidere se inaugurare una Terza Repubblica, un sistema istituzionale veramente nuovo, come non c’è mai stato finora nell’Italia della Repubblica democratica.
  Naturalmente le nuove regole delle istituzioni fornirebbero solo delle opportunità  ai volenterosi, non è detto che vengano colte. Per il passaggio di fase alla Terza Repubblica occorre un altro ingrediente: un gruppo di persone, una squadra di governo, che sfruttino certe opportunità. Di fatto, però,  aperta una strada,  è possibile che ci sia chi abbia cuore di percorrerla. 

3i
Un esempio di antico bicameralismo: il Senato degli Stati Uniti d’America, un importante contrappeso  contro il rischio di cambiamenti in peggio

 Gli Stati Uniti d’America sono la più antica democrazia moderna. Sorse alla fine del Settecento. La sua Costituzione da allora ha subito poche modifiche, chiamate emendamenti, tra il 1791 e il 1992. In tutto gli emendamenti sono  ventisette.
 La democrazia statunitense è uno degli esempi più rilevanti di repubblica con un parlamento composto da due camere: la Camera dei Rappresentanti e il Senato. Entrambe queste camere, che insieme compongono il Congresso, il parlamento statunitense, concorrono a legiferare. Ma il Senato ha altri poteri esclusivi, in particolare deve approvare le nomine dei più alti funzionari federali fatte dal Presidente degli Stati Uniti.  Potete trovare notizie più dettagliate sul Senato statunitense all’indirizzo WEB: https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/752013/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione11-h1_h110
 Il Senato degli Stati Uniti d’America si compone di cento membri, due per ogni stato federato nell’Unione e i senatori sono eletti dai cittadini. I senatori non vengono eletti tutti in una volta: il Senato statunitense si rinnova parzialmente ogni due anni. Questo può comportare maggioranze parlamentari diverse alla Camera dei Rappresentanti e al Senato. E’ possibile pensare che i riformatori costituzionali italiani si siano ispirati anche a tale sistema. Certo, però, che il Senato statunitense non è sicuramente una camera minore, una cameretta. E’ previsto che costituisca un effettivo contrappeso sia ai poteri della Camera dei Rappresentanti che a quelli del Presidente degli Stati Uniti. Gli statunitensi non ci vedono nulla di male e, anzi, è un effetto voluto. Questo non ha impedito agli Stati Uniti d’America di divenire progressivamente, dopo la prima Guerra Mondiale, lo stato più potente del mondo, sia dal punto di vista economico che da quello militare. E anche di rinnovarsi periodicamente. Benché infatti il sistema politico statunitense sia bipolare, animato da due partiti, il Partito Democratico e il Partito Repubblicano, ciò non ha impedito clamorose novità, come abbiamo potuto sperimentare in questi giorni.
  Fino agli anni ’80 la partecipazione dei cittadini statunitensi alla politica era diversa, in genere meno intensa, di quella degli europei, e in particolare di quella degli italiani. In particolare, le campagne per le elezioni presidenziali statunitense sono molto costose e può impegnarvisi chi è molto facoltoso di suo e comunque ha un appoggio finanziario di gruppi economici. Questo anche se, in concomitanza con le campagne elettorali presidenziali, vengo avviate raccolte di fondi tra i cittadini elettori. La partecipazione al voto è storicamente più bassa che in Europa. Un elemento di novità delle ultime elezioni presidenziali è stato un aumento della partecipazione al voto: questa è stata una delle ragioni del fatto che i sondaggi demoscopici per i pronostici elettorali hanno fallito. Dagli anni ’90 in Italia la partecipazione al voto elettorale è diminuita, anche se non è mai scesa al livello di quella degli statunitensi. I dati si stanno comunque avvicinando. E’ stata notato anche che il voto di protesta per candidati di rottura con una precedente tradizione politica si è sviluppato sia negli Stati Uniti che in Italia. 
  L’esito delle ultime elezioni presidenziali statunitense è stato inatteso. E questo benché le elezioni si siano svolte in un sistema istituzionale molto solido, di sperimentata funzionalità, senza cambiamenti recenti. Il sistema dei  contrappesi  parlamentari, in particolare senatoriali, ai poteri presidenziali sarà messo sotto sforzo, se il nuovo Presidente vorrà tener fede a tutte le prospettive politiche proposte ai suoi sostenitori.
  Esiti analoghi possono prevedersi dopo la conferma della riforma costituzionale al prossimo referendum. Molte cose cambieranno e questo interagirà con il voto di protesta che negli ultimi anni si è fatto fortissimo. Effettivamente è possibile, anzi probabile, che in quel caso molte cose cambieranno in Italia. Che cambino in meglio dipenderà dalla qualità del personale politico che le nuove regole costituzionali manderà al potere. La sua azione sarà però meno condizionata da un sistema di contrappesi. Questo è un effetto voluto della riforma. Ma come oggi negli Stati Uniti d’America si comincia a temere il cambiamento, pur vigente un sistema molto valido di contrappesi  parlamentari all’arbitrio presidenziale, è possibile che ciò possa avvenire in Italia, per effetto della Costituzione riformata e del nuovo vento della politica che tira da noi, ma con un sistema di contrappesi  molto meno pervasivo.
  Insomma, da noi come negli Stati Uniti d’America il cambiamento potrebbe non significare automaticamente cambiamento in meglio, ciò che appunto si intende quando si auspica un cambiamento. Infatti nessuno vorrebbe cambiare in peggio. Però questa è una delle possibilità della politica. E’ uno dei suoi rischi. Un sistema costituzionale dovrebbe essere congegnato per ridurli. Negli Stati Uniti d’America, con il loro parlamento bicamerale con camere con poteri tali da farsi reciprocamente da contrappeso e da fare da contrappeso ai poteri presidenziali questo congegno di sicurezza ha funzionato. Anche in Italia. Né in Italia né negli Stati Uniti d’America sono sorti, in democrazia, dei despoti. In Italia ne è potuto sorgere uno, tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del secolo scorso, quando si è indebolito il Parlamento, in particolare la Camera dei Deputati, che ad un certo punto venne addirittura abolita dal regime fascista. E il Senato? Che fece il Senato in epoca fascista? I senatori all’epoca erano nominati a vita dal Re su proposta del Governo. Se ne nominarono tantissimi nuovi in modo da modificare in senso favorevole al regime la maggioranza parlamentare del Senato. L’eclisse del Parlamento del Regno d’Italia aprì la strada al fascismo storico.
  La riforma costituzionale sulla quale decideremo al referendum del prossimo 4 dicembre non fa piccoli ritocchi alla nostra Costituzione, ma ne attua una revisione molto incisiva, tale da configurare un nuovo sistema istituzionale. E’ quindi un cambiamento  molto importante. Tutto l’asse politico nazionale ruoterà intorno a un Governo che avrà meno contrappesi, sia in Parlamento, sia negli altri centri decisionali, in particolare nelle autonomie locali. La riforma che riguarda le elezioni della Camera dei deputati potenzierà molto questo effetto, tendendo a formare, in un tempo più o meno breve, una maggioranza parlamentare controllata dal Governo. E’ un po’ la situazione in cui si trovano oggi gli Stati Uniti d’America, con maggioranze parlamentari coerenti con l’impostazione politica del nuovo Presidente dell’Unione. Questa è la ragione per la quale negli Stati Uniti si teme il nuovo corso politico e si fanno manifestazioni di piazza: perché in questa situazione il sistema dei contrappesi  parlamentari sarà verosimilmente meno efficiente, anche se formalmente rimane. La riforma costituzionale italiana lo indebolisce anche dal punto di vista formale.
  Si dice che in Italia servono  riforme, anche se chi ne parla non dice, di solito, più di questo. E si sostiene che il motore delle riforme  deve essere un Governo con le mani libere, perché in passato i processi riformatori si sono arenati in Parlamento. Bisogna però chiedersi se si sono arenati perché, in realtà, ha funzionato il sistema dei contrappesi  di cui il Parlamento, e anche la Corte Costituzionale, e le stesse norme di procedura costituzionale, sono espressione. Se quindi ci sono stati risparmiati cambiamenti in peggio. Di fatto, in particolare  dagli anni ’90, in Italia si sono fatte moltissime riforme.  Le regole per evitare l’umiliazione dei lavoratori e il sistema sanitario nazionale (cure gratuite o quasi per tutti) ne sono esempi. La stessa riforma costituzionale è stata varata piuttosto rapidamente, tra il 2013 e il 2016, tre anni, nell’attuale sistema costituzionale. E il referendum  costituzionale del prossimo 4 dicembre è l’ultimo dei contrappesi  che la Costituzione prevede al potere di revisione delle norme fondamentali della Repubblica. Noi cittadini che voteremo al referendum siamo, collettivamente, questo contrappeso. Rendiamoci conto che  se sbagliamo le cose potrebbero mettersi rapidamente molto male, perché il nuovo sistema lascerà al Governo mani molto più libere. E questo è l’intento dichiarato dei riformatori.

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Informarsi per decidere consapevolmente e responsabilmente: un impegno ogni giorno più urgente. Il referendum costituzionale del 4 dicembre prossimo è l’ultimo “freno di emergenza” costituzionale

  Si studia la riforma costituzionale e si giunge ad una decisione di voto. Questo è il percorso giusto da seguire.
 In questi giorni parlo alla gente della riforma e noto invece che in genere si vuole sapere come votare prima di conoscere la legge di revisione. Sembra che addirittura nove su dieci siano in questa situazione. Mancano diciannove giorni al referendum. Il tempo è poco per informarsi e chiedere chiarimenti (la maggior parte delle persone ne ha necessità). Ma è ancora possibile farlo. In coscienza ritenete di saperne abbastanza?
  Vorrei segnalare alcuni temi.
  La riforma costituzionale incide profondamente sul nostro sistema istituzionale, tanto da configurare una vera e propria Terza Repubblica. E' effettivamente una riforma epocale. Essa non è stata ideata dall'attuale Presidente del Consiglio, che si è limitato a seguirne gli ideologi e a imprimere forza politica al processo legislativo che l'ha prodotta.
  L'esposizione chiara, lucida, inequivocabile, delle finalità della revisione costituzionale si trova nel libro di Stefano Ceccanti, "La transizione è (quasi) finita". Ceccanti chiarisce che la riforma della legge elettorale della Camera dei deputati è una parte fondamentale della riforma. Su di essa però non potremo decidere al referendum del 4 dicembre. 
  La posizione del Governo viene molto rafforzata, ma non del tutto esplicitamente, mediante diverse disposizioni il cui effetto combinato non è facile capire. Non sono d'accordo con chi dice che non vengono toccati i poteri del Governo: in effetti vengono ampliati. Ma è vero che ad uno sguardo distratto può sembrare che tutto rimarrà come prima. Non è così. L'esposizione più chiara degli aspetti critici della riforma l'ho trovata nel libro di Gustavo Zagrebelsky "Loro diranno, noi diciamo", disponibile anche in e-book. Leggendo i libri di Ceccanti e di Zagrebelsky si può avere un panorama sufficientemente completo della riforma.
  La transizione ad una Terza Repubblica si basa su tre principi. Il primo: una Camera dei deputati come Camera maggiore, la sola a votare la fiducia al Governo, controllata da un partito "maggioritario" per effetto della riforma della legge elettorale di quell'organo. Il partito maggioritario è un partito che ha una solida maggioranza assoluta nella Camera che deve votargli la fiducia. Una situazione così non si  è mai verificata nell'Italia della Repubblica democratica. Il secondo, appunto: la fiducia al Governo votata solo dalla Camera dei Deputati. Il terzo: il Governo arbitro assoluto dell'interesse nazionale nei confronti delle autonomie locali attraverso una modifica di dettaglio ad una disposizione costituzionale. Una volta accettati questi principi, la configurazione del Senato era un problema secondario  e il risultato della riforma in questa parte è dipeso dalla volontà dei riformatori di arrivare ad un accordo politico con il centrodestra sulla legge di revisione, che c'è stata all'inizio dell'iter legislativo della revisione costituzionale e che poi non c'è stata più. L'attuale Senato assomiglia un po', quindi, al Senato previsto dalla riforma costituzionale del 2005, non confermata da un referendum costituzionale del 2006. Ma è solo una superficiale assonanza, perché i sistemi istituzionali delle riforme del 2005 e del 2006 sono di orientamento opposto: federale il primo, accentratore il secondo.
  Va aggiunto che il partito che ha promosso la riforma controlla attualmente la maggior parte delle Regioni e quindi i riformatori prevedevano un Senato, eletto nella massima parte dai consiglieri regionali, coerente con una Camera dei deputati controllata dal loro Governo.
 Quindi: un partito maggioritario organizzato intorno a un Governo forte che non trova ostacoli nell'approvare un progetto di "riforme", che allo stato però non è ben esposto, senza più la necessità di cercare l'alleanza con partiti minori e transfughi di altri partiti. Va aggiunto che, con il vento favorevole, il partito maggioritario potrebbe riuscire a eleggere un proprio Presidente della Repubblica e ad ottenere una maggioranza favorevole alla Corte Costituzionale, per effetto di altre modifiche di dettaglio della legge di revisione. Questo effetto di rafforzamento dell'azione di governo è proprio quello che i riformatori e lo stesso Presidente del Consiglio dichiarano di voler ottenere. Non l'hanno nascosto: è un punto fondamentale della loro propaganda elettorale. 
  Il problema è che attualmente non esiste un chiaro disegno riformatore e una base sociale disposta a sostenerlo. Prevale infatti l'antipolitica, il voto di protesta analogo a quello che ha determinato l'inaspettato esito delle presidenziali statunitensi. Il rafforzamento dell'azione di governo è quindi artificiale. Questa è l'obiezione principale che fin dagli anni '80 venne posta ai precursori degli attuali riformatori. Questi ultimi pensano di riuscire a coalizzare un consenso politico "dopo" la riforma, intorno al giovane attuale Presidente del Consiglio, che ambisce a percorrere una storia politica analoga a quella del britannico Tony Blair. Di fatto, quando si parla di "riforme" in dettaglio, e lo si fa di rado, si capisce bene che saranno "dolorose" per molti, perché andranno ad incidere sui diritti sociali. Un Governo che andasse deciso per quella strada, andando d'accordo solo con "chi ci sta"  e forte della sua maggioranza parlamentare di controllo, probabilmente si troverebbe a fronteggiare, ma anche a produrre, un rilevante scontro sociale. 
  Un'ultima questione: la riforma, ideata per un preciso partito, potrebbe mandarne al potere, stando agli attuali sondaggi, un altro. Quando si valutano riforme di questa portata bisognerebbe ipotizzare che accadrebbe se favorissero gli avversari. Penso che ora i riformatori siano terrorizzati da certe prospettive. Ma ormai non c'è più tempo per correzioni e il Presidente del Consiglio ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, secondo il suo costume, che finora gli ha aperto la strada in un mondo politico storicamente piuttosto bloccato. Il destino dell'Italia è affidato, in definitiva, solo al prossimo referendum costituzionale, l'ultimo dei "freni costituzionali d'emergenza" disponibili. Ecco la necessità di una scelta consapevole, informata. Sarebbe sbagliato il voto di protesta o decidersi seguendo la personalità verso la quale si sente maggiore afflato emotivo. Si tenga conto che, varata la riforma, le eventuali correzioni dovrebbero farsi con le nuove regole ed esse saranno più difficili di oggi. Infatti, nell'intenzione dei riformatori la revisione costituzionale di quest’anno dovrebbe essere piuttosto stabile. E' per questo che hanno previsto che le future riforme costituzionali debbano farsi con procedimento bicamerale, con il concorso, come ora, di Camera dei Deputati e Senato. Attesa la struttura molto diversa dei due organi costituzionali dopo la revisione costituzionale, nel nuovo sistema istituzionale sarà difficile coalizzare un sufficiente consenso parlamentare per future revisioni.
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Una riforma epocale

   Parlando con le persone che incontro mi sono reso conto che molte di loro ancora non hanno compreso su che cosa si deciderà nel referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre e i più decideranno sulla base dell’opinione che hanno sull’attuale Presidente del Consiglio dei ministri e sulle istituzioni dell’Unione Europea. In genere si rifiuta il dialogo sui contenuti della riforma costituzionale e ci si limita a ripetere meccanicamente gli slogan della propaganda elettorale in corso. In particolare vanno molto quelli centrati sul cambiamento: “Perché non vuoi cambiare?”, “Comunque qualche cosa cambierà!”, “Sei anziano, conosci il passato, perché allora non vuoi cambiare?”, “Sei giovane, perché non vuoi cambiare?”.
  Effettivamente, se la riforma costituzionale verrà confermata, molte cose cambieranno. Si tratta infatti di una revisione costituzionale epocale. Nulla di simile c’era stato prima.
 Trascrivo su tema alcuni brani del libro di Stefano Ceccanti, La revisione è (quasi finita), di quest’anno (Ceccanti è considerato uno dei padri  della revisione costituzionale):
“[pag.30-35] Le leggi di revisione dal 1 gennaio 1948 sono state 15.  Sono stati modificati 34 dei 139 articoli (ma dopo il 2001 ne restano 134), alcuni dei quali più di una volta. Dei primi 54 articoli (Principio fondamentali, Diritti e doveri dei cittadini) ne sono stati modificati solo tre: il 27, per proibire la pena di morte; il 48, per consentire il diritto di voto all’estero; il 51, per promuovere l’eguaglianza di genere e permettere le quote rosa nelle leggi elettorali.
[…]
Tre modifiche minori sono state varate negli anni ’60:
a)due nel 1963 che hanno previsto un numero fisso di deputati e senatori anziché un numero variabile rispetto agli abitanti, la parificazione della durata di cinque anni tra Camera e Senato  […] infine l’istituzione della Regione Molise;
b) una nel 1967, con la modifica dell’art.135 per parificare a 9 anni la durata in carica di tutti i giudici costituzionali.
 Tutte le altre sono state introdotte dal 1989 in avanti, e sono state di carattere puntuale, su una singola questione, con le sole eccezioni dei due interventi sul Titolo V della parte seconda nel 1999 (elezione diretta dei Presidenti delle Giunte regionali e autonomia statutaria delle Regioni) e nel 2001 (riscrittura pressoché integrale del rapporto tra centro e periferia).
[…]
Non può sfuggire che il 1989 [l’anno in cui iniziarono le riforme costituzionali dei regimi dell’Europa orientale di impronta sovietica - nota mia] sia stato il vero anno di svolta verso un uso più intensivo della revisione.
[…]
Con la legislatura 1994-1996 nasce così non una “seconda repubblica” […] ma un secondo sistema dei partiti, che pure non è poca cosa, giacché supporta le norme costituzionali, ne condiziona l’applicazione e ne orienta anche le ulteriori riforme.
Tutte [le riforme costituzionali approvate dal 1999 al 2012] sono state sostanzialmente consensuali, con l’eccezione della legge n.3 del 2001 sul titolo V [sulle autonomie locali] approvata in Parlamento dal solo centrosinistra a fine legislatura, anche se i contenuti rispecchiavano in sostanza i lavori condivisi dalla Commissione D’Alema [Commissione bicamerale sulle riforme costituzionali istituita nel 1997 e presieduta da Massimo D’Alema].
 Una doppia rottura vera e propria venne invece da parte del centrodestra:
A)la nuova riforma elettorale (legge n.270 del 2005, tuttora in parte vigente [dopo dichiarazione parziale di incostituzionalità del 2014 - nota mia] che aveva soppresso i collegi uninominali nel quadro di una legge proporzionale, caratterizzata da lunghe liste bloccate, combinate con un premio di maggioranza nazionale ala Camera e una sommatoria di premi regionali al Senato;
B)la connessa riforma costituzionale [del 2005, con impostazione federalista - nota mia] che sarebbe stata poi bocciata dal referendum 2006.”
  L’attuale riforma costituzionale, approvata quest’anno, modifica ben 50 articoli della Costituzione e tre leggi costituzionali, compreso l’art.48, nella prima parte della Costituzione, quella dedicata ai Diritti e doveri dei cittadini, disponendo che i cittadini all’estero non voteranno per il nuovo Senato e incidendo in tal modo sul principio di eguaglianza dei cittadini. E’ quindi una riforma senza precedenti, veramente epocale.  Essa segue il metodo delle riforme istituzionali approvate a colpi di maggioranza nel 2005 dai partiti di centrodestra: legge elettorale e riforma costituzionale. Le riforme del 2005 ne costituiscono antecedenti di ispirazione, anche se nella riforma di quest’anno è sparita l’impostazione federalista e, anzi, si  è andati verso un nuovo accentramento di poteri non tanto genericamente verso lo Stato, quanto specificamente verso il Governo nazionale. Questo spiega perché fino al 2015 la riforma costituzionale approvata quest’anno sia stata condivisa con parte delle formazioni di centrodestra.  L’elemento comune è un sistema di ingegneria costituzionale che rafforza significativamente la posizione del Governo nazionale nei confronti degli altri centri di decisione e garanzia dello Stato, in particolare del Parlamento. La riforma di quest’anno la rafforza anche nei confronti delle autonomie locali.
 Le cose, nel caso di conferma della revisione costituzionale, cambieranno sicuramente, soprattutto se al Governo andranno persone intenzionate a sfruttare le opportunità offerte dal nuovo sistema costituzionale. Ma cambieranno in meglio? Un indicatore in merito è quello costituito dalla qualità della classe politica nazionale. Essa infatti esprimerà i nuovi Governi potenziati.  Consideriamo, in particolare, come si sta svolgendo la propaganda per il referendum costituzionale. Diversi politici sembrano cercare di accattivarsi il consenso dei cittadini votanti con argomenti non basati sui contenuti della riforma costituzionale, ad esempio come quelli personalistici basati sull’antipatia o simpatia verso quello o quell’altro, come quello basato sulla necessità di cambiare comunque, come quelli basati su prospettive di interventi economici verso questa o quell’altra categoria o regione. La propaganda referendaria è fatta sostanzialmente di questo ed è quindi una cattiva propaganda. Le emittenti radiotelevisive pubbliche, per quanto ho potuto constatare,  non hanno programmato trasmissioni in cui la riforma fosse spiegata in dettaglio da persone competenti ma neutrali, ed anche con riferimenti storici: sono venute quindi meno ad un loro compito specifico, in ciò non corrette dall’organo parlamentare di vigilanza. Ci si è limitati a mandare in onda scontri personalistici tra persone favorevoli o contrarie alla riforma, in cui, salvo poche eccezioni, i contenuti della riforma non sono emersi. A questa classe politica, con la riforma costituzionale di quest’anno,  si stanno per affidare poteri di governo incomparabili con quelli attribuiti a quelle che storicamente l’hanno preceduta.

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“Perché SÌ” - Ceccanti -, “Perché No”- Scarpinato: due argomentazioni a confronto sul voto al referendum sulla riforma costituzionale

 Vi propongo di seguito le argomentazioni di  Stefano Ceccanti (tratte dal suo libro La transizione è (quasi) finita, Giappichelli), professore universitario favorevole alla riforma costituzionale, e di Roberto Scarpinato (da un intervento del 22-11-16 ad un seminario), magistrato, contrario alla riforma, in merito al voto al referendum del 4 dicembre prossimo.

PERCHE’ SÌ - IL PENSIERO DEL PROFESSORE UNIVERSITARIO STEFANO CECCANTI

Una breve conclusione: la chiusura della transizione opportunità del 2016, sulle spalle dei giganti del 1946

 Ciascuno  di noi avrà quindi tempo fino al referendum costituzionale di ragionare nel merito sul grado di adeguatezza complessiva del testo [della legge di revisione costituzionale del 2016], descritto in modo dettagliato nel capito 4 [del libro sopra menzionato].
  In quella sede si chiarisce anche l’altra dimensione della transizione, quella relativa alla stabilizzazione nel senso di un regionalismo forte, dato che la riforma del bicameralismo si pone all’incrocio tra questo spetto e quello della forma di governo. Anche per esso, come si precisa in quella sede valgono le stesse osservazioni sul cambiamento di clima tra 1946 e 1947 [l’accordo per la scrittura della Costituzione, di ampia intesa tra i partiti che erano stati protagonisti del Comitato di Liberazione Nazionale, viene a divergere da quello per il Governo, che si cristallizza nella formula centrista, e ciò si ripercuote sui lavori dell’Assemblea Costituente, che si svolsero tra il 1946 e il 1947]: non a caso nel Progetto di Costituzione giunto in Aula [dell’Assemblea Costituente], predisposto dalla Commissione dei 75, come ricorda Mortati nella citazione di apertura (*)
[(*) Ricordo che alla Costituente io, quale relatore della parte del progetto di costituzione riguardante il Parlamento, fui tenace sostenitore di un’integrazioen della rappresentanza stessa che avrebbe dovuto affermarsi ponendo accanto alla Camera dei deputati un Senato formato su base regionale (…) Una Camera che fosse rappresentativa dei nuclei regionali offrirebbe il grande vantaggio di fornire quello strumento di coordinamento fra essi e lo Stato che attualmente fa difetto, e che invece si palesa essenziale per conciliare le esigenze autonomistiche con quelle unitarie.  (da una intervista al costituzionalista Costantino Mortati pubblicata sul n.10 del gennaio 1973 della rivista Gli Stati)]
un terzo del Senato doveva essere eletto dai consiglieri regionali.
  Il cuore del progetto di riforma sta quindi anzitutto nella rimozione dell’irrazionalità di due Camere che danno entrambe la fiducia al Governo; irrazionalità tanto più grande dopo il 1993 quando ci si è prefissi l’obiettivo di quello che Duverger [Maurice Duverge, costituzionalista francese, 1917-2014] chiamava la “democrazia immediata”, ossia di una legittimazione diretta del Governo da parte degli elettori attraverso l’elezione dei parlamentari. Sta però anche nella regionalizzazione del Senato che è la vera chiave di volta del completamento della riforma del Titolo Quinti [della Costituzione]. Per quanto infatti si posano cambiare la struttura e la stesura degli elenchi di competenza legislativa (scompare l’elenco della competenza concorrente tradizionale a favore di un ampliamento di quella esclusiva statale e di un nuovo elenco di materie a vocazione regionale) un certo grado di sovrapposizione è comunque ineliminabile. La riforma del Titolo Quinti è quindi in ultima analisi assicurata dai rappresentati dei legislatori regionali in Senato, a cui si affiancano quelli dei sindaci della regione, percepiti come particolarmente vicini ai cittadini.
  Pertanto, sulla scorta dei criteri di giudizio precedentemente esposti in relazione all’analoga transizione francese e ai  limiti politici della seconda fase del lavoro dell’Assemblea Costituente, appaiono pienamente motivate le ragioni di fondo di una riforma significativa  sulle regole istituzionali per approdare coerentemente alla duvergeriana “Europa della decisione”. Essa, peraltro, non è altro che l’insieme degli standard decisionali in grado di ottenere  esiti comparabili a quelli delle altre grandi democrazie del continente in presenza di un sistema dei partiti mediamente più fragile.
  Per questa ragione, ferma la perfettibilità delle singole soluzioni e la possibilità di interventi incrementali ulteriori, col referendum costituzionale la chiusura della transizione  si presenta in questo 2016, per la prima volta, un’opportunità reale. Una scelta che, del tutto a prescindere dal Governo in carica e dal giudizio sulle forze politiche che lo sostengono e lo avversano, poggia sulle spalle dei giganti del 1946, in linea di continuità con le intenzioni originarie, poi in larga parte tradite per le contingenti ragioni di cui ho parlato, dei costituenti. Un indirizzo di riforma di cui l’Italicum [la  legge elettorale per la Camera dei deputati], già vigente ed utilizzabile dal 1 luglio 2016, ha rappresentato un’importante  e coerente premessa col doppio turno nazionale (per l’unica Camera destinata ad avere l’esclusiva del rapporto fiduciario [=che voterà la fiducia ai Governi] che consente la legittimazione diretta dei Governo. La Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha già avuto modo di ritenerlo finalizzato a “un miglior compromesso tra efficienza di governo e rappresentanza dopo un lungo periodo di instabilità”.
  Del resto Costantino Mortati, nell’intervista citata in apertura, dopo aver invitato a riprendere le fila della riforma costituzionale del Senato congelata nel 1946 si diffondeva poi sull’esigenza di giungere a governi di legislatura a partire da una revisione del rigido proporzionalismo allora adottato nel contesto delle grandi divisioni della Guerra Fredda. Divisioni che si stavano progressivamente e irreversibilmente scongelando, omogeneizzando tutto il Paese sui principi della forma di Stato democratico-sociale.
  Sulle spalle dei giganti ciascuno è quindi indotto ad esercitare la propria responsabilità di cittadino prima formandosi un giudizio meditato di merito e poi scegliendo l’opzione più fondata nel referendum costituzionale.
 Ad una lettura positiva delle trasformazioni elettorali e costituzionali in corso dovrebbe condurre anche lo scenario europeo in profonda trasformazione, con le sue opportunità e i  suoi pericoli. Esso richiede indubbiamente un salto di qualità, distinguendo meglio l’integrazione politica più forte della zona Euro dalle cooperazioni ulteriori, giacché i principali problemi che ci troviamo ad affrontare non possono essere affrontati in modo efficace rinazionalizzando le politiche.
  Proprio per questo, sia nella fase attuale centrata sulle dinamiche intergovernative sia anche nelle successive, farà differenza il rendimento istituzionale dei vari Stati nazionali. La scissione tra politics [=le decisioni politiche] che si svolge a livello nazionale e policies [=il coordinamento dei vari centri decisionali] europeizzate ha portato al rigonfiamento dei partiti di protesta che sono sintomi della crisi più che le loro soluzioni; anzi, queste forze, portando a maggiore frammentazione, rischiano di rendere i sistemi meno efficienti, con esecutivi più deboli e di breve periodo e con crisi di governo molto lunghe in  Paesi come, in ultimo, la Spagna che Duverger collocava nell’Europa della decisione. Per fortuna tra i grandi Paesi il Regno Unito appare difeso stabilmente dalla forza selettiva del collegio uninominale maggioritario che ha reso un parentesi il Governo di coalizione tra il 2010 e il 2015 e la Francia dal doppio meccanismo maggioritario rafforzato dal 2000 (elezione diretta del Presidente seguita un mese dopo dalle elezioni all’Assemblea), che regge anche l’urto del partito anti-sistema, mentre la  Germania trova comunque nella sua cultura politica consensuale risorse altrove sconosciute per stabilizzare il sistema, pure al prezzo di comprimere gli spazi di opposizione parlamentare.
  Il fatto che il nostro Paese, proprio in questo contesto europeo, vari nel frattempo riforme ragionevoli (senza seguire chimere di impossibile perfezione assoluta o pretendere la coincidenza con teorie di singoli studiosi o di singoli esponenti politici) che lo possano collocare stabilmente nella duvergeriana “Europa della decisione”, dovrebbe rappresentare un obiettivo largamente condiviso.
 In questo senso il referendum costituzionale del 2016, coronamento di quelli elettorali del 1991 e del 1993 sul superamento della proporzionale, in caso di esito positivo, senza escludere interventi ulteriori, specie sulla forma di governo, potrebbe avere un significato comparabile a quelli francesi del 1958 e del 1962 con cui fu istituita e stabilizzata la Quinta Repubblica facendo transitare  stabilmente la Francia dall’Europa dell’impotenza a quella della decisione. Lo ha del resto chiarito il Presidente Mattarella nel suo discorso del 21 dicembre 2015 alle alte cariche dello Stato quando ha affermato: “Non posso che augurarmi … che questo processo giunga a compimento in questa legislatura. Non entro nel merito di scelte che appartengono alla sovranità del Parlamento e che, stando agli auspici formulati da ogni parte politica, saranno poi sottoposte a referendum. Osservo soltanto che il senso di incompiutezza rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure  si è proposto esplicitamente di rimuovere.”
 Parole su cui tutti dovremmo riflettere meditare.

 [dall’Introduzione  del libro La transizione è (quasi finita) - Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima, Giappichelli, 2016 - paragrafo 5, Una breve conclusione: la chiusura della transizione opportunità del 2016, sulle spalle dei giganti del 1946]

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PERCHE’ NO - IL PENSIERO DEL MAGISTRATO ROBERTO SCARPINATO

Una riforma che rischia di riportare indietro l'orologio della storia
di Roberto Scarpinato
Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo

 I Riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma il rischio è quello di tornare a prima dell’ avvento della Costituzione del 1948, quando il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico.
  Il mio dissenso nei confronti della riforma costituzionale è dovuto a vari motivi che, per ragioni di tempo, potrò esplicare solo in piccola parte.
  In primo luogo perché questa riforma non è affatto una revisione della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente, mutando in profondità l’organizzazione dello Stato, i rapporti tra i poteri ed il rapporto tra il potere ed i cittadini.
  Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione.
Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’articolo 58 della Costituzione vigente che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
  Nella diversa organizzazione del potere prevista dalla riforma, questo potere sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali.
  Poiché, come diceva Hegel, il demonio si cela nel dettaglio, questo dettaglio - se così vogliamo impropriamente definirlo - racchiude in se e disvela l’animus oligarchico e antipopolare che - a mio parere - attraversa sottotraccia tutta la riforma costituzionale, celandosi nei meandri di articoli la cui comprensione sfugge al cittadino medio, cioè a dire alla generalità dei cittadini che il 4 dicembre saranno chiamati a votare.
  I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario, questione sulla quale si può concordare in linea di principio, ma glissano su un punto essenziale: Perché pur riformando il Senato avete ritenuto indispensabile espropriare i cittadini del diritto - potere di eleggere i senatori?
  Il bicameralismo così come lo volete riformare non poteva funzionare altrettanto bene lasciando intatto il diritto costituzionale dei cittadini di eleggere i senatori?
  Perché questo specifico punto della riforma è stato ritenuto tanto essenziale da determinare addirittura l’epurazione dalla Commissione affari costituzionali dei senatori del Pd - Corradino Mineo e Vannino Chiti - che si battevano per mantenere in vita il diritto dei cittadini di eleggere i senatori?
  Forse uno degli obiettivi che si volevano perseguire, ma che non possono essere esplicitati alla pubblica opinione, era proprio quello di restringere gli spazi di partecipazione democratica e di estromettere il popolo dalla macchina dello Stato?
  Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli spazi di democrazia e di rappresentanza?
  Questo travaso di potere dai cittadini alle oligarchie di partito non riguarda solo il Senato, ma anche la Camera dei Deputati e viene realizzato mediante sofisticati meccanismi che sfuggono alla comprensione del cittadino medio.
  La nuova legge elettorale [per l’elezione della Camera dei deputati] nota come Italicum, che costituisce una delle chiavi di volta della riforma, attribuisce infatti ai capi partito e ai loro entourage il potere di nominare ben cento deputati della Camera, imponendoli dall’alto senza il voto popolare.
  Questo risultato viene conseguito mediante il sistema dei capilista bloccati inseriti di autorità nelle liste elettorali presentate nei 100 collegi nei quali cui si suddivide il paese, e che vengono eletti automaticamente con i voti riportati dalla lista, senza che nessun elettore li abbia indicati.
  Gli elettori potranno esprimere un voto di preferenza per un altro candidato oltre il capolista, ma i voti di preferenza così espressi saranno presi in considerazione solo se lista da loro votata avrà ottenuto più di cento deputati in campo nazionale, perché i primi cento posti sono bloccati per le persone “nominate” dai gruppi dirigenti del partito in base a particolari vincoli di fedeltà.
  Così per formulare un esempio, se una lista ottiene un totale nazionale di voti pari a 100 deputati, nessuno dei candidati scelti dagli elettori dal 101 in poi con il voto di preferenza potrà essere eletto alla Camera, perché tutti i posti disponibili sono stati esauriti.
  Ora poiché il premio di maggioranza previsto dall’Italicum attribuisce al partito vincitore delle elezioni 340 deputati su 630, tutti i partiti della minoranza potranno portare alla Camera nel loro insieme complessivamente 290 deputati, e, quindi, ciascuno solo una quota di deputati intorno a 100 o ad un sottomultiplo di cento.
  Il che significa che entreranno alla Camera per le minoranze solo i capilista bloccati, nominati dai capi partiti. Nessuno o quasi dei candidati scelti dagli elettori oltre i cento con i voti di preferenza, farà ingresso in Parlamento.
  Ne consegue che ben due terzi dei cittadini italiani votanti, tanti quanti sono rappresentati dalla somma dei partiti della minoranza nell’attuale panorama tripolare nazionale, saranno di fatto privati del diritto di scegliere i propri rappresentanti alla Camera.
  Se questa è la sorte riservata ai cittadini elettori delle minoranze, è interessante notare come il congegno dei cento capilista bloccati, unito ad altri, consegua poi l’ulteriore risultato antidemocratico di determinare una distorsione della rappresentanza parlamentare anche nel partito di maggioranza, e di realizzare una sostanziale abolizione della separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo.
  Per spiegare come ciò verifichi, occorre comprendere come opera il combinato disposto della riforma e dell’Italicum.
  L’articolo 2 comma 8 dell’Italicum stabilisce: “I partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. In questo modo il voto per la forza politica “che si candida a governare” è anche il voto per il “capo della forza politica” che si candida a divenire il capo del governo, in contrasto con l’art. 92 della Costituzione, rimasto inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Come è stato osservato, sarà ben difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia, destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.
  Ciò posto, tenuto conto che, come accennato, l’Italicum attribuisce alla medesima oligarchia di partito che esprime il leader della forza politica candidato a capo del governo, la possibilità di nominare cento deputati della Camera, è evidente che tale gruppo oligarchico nominerà capilista, e quindi deputati ipso facto, tutti i componenti del gruppo ed i fedelissimi del leader.
  Si tratta di un numero di deputati che già di per se attribuisce al futuro capo del governo la Golden share per il controllo della maggioranza alla Camera dei deputati, perché equivale a circa un terzo dei deputati eleggibili dal partito.
  Qualunque studioso di diritto societario sa bene che l’amministratore delegato di una azienda che detiene un terzo della quota azionaria, è in grado di controllare l’intera azienda. Ma non finisce qui. Il leader futuro capo del governo ed il suo entourage dopo avere nominato 100 deputati, tanti quanti sono i collegi elettorali del paese, sono gli stessi che formano la lista degli altri candidati non bloccati, per i quali gli elettori hanno la possibilità di esprimere una preferenza o due a condizione che si votino candidati di sesso diverso.
  La riforma costituzionale non prevede alcuna norma che imponga (così come, ad esempio, l’art. 21 della Costituzione tedesca) che l’ ordinamento interno dei partiti debba essere conforme ai princìpi fondamentali della democrazia e che garantisca, di conseguenza, una selezione democratica dei candidati da inserire nelle liste elettorali. Dunque la stessa oligarchia partitica che elegge se stessa con il sistema dei 100 capilista bloccati, ha la possibilità di cooptare, inserendoli nella lista dei candidati votabili, solo personaggi ritenuti affidabili e obbedienti, escludendo dalla lista gli indipendenti e gli esponenti delle opposizioni interne, oppure relegandoli in posizioni marginali.
 Ma non finisce qui. L’Italicum ha in serbo un altro congegno a disposizione delle oligarchie di partito per selezionare persone da cooptare nella maggioranza parlamentare del futuro capo del governo. Si tratta della possibilità di candidare la stessa persona in ben dieci diversi collegi contemporaneamente. Il candidato eletto in più collegi deve scegliere il collegio che preferisce. In quello in cui rinuncia, al suo posto viene eletto il candidato che ha ottenuto più voti di preferenza dopo di lui. Il gruppo oligarchico che esprime il leader futuro capo del governo ha in questo modo la possibilità di neutralizzare eventuali candidati espressi dai territori e ritenuti non affidabili, stabilendo che il candidato eletto in più circoscrizioni e fedele alla leadership, scelga la circoscrizione nella quale altrimenti al suo posto verrebbe eletto il candidato non gradito, che viene così escluso dalla Camera.
  Grazie a questi congegni elettorali, lo stesso gruppo oligarchico che designa come capo del Governo il capo della partito di maggioranza, acquisisce la possibilità di controllare contemporaneamente sia il Governo che la Camera dei deputati.
  Si realizza così un continuum tra Camera dei deputati e Governo espressione entrambi dello stesso gruppo oligarchico che abolisce di fatto la separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo, e la Camera si trasforma da organo espressione della sovranità popolare che controlla il governo dando e revocando la fiducia, in Camera di ratifica delle iniziative legislative promosse dal Capo del Governo, il quale è allo stesso tempo capo del partito di maggioranza.
  Il capo del Governo/capopartito oltre ad avere una supremazia di fatto sulla Camera nei modi accennati, ha anche una supremazia istituzionale in quanto la riforma gli attribuisce il potere di dettare l’agenda dei lavori parlamentari con il meccanismo delle leggi dichiarate dal Governo di urgenza che devono essere approvate entro 70 giorni.
  Interessante notare che la stessa corsia preferenziale non è prevista per le leggi di iniziativa parlamentare, così che il governo è in grado di colonizzare ancor di più l’attività legislativa del parlamento.
  Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma poi la disattivazione del ruolo delle minoranze che, sempre grazie all’Italicum, sono condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa.
  E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano in realtà la maggioranza reale nel paese, assommando i voti di due terzi dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del governo.
Grazie alla lampada di Aladino del combinato disposto della riforma costituzionale e dell’Italicum, un ristretto gruppo oligarchico autoreferenziale in grado di auto cooptarsi prescindendo in buona misura nei modi accennati dai voti di preferenza espressi da una minoranza del paese, pari a circa un terzo dei votanti, che lo porta al potere, è in grado di divenire il gestore oligopolistico delle leve strategiche dello stato, cioè della Camera e del Governo.
  Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido contro bilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti, e via elencando. Si pongono così le premesse per realizzare uno spoil system generalizzato, finalizzato a garantire l’autoriproduzione del gruppo oligarchico mediante la nomina ai vertici degli apparati che contano solo persone di provata consonanza politica e fedeltà.
  Tramite questi e molti altri sofisticati meccanismi che per ragioni di tempo non posso spiegare, si pongono così a mio parere le premesse per una transizione occulta da un repubblica parlamentare imperniata sulla sovranità popolare, sulla centralità del Parlamento e sulla separazione dei poteri, ad un regime oligarchico nel quale il potere reale si concentra nelle mani di una oligarchia che occupa il cuore nevralgico dello stato.
  Per giustificare la sostituzione della Costituzione vigente con una nuova Costituzione, i promotori della riforma si sono appellati ad argomenti che si rivelano non ancorati alla realtà e che, proprio per questo motivo, suscitano, a mio parere, serie perplessità, giacché se le ragioni della riforma dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare.
  Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi della politica e sarebbe necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese. Quanto all’inconsistenza del primo argomento – cioè lo scopo di tagliare i costi della politica – non ritengo di dovermi soffermare. La Ragioneria dello Stato in una relazione trasmessa al Ministro per le riforme in data 28 ottobre 2014 ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari a 57,7 milioni di euro, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi della corruzione, i costi della evasione fiscale, invece di tagliare la democrazia.
  Il secondo argomento dei sostenitori del Sì è - come accennavo - che la riforma è necessaria ed urgente per risolvere i problemi del Paese, in quanto il bicameralismo paritario determina una patologico rallentamento del processo legislativo, e in quanto l’attuale assetto costituzionale impedisce una governabilità del paese agile, flessibile, necessaria per reggere le sfide della globalizzazione.
  Se questo è lo scopo dichiarato, non risulta che siano stati indicati dai fautori del Si i problemi del paese che sarebbero stati causati in passato dalla farraginosità dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione vigente e che, invece, troverebbero immediata soluzione con la riforma della Costituzione.
  Forse la completa assenza di una politica industriale che perdura da oltre un quarto di secolo e a causa della quale dal 2008 ad oggi sono passati al capitale straniero più di 500 marchi storici di tutti i settori strategici dell’industria nazionale?
  Dall’elettronica, alle automobili, alle comunicazioni, agli elettrodomestici, alle ferrovie, all’aerospaziale, all’agroalimentare, alla moda, l’elenco dei marchi passati al capitale straniero da la sensazione di una silenziosa Caporetto nazionale: Pirelli, Pininfarina, Indesit, Ansaldo Breda, Italcementi; Edison, Buitoni, Parmalat, Fendi, Bulgari, Gucci, Valentino, etc
  Forse la disoccupazione giovanile che raggiunge livelli record in ambito europeo e l’emigrazione all’estero di centinaia di migliaia di giovani laureati che nel nostro paese non hanno alcun futuro?
  Forse la gigantesca evasione fiscale (la terza del mondo dopo Messico e Turchia) con un mancato introito per le casse dello stato che mette in ginocchio l’erogazione dei servizi sociali?
  Ciascuno può allungare a piacimento la lista dei gravi problemi nei quali versa il paese e che lo stanno avvitando in una spirale di declino che sembra senza fine, e stilare dal suo punto di vista una diversa gerarchia della gravità di tali problemi.
  Ma pur nella diversità delle opzioni, un fatto è certo: nessuno di questi problemi è addebitabile al bicameralismo paritario e alla Costituzione del 1948. Una classe dirigente che si è rivelata inadeguata a reggere le sfide della complessità e che si è resa responsabile del declassamento economico e sociale del paese, ora tenta di scaricare le proprie responsabilità sul capro espiatorio di una Costituzione del 1948 che nulla ha da spartire con le cause della crisi economica.
  Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Si secondo cui il bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione delle leggi a causa della navetta tra la Camera dei Deputati ed il Senato, quando una delle due camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati dall’altra.
In questa legislatura sono state sino ad oggi approvare 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a seguito di modifiche. I tempi medi approvazione delle leggi sono i seguenti: ogni legge ordinaria viene approvata in media fra Camera e Senato in 53 giorni; ogni decreto viene convertito in legge dalle due Camere in 46 giorni; e ogni legge finanziaria passa, con la "doppia conforme", in 88 giorni.
  Se una legge si incaglia in parlamento non è per colpa del pur discutibile bicameralismo paritario: ma dei dissensi politici dentro le coalizioni di maggioranza. E’ pur vero che vi sono leggi che invece sono state approvate in tempi molto lunghi. Ma se si approfondisce l’analisi si comprende bene che le ragioni di questi tempi lunghi non sono attribuibili al bicameralismo paritario, ma a ben altre ragioni di ordine politico non sempre commendevoli. La legge sulla corruzione, per esempio, ha ottenuto il via libera dal Parlamento dopo ben 1546 giorni.
  Dunque ricapitolando le ragioni addotte dai sostenitori del Si per sostenere la necessità di questa riforma non trovano riscontro nella realtà.
  Possiamo concludere che non è affatto vero che esiste una crisi di governabilità del paese che è una concausa importante della grave crisi economica nella quale ristagniamo?
  Non possiamo affatto sostenerlo.
  Anzi dobbiamo ammettere che esiste certamente una reale grave crisi di governabilità che ha causato ed aggrava la crisi. Quel che merita riflessione, dal mio punto di vista, è che si addebita la crisi di governabilità alla Costituzione vigente e si tacciono invece alla pubblica opinione le vere cause strutturali di tale crisi di governabilità, che possono essere ignote al cittadino comune, che possono essere sconosciute ai tanti giuristi in buona fede che non conoscono quale sia il reale funzionamento della macchina del potere oggi, ma che, invece, non possono essere ignote a coloro che hanno ideato questa riforma.
  Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella seconda repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso?
  La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite. In assenza di questa fondamentale cassetta degli attrezzi, non è possibile governare la politica economica di un paese.
L’esempio più evidente si trae dall’esperienza degli strumenti messi in campo dall’amministrazione americana per gestire e superare la crisi sistemica verificatasi dopo l’esplosione della bolla dei mutui subprime.
  L’amministrazione statunitense ha contemporaneamente azionato la leva della potestà monetaria autorizzando la Fed ad iniettare ogni mese 80 miliardi di liquidità nell’economia reale, la leva della sovranità valutaria svalutando il dollaro rispetto ad altre monete, la leva infine del potestà di bilancio, finanziando con il deficit di bilancio statale politiche di spesa per il rilancio dell’economia. Solo grazie a telai manovre, l’economia statunitense è uscita dal guado. Veniamo ora al nostro Paese. Perché il governo italiano nello stesso periodo non ha azionato le stesse leve felicemente azionate dall’amministrazione statunitense? Forse perché ha commesso un errore di diagnosi? Perché ha ritenuto di dovere seguire un’altra strategia? No, semplicemente perché non ha potuto.
  Non ha potuto perché le tre potestà fondamentali per gestire il governo dell’economia del sistema Italia - potestà monetaria, potestà valutaria, potestà di bilancio - non sono più azionabili dal governo italiano essendo state cedute ad organi sovranazionali: la Commissione europea e la Bce, componenti insieme al Fondo monetario internazionale della c.d. Troika, santuario del pensiero unico neoliberista.
  In altri termini il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, come sostengono i fautori del Si, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute agli organi prima menzionati - la Commissione europea, la Bce (e per certi versi il Fondo monetario internazionale) - privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario.
  Connessione questa dimostrata in modo inequivocabile dalla biografia di tanti soggetti che in tali organi hanno rivestito e rivestono ruoli decisionali strategici e che provengono dalle strutture apicali delle più grandi banche di affari internazionali, o che a fine del loro mandato vengono assunti da tali banche e da potenti multinazionali come consulenti o top manager.
  Non risponde a realtà dunque, come affermano i sostenitori del Si, che la politica ha perduto il controllo sull’economia a causa dell’ inefficienza delle procedure decisionali previste dall’attuale Costituzione che, dunque, sarebbe bene riformare votando Si al prossimo referendum del 4 dicembre.
  La politica, o meglio la democrazia, ha abdicato al suo ruolo, quando ha consegnato gli strumenti della sovranità a ristrette oligarchie arroccate in centri decisionali impermeabili alla volontà popolare, ma fortemente permeabili ai diktat dei mercati, o meglio alle potenze economiche che governano i mercati.
  Una esemplificazione concreta e recente dei risultati di questa abdicazione della politica al potere economico e dei modi nei quali oggi viene gestito il potere reale si ricava dall’esame della lettera strettamente riservata che in data 5 agosto 2011, il Presidente della Bce inviò al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, dettandogli una analitica agenda politica delle riforme che il governo ed il Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche i tempi e gli strumenti legislativi da adottare.
  Dalla riforma della legislazione sul lavoro, alla riforma della contrattazione collettiva, alla riforma delle pensioni sino alle privatizzazioni e alla riforma della Costituzione, è una summa del pensiero e delle strategie neoliberiste.
  E’ impressionante verificare a posteriori come quell’agenda politica sia stata puntualmente realizzata - dalla riforma Fornero sino al Jobs Act - dai tre governi che si sono susseguiti dal 2011 ad oggi, e da maggioranze parlamentari composte in larga misura da persone nominate da ristretti vertici di partito.
Quel che appare ancor più significativo è che in quella stessa lettera del 5 agosto 2011, il Presidente della Bce sollecitava anche una riforma della seconda parte della Costituzione che è stata realizzata nel 2012 nella indifferenza e nella inconsapevolezza della sua reale portata, della opinione pubblica e del mondo dei giuristi.
  Mi riferisco a quell’art. 81 della Costituzione che ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio, norma di matrice culturale neoliberista.
  Una norma che ha introdotto un vero e proprio cavallo di Troia all’interno della cittadella costituzionale, perché impedisce di finanziare in deficit politiche economiche espansive di tipo keinesiano per superare le fasi di crisi aumentando la spesa pubblica, ed impone quindi come unica soluzione alternativa obbligata il taglio della spesa pubblica ai servizi dello Stato sociale, determinando così l’impoverimento delle masse popolari, la riduzione della loro capacità di spesa, la caduta della domanda aggregata interna e l’avvitamento della spirale recessiva.
La vicenda in parola dimostra quanto siano infondate tutte le argomentazioni dei sostenitori del Si secondo cui la Costituzione va riformata perché quella attuale rallenta l’iter legislativo e impedisce la governabilità.
  Tutte le leggi indicate dalla BCE sono state approvate in tempi rapidissimi con un doppio passaggio parlamentare. La Salva-Italia di Monti e Fornero fu approvata in appena 16 giorni.
  La legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata addirittura in cinque mesi (con quattro votazioni Camera-Senato-Camera-Senato).
La vicenda esposta costituisce una concreta esemplificazione del reale modo di essere del potere oggi e di come oligarchie partitiche insediate al governo e in grado di controllare il Parlamento, possano divenire la cinghia di trasmissione della volontà politica di centri decisionali esterni ai luoghi della rappresentanza popolare, attraverso itinerari informali che si sottraggono alla visibilità democratica
  Quella che ho appena esposto non è solo una vicenda del passato ma è una simulazione di come sarà esercitato il potere in futuro se questa riforma costituzionale dovesse essere definitivamente approvata.
  Non si tratta di un processo alle intenzioni, non si tratta di dietrologia.
  Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese, rimediando:
“l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”
“le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale l’elevata conflittualità”
  In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal Parlamento al Governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la migliore consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce e alle pretese dei mercati.
  In nome della esigenza di una totale subordinazione della politica all’economia. Il migliore inequivocabile riscontro che questo sia il reale obiettivo della riforma costituzionale, viene dalla sua sponsorizzazione entusiastica da parte delle più potenti banche di affari internazionali e delle altre cattedrali della finanza internazionale che in questi ultimi mesi sono scese in campo con tutta la loro forza di pressione per sostenere il fronte del si, e per intimidire gli indecisi minacciando sfracelli economici se la riforma dovesse essere bocciata dai cittadini il 4 dicembre. E mi pare meritevole di riflessione che queste finalità della riforma benché siano state dichiarate nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, non siano mai state utilizzate per sostenere le ragioni del Si nel corso di tutta questa campagna referendaria. Evidentemente i promotori politici della riforma ritengono controproducente proclamare a reti unificate che la riforma costituzionale risolverà tutti i problemi del paese, grazie al fedele esecuzione delle indicazioni provenienti dalla governance europea.
  I Riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’ avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico.
  Era il tempo in cui lo Stato non godeva di alcuna considerazione perché era considerato un instrumentum regni nelle mani dei potenti e la legge, come insegnava Gaetano Salvemini, non godeva di alcun rispetto perché era percepita come la voce del padrone.
  Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è costata lacrime e sangue, come ci ricorda Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione del 1948, le cui parole pronunciate durante i lavori della Costituente nella seduta del 7 marzo 1947, sono da tenere bene a mente in questo delicato frangente della storia nel quale dovremo decidere sul futuro del paese, e mi sembrano le migliori per concludere il mio intervento: “Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente…..credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno….che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri i cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani [….] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.

*Intervento di Roberto Scarpinato al Seminario di studi sulla Riforma della Costituzione svoltosi al Palazzo di Giustizia di Palermo il 22.11.2016 - [dalla pagina Web

http://www.magistraturademocratica.it/mdem/speciale/preferisco-di-no/una-riforma-che-rischia-di-riportare-indietro-lorologio-della-storia.php ]

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli