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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

mercoledì 26 luglio 2023

Il mito religioso del popolo.

 Il mito religioso  del popolo.

 

Cipriano di Cartagine, Libro sulla preghiera del Signore, n.23

[da J.P. Migne, Patrologia Latina, vol.IV, col.519-544]

https://ora-et-labora.net/sanciprianopadrenostrolatit.html

 

[Commenta il versetto della preghiera del Padre nostro che cita così:

et remitte nobis debita nostra sicut nos remittimus debitoribus nostris, come si legge in quel testo al n.23:

 

XXII. Pos haec, et pro peccati nostri deprecamur dicentes: ET REMITTE NOBIS PECCATA NOSTRA SICUT ET NOS REMITTIMUS DEBITORIBUS NOSTRIS. Post subsidium cibi petitur et  venia delicti, ut qui a Deo pascitur in Deo vivat, nec tantum praesenti et temporali vitae sed aeternae consolatur; ad quam veniri potest, si peccata donentur: quae debita Dominus appellat, sicut in Evangelio suo dicit: Dimisi tibi omne debitum, quia me rogasti (Matth.XVIII,32)]

 22. Dopo ciò, preghiamo anche per i peccati nostri e diciamo: E RIMETTI I NOSTRI DEBITI COME ANCHE NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI. Dopo aver chiesto il sostentamento del cibo, chiediamo anche perdono del peccato, perché colui che da Dio è nutrito in Dio viva, e non tanto nella vita presente nel tempo ma perché sia consolato in quella eterna, alla quale si può giungere se vengono perdonati i peccati, che il Signore chiama debito, come dice nel suo Vangelo: Ti ho rimesso ogni debito, perché mi invocasti (Mt 18,32) [traduzione mia].

 

Excusatio tibi nulla in die judicii superest, cum secundum tuam sententiam judiceris, et quod feceris hoc et ipse patiaris. Pacificos enim et concordes atque unanimes in domo su Deus praecipit, et quales non fecit secunda nativitate, tales vult renatos perseverare; ut qui filii dei esse coepimus in Dei pace maneaums, et quibus spiritus unus est, unus sit et animus et sensus. Sic nec sacrificium Deus recipit dissidentis, et ab alari revertentem priuis frati reconciliari iubet [Mt 5,24], ut pacificis precibus et Deus possit esse pacatus. Sacrificium Deo maius est pax nostra et fraterna concordia, et de unitate Patris et Filii et Siritus sanctis plebs adunata.

 

Non avrai nessuna scusa nel giorno del giudizio, quando si sentenzierà su di te, e ti sarà reso male per male. Dio ci vuole pacifici, concordi e unanimi nella sua casa, e ciò che ancora  non si ottenne con la seconda nascita vuole che da rinati si continui a perseguire, perché da figli di Dio si rimanga nella sua pace, e poiché si è in un solo spirito, così si sia uniti nelle intenzioni e nel pensiero. Per questo Dio non accetta il sacrificio di chi è discorde e gli comanda di lasciare l’altare per andare a riconciliarsi con il fratello prima, cosicché mediante le preghiere di coloro che hanno fatto pace, anche Dio possa essere pacato. Il sacrificio più grande offerto a Dio sono la pace tra noi e  la concordia fraterna, uniti come si conviene a plebe adunata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. [traduzione mia]

 

    Ho trovato citato, questo brano tratto dal Libro sulla Preghiera del Signore, par.23, di Cipriano di Cartagine, vissuto a Cartagine nel 3° secolo, vescovo di quella città dal 249, protagonista dell’effervescente stagione sinodale che si ebbe a quell’epoca a Cartagine, in tutti i libri sulla sinodalità che ho letto, usciti in italiano negli ultimi anni, in particolare la frase «et de unitate Patris et Filii et Siritus sanctis plebs adunata - uniti come si conviene a plebe adunata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo», anche se di solito ho trovato la parola latina plebs tradotta in italiano con popolo.

 Il detto è citato anche al n.4 del primo capitolo, Il mistero della Chiesa De Ecclesiae mysterio, della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti – Lumen gentium il cui testo tipico in latino è:

 

4. Opere autem consummato, quod Pater Filio commisit in terra faciendum (cf. Io 17,4), missus est Spiritus Sanctus die Pentecostes, ut Ecclesiam iugiter sanctificaret, atque ita credentes per Christum in uno Spiritu accessum haberent ad Patrem (cf. Eph 2,18). Ipse est Spiritus vitae seu fons aquae salientis in vitam aeternam (cf. Io 4,14; 7,38-39), per quem Pater homines, peccato mortuos, vivificat, donec eorum mortalia corpora in Christo resuscitet (cf. Rom 8,10-11). Spiritus in Ecclesia et in cordibus fidelium tamquam in templo habitat (cf. 1Cor 3,16; 6,19), in eisque orat et testimonium adoptionis eorum reddit (cf. Gal 4,6; Rom 8,15-16 et 26). Ecclesiam, quam in omnem veritatem inducit (cf. Io 16,13) et in communione et ministratione unificat, diversis donis hierarchicis et charismaticis instruit ac dirigit, et fructibus suis adornat (cf. Eph 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22). Virtute Evangelii iuvenescere facit Ecclesiam eamque perpetuo renovat et ad consummatam cum Sponso suo unionem perducit(3). Nam Spiritus et Sponsa ad Dominum Iesum dicunt: Veni! (cf. Apoc 22,17).

Sic apparet universa Ecclesia sicuti "de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata"

https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_lt.html

nel quale il detto di Cipriano di Cartagine è riportato secondo Migne, Patristica latina, sopra trascritto. La versione in italiano diffusa dalla Santa Sede ha:

 

4. Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: « Vieni » (cfr. Ap 22,17).

Così la Chiesa universale si presenta come « un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo »

 

 Nel resto della Costituzione, laddove nel testo italiano si traduce con popolo, il testo tipico latino utilizza popolus, a partire dall’intitolazione del capitolo 2, Il popolo di Dio – De populo Dei.

 In base alla mia precaria formazione liceale sul latino, ricordavo che plebs e populus non erano ancora sinonimi al tempo di Cipriano di Cartagine. In effetti, controllando sul mio vecchio Castiglioni-Mariotti (il  mitico “IL”), Loescher, alla voce plebs ho trovato una citazione da Livio, Ab urbe còndita, libro 2, paragrafo 56: «distinta da populus: “non populi sed plebis eum (tribunum) magistratus esse” – (poiché) era tribuno della plebe non del popolo», da un brano in cui si faceva questione del potere del tribuno della plebe su chi non era plebeo.

 Andando a senso in base al contesto, forse si renderebbe meglio l’idea di ciò che si volle comunicare nel brano attribuito a Cipriano di Cartagine traducendo plebs con gente, nel senso che oggi nell’italiano corrente si attribuisce a questo termine, privo dei connotati di stirpe che aveva nel latino antico la parola gens, donde ci deriva il nostro gente.

 Il testo di Cipriano non faceva riferimento a problemi insorti nelle procedure sinodali né a quelli incontrati in altri settori del governo delle Chiese – ad esempio nelle relazioni, che mi paiono essere state piuttosto burrascose, con gli altri vescovi, ma alla situazione generale della sua Chiesa, che appare non dissimile da quella nostra.

  Commentava infatti il versetto della Preghiera del Signore che fa, secondo la Nova Vulgata

- nel Vangelo secondo Matteo, capitolo 6, versetto 12, et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimitimus debitoribus nostris, che traduce il greco antico  καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν, ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφήκαμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν· - kai [e] àfes [dimentica] emìn [a noi] tà ofeilèmata [debiti] emòn [nostri], os [come] kài [anche] emèis [noi] afèkamen [rimettiamo] tois [tòis] ofeilètais [debitori] emòn [nostri];

- nel Vangelo secondo Luca, capitolo 11, versetto 4, et dimitte nobis peccata nostra, siquidem et ipsi dimittimus omni debenti nobis, che traduce il greco antico καὶ ἄφες ἡμῖν τὰς ἁμαρτίας ἡμῶν, καὶ γὰρ αὐτοὶ ἀφίομεν παντὶ ὀφείλοντι ἡμῖν· - kài àfes [dimentica] emìn [a noi] amartias [peccati] emon [nostri], kài gar autòi [noi stessi[ afiomen  [dimentichiamo] panti [a ogni] ofèilonti [debitore] emin [nostro].

  Parlava alla gente  della sua Chiesa dei problemi che sorgevano in quell’ambito nelle relazioni interpersonali. Esortava alla concordiacome si conviene a gente adunata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo”, che deve cercare di volersi bene, anche perché ritiene che proprio su questo sarà giudicata, quando sarà il momento, secondo quanto si legge nella parabola del giudizio alla fine dei tempi, nel Vangelo secondo Matteo, capitolo 25, versetti da 31-46.

  La teologia mi pare però che abbia completamente stravolto le parole di Cipriano, innanzi tutto ficcandovi in mezzo il mito del popolo, gli uni, i conciliari, per farne il cardine della loro ecclesiologia in polemica con la gerarchia ecclesiastica ancora strutturata come un’autocrazia feudale, sostenendo che il popolo deve contare perché così vuole Dio, gli altri, gli anticonciliari, per dire che quando si parla di Popolo di Dio non si vuole intendere null’altro che la speciale relazione di Dio con la sua Chiesa, la quale  è nulla senza quella relazione e per essa è Corpo di Cristo, per cui poi, siccome Cristo è il capo di quel Corpo, e ha istituito tra  noi un unico Vicario, allora si è popolo  solo obbedendo a quel Vicario, che per i cattolici dal Secondo Millennio è solo il Papa di Roma, e quel sottomettersi alla sua autorità ha nome di comunione. Quello del popolo, per gli anticonciliari,  sarebbe un concetto sociologico, che non dovrebbe entrare nella dogmatica (l’ecclesiologia ne fa parte), nonostante sia stato al centro della riforma ecclesiale deliberata con il Concilio Vaticano 2°.

  Osservo però che il concetto di popolo  non mi pare sia usato in sociologia, dove si studiano invece le popolazioni. Ha natura innanzi tutto mitica, e di solito è in questo senso che lo si usa nelle religioni. Ma poi è usato anche in filosofia e da lì è passato anche nella dogmatica giuridica, quando si è costruita la dottrina dello stato, secondo la quale popolo è la popolazione che, su un certo territorio, è soggetta a un potere politico dotato di effettività. Da qui poi il concetto è transitato nella dottrina giuridica canonica quando, in un processo iniziato nel Seicento, si è costruita la Chiesa cattolica come uno stato, e dal Concilio Vaticano 1° (1870), come uno stato assoluto, pur mantenendo la gerarchia ecclesiastica l’antica struttura feudale, che ricevette dai Franchi alla fine del Primo millennio e che poi fu integrata nella grande riforma progettata e attuata dall’inizio del Secondo, per influsso principale dei monaci. 

Mario Ardigò - Azione  Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


mercoledì 5 luglio 2023

La pace è giustizia sociale

 

La pace è giustizia sociale

 

  L’ultimo dell’anno del 1981 partecipai, qui a Roma, a una veglia per la pace indetta dalla Diocesi. Ci si ritrovò davanti al Colosseo e lì parlò Elio Toaff, che era rabbino capo nella città. Poi andammo in processione fino alla basilica di San Giovanni in Laterano, dove il rito proseguì.

   Da Toaff sentii parlare per la prima volta del nesso tra pace e giustizia. Non si può essere vera pace senza giustizia, disse. Quell’idea mi coinvolse molto. Si costruisce la pace realizzando la giustizia, altrimenti non ci può essere vera pace:  questo il principio. Da anziano, con l’esperienza di una vita trascorsa da allora, ho compreso che quella non è una via di pace. Si costruisce la pace solo quando si accetta si  cessare il conflitto violento e questa è giustizia. Nessuna giustizia può mai sorgere dalla violenza. Quindi la pace accade quando si abbandona la violenza. Questo è poi il principio di ogni giustizia. La violenza è un modo ancestrale di entrare in relazione con gli altri esseri viventi. Distaccarsene è anche un significativo progresso culturale.

  La storia ci insegna che è andata sempre così: la pace è venuta quando si è deciso di finirla con la violenza. Consideriamo, ad esempio, le due guerre mondiali del Novecento. La seconda è ora considerata solo una ripresa della prima, che non era mai finita. La seconda sarebbe potuta continuare a lungo, ma si è decisa la pace prima che tutto ciò che veniva considerato come giustizia sui vari fronti fosse stato raggiunto. Dalla metà degli scorsi anni Quaranta, si decise di costruire la pace sulla pace, quindi innanzi tutto di consolidare quello che all’inizio era solo un cessate il fuoco, poi trasformatosi in un armistizio, con degli accordi internazionali. La pace fu considerata quindi il valore sociale più importante. Da quella internazionale scaturì poi quella interna agli stati che si erano combattuti.  Dunque, sorse dall’alto o dal basso, dalla gente o dai governi? La gente era in gran parte stanca della violenza, i governi non avevano più sufficienti risorse per continuarla, tutti trovarono convenienza nel trattare la pace, anche se motivi per riprendere a combattersi rimasero sempre, tanto che, poi, a proposito della situazione europea, si parlò di guerra fredda.

  La pace europea durò tanto a lungo che, negli scorsi anni ’80, si cominciò a trattare per demolire le armi più letali e per costruirne progressivamente sempre di meno. In Europa ne abbiamo beneficiato tutti, sia in Occidente che in Oriente, tra i capitalisti e i comunisti, perché, tornata la pace nel continente, le egemonie politiche internazionali si erano polarizzate in quel modo, i capitalisti in Occidente e i comunisti in Oriente.

 Questo processo ebbe in Europa importanti sviluppi istituzionali. Nella parte occidentale si costruì l’Unione Europea come struttura giuridica e politica artefice di una pacificazione continentale, per forze di cose rivolta verso Oriente per sanare la frattura che si era creata con quelli dell’altra parte. In Oriente si iniziò a modificare le relazioni internazionali e interne in modo da creare qualcosa di simile, ma rivolto verso Occidente. Nulla rimase uguale a ciò che era uscito dalla Seconda guerra mondiale. Nulla di simile si produsse in Nord America.

  Qualche giorno fa è stato pubblicato il libro di Andrea Riccardi Il grido della pace, San Paolo 2023. L’autore parte dalla considerazione che ai tempi nostri la pace è molto meno popolare che un tempo. Questo ha creato le condizioni per il disastroso e sanguinoso conflitto in Ucraina che ha guastato le relazioni internazionali sul continente.

  L’ordine di invadere l’Ucraina è venuto dal governo federale russo, ma le condizioni politiche per la guerra erano maturate da anni, dall’inizio degli anni Dieci del nuovo Millennio.

  Quando si decide di fare guerra? Quando ci si arma. Tre attori internazionali avevano iniziato a farlo: gli statunitensi, gli ucraini e i russi. Gli altri europei molto meno, tanto che, scoppiata la guerra e ritrovaticisi coinvolti, hanno scoperto di avere arsenali obsoleti e insufficienti. Questo perché si era deciso di mantenere la pace e non  è come quel detto degli antichi romani “Se vuoi la pace, prepara la guerra”: se si vuole mantenere la pace, occorre preparare la pace, iniziando con il cessare di armarsi. Così si era fatto in Europa e ne era conseguita una pace duratura, tra popoli che per secoli si erano combattuti duramente, anche per questioni religiose (prova evidente che la religione, per sé sola, non basta per fare pace, anzi).

 Scrive Riccardi:

«[…] per noi europei, dopo il 1945, la guerra è stata una realtà che riguardava gli altri, eccetto in conflitti balcanici (legati alla dissoluzione della ex Jugoslavia). Abbiamo goduto di una grande pace, ma, progressivamente, abbiamo perso il senso di una politica di pace”.

 E ancora:

«Più dura una guerra e più e difficile trovare la pace, quasi imboccando un tunnel di cui non si vede la fine».

 Dicono che la guerra finirà quando la si sarà vinta, ma questa è una sciocchezza. Serve solo per cercare di giustificare la prosecuzione della guerra. Nessuna vittoria  sarà mai capace di realizzare la pace, perché, anzi, per vincere si moltiplicheranno le atrocità e quindi i motivi di divisione.

  Riccardi osserva che, già al punto in cui siamo, ricostruire un ordine pacificato con tra russi e ucraini sarà estremamente difficile. La frattura si prolungherà per generazioni, nonostante la sospensione delle ostilità violente. E la situazione peggiora di giorno in giorno.

 Scrive anche che non bisogna pensare che i movimenti popolari per la pace siano un agitarsi inutile, perché in passato sono stati molto importanti per spingere i governi verso accordi di pace.

  Qual è la posizione dei cattolici italiani sul tema della pace?

  Storicamente la nostra religione  è stata compatibile con spaventose atrocità belliche. La nostra adesione al movimento per la pace è piuttosto recente, data dagli scorsi anni Cinquanta, più o meno, ma non si è consolidata se non con il Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Lorenzo Milani, ad esempio, ebbe gravissimi fastidi ecclesiastici per aver sostenuto la legittimità morale e, anzi, la doverosità dell’obiezione di coscienza.

  E’ ancora importante l’esempio di vita del Maestro, come ci viene narrato nei Vangeli?  Certamente non praticò la violenza. Ma altrettanto certamente non si impegnò per un ordine politico pacificato. Non fu un attivista politico, come pure ce n’erano ai suoi tempi. Di fatti, nei secoli seguenti, si poté essere senza problemi cristiani e violenti, anche stragisti e addirittura genocidi. Eppure rimane che egli non praticò la violenza e questo vorrà pur dire qualcosa.

  Dicono che non combattere è arrendersi e che arrendersi è ingiusto. Eppure il massacro non si è rivelato l’unica alternativa, anche in situazioni di guerra combattuta. C’è la lotta nonviolenta, che ha cominciato ad essere praticata e poi teorizzata dal primo dopoguerra dall’attivista indiano Mohāndās Karamchand Gāndhī. Da noi era predicata, e praticata, da Aldo Capitini, Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto e da altri. Anche su quell’ispirazione è stata costruita la nostra Unione Europea come potenza di pace. E’ vero: si sono mantenuti gli eserciti e gli armamenti, ma progressivamente con sempre meno soldati e meno armi, fino a quando è scoppiata la guerra in Ucraina.

  Ogni tanto nei nostri ambienti ecclesiali si fa qualche manifestazione per la pace, ma di solito si rimane sempre sulle generali, non si prende mai posizione su come fare per fare cessare un conflitto in corso. Si rimanda ai governanti, ma quelli, se non sono impediti da moti popolari significativi, vanno avanti finché vi trovano la loro convenienza. Si manifesta, ma non  si lotta. Tra il confitto violento, che sempre allontana dalla pace, e lo spiritualismo devoto ma inane, c’è la lotta nonviolenta, che rimane una forma di lotta, perché si decide di non aderire ai comandi politici di far guerra. Scoppiata una mobilitazione generale per scendere in guerra con le proprie armate questo è piuttosto difficile, ma finché, come ora in Italia, ancora non si è a quel punto le cose sono alla portata di tutti. C’è chi propone di continuare la guerra: occorre fargli mancare il consenso politico.

  Invece sembra che la gente abbia perso fiducia nella propria capacità di influenza e, ad esempio, in massa si astiene dal voto. Non andò così, ad esempio, al tempo delle guerre statunitensi in Iraq: l’Italia vi fu coinvolta molto marginalmente, anche perché si sviluppò un imponente movimento contrario. Nella successiva guerra in Afghanistan, presentata un po’ come un’operazione militare speciale, secondo il gergo attuale del governo russo, - non si voleva parlare di guerra, che invece vi fu – quel movimento si era piuttosto indebolito e mandammo un corpo di spedizione numeroso.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.

 

 

lunedì 3 luglio 2023

Terre di cristiani

 

Terre dei cristiani

 

   Su La lettura, il supplemento del Corriere della sera uscito domenica scorsa, c’è la recensione di un libro di Janine Di Giovanni, La fede scomparsa. Il tramonto del cristianesimo nella terra dei profeti, La nave di Teseo 2023. L’articolo, di Marco Ventura, si intitola “Non c’è posto per i cristiani nelle terre del cristianesimo”: sono molto diminuite le persone che praticano il cristianesimo nel Vicino Oriente, in particolare in Palestina, dove, secondo Ventura, il cristianesimo è nato, divenendo poi, per circa quattro secoli, la religione principale.

   Quando si fanno, tra cristiani, discorsi del genere, si sente come una ingiustizia che, lì dove hanno dominato i cristiani, ora non sia più così e che, anzi, i cristianesimi abbiano sempre meno praticanti. Questo perché il cristianesimo aderirebbe alla terra, a quella terra, facendone una Terra Santa.

  Accade anche nella Roma dei nostri tempi, nella quale, nonostante sia ancora piena di chiese cristiane, le statistiche avvertono che c’è molta meno gente che pratica una religione cristiana. La differenza è che quest’ultima non è stata sostituita da nient’altro di così potente come furono i cristianesimi dei secoli passati.

  Del resto, da  noi non sono scomparsi gli antichi culti prepagani? Perché non dovrebbe accadere anche ai cristianesimi? Altrove, appunto  nel Vicino Oriente, è accaduto e potrebbe succedere anche da noi. Dove è scritto che sarebbe stato garantito il radicamento perpetuo della  nostra religione in una determinata terra? Anzi, il fatto che non lo sia stato è uno degli elementi che distinse fin dalle origini i cristianesimi dal giudaismo, suo ambiente originario, e, aggiungo, distingue nettamente gli attuali cristianesimi da gran parte degli ebraismi contemporanei, che fanno gran conto sullo Stato di Israele.

   Da punto di vista religioso, non mi pare che abbiamo motivo di considerare una certa terra “santa”, fosse anche la Gerusalemme contemporanea. Non rientra tra i comandi del Maestro, né nelle promesse soprannaturali contenute nei suoi insegnamenti. Verificate.

  Ma, allora, perché tanta violenza nei secoli passati per cercare di mantenere il controllo politico della Palestina?

   Forse che i cristianesimi sono radicati in una qualche popolazione, facendone un popolo? Il problema è che né noi né le nostre culture siamo vegetali, pertanto non abbiamo radici, siamo immersi in certe culture, dalle quale però possiamo sempre staccarci, come storicamente è avvenuto continuamente.

  Argomenti molto persuasivi sul tema possono leggersi in Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, di Maurizio Bettini, Il Mulino 2012, disponibile anche in e-book.

  Le culture delle popolazioni cambiano secondo le esigenze della gente, e anche per il cambiare della gente, ad esempio per modi nuovi di vivere che derivano dal contatto con altra gente: ciò che non serve viene abbandonato. Una religione è come una lingua, che evolve continuamente: in questa evoluzione ogni parlante dà un suo contributo.

  Personalmente non sono legato in alcun modo all’attuale Vicino Oriente, e alla Palestina in particolare. Non ha nessun senso religioso per me. E preferirei che a quei posti non fosse stata data  nel nostro tremendo passato tutta l’importanza che invece è stata ad esso attribuita. Le cose che riguardano il Vicino Oriente mi interessano di più quanto alle conoscenze archeologiche e linguistiche, ma non mi interessa andarci a pregare, tanto meno ora che sono ancora travagliati, come nei secoli passati, da un’orrenda violenza politica.

  Non credo che da quelle parti i cristianesimi possano essere utili, per cui non mi interessa collaborare a farvi evangelizzazione. E preferirei che, come Chiesa, mollassimo la presa che ancora pretendiamo di mantenervi.

  Mi pare che la pratica dei primi cristianesimi, quand’ancora non erano stati strumentalizzata a fini politici, riguardasse piccoli gruppi che cercavano di vivere la propria fede come in una grande famiglia. Consentiva una spiritualità che non c’era negli altri culti, in particolare nei politeismi greco-romani. Emerge anche un notevole pluralismo, al quale si cominciò  ad essere insofferenti quando si misero di mezzo i filosofi di cultura ellenistica e, molto più tardi, coloro che impersonavano la politica.

  Non vorrei ritornare a quei primi tempi, che avevano molti aspetti sconcertanti per la nostra mentalità, ma farne memoria ci può essere utile per convincerci che il cristianesimo non scaturisce da una certa terra, ma da relazioni umane. Non basta abitare da una qualche parte per diventare cristiani.

  Concludo queste riflessioni proponendo questo tema: sia poi sicuri che “il cristianesimo”, in particolare quello che ancora noi pratichiamo qui a Roma,   sia nato  nel Vicino Oriente, o addirittura in Palestina? Da ciò che ho letto in materia di cristianesimi delle origini, penso possa accettarsi che da quelle parti si siano diffusi alcuni cristianesimi, che avevano alcuni elementi culturali comuni con il nostro cristianesimo, che certamente, però, non è nato  nel Vicino Oriente, ma molto più tardi e anche molto più lontano.

  Il nostro cristianesimo vive  in noi. Poiché noi siamo elementi caduchi della natura, se vogliamo che ci sopravviva dovremmo cercare di tramandarlo alle nuove generazioni. In più si è a lavorarci, maggiore è la possibilità di riuscita. Questo è un motivo per insistere nel veicolarlo con le nostre relazioni sociali, nell’ambiente sociale siamo immersi. Il problema, in questo campo, è che l’età media di chi pratica la religione si è molto alzata e questo la rende meno attraente per le persone giovani, perché così va la natura, e noi ne facciamo parte.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

sabato 1 luglio 2023

Programmi

 Programmi

 

  Questo è un periodo dell’anno nel quale è utile fare programmi per la ripresa delle attività associative, nel prossimo ottobre. I mesi seguenti saranno caratterizzati dall’assemblea del Sinodo dei vescovi. Da poco è stato reso disponibile lo strumento di lavoro, il testo che sarà posto a base dei lavori. Tenendo conto delle esperienze passate penso che non ne uscirà granché. Vi sarà coinvolta una piccola minoranza di persone che possiamo definire come addette ai lavori, in particolare gerarchi ecclesiastici e loro collaboratori, anche se indubbiamente questa volta, per volontà del Papa, avranno modo di participare attivamente, e non solo presenziare, anche altri, ed è una significativa novità.

  Ma i più sono rimasti estranei.  

  Si è inscenata una fase di consultazione popolare, perché così aveva voluto il Papa, ma scoraggiando il dibattito. In genere si è poco abituati a lavorare insieme, pur frequentando le stesse chiese ci si conosce poco e quindi si diffida gli uni degli altri. Quando ci si incontra si scopre di aver poco in comune a parte una patina mitologica e una certa consuetudini ad alcuni riti. Non credo quindi che da quella consultazione sia uscito molto di utile. Quella svolta nella nostra parrocchia, senza la minima preparazione, non mi ha certamente impressionato. Non si è saputo nemmeno che cosa se ne sia scritto alla Diocesi. 

  In genere si manifesta una consapevolezza poco profonda delle questioni implicate nella fede e si è legati a ciò che della religione si è imparato da piccoli. Le persone più anziane ne hanno dimenticato molto, i più giovani non vi danno molta importanza perché sono tutti impegnati a crescere, e non vogliono essere riportati nella condizione di bambini.

  Spesso la frequentazione dei riti risulta noiosa e qualche volta avvilente, dove si insiste nel proporre un’etica insostenibile, specialmente ai più giovani.

  Tutto, in chiesa, è nelle mani del clero e dei religiosi, le altre persone appaiono più che altro delle comparse per i riti.

  Può accadere che si approfondiscano insieme alcune questioni di rilevanza religiosa, ma non lo si fa in chiesa, e non lo si potrebbe nemmeno fare per l’invadenza di clero e religiosi, il cui principale problema è di aver scelto di non essere persone libere. A volte chi propone una organizzazione diversa, con ruoli più partecipati, è diffamato di clericalismo, quindi sospettato di voler essere come loro, ma, in realtà, chi fa quelle proposte, al contrario, le fa proprio per non dover essere come loro.

  L’ecclesialità è predicata come un sottomettersi alle gerarchie ecclesiastiche, nelle quali i più sono posti al livello più basso e passivo, e in questo modo le si rende irriformabili, mentre non si potrà crescere senza riformarle.

   Naturalmente cercare di andar oltre ad una fede bambinesca e ad una religiosità passiva richiede una riflessione profonda sulla propria condizione umana, che non può riuscire rimanendosene da soli. Si tratta di questione riguardante il senso della vita ed esso scaturisce necessariamente da relazioni sociali di prossimità, e ciò per insuperabili nostri limiti fisiologici, perché siamo primati, abbiamo un cervello da primati e anche emozioni da primati.

  Questo significa che il punto di partenza deve essere il lavoro in un piccolo gruppo, inteso come una collettività di una trentina di persone. Non deve esserci troppa differenza d’età, perché la comunicazione sociale  intergenerazionale profonda ci è impossibile, sempre per ragioni fisiologiche, salvo, entro certi limiti, con avi e discendenti.

   Si può iniziare esaminando ciò che si è e si sa. Chi va a scuola dovrebbe partire da lì. Nella formazione religiosa di base corrente è invece una esperienza che va perduta, perché se ne prescinde. Qui potrebbero aiutare gli insegnanti di professione. Le altre persone dovrebbero comunque partire dalla loro vita in società e da ciò che apprendono in essa.

   Che cosa sappiamo, poi, delle questioni di fede? Riflettendoci sopra insieme si scoprirà subito quanto si sia superficiali in questo. Di solito, quando si comincia c’è sempre qualcuno che invoca il sacerdote: è una scorciatoia alla quale si deve cercare di resistere. È un momento in cui, se vogliamo salvare la Chiesa (è l’espressione usata da alcuni scrittori di questioni religiose), dobbiamo cercare di aiutare i sacerdoti ad essere diversi, non farne le stampelle per la nostra pigrizia. 

   Certo, siamo in un momento di difficile transizione e, approfondendo, si possono fare scoperte che sorprendono.

  L’altro giorno, in televisione ho visto una trasmissione nella quale il professore bolognese Alberto Melloni ricordava un aneddoto: all’Istituto biblico di Roma (un centro di alta cultura nelle scienze bibliche) ad un noto specialista era stato affidato un corso sulla Lettera agli ebrei, che una volta veniva attribuita a Paolo di Tarso. Lo iniziava dicendo agli studenti: “Questo è il corso sulla Lettera agli ebrei di San Paolo, che non è una lettera, non fu scritta agli ebrei e non è di Paolo”. Cose del genere emergono più spesso di quanto si creda.

  L’espressione religiosa della nostra fede è una costruzione sociale che sta manifestando molti limiti, in particolare nella mitologia che la connota. Il mito ci è indispensabile per comprendere, è un elemento culturale senza il quale le nostre società non potrebbero esistere, ma, in quanto elemento culturale, necessita di essere rivisto nel progredire delle esperienze sociali.  Nella vita delle nostre Chiese è accaduto più volte, come emerge se solo si ha la pazienza di approfondirne la storia, lavoro che nella formazione religiosa di base in genere non si fa. Ai tempi nostri il mito che necessita di più urgente revisione nella nostra Chiesa  è quello costruito nei secoli passati, e in particolare negli ultimi due secoli, dell’assolutismo dispotico gerarchico, quello per cui la gerarchia viene definita santa, che rende impossibile una reale partecipazione diffusa. Non è un lavoro per preti e religiosi, ai quali non è consentita la sopravvivenza al di fuori di quel modello e che, formatisi al suo interno, tendono  anche a replicarlo.

   Il tipo di lavoro che si potrebbe fare in un gruppo di Azione Cattolica come il nostro potrebbe essere ancora un buon punto di partenza, ma richiederebbe di coinvolgere più persone delle generazioni intermedie, né troppo giovani né troppo anziane, alle prime infatti manca sufficiente esperienza, alle altre mancano le forze. Così è la vita degli esseri umani. Il problema è che la vita parrocchiale risulta in genere poco consona alle generazioni che ci servirebbero maggiormente, le quali, molto impegnate nella riproduzione, nell’allevamento dei bimbi piccoli e nel lavoro, hanno poco tempo da perdere, mentre la vita religiosa a quell’età appare spesso una gran perdita di tempo. E non di rado lo è realmente.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli