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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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lunedì 22 agosto 2016

La riforma costituzionale e le "riforme"

  Esaminando la parte della recente riforma costituzionale che riguarda la struttura e le funzioni del Senato, emerge che le motivazioni proposte dai fautori delle nuove norme e riguardanti il risparmio di denaro pubblico e la semplificazione delle procedure parlamentari non convincono del tutto. Infatti, a un modesto risparmio negli stipendi dei parlamentari corrisponderà una Camera, il Senato, com molti meno membri, e per di più a mezzo servizio, scelti tra persone individuate principalmente per occuparsi di affari localo, non delle più delicate questioni di stato, con un prevedibile decrementi della qualità del lavoro parlamentare, che sarà inoltre più sensibile alle influenze dei partiti di appartenenza dei nuovi senatori.
 D'altro canto, il collegamento che anche la riforma costituzionale prevede tra il lavoro della Camera dei Deputati e quello del nuovo Senato, mentre mantiene il bicameralismo "perfetto", vale dire paritario con necessità di deliberazione conforme delle due Camere, per un buona parte del lavoro legislativo, e in particolare per quella più importante consentirà comunque al nuovo Senato, con la presentazione di disegni di legge (sui quali la Camera dei deputati dovrà deliberare) e con la richiesta di modifiche di leggi approvate solo dall'altra Camera, di provocare ulteriori deliberazioni della Camera dei deputati, anche nelle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva di quest'ultima. Una situazione che potrebbe addirittura sfociare in una vera e propria paralisi del Parlamento, in particolare nelle materie più importanti, qualora, come potrebbe accadere con buona probabilità, si creassero maggioranze parlamentari di diverso orientamento nelle due Camere. Questo accade già nell'attuale Parlamento, per le diverse modalità di elezione delle due Camere, ma potrebbe  verificarsi in maniera molto maggiore perché, a seguito della riforma costituzionale, le due Camere si rinnoveranno in tempi diversi e con modalità completamente diverse. In particolare, il nuovo Senato sarà un organo  a rinnovamento "parziale e continuo", come osservato nella relazio e dell'Ufficio studi della Camera dei deputati che potrete trovare sul Web, all'indirizzo <www.camera.it>, sezione " documenti", sottosezione "riforma costituzionale".
 Dunque, sotto questi profili, mentre i vantaggi economici sarebbero modestoi, i problemi presentati dall'attuale Parlamento potrebbero addirittura aggravarsi.
 Abbiamo anche notato che uno degli effetti, solitamente non evidenziato dai sostenitori della riforma costituzionale, che effettivamente si produrrebbe secondo le intenzioni degli artefici delle nuove norme sarebbe un rafforzamento dei poteri del Governo rispetto al Parlamento (e alle Regioni, come in seguito si dirà), in quanto, nel nuovo ordinamento, è previsto che sarà solo la Camera dei deputati a deliberare la "fiducia" al Governo, legittimando l'azione politica e amministrativa. A questo va aggiunto che sarà solo la Camera dei deputati a legiferare in via definitiva si una serie di materie, in sintesi nei campi dell'economia e lavoro, pubblica amministrazione e giustizia, tributi, che, nel complesso, inquadrano lo spazio di quelle che i sostenitori della riforma costituzionale definiscono genericamente come "le riforme", che a loro avviso sarebbero indispensabili e urgenti per lo sviluppo nazionale. Essi presentano la riforma costituzionale oggetto del referendum come lo strumento per approvare quelle ulteriori riforme. In questo senso la riforma costituzionale è stata presentata come parte molto importante dell'attuale programma di Governo, anche se non è detto che essa, se approvata con il referendum, servirà ad approvare proprio le riforme alle quali pensa il Governo attualmente in carica: dipenderà da quale partito politico avrà il controllo della maggioranza della forza parlamentare alla Camera dei deputati. Infine, in quelle stesse materie delle "riforme", L'art.72,6^ comma, della Costituzione, nel testo introdotto dalla riforma costituzionale, prevede che il Governo possa ottenere dalla Camera dei deputati l'esame prioritario, con termini procedurali abbreviati, di disegni di legge indicati come essenziali per l'attuazione del suo programma.
  Il rafforzamento della posizione del Governo, in particolare nelle materie concernenti le "riforme", risulta ancora maggiore se si tiene conto dell'effetto della nuova legge elettorale per l'elezione della Camera dei deputati. In base ad essa, un partito, non la coalizione di partiti, di sola maggioranza relativa, vale a dire uno che ottenga alle elezioni per la Camera dei deputati un numero di voti superiore agli altri sebbene non superiore al 50%, potrebbe vedersi attribuita una forza parlamentare, quindi in numero di deputati, ampiamente superiore al 50%, quindi la maggioranza assoluta. Con questa maggioranza parlamentare, quel partito potrebbe votare la fiducia al Governo da esso espresso e far approvare, con la sola deliberazione della Camera dei deputati, le "riforme" di cui sopra.
 Questo, del rafforzamento della posizione del Governo, viene considerato dai critici della riforma costituzionale il principale effetto delle nuove norme, che ne evidenziano le temibili comtroindicazioni. Ma, in fondo, sono della stessa opinione i sostenitori della riforma, quando dichiarano che la riforma costituzionale aprirà la strada alle "riforme" che rientrano nel programma di governo.
  Il problema, evidenziato da diversi commentatori della riforma, è che al centro del successivo movimento riformatore non sarà più, in effetti, il Parlamento, ma, in definitiva, il partito di governo e il Governo da esso espresso.
 Infatti in Senato riformato no avrà più competenza in quei campi in cui l'attuale Governo vuole riformare, mentre la Camera dei deputati sarà dominata da una forza parlamentare espressa dal partito di governo. Va aggiunto che, negli ultimi anni, vi è stata la tendenza ad attribuire la direzione del Governo, quindi la presidenza del Consiglio dei ministri, al principale esponente del partito egemone della,maggioranza di governo, segretario o presidente che fosse a seconda degli statuti di quel partito, in ciò volendosi ispirare alle consuetudini inglesi. Questo per evitare che la posizione della coalizione di governi potesse differenziarsi politicamente dal Governo da essa espresso, come storicamente era accaduto durante l'egemonia politica della Democrazia Cristiana. Con la coincidenza del capo del Governo e del capo del partito politico di governo si potrebbe verificare il caso di una maggioranza parlamentare di governi controllata dal Governo da essa sostenuto, invece del contrario. Ciò comporterebbe una eclisse del Parlamento.
 Quel processo di declino del Parlamento ha cominciato in realtà a manifestarsi in un'epoca recente della storia nazionale particolarmente travagliata, precisamente dagli ultimi mesi del 2011, quando, a fronte di serie difficoltà di Governo e Parlamento a far fronte ad una grave crisi economica internazionale, che richiedeva anche importanti aggiustamenti nella gestione della finanza pubblica, le forze politiche nazionali convennero per affidare la direzione politica del Governo ad una persona ritenuta autorevole individuata dall'allora Presidente della Repubblica, che ne rafforzò l'immagine pubblica e politica nominandolo senatore a vita. A differenza però degli altri senatori a vita,nominati per aver "illustrato la Patria" ma con una funzione tutto sommato marginale nel lavoro parlamentare, quel particolare senatore a vita ebbe affidata dal Presidente della Repubblica una missione prettamente politica di altissimo livello. Egli riuscì poi, da Presidente del Consiglio dei ministri incaricato, a coalizzare una maggioranza politica di governo, diversa da quella che aveva espresso il precedente governo e risultante da un accordo politico di emergenza tra forze politiche di opposto orientamento, e ad attuare in tempi brevi varie riforme, in particolare in materia economica, che incisero significativamente nelle prestazioni rese alla pubblica amministrazione ai cittadini, ad esempio in materia pensionistica. L'obiettivo fu principalmente quello di riportare sotto controllo la spesa pubblica, finanziata in misura crescente mediante debito pubblico dipendente dalle condizioni dei mercati finanziari internazionali, non solo con,le "tasse", in modo che crescesse mercati finanziari la fiducia nei titoli del debito pubblico italiano, con conseguente discesa dei tassi di interesse da pagare agli acquirenti di tali titoli, portandolo più vicini a quelli offerti dalle nazioni europee più forti, in particolare la Germania.
  Ora, le "riforme" che poi, dalla fine del 2012, sono state attuate dai successivi governi "politici", detti così per distinguerli da quello "tecnico" di quel senatore a vita, sono andate più o meno nella stessa direzione. L'idea dei sostenitori della riforma costituzionale è che, continuando ad attuarle, riducendo gli "sprechi" e liberando l'iniziativa privata da ostacoli burocratici, non solo potranno essere ottenute in sede europea deroghe ai limiti rigidi all'indebitamenti pubblico, ma anche si libereranno risorse mediante le quali l'economia privata inizierà un ciclo positivo, di sviluppo e di espansione, anche con un aumento dell'occupazione.in quest'ottica sono stati consederate ostacoli da rimuovere anche le norme limitative dei licenziamenti individuali. Esse sono star modificate per quanto riguarda i rapporti di lavoro privati, ma le si vuole modificare anche in quelli pubblici.
  Qualche giorno fa un politico di primo piano, a chi gli proponeva obiezioni al suo progetto riformatore basate sulla sofferenza sociale che l'attuazione delle "riforme" aveva e avrebbe ancora prodotto ha replicato che l'era delle ideologie politiche del benessere portato dalle strutture pubbliche è finita e che il mercato si è mangiato tutto. Dunque, in definitiva, si vorrebbe che il Governo avesse le mani più l'onere per varare riforme che assecondino le dinamiche di mercato. Questa direzione riformistica è però antitetica a quella inaugurata con quella che può essere considerate la "riforma delle riforma", la più importante di tutte le riforme, vale a dire con la Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Essa infatti prevede che il mercato non abbia l'ultima parola, ma che le istituzioni pubbliche intervengano per codreggerne le dinamiche dove limitino la libertà e l'uguaglianza dei cittadini,impedendo il pieno svlluppo della persona umana (art.3, 2^ comma, della Costituzione, uno dei principi costituzionali fondamentali). Si tratta di proteggere da dinamiche distorte di mercato beni come il lavoro, la salute, l'istruzione, la previdenza sociale, la libertà sindacale, la partecipazione di tutti attraverso i partiti a determinare la politica nazionale, e si assicurare il coordinamento dell'economia pubblica e privata perché possa essere indirizzata a fini sociali. Nella Costituzione, dunque, il mercato non è il legislatore supremo, e l'iniziativa economica privata, seppure libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art.41 della Costituzione).
 Dal '48 all'inizio degli anni '90 il movimento riformatore è stato indirizzato dai principi sociali costituzionali ed ebbe come criterio fondamentale la giustizia sociale. Esso fu promosso da due agenti socilali: il Parlamento, nel quale le istanze di promozione sociale dei lavoratori proposte dalle opposizioni socialiste e comuniste furono accolte dal partiti di governo, in particolare quando i socialisti divennero parte delle maggioranze di governo,  e la Corte costituzionale, la quale, prevista dalla Costituzione ma funzionante solo dal 1956, svolse un lavoro di rimozione dalla legislazione delle norme contrastanti con quelle Costituzionali, promuovendo anche una corrispondente cultura giuridica di alto livello.
 In concomitanza con le crisi economiche ricorrenti verificatesi dall'inizio degli anni '90, il criterio di riferimento di invece sempre più quello dello sviluppo, nella convinzione, in particolare, che le conquiste sociali dei decenni precedenti fossero troppo onerose per le finanze pubbliche, comportando tributi e costi del lavoro troppo onerosi per il sistema delle imprese, con la conseguenza che essi, venendo computati nel prezzo delle merci praticato ai consumatori, rendevano le merci prodotte in Italia meno competitive sul mercato. Con la fine delle tensioni politiche determinato dalla contrapposizione dei sistemi economici capitalisti e comunisti, a seguito della dissoluzione del comunismo di tipo sovietico e la profonda metamorfosi di quello cinese, e con la creazione di un mercato globale della produzione e commercio in cui le imprese di tipo capitalistico potevamo produrre e vendere in ogni parte del mondo, la produzione venne trasferita nelle nazioni in cui il costo del lavoro e i tributi erano più bassi e,la vendita dei prodotti nei mercati dove i consumatori erano disposti ad accettare di pagare prezzi più alti. Quindi, ad esempio, imprese europee trasferirono le produzioni in Asia, vendendo però i prodotti in Occidente. Questo comportò una forte diminuzione dei posti di lavoro in Europa, ma anche una diminuzione dei prezzi al consumo. I governi occidentali assecondarono questa dinamica, nella convinzione che, alla fine, uniformandosi le condizioni di lavoro sui mercati mondiali, si sarebbe tornato a produrre in Occidente. In realtà questo effetto non si verificò mai, perché, da un lato, i governi delle nazioni in cui il costo del lavoro e i tributi erano più bassi non lavorarono per cambiare questa situazione, in particolare migliorando le condizioni dei lavoratori mediante prestazioni sociali finanziate, come in Occidente, con tributi più alti, dall'altro lato, mente alle imprese era  consentito di muoversi liberamente nel mondo "globalizzato", altrettanto non era consentito ai lavoratori, come quotidianamente possiamo constatare nell'Europa contemporanea: si cerca infatti, con misure di polizia, e addirittura militari, di fermare le migrazioni di forza lavoro dall'Asia e dall'Africa, dove i salari sono più bassi o addirittura inesistente l'occupazione, all'Europa. Le politiche di governo basate sullo sviluppo assecondando le dinamiche dell'economia capitalistica di mercato hanno comportato invece modesti risultati sul fronte dell'occupazione, in particolare a causa della crescente automazione delle lavorazioni, e un marcato peggioramento delle condizioni di lavoro, sia sotto il profilo salariale che della stabilità dei rapporti di lavoro. Di questi giorni è la pubblicazione di statistiche economiche secondo le quali i livelli di benessere delle famiglie dei lavoratori italiani sono regrediti più o meno a quelli di diversi decenni addietro.
 Si è pensato che assecondando le dinamiche di mercato si sarebbero ottenuto lo sviluppo economico e, con questo, la giustizia sociale. Tuttavia le aspettative sono andate deluse nell'uno e nell'altro campo. In particolare, per quanto si siano attuate misure che sempre più hanno inciso sulla giustizia sociale, ad esempio in materia di stabilità dei rapporto di lavoro, non si è riusciti ad innescare lo sviluppo. I redditi delle famiglie sono diminuiti e la stessa possibilità di costituirsi una famiglia e di progettare una prole ne è risultata pregiudicata, per la difficoltà di trovare lavoro, per l'instabilità crescente dei rapporti di lavoro, per le retribuzioni insufficienti (in contrasto con quanto previsto dall'art 36 della Costituzione) per la difficoltà di trovare, a prezzi commisurati alle retribuzioni lavorative, appartamenti adatti per famiglie con figli. Giorgio La Pira, politico cattolico di primo piano ispirato alla dottrina sociale, disse che "Il lavoro è sacro, il pane è sacro, la casa è sacra", principi che ispirarono la legislazione sociale Italiana fino agli anni '90. "Sacro" significa che si tratta di bene che non può essere lasciato alle dinamiche di mercato perché ha un valore correlato alla dignità della persona umana. È evidente che si tempi nostri si ragiona diversamente.
 I fautori della riforma costituzionale hanno dato la colpa dell'insuccesso delle politiche degli anni passati basate sull'idea di sviluppo al Senato elettivo, per le complicazioni derivate dal fatto che era sostanzialmente in doppione della Camera dei deputato, e l'hanno soppresso. In realtà, a ben vedere, le difficoltà che sono derivate dagli anni '90 ai riformatori che intendevano assecondare le dinamiche di mercato dipendevano proprio dal fatto che il Senato NON era un doppione della Camera dei deputati e il Governo ha incontrato maggiori difficoltà ad ottenere la fiducia al Senato. Se la riforma costituzionale verrà approvata al prossimo referendum questo non accadrà più perché la fiducia sarà votata solo alla Camera dei deputati dove il partito di governo, per l'effetto della nuova legge elettorale per tale Camera, disporrà di una solida maggioranza assoluta. Il Governo, non è detto che sia sempre quello attualmente in carica, avrà mano libera per le "riforme".
 Perché però occorre affidarsi a questa riforma di struttura per ottenere il consenso politico ad un'azione riformatrice la cui necessità i sostenitori delle nuove norme reputano ovvia, indiscutibile? Non dovrebbero tutte le forze politiche concordare con il progetto riformatore. Il problema è che le riforme che vengono indicate come necessarie allo sviluppo incidono sul benessere dei più e favoriscono le imprese, controllate dalla minoranza della gente che sta meglio. È questo il problema: andare contro gli interessi di una maggioranza del popolo, per favorire una minoranza. Si suppone che, però, favorendo le imprese queste creeranno sviluppo e occupazione, dei quali beneficerà anche la maggioranza.
 Bisogna però ricordare che la riforma costituzionale modifica solo strutture, procedure e funzioni di organi costituzionali e di enti territoriali locali della Repubblica, ma non consiste delle "riforme" che attraverso di essa ci si propone di facilitare, nè ne indica la direzione: rispetto ad esse è, per così diere, neutrale. Così, studiando la riforma costituzionale, non si può avere un'idea precisa di come saranno le successive "riforme". Esse dipenderanno dalle idee di chi conquisterà il Governo, che poi avrà le mani più libere. E i partiti che si contendono il Governo in genere rimangono piuttosto sul vago, quando si tratta di rendere un'idea precisa delle "riforme" che hanno in progetto di varare. Questo dovrebbe essere un segnale di allarme, soprattutto per la maggioranza di chi dalle passate riforme (tutte attuare dal Parlamento com'è ora) ci ha rimesso in benessere.
 In merito agli effetti della riforma costituzionale in discussione si può dire quanto segue.
 Con un Senato depotenziato come quello riformato, e sostanzialmente nelle mani dei partiti egemoni nelle Regioni più popolose, il partito che, con i meccanismi di premio di maggioranza introdotti anche negli enti locali come per la Camera dei deputati, riuscisse a controllare maggioranze parlamentari omogenee nelle due Camere, avrebbe a disposizione del suo virtuosismo riformatore l'intera Costituzione, anche nei suoi principi fondamentali, che oggettivamente costituiscono ostacoli all'assecomda enti delle leggi di mercato.
 In caso contrario, di maggioranze parlamentari non omogenee nelle due Camere, si aprirebbe una lunga stagione di conflitti tra le due Camere, con l'impossibilità di legiferare nelle materie più importanti, quelle che ancora richiederanno una deliberazione conforme delle due Camere, aggravati dalle incertezze interpretative sulle norme sulla competenza delle due Camere e sul riparto di competenza legislativa tra Stato e Egimi causate dalla non ottimale formulazione delle modifiche costituzionali (eclatante il caso del nuovo art.70 della Costituzione, veramente di difficile lettura).
  Insomma, con la riforma costituzionale si aprirà  verosimilmente  una stagione di riforme di iniziative governativa, ma non si può sapere dove esse andranno a parare, quali conseguenze avranno per la vita della maggioranza della gente, che dipende per il proprio benessere da prestazioni sociali pubbliche, e neanche quale Governo cercherà di attuarle. La riforma costituzionale agevolerà la via al Governo, qualunque esso sia, nei confronti del quale, una volta che abbia conseguito il controllo politico delle due Camere, o anche della sola Camera dei deputati, per l'effetto dei meccanismi elettorali maggioritari stabiliti dalle leggi vigenti, sarà più difficile esercitare un'azione politica diretta a incidere sui suoi progetti. Un'azione politica del genere, possibile nel Parlamenti com'è ora, ha invece moderato l'azione riformatrice dispiegatasi dall'inizio degli anni '90 ad opera di Governi di opposte tendenze, ad esempio nel campo della giustizia, quando la giustizia diventò materia di scontro politico.
 Sulla valutazione dell'incidenza delle dinamiche di mercato sui valori fondamentali inerenti alla dignità delle persone umane, e sui compiti dei pubblici poteri in merito, a livello nazionale e internazionale possono leggersi pagine significative, specialmente per persone religiose, nell'enciclica papale Laudato si', del 2015, che potete leggere sul Web sul sito <www.vatican.va>.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli
 

giovedì 18 agosto 2016

Un Senato depotenziato: farà meno cose, ma quelle che farà saranno quasi tutte le stesse della Camera dei Deputati

1. Una delle critiche al Parlamento com'è ora è che è composto di due Camere, la Camera dei Deputati e il Senato, che fanno le stesse cose.
 Con la riforma costituzionale approvata quest'anno ( dal Parlamento com'è ora), la situazione cambierebbe? 
 Sì e no.
 È vero che, nel Parlamento riformato, il Senato farebbe meno cose della Camera dei Deputati, ma le cose che farebbe sarebbero le stesse della Camera dei Deputati, salvo, principalmente, tre: l'elaborazione e approvazione (con delibera dell'assemblea del Senato) del proprio regolamento (che stabilisce le procedure parlamentari e altro), la richiesta di modifica a leggi approvate solo dalla Camera dei Deputati  e l'elaborazione e presentazione (anche in questi casi con delibera dell'Assemblea del Senato) di disegni di legge alla Camera dei Deputati. La maggior parte di queste attività, e in particolare quelle più importanti, sarebbero svolte dal nuovo Senato, come ora, collettivamente con la Camera dei Deputati, quindi con necessità di deliberazioni conformi del Senato e della Camera dei Deputati. In nessuna delle materie attribuite dalla riforma costituzionale alla legislazione statale il Senato delibererebbe senza il concorso della Camera dei Deputati, anche se quest'ultima in alcune potrebbe deliberare senza il concorso del Senato, il quale tuttavia potrebbe richiedere, con propria deliberazione assembleare, modifiche, sulle quali la Camera dei Deputati dovrebbe effettuare una ulteriore deliberazione, pronunciandosi in via definitiva.
  Di seguito riassumo le varie funzioni che la Costituzione riformata attribuirebbe al nuovo Senato.
  Vi invito a verificare personalmente la correttezza della mia esposizione, utilizzando i testi della Costituzione attualmente vigente e di quella riformata che potete leggere accostati, in quella che viene definita "sinossi", per un più agevole confronto, nel documento in formato PDF pubblicato sul sito WEB della Camera dei Deputati, nella sezione "Documenti", sottosezione "riforma costituzionale".
2. Dunque il nuovo Senato delibererebbe collettivamente con la Camera dei Deputati su:
- leggi di revisione costituzionale e altre leggi costituzionali,
- leggi attuative delle disposizioni costituzionali riguardanti le minoranze linguistiche, i referendum popolari e le altre forme di consultazione popolare previste dalla Costituzione;
- leggi sull'ordinamento, elezioni, organi di governo e funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e sulle disposizioni di principio sulle associazioni di Comuni;
- leggi sulle norme generali riguardanti forme e termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e attuazione della normativa e della politica dell'Unione Europea;
- leggi sull'ineleggibilità e incompatibilità relative all'ufficio di senatore, previste dall'art.65,1^ comma della Costituzione;
- elezione del Presidente della Repubblica (in seduta comune con la Camera dei Deputati);
- elezione di otto membri del Consiglio Superiore della Magistratura (in seduta comune con la Camera dei Deputati);
- concorso nel dare pareri a nomine di competenza del Governo;
ed inoltre sulle leggi statali riguardanti:
-l'attribuzione dei seggi senatoriali alle Regioni, l'elezione dei senatori e la loro sostituzione a seguito di cessazione delle cariche negli enti locali (art.57, 6^ comma, Costituzione);
- ratifica dei trattati sull'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea (art.80, 2^ periodo, Costituzione);
- ordinamenti di Roma Capitale ( art. 114, 3^ comma, Costituzione);
- ulteriore forme e condizioni particolare di autonomia delle Regioni (art.116, 3^ comma, Costituzione);
- poteri delle Province autonome di Trento e di Bolzano in materia di attuazione ed esecuzione di accordi internazionali e di atti dell'Unione Europea e competenza delle Regioni in materia di accordi con altri stati e con enti territoriali di altri stati (art.117, commi 5 e 9, Costituzione);
- principi generali in materia di patrimoni dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni (art.119, 6^ comma, Costituzione);
- poteri del Governo di sostituirsi agli organi degli enti locali (art.120, 2^ comma, Costituzione);
- principi fondamentali in materia di elezione e ineleggibilità del presidente e dei componenti delle Giunte regionali e dei consiglieri regionali, durata degli organi elettivi delle Regioni, equilibrio tra uomini e donne nella rappresentanza in tali organi, determinazione degli stipendi dei componenti della Giunta regionale e dei consiglieri regionali nel limite di quelli dei sindaci dei Comuni capoluogo di Regione (art.122, 1^ comma, Costituzione);
- spostamento di un Comune da una regione all'altra (art.132, 2^ comma, Costituzione).
 Il Senato delibererebbe senza il concorso della Camera dei Deputati su:
- richiesta di modifica di disegni di legge approvati solo dalla Camera dei Deputati e presentazione di disegni di legge alla Camera dei Deputati (art. 70, 3^ comma, e 71,2^ comma,  Costituzione)
- nomina di due giudici della Corte Costituzionale (art.135, 1^ comma, Costituzione. È un potere analogo a quello esercitato dalla Camera dei Deputati, che nominerà tre giudici costituzionali);
- approvazione del proprio regolamento, che disciplinerebbe anche le limitazioni alla elezione e nomina di senatori in ragione dell'esercizio di funzioni di governo negli enti locali (art. 63, 2^ comma, Costituzione);
- presa d'atto della decadenza dei propri membri nel caso di cessazione di carica elettiva regionale o locale (art.66, 2^ comma, Costituzione);
- ricorso di almeno 1/3 dei senatori per promuovere un giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali riguardanti il Senato e la Camera dei Deputati ( art. 73,2^ comma, Costituzione);
- attività conoscitive, osservazioni su atti e documenti all'esame della Camera dei Deputati (art.70, ultimo comma,Costituzione), inchieste su materie di pubblico interesse riguardanti gli enti locali (art.82,1^ comma, Costituzione; è un potere analogo a quello più ampio attribuito alla Camera dei Deputati).
 Il nuovo Senato, in particolare, non avrebbe più competenza a deliberare la fiducia al Governo e in materia di bilancio e rendiconto consuntivo (atti elaborati e presentati dal Governo). Questo eliminerebbe complicazioni (dal punto di vista governativo) che i Governi hanno incontrato nell'attuale sistema parlamentare bicamerale su quei temi.
3. Le materie attribuite dalla riforma costituzionale al nuovo Senato non riguardano solo problemi locali. Comprendono principi e funzioni fondamentali in una società democratica e, in particolare, quello compresi nella Costituzione.
 Che cosa rende il Senato riformato, composto in massima parte da consiglieri regionali e sindaci eletti senatori da consiglieri regionali proprio in quanto membri di quegli organi di enti locali, più idoneo, o almeno egualmente idoneo, del Senato com'è attualmente a occuparsi anche di quei delicati affari di stato, oltre che delle questioni locali?
  Il nuovo Senato ci costerà un po' meno (hanno calcolato circa il 10% in meno ogni anno), in quanto i suoi membri eletti dai consiglieri regionali e i nuovi membri di nomina presidenziale non avranno uno stipendio da parlamentari (ma sarà difficile non riconoscere loro, in particolare a quelli che non abitano a Roma, un qualche rimborso spese e anche altri sussidi che oggi integrano in maniera significativa gli stipendi dei senatori). Ma questo nuovo Senato, che ci costerà un po' di meno, funzionerà almeno con lo stesso livello di qualità di quello attuale, o addirittura meglio?
 Dipenderà naturalmente dalla qualità degli eletti, che saranno molto meno di oggi. La scelte dei parlamentari oggi dipende da due fattori: il lavori dei partiti per l'individuazione dei candidati alle elezioni e un giudizio dei cittadini che compongono il corpo elettorale, quelli che hanno diritto di voto per la Camera dei Deputati e per il Senato. Nel Senato riformato avranno un ruolo preponderante le componenti regionali, quindi locali, dei partiti politici, in quanto i senatori elettivi saranno scelti mediante una procedura che coinvolgerà essenzialmente un ceto politico concentrato sui problemi locali e i cui membri eletti senatori continueranno a occuparsi di quelle materie. Saranno infatti senatori a mezzo servizio. È vero che una disposizione introdotta nel faticoso percorso di deliberazione della riforma costituzionale, per superare forti riserve espresse dai parlamentari ad una Camera svincolata da un giudizio dei cittadini, prevede che, con modalità che gli stessi costituzionalisti hanno difficoltà ad immaginare e che dovranno essere previste da una legge ordinaria successiva, i candidati consiglieri regionali destinati, in caso di loro elezione, ad essere anche senatori siano indicati dal corpo elettorale chiamato ad eleggere il consiglio regionale, ma, comunque, l'ultima parola sulla scelta dei nuovi senatori tra i consiglieri regionali eletti l'avranno i consiglieri regionali, i nuovi senatori emergeranno dal loro stesso ceto politico locale. Quest'ultimo li selezionerà principalmente in vista dell'esercizio di funzioni locali, che i senatori continueranno ad esercitare contemporaneamente a quelle parlamentari. E, comunque, la scelta dei senatori scelti tra i sindaci non vedrà coinvolto il corpo elettorale, ma solo i consiglieri regionali. Ma i senatori in Parlamento non dovranno occuparsi di questioni relative alle autonomie locali, ma di affari di stato fondamentali, come le questioni costituzionali e quelle relative ai rapporti della Repubblica con l'Unione Europea, ad esempio se si dovesse decidere l'uscita dell'Italia dall'organizzazione, come taluni chiedono. Parteciperanno alla elezione del Presidente della Repubblica e alla nomina di otto membri del Consiglio superiore della magistratura; nominando due giudici della Corte Costituzionale influiranno sugli equilibri di questo importantissimo organo dello Stato, e quest'ultima  funzione eserciteranno senza il concorso dei colleghi deputati.
  Pagheremo meno per il nuovo Senato, che però avrà molti meno membri e per di più a mezzo servizio e farà meno cose.
  Tenuto conto che lavorerà con senatori a tempi parziale e scelti principalmente per occuparsi di questioni locali, si può seriamente temere che la qualità del servizio reso dal nuovo Senato possa non essere all'altezza di quello fornito dall'attuale Senato. Dunque è possibile che si paghi di meno, ma per un servizio peggiore.
 Storicamente il Senato fu istituito nel 1848 nel Regno di Sardegna, poi divenuto Regno d'Italia nel 1861 e poi Repubblica italiana dal 1946, come organo costituzionale, a fianco di una Camera dei Deputati elettiva (a suffragio estremamente ristretto, si calcola inferiore al 10% della popolazione e solo con voti di uomini), composto da membri particolarmente qualificati (ad esempio deputati di lungo corso, ministri, alti magistrati, ufficiali, vescovi cattolici e anche persone che avessero "illustrato" la Patria) e di età superiore ai quarant'anni, nominati a vita dal Re. Il nuovo Senato repubblicano, eletto nel 1948 a suffragio elettorale universale e diretto maschile e femminile sulla base della nuova Costituzione entrata in vigore quello stesso anno, si caratterizzò formalmente rispetto alla Camera dei deputati solo per un minor numero di membri (315 invece dei 630 dell'altra Camera), per un'età minima dei senatori più elevata (venne mantenuta quella di quarant'anni) e anche per un'età minima più elevata, venticinque anni, per partecipare alle elezioni. Tuttavia il Senato repubblicano conservò, per consuetudine dei partiti politici, il carattere di "Camera alta", in quanto i candidati al Senato furono scelti, almeno fino a qualche anno fa, tra gli esponenti più qualificati della politica nazionale. Questa connotazione venne avvalorata dalla partecipazione al l'organo, come senatori a vita, degli ex Presidenti della Repubblica e dei senatori di nomina presidenziale per aver "illustrato la Patria". Progressivamente questa caratteristica si venne perdendo con il nuovo corso istituzionale inaugurato nel 1994, con le prime elezioni politiche svolte con una nuova legge elettorale che introdusse un sistema parzialmente maggioritario, che poi produsse, come si voleva, l'alternanza al Governo di due contrapposte coalizioni politiche. Poiché il sistema elettorale del Senato era strutturato su base regionale, si ebbe, come conseguenza non prevista, che la forza parlamentare della maggioranza di governo era minore al Senato che alla Camera dei deputati, per cui i Governi incontrarono più difficoltà ad ottenere la "fiducia" in Senato. Si ebbe allora sempre più di vista, nell'individuare i candidati al Senato, il consenso elettorale che essi potevano riscuotere, più che la qualità e la costanza del lavoro parlamentare che essi potevano garantire. L'autorevolezza del Senato finì per esserne coinvolta,come mai prima, anche se continuarono indubbiamente ad essere elette persone significative. Questo processo può essere  considerato l'ambiente in cui è maturata l'idea di un Senato come "Camera minore", depotenziata in particolare della competenza sulla "fiducia" al Governo, espressione di interessi locali, destinati a cedere dinanzi a un indefinito "interesse nazionale" ( criterio introdotto dalla riforma costituzionale per consentire l'ingerenza statale negli affari regionali) rappresentato sostanzialmente dalla sola Camera dei deputati, i cui membri, e solo loro, diverranno appunto rappresentanti della "Nazione".
 Ma lo stesso collegamento del Senato con gli interessi locali appare piuttosto problematico, in quanto l'azione parlamentare dei senatori eletti dai consiglieri regionali non sarà determinata meccanicamente dagli enti locali di appartenenza, ma sarà decisa autonomamente dai senatori, senza vincolo di mandato. I primi commentatori tra i costituzionalisti hanno notato che essi verosimilmente decideranno secondo le indicazioni dei dirigenti locali di partiti politici di riferimento, quindi del ceto politico locale da cui emergeranno, più che secondo quelle delle loro comunità politiche locali, e che, date le modalità della loro elezione, saranno poi più sensibili alle pressioni del ceto politico locale, quello in cui negli ultimi anni si sono manifestati problemi molto seri in materia di etica pubblica, evidenziati in diversi casi giudiziari venuti all'attenzione delle cronache. Ciò tanto più in quanto provocando la crisi politica degli enti di appartenenza, lo scioglimento dei consigli regionali e le dimissioni dei sindaci senatori, sarà possibile provocare la decadenza dei senatori eletti.
  Nel dibattito referendario sulla riforma costituzionale si è poi presa consapevolezza che, in ragione dei tempi diversi di elezione di deputati e senatori (la durata di quelli elettivi coinciderà con quella dei consigli regionali che li eleggeranno e i senatori elettivi decadranno da senatore cessando dalla carica regionale o locale in base alla quale vennero individuati; i senatori di nomina presidenziale dureranno sette anni) si potranno avere maggioranze politiche sensibilmente diverse alla Camera dei deputati e al Senato, con paralisi dei lavori parlamentari nelle questioni più importanti, quelle in cui le Camere devono deliberare collettivamente. Una situazione molto peggiore dell'attuale.
 In definitiva gli unici effetti veramente importanti della riforma costituzionale sicuramente ottenibili saranno quelli di rendere più agevole e veloce al Governo di ottenere la fiducia, di far approvare il bilancio (che è il presupposto indispensabile perché il Governo possa manovrare i fondi statali) e di varare nuove normative in materia di economia e lavoro e dell'organizzazione della pubblica amministrazione statale, giustizia compresa, appunto ciò che si intende quando si allude genericamente alle "riforme". Il risparmio di spesa sarà invece modesto con conseguenze temibili, però, sulla qualità del lavoro parlamentare, mentre la semplificazione delle procedure parlamentari è piuttosto dubbia, potendo prodursi addirittura una più grave paralisi del Parlamento, non rimediabile con lo scioglimento del Senato, che non rientrerà più tra i poteri del Presidente della Repubblica (nuovo art.88, 1^  comma, Costituzione).
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli







giovedì 11 agosto 2016

Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte sesta

  Il nuovo art.57 della Costituzione, sostituito dalla legge costituzionale che  entrerà in vigore se al prossimo referendum costituzionale i Sì saranno più dei No, prevede che il Senato sia composto da novantacinque membri (ora i senatori elettivi sono trecentoquindici) nominati dai consiglieri regionali e dai consiglieri delle Provincie autonome di Trento e di Bolzano scegliendoli, su base regionale, tra i consiglieri regionali e i sindaci. A questi si aggiungono cinque senatori che il Presidente della Repubblica può nominare scegliendoli tra i cittadini che abbiano "illustrato la Patria" e che durano in carica sette anni, senza possibilità di nuova nomina, ( ora è prevista la nomina di cinque senatori a vita) e gli ex Presidenti della Repubblica (che rimangono gli unici senatori a vita, unitamente ai senatori a vita di nomina presidenziale in carica al momento di entrata in vigore della riforma). I senatori eletti tra i membri degli enti locali e i nuovi senatori di nomina presidenziale non avranno stipendio. A parte gli ex Presidenti della Repubblica, i nuovi senatori saranno a mezzo servizio, perché quelli scelti negli enti locali dovranno anche fare il loro lavoro di consiglieri regionali e di sindaci e quelli di nomina presidenziale avranno il proprio lavoro, a meno che non siano scelti tra i pensionati. I senatori scelti tra i membri di enti locali dureranno in carica quanto i relativi consigli regionali e comunali.  Se cesseranno di essere consiglieri regionali o sindaci decadranno anche dalla carica di senatori. Le modalità di elezione dei senatori scelti tra i consiglieri regionali e i sindaci sarano stabilite da una futura legge approvata da entrambe le Camere.
 La deliberazione delle due Camere del Parlamento, quindi della Camera dei Deputati e del Senato, sarà necessaria, come ora, per molti tipi di leggi, in particolare per quelle più importanti e riguardanti i massimi principi della Repubblica, come le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per quelle concernenti l'ordinamento degli enti locali e, soprattutto, per quelle che riguardano i rapporti tra la Repubblica e l'Unione Europea e l'attuazione della normativa europea, vale a dire, si è stimato, circa il 70% delle leggi dello Stato. In queste decisioni i senatori però non rappresenteranno la Nazione, come è scritto per i deputati, ma le "istituzioni territoriali". Però decideranno senza vincolo di mandato, vale a dire che non saranno semplici portavoce degli enti locali di appartenenza. Dovrebbero "raccordare" lo Stato e gli "altri elementi costitutivi della Repubblica". Ma come assicurarsi che questo raccordo si effettivo? E se ad un certo punto decidessero di fare di testa propria? Ed è possibile occuparsi degli affari di stato senza tener conto della Nazione? 
  L'idea che senatori a mezzo servizio, eletti a suffragio ristretto da membri di altri organi pubblici e non direttamente dal corpo elettorale, potessero andare bene per occuparsi degli affari di stato al massimo livello sarebbe apparsa stravagante in altre ere della storia della Repubblica. Ad certo punto gli stessi riformatori costituzionali hanno avuto qualche remora e hanno introdotto nel nuovo testo dell'art.57 della Costituzione un quarto comma in cui, in un testo zoppicante dal punto di vista sintattico, sembra che i consiglieri regionali destinati ad essere eletti senatori debbano essere indicati dal corpo elettorale in occasione della loro nomina a consiglieri regionali. Ho scritto "sembra", perché il testo non è chiaro e, soprattutto, non dà un'idea di come sarà la procedura di scelta dei nuovi senatori in modo da tener conto della volontà del corpo elettorale. Tutto è rinviato a una legge ordinaria. Quel comma è stato introdotto per realizzare un accordo politico con chi voleva che, nella scelta dei nuovi senatori, si tenesse conto della volontà del cittadini. Il testo costituzionale poco chiaro si rifletterà sul giudizio di costituzionalità della nuova legge elettorale sul nuovo Senato, rendendolo problematico.
 Per inciso: le norme costituzionali dovrebbero essere scritte in modo chiaro, in buona lingua italiana sotto il profilo sintattico e grammaticale. La legge di riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum non sembra essere stata sottoposta a revisione sotto questo aspetto, come invece lo fu il testo della Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Anche la cattiva qualità sintattica e grammaticale delle norme può essere considerata una manifestazione del degrado della politica.
 Concepire i consigli eletti dal corpo elettorale come istituzioni inutili, dispendiose e fonti di  complicazioni ingiustificate è un'altra manifestazione del degrado della politica democratica. In parte si tratta di pregiudizi ingiustificati, in parte della constatazione del reale scadimento del personale della politica. Si tratta di un fenomeno che può ricondursi alla crisi della forma sociale dei partiti politici che, originata verso la metà degli anni '70, è giunta ad uno stadio per così dire terminale a seguito della riforma della legge elettorale del 2005 ( quella che ha previsto liste bloccate ed elevato premio di maggioranza alla coalizione vincente), dichiarata incostituzionale nel 2014 sia con riferimento al premio di maggioranza sia in quanto negava ai cittadini elettori la possibilità di esprimere preferenze per i candidati. La crisi ha cominciato a prodursi al momento del passaggio del controllo della politica democratica dalla generazione che aveva partecipato alla Resistenza contro il fascismo storico e l'occupazione nazista alle generazioni successive di politici. Ha trovato storicamente terreno fertile tra i partiti di governo nel potere sul sistema, un tempo molto più vasto di oggi, delle industrie pubbliche, gestite direttamente o mediante partecipazione al loro capitale sociale. Non ha riguardato solo il personale politico, ma anche il corpo elettorale. Il consenso politico iniziò ad essere contrattato sulla base delle elargizioni fatte alle diverse categorie sociali, le cui pretese sono andate crescendo. I partiti politici iniziarono a prelevare una quota crescente di denaro pubblico come pezzo della mediazione sociale. Il personale della politica inoziò ad essere autoreferenziale, perdendo il contatto vitale con,le formazioni sociali dalle quali era emerso: iniziò a concepire sé stesso come un insieme di "tecnici" della politica, quasi al modo dei "manager", dei capi delle imprese industriali, e a pretendere corrispondenti gratificazioni economiche. Si produsse in tal modi una crisi di legittimazione della politica, fatta,di disprezzo reciproco tra cittadini e personale della politica, che i sociologi iniziarono a segnalare a partire dagli anni '80. In quel decenni si tentò di porvi rimedio occupandosi nuovamente di formazione alla politica: furono gli anni delle "scuole di politica" (famosa quella creata in Sicilia dai padri gesuiti Pintacuda e Sorge). A cavallo tra gli anni '80 e '90 i partiti politici italiani cambiarono volto a seguito del crollo del comunismo sovietico e della fine della "guerra fredda" a sfondo ideologico tra gli alleati degli statunitensi e gli alleati dei sovietici. Il Partito Comunista Italiano, storicamente legato al comunismo sovietico, cambio nome e struttura, completando la sua trasformazione in partito di tipo occidentale e rinunciando alla sua particolare diversità ideologica. Correlativamente, si trasformarono anche i partiti che gli si opponevano, in particolare la Democrazia Cristiana, partito-federazione di molte componenti eterogenee che presero a dividersi. In quella fase emerse in sede giudiziaria l'immane corruzione della politica organizzata dai partiti. Ciò accrebbe enormemente il discredito di questi ultimi, che divennero instabili e più simili a comitati elettorali catalizzati da singole personalità. Venute meno molte delle risorse di un tempo, alcuni dei maggiori partiti entrarono in crisi economica e dovettero chiudere le loro grandi sedi e licenziare gran parte del loro personale, a favore del quale nel 1993 vennero anche disposti ammortizzatori sociali. Il collegamento con la base sociale di cittadini si fece episodico, generalmente solo in occasione delle elezioni. Conseguito il risultato elettorale, chi aveva "vinto" si aspettò di avere le mani libere fino alle successive elezioni. A quel punto, concentrata la direzione politica intorno alle segreterie nazionali dei partiti si perse il senso dell'utilità  degli organi collegiali elettivi, vista la sempre più ridotta autonomia degli eletti, i quali sempre più spesso vennero scelti per il loro potenziale richiamo verso gli elettori, ad esempio tra il personale dello spettacolo, a prescindere dal loro legame vitale con i cittadini e della reale disponibilità di tempo per la politica.
 La prima manifestazione di politici a mezzo servizio si ebbe, tra il 2011 e il 2015, con l'abolizione dei consigli provinciali eletti dai cittadini, sostituiti da consigli eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni compresi nella provincia. Per le 14 città metropolitane che sostituirono altrettante province, nelle province in cui erano comprese le più grandi città italiane, si provvide nello stesso modo. Con la legge di revisione costituzionale oggetto di referendum anche le residue province verranno soppresse e le loro funzioni sono destinate ad essere svolte da città metropolitane.
 Con la riforma del senato si è seguita la stessa logica.
 Come per province e città metropolitane si avrà una riduzione del personale della poliica e politici che dovranno occuparsi contemporaneamente di problemi su scala diversa. Questo può essere considerato un vantaggio solo se si pensa che la politica non sia redimibile, che non possa recuperare un rapporto vitale con i cittadini e che meno politici ci sono meglio è. In questo modo però la politica diventerà sempre più questione di apparato, autoreferenziale. Verrà ridotta l'autonomia del personale della politica, che dipende dall'esistenza di quel rapporto vitale. Le organizzazioni di partito e le stesse istituzioni pubbliche di derivazione elettiva diverranno sempre più simili alle organizzazioni delle imprese industriali, in cui sono egemoni le oligarchie dei dirigenti d'azienda, che pretendono di essere obbediti. Come faranno i cittadini, a prescindere dagli eventi elettorali, a concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, come prevede L'art.49 della Costituzione? E, soprattutto lo vogliono ancora fare?
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli






mercoledì 10 agosto 2016

La riforma costituzionale a volo d'angelo

  Esaminare il testo  e capire i contenuti della riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum è impegnativo per chi sa di diritto e molto di più per chi non ne è pratico. Occorrerebbe avere almeno dei rodimenti di educazione civica, al livello delle scuole medie inferiori di oggi. Si tratta di una legge che incide profondamente nella Costituzione, in particolare in quella parte, la seconda, che disciplina la struttura e il funzionamento delle istituzioni di vertice della Repubblica. Da essa però dipendono la difesa e lo sviluppo dei principi e valori civili che sono trattati nella prima parte della Costituzione.
 La campagna per il referendum, fatta in genere per slogan, sul modello della pubblicità commerciale, non aiuta. Gli argomenti che principalmente vengono proposti o sono superficiali o sono parzialmente fuorvianti.
   Il risparmio di denaro pubblico che si conseguirà sarà poca cosa rispetto all'intero bilancio pubblico. Si è calcolato che, quanto alle spese per il Senato, potrebbe aggirarsi intorno ad un 10%, ma avremo meno senatori e soprattutto senatori a mezzo servizio, perché dovranno fare anche i consiglieri regionali e i sindaci. La semplificazione delle procedure parlamentari sarà anch'essa poca cosa, sia per il fatto che in molte materie le leggi dovranno continuare ad essere approvate da entrambe le Camere, sia perché il nuovo Senato potrà comunque deliberare di chiedere alla Camera dei Deputati modifiche delle leggi di competenza esclusiva di quest'ultima, sia perché, data la non chiarissima formulazione delle nuove norme, è prevedibile che insorgano controversie interpretative che, coinvolgendo organi di vertice, non saranno di facile soluzione. La riforma non garantirà "le" riforme alle quali spesso si accenna genericamente e che si dice siano indispensabili per la ripresa dell'economia nazionale. Si tratta infatti di una legge che modifica o abolisce organi dello Stato, quindi che non incide direttamente sulla società. Se e come fare le riforme dipenderà dalla formazione di una sufficiente forza politica riformatrice e la riforma costituzionale oggetto del referendum  è in un certo senso indifferente rispetto alla successiva azione riformatrice nella società, in altre parole non garantisce riforme "buone", e non è detto neanche che garantisca riforme più celeri.
 Stanno uscendo diversi libri divulgativi per orientarsi nella riforma costituzionale. L'altro giorno ho indicato quello di Giatwvo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale", "Loro diranno, noi diciamo", edito da Laterza, orientato in senso negativo alla riforma. Della medesima opinione sono Luigi Ciotti, Alessandra Agostino, Tomaso Montanari e Livio Pepino nel libro "Io dico no", pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele. Favorevoli alla riforma sono due professori universitari di diritto che da giovani furono presidenti della FUCI, gli universitari cattolici: Stefano Ceccanti, in "La transizione e (quasi finita)" edito da Giappichelli, e Giovanni Guzzetta, in "Italia, si cambia", edito da Rubettino. Guzzetta fin da liceale fu per qualche tempo nel gruppo romano della Fuci di cui facevo parte anch'io, ma iniziò precocemente a collaborare nella presidenza dell'organizzazione, perché era un ragazzo molto capace.  Ceccanti è fonte particolarmente affidabile in quanto è considerato uno dei "Padri", vale a dire degli ideatori e autori, della riforma; ha fatto parte della commissione di saggi nominata dal Presidente della Repubblica Napolitano per formulare proposte per la riforma dello stato. Altro testo scritto da esperti autorevoli è "Perché è saggio dire no", pubblicato da Rubettino è scritto da Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale, e da Gaetano Quagliarello, professore universitario, costituzionalista e già membro della menzionata commissione di saggi. Informarsi su uno di questi testi, o su uno degli altri analoghi che stanno uscendo di questi tempi, è utile perché radio e televisione, le fonti informative più utilizzate dagli italiani espongono prevalentemente le ragioni favorevoli alla riforma e lo fanno in modo superficiale e soprattutto indicando, in genere, quelle sul risparmio di spesa pubblica e sulla velocizzazione delle procedure parlamentari che abbiamo visto prestare il fianco a diverse e serie obiezioni, che però in genere non vengono esposte. Le ragioni dei contrari alla riforma vengono presentate, quando lo sono, come dei partiti presi. Non si entra mai nel merito. E soprattutto non viene trattato l'argomento che mi appare quello che realmente ha motivato la riforma e che ho letto esposto in un sito web politico del Trentino, vale a dire quello di potenziare la capacità di azione del Governo, in modo che non sia un "governicchio". Questo effetto sicuramente si otterrebbe con la promulgazione della riforma costituzionale, perché tutti i governi che si sono succeduti dal '94 ad oggi, compreso quello attuale, hanno avuto difficoltà e dispiaceri nel cercare di ottenere la "fiducia" dal Senato e il nuovo Senato non sarà più competente a dare questa fiducia.
  All'inizio di questa serie di post dedicati alla riforma costituzionale, in quello del 29 luglio, ho pubblicato il testo della legge costituzionale oggetto del prossimo referendum. Essa è stata approvata dal Parlamento, con le speciali modalità previste dalla Costituzione, quindi con una doppia deliberazione conforme di Camera dei Deputati e Senato, ma entrerà in vigore, con la promulgazione del Presidente della Repubblica, solo se otterrà il consenso dei,cittadini elettori nel prossimo referendum costituzionale.
 La legge si compone di 41 articoli, che cambiano il testo della Costituzione della Repubblica. L'importanza della riforma è evidente se si tiene conto che la Costituzione ha 139 articoli e 18 disposizioni transitorie e finali.
  Il cuore della riforma è nella modifica della struttura, modalità di elezione e funzioni del Senato, delle funzioni della Camera dei Deputati, e del riparto del potere di fare leggi tra lo Stato e le Regioni. Innova però anche in altre materie: sulle leggi di iniziativa popolare e sul referendum abrogativo delle leggi; sulle modalità di elezione e sulle funzioni del Presidente della Repubblica, sulle modalità di nomina dei giudici della Corte Costituzionale e sulle funzioni della Corte, sui poteri del Governo di emanare decreti legge,limitandoli; sull'attività della pubblica amministrazione, introducendo i criteri costituzionali di trasparenza e semplificazione. Infine abolisce le Province, tranne quelle, con statuto particolare, di Trento e Bolzano, e il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, organo ausiliario previsto dalla Costituzione che si è dimostrato scarsamente produttivo nella sua storia, anche dopo la riforma che di esso è stata attuata nel 1986. 
 Una prima osservazione che faccio è che la legge costituzionale oggetto del referendum contiene non una ma varie riforme e che il giudizio su ciascuna di esse, ad esempio quello sulla modifica del Senato e quello sul l'abrogazione del CNEL, potrebbe essere diverso, ma che dovremo pronunciarci, al referendum, con un sì o un no complessivo: si dovrà tener conto quindi delle parti più importanti, quelle che costituiscono il "cuore" della legge ed è un peccato, perché, se prevarrà il no, saranno pregiudicate anche riforme sulle quali, se presentate separatamente, ci sarebbe stato un consenso molto largo.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 9 agosto 2016

Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - quinta parte

  Com'è che, cercando di ragionare sulla recente riforma costituzionale per arrivare preparato al prossimo referendum che si farà per decidere se bloccarla o farla diventare parte della Costituzione, ho cominciato a scrivere del degrado della politica e di educazione alla democrazia? È perché sono argomenti collegati e la riforma costituzionale è concepita anche come una soluzione al degrado della politica democratica. È la soluzione giusta o essa stessa è manifestazione di quel degrado?
  Che cosa è la democrazia e, in particolare, la democrazia di popolo che si è voluto attuare con la Costituzione repubblicana progettata e approvata dai membri dell'Assemblea Costituente tra il 1946 e il 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948? Sarebbe importante discuterne in parrocchia, nel quadro di attività di autoformazione alla politica democratica. E questo perché la Chiesa cattolica è oggi in Italia  uno dei più importanti attori politici e l'unico ad aver mantenuto un'organizzazione di educazione alla politica analoga a quelle dei partiti politici "forti" e "solidi" che ebbero corso in Italia fino alla fine degli anni '80, quando il mondo improvvisamente cambiò.
 Si sostiene che democrazia è quando decide la maggioranza, ma, in realtà, nella concezione contemporanea e, in particolare, nelle democrazie popolari è molto più di questo: è un sistema molto esteso di valori e di procedure che servono a proteggerli e che impediscono quello che fu definito fin dal Settecento, agli albori del pensiero democratico moderno, il "dispotismo" delle maggioranze. Tra i valori più importanti e fondativi vi è quelli della partecipazione di tutti, e di ognuno, alla sovranità, vale a dire alle decisioni più importanti per una collettività, anche quando si tratta di vita o di morte. In una democrazia di popolo si vorrebbe che tutti, e ognuno, fossero re: questo richiede di essere re giusti, non come gran parte dei re della storia dell'umanità, che furono dei despoti e predarono e mantennero il potere con l'arbitrio e la violenza, pretendendo anche di sacralizzare il loro potere di despoti. La via della democrazia come oggi la concepiamo e uno sforzo per essere virtuosi, che si vorrebbe coinvolgesse tutti. Nell'antichità si pensò invece che la democrazia, proprio perché "potere di tutti", quindi espressione delle masse, non fosse la migliore forma di organizzazione politica perché le masse non sanno essere virtuose. Si pensò che lo stato dovesse essere diretto da "illuminati", che si ritenne di volta in volta di individuare nei filosofi, in certi sovrani, in certi capi religiosi ai quali si volle riconoscere la virtù soprannaturale dell'infallibilità. La democrazia moderna sorge quando si ritenne possibile "illuminare" le masse. Essa ne richiede l'elevazione e questo fu uno di principali obiettivi sia del socialismo storico che della dottrina sociale. Zagrebelsky nel libro che ho consigliato ieri, "La difficile democrazia" critica questo obiettivo, perché in tal modo il potere non sarebbe più in mano al popolo, ma, con pretesto di fare gli interessi del popolo, in mano, di nuovo, a un gruppo di sedicenti "illuminati".  Su questo non mi sento di poter essere d'accordo con lui. E questo sulla base innanzi tutto della mia storia personale di cittadino: non si è cittadini "democratici" per natura, anzi è il contrario. Come scrisse pessimisticamente il grande giurista romano Marco Tullio Cicerone nel suo libro intitolato "Lo Stato", la gente, specie se inserita in una massa di individui, può assumere aspetto e abitudini di belva. E dalle belve noi tutti, in fondo, discendiamo. La democrazia è una faticosa conquista culturale e un fatto sociale, per cui ognuno, nello sforzo per attuarla, deve sentirsi maestro e discepolo. In questo consiste l'autoformazione. È impegno di illuminazione interiore che, in un certo senso, richiede di emanciparsi dagli "illuminati" che pretendano di avere il monopolio della dottrina democratica. In questo senso è anche azione di liberazione. Questa la rende sospetta ai gerarchi sociali in carica.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

lunedì 8 agosto 2016

Ho conosciuto uno dei nuovi Padri Costituenti

  Sul L'Espresso in edicola si scrive di uno dei nuovi Padri Costituenti, uno degli artefici della riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati a pronunciarci come cittadini in un referendum, ed è un professore universitario che fu presidente della FUCI, l'organizzazione degli universitari cattolici dei miei tempi di gioventù: lo conobbi allora e l'ho incontrato nuovamente in eventi organizzati dal MEIC, il Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, come si chiama ora l'antico Movimenti Laureati. È un po' più giovane di me. Negli anni '80 in FUCI si discuteva di una "nuova" politica. Il suo impegno è stato quello di una vita. È stato anche parlamentare, senatore.
 Un po' meglio ho conosciuto altri due antichi fucini, che furono rispettivamente presidente della FUCI e condirettore di "Ricerca" nei miei tempi da universitari e che ora sono rispettivamente senatore e deputato. Hanno avuto un ruolo importante nell'elaborazione e approvazione della recente riforma costituzionale. Con il secondo partecipai, all'inizio degli anni '80, alla fondazione di un gruppo politico di giovani cattolici catalizzati da Paolo Giuntella, un giornalista che fu uno straordinario formatore di coscienze giovanili. All'inizio fu chiamato "setta" e poi "Rosa Bianca", richiamandosi all'omonimo gruppo di resistenti tedeschi sotto il regime nazista, ed esiste ancora. Organizza scuole di politica. Le prime, a cui partecipai, furono a Limone sul Garda e a Malcesine. Io poi smisi di frequentare quel gruppo, per il dovere di imparzialità inerente all'ufficio pubblico che presi a svolgere dall' '85.
 Quei tre antichi fucini sono a favore della riforma costituzionale, della quale, a diverso titolo, sono stati tra gli artefici.
 Ho ricordato quelle biografie per evidenziare una continuità di impegno politico democratico che è andata dall'esperienza fucina, e la FUCI all'epoca era ancora una organizzazione di Azione Cattolica, alla politica parlamentare. L'Azione Cattolica fu anche scuola di politica democratica e, soprattutto, sede di tirocinio democratico. Fu in FUCI che quei Padri Costituenti di oggi iniziarono, ad esempio, a organizzare e a presiedere assemblee deliberanti, a scrivere regolamenti e statuti, a dirigere amministrazioni, ad avere relazioni internazionali con altre organizzazioni giovanili simili. 
 Mi stupisce sempre chi propone di insegnare ad occuparsi di "bene comune" senza far svolgere tirocinio democratico, gestendo tutto da autocrate. E, a ben vedere, purtroppo questo è in genere il modo in cui lo si fa in molte parrocchie. Individuare e promuovere il "bene comune" richiede processi democratici e la democrazia la si impara studiando ma soprattutto facendone tirocinio. La democrazia è una conquista culturale, non si è democratici "per natura". È stata una conquista culturale (recente) anche nelle nostre organizzazioni religiose, nelle quali se ne continua comunque a diffidare. E per questa diffidenza che non se ne consente il tirocinio, quindi di metterla in pratica e ciò anche nei processi decisionali in piccoli gruppi. Affidare il potere al  "popolo" è ancora considerato rischioso. Perché il popolo che si ha intorno non appare ancora pronto a ragionare in termini di bene comune. Ma soprattutto perché sembra troppo superficiale, volubile e influenzabile dal punto di vista ideologico. E in religione la teologia corrente ci spinge a dipendere da "pastori", Però poi si tralascia di lavorare per elevarlo alla democrazia. Che quindi rimane sempre una "difficile democrazia", il titolo di un bel libro divulgativo di formazione alla democrazia scritto da Gustavo Zagrebelsky nel 2010 e disponibile anche come e-book. Ve lo consiglio. Lo stesso autore ha pubblicato quest'anno anche un libro sulla recente riforma costituzionale: "Loro diranno, noi diciamo", edito da Laterza. Mi limito a segnalarlo perché non l'ho ancora letto. Le recensioni sono molto buone.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
 

domenica 7 agosto 2016

Il Senato come imputato

   Interrompo  la serie di riflessioni sul degrado della politica e sulla (conseguente) eclisse del Parlamento  per trattare del Senato come è attualmente in quanto imputato di inefficienza e inutile e costoso rallentamento dell'attività parlamentare. Questa è l'accusa che, secondo gli ideatori e i fautori della recente riforma costituzionale, ne ha comportato, come urgenza prioritaria, la metamorfosi (non l'abolizione).
 Una delle qualità più apprezzabili in chi fa politica è una certa veridicità nell'esporre i propri programmi.
 Può sembrare ovvio raccontarla giusta agli elettori, ma se consideriamo le vicende della nostra vita privata possiamo convincerci facilmente del contrario. Molto spesso prima prendiamo una certa decisione e poi cerchiamo di giustificarla di fronte al prossimo che ce ne chiede ragione. A volte accade che anche i politici facciano così.
 Di fronte alle accuse mosse al Senato dovremmo cercare di immedesimarsi nel lavoro di un giudice, che vaglia con imparzialità gli argomenti, cercando di capirne il fondamento, non determinandosi per sentito dire, superficialmente, o per simpatie o fedeltà personali. 
 È fondata l'imputazione?
  E la soluzione proposta è adeguata a risolvere il problema?
  Quando il Senato com'è organizzato attualmente è stato d'impaccio alla realizzazione delle più importanti riforme della Repubblica? Quando si cerca di andare nei particolari, di ricevere risposte precise, non se ne esce mai soddisfatti. In effetti dagli anni '90 l'Italia è cambiata moltissimo mediante riforme legislative prodotte da Parlamento com'è ora. Da un'economia controllata in larga parte dallo Stato si è passati ad una privatizzazione spinta. Il sistema elettorale per il Parlamento è cambiato non una, ma due volte. Non c'è stato praticamente nessun settore delle attività pubbliche e della vita sociale su cui non abbiano inciso leggi approvate dal Parlamento com'è ora. Ad esempio è stato abolito il servizio militare di leva, sono cambiate le norme in materia di igiene e sicurezza del lavoro, quelle in materia di ambiente, in materia di commercio e industria, quelle in materia di formazione del bilancio dello stato, quelle in materia di banche e assicurazioni, quelle in materia di adozione, stato giuridico dei figli e poteri e responsabilità dei genitori e via seguitando, fini all'approvazione di due riforme fortemente controverse come quelle sulla disciplina dei contratti di lavoro, detta "Jobs act" e quella sulle unioni civili delle persone omosessuali e sulle convivenze. Sono state anche approvate due importanti ed estese leggi di modifica della costituzione, nel 2001 e nel 2006, entrambe sottoposte a referendum costituzionale, con esito positivo per la prima e negativo per la seconda. La riforma  del 2006, bocciata nel referendum costituzionale, prevedeva un senato "federale", con competenze limitate a certe materie che riguardavano le autonomie locali, che possiamo considerare il modello della riforma sulla quale si svolgerà il prossimo referendum costituzionale. Nel sistema ideato nel 2006 i senatori erano però eletti direttamente dal corpo elettorale, anche se contemporaneamente all'elezione dei consiglieri regionali. E, con scelta più coerente dal punto di vista logico-istituzionale, si prevedeva, una volta trasformato il senato in una "camera delle autonomie locali", che i "senatori a vita" divenissero "deputati a vita". Dunque il Parlamento com'è ora non ha impedito di cambiare l'Italia per via legislativa. Ha certamente impedito, in particolare nel corso dei lavori delle Commissioni bicamerali a cui si vollero affidare poteri in qualche modo simili a quelli dell'Assemblea costituente del 1946, che la Costituzione fosse riformata in senso sostanzialmente presidenziale, secondo il desiderio di alcune parti politiche. Ma possiamo considerarla una colpa? Dal 1990,comunque, i poteri del Consiglio dei ministri e dei singoli ministri sono stati comunque notevolmente incrementati, sia prevedendo che il dettaglio delle maggiori riforme fosse deciso dal Governo, all'interno di principi generali dettati dal Parlamento con leggi delega, sia attraverso una estesa opera di "delegificazione", affidando ai poteri normativi del Governo, attuati con regolamenti, materie che prima erano regolate da leggi dello Stato. 
  Ragionando sugli argomenti che ho sopra proposto, come trovate il Senato: colpevole o innocente?
  Concludo osservando che può essere individuata facilmente una ragione di marcata inimicizia tra i Governi, di opposta tendenza, succedutisi dal 1994 ad oggi e il Senato com'è ora.  Il motivo risiede proprio nel fatto che il Senato non è un "doppione" della Camera dei deputati: a causa della sua elezione su base regionale, ha prodotto, sia vigente la legge elettorale proposta dall'allora deputato Mattarella con cui votammo dal 1994, sia vigente quella proposta dal senatore Calderoli con cui abbiamo votato dal 2008, forze parlamentari leggermente differenti tra Camera dei deputati e Senato. Proprio come i Costituenti avevano voluto e previsto, Con la conseguenza che i Governi hanno avuto più difficoltà ad ottenere la fiducia e a far approvare i loro disegni di legge in Senato. Questo ha costretto i Governi a trattative per cercare di consolidare e allargare  le loro maggioranze parlamentari, facendo concessioni nel quadro di questi accordi. Questo inconveniente (dal punto di vista governativo naturalmente), sicuramente si è verificato: ma lo possiamo veramente considerare un male? Non si è trattato semplicemente del fatto  che il Senato ha svolto la funzione che i Costituenti del '46/'47 gli avevano assegnato, vale a dire di essere un limite a governi tendenzialmente troppo autosufficienti e di garantire una migliore ponderazione dei temi in discussione e delle decisioni proposte?
 Il nuovo Senato non avrà più la funzione di votare la fiducia ai Governo. Un impedimento di meno dal punto di vista governativo. I Governi, sula base della nuova legge elettorale per la Camera dei deputati approvata l'anno scorso, potranno contare su una solida maggioranza nelle questioni in cui è implicata la "fiducia", anche se dovessero essere espressione di un singolo partito che non riesca ad ottenere la maggioranza assoluta dei voti, ma almeno il 40% dei voti, una maggioranza "relativa". Nel nuovo Senato, comunque, a causa della procedura di nomina dei suoi membri, è prevedibile un risultato simile: i nuovi senatori saranno prevalentemente espressione della maggioranza in Consiglio regionale. Non sappiamo se e in che modo le minoranze potranno avere comunque una loro rappresentanza: la legge che disciplina i dettagli della elezione dei nuovi senatori ancora non c'è. Quindi un risultato sicuramente sarà conseguito con la riforma costituzionale: un rafforzamento della posizione dei governi. Dopo le elezioni non solo si saprà subito chi ha vinto, ma anche chi governerà e sarà più difficile per i cittadini  condizionare democraticamente l'azione di governo. I governi avranno quindi le mani più libere. Governi con le mani più libere potrebbero trasformare a loro immagine e somiglianza le istituzioni chiave dello Stato. È un'opportunità o un rischio? Abbiamo avuto presidenti del Consiglio dei ministri della levatura di De Gasperi e di Moro, ma siamo anche la nazione in cui fu capo del Governo Mussolini. E qualche lezione sul tema potremmo trarre dalla storia politica degli ultimi venti anni, in cui il Parlamento, nelle sue due Camere, ha avuto un ruolo molto attivo nel sindacare l'azione governativa.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli  
 
 

sabato 6 agosto 2016

Degrado della politica e degrado del parlamento - parte quarta

  Coloro che condividono la riforma costituzionale, sulla quale a novembre prossimo dovremo decidere come cittadini in un referendum, sostengono che essa ridurrà i costi dell'attività parlamentare e che renderà più veloce il procedimento legislativo. Sono questi i soli argomenti che dovrebbero indurci a dare il nostro consenso alla riforma? In realtà la riduzione dei costi si limiterà agli stipendi dei nuovi senatori, che però saranno, per così dire, a mezzo servizio, perché dovranno occuparsi anche di altro. Sarà difficile però non riconoscere loro rimborsi spese e indennità di partecipazione ai lavori parlamentari, in particolare per quelli che non risiedono a Roma. Il Senato non viene abolito e richiederà l'impiego dei dipendenti che attualmente vi prestano servizio, così come di disporre degli immobili, molti di gran pregio e quindi di costosa gestione, in cui ha sede. Quanto alle procedure parlamentari, le nuove norme contemplano molti e importanti casi in cui le due Camere esercitano collettivamente la funzione legislativa e inoltre  è previsto che il Senato possa richiedere modifiche ai disegni di legge approvati dalla Camera dei Deputati, con necessità, in questi casi, di tre delibere parlamentari (Camera dei Deputati>Senato>Camera dei deputati, in via definitiva). Infine la formulazione dell'elenco delle materie di competenza legislativa bicamerale appare imprecisa e lascia molti margini di dubbio, per cui si può immaginare un contenzioso costituzionale in merito. Insomma, quanto a costi e a velocità del procedimento legislativo i vantaggi non appaiono poi così eclatanti. Come controindicazioni vi sono il fatto che i nuovi senatori non saranno eletti dal popolo, ma dalla classe politica locale, che ha manifestato molti problemi di adeguatezza negli anni passati, ed inoltre il fatto che saranno parlamentari a mezzo servizio con la conseguente difficoltà a impratichirsi nelle questioni di stato e di sviluppare reti di relazioni con i colleghi e l'assai problematica rappresentatività delle autonomie locali regionali di rispettiva appartenenza, tenuto conto che i nuovi senatori lavoreranno senza vincolo di mandato e anche in considerazione della procedura per la loro elezione (non è detto  infatti che siano scelti gli esponenti  dai quali dipende l'indirizzo politico delle autonomie regionali),
  Alle obiezioni che precedono i fautori della riforma ne riconoscono i difetti, ma ritengono che sia stato comunque un grande risultato abolire il Senato come è attualmente. Eppure l'esperienza costituzionale dal 1948 dimostra che il Parlamento bicamerale così com'è oggi ci ha consentito di superare molte brutte esperienze, tempi difficili. I regolamenti parlamentari e la tradizione parlamentare, che si è tramandata da ufficio di presidenza ad ufficio di presidenza, hanno consentito di affinare i procedimenti legislativi, risolvendo nella pratica molte questioni controverse. Sostituire a ciò che c'è e funziona norme che gli stessi loro artefici riconoscono per lo meno come perfettibili, costituisce un bel rischio. Ma è poi vero che il problema che ha oggi la politica risiede nel bicameralismo "perfetto", in un Parlamento con due Camere che fanno le stesse cose e che per produrre leggi devono approvare testi normativi identici? La mia tesi, basata innanzi tutto sulla mia esperienza di cittadino, è che non è così. Il principale problema della politica è il suo progressivo degrado e, quando parlo di politica, non mi riferisco solo a quella espressa dalla classe dei politici, ma innanzi tutto alla politica che è manifestata, consapevolmente o non, da noi cittadini. Questa è una storia molto più lunga e complessa e, innanzi tutto, è storia.
 A che servono gli anziani, dei quali dal gennaio prossimo inizierò a fare parte raggiungendo i sessant'anni? Servono proprio a fare memoria della storia dei quali sono stati partecipi e responsabili.
 Scrivendo di storia, ho accennato agli anni '70 e '80, dove risiedono gli inizi del degrado della politica di oggi. Il mondo, e anche l'Italia, cambiò improvvisamente tra le elezioni politiche italiane del 1987 e del 1994...
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente Papa- Roma, Monte Sacro Valli

venerdì 5 agosto 2016

Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - terza parte

 Per valutare la recente riforma costituzionale  occorre avere a portata di mano il libro di storia dell'ultimo anno delle scuole superiori: infatti essa scaturisce, come tutti i fatti politici, da un lungo processo storico e sociale, che per chi ha meno di cinquant'anni è iniziato prima della sua partecipazione consapevole alla vita civile. Non basta quindi leggere e cercare di capire i quarantuno articoli della legge costituzionale di riforma e confrontare la Costituzione vigente con quella progettata. E non basta neanche cercare di immaginare come funzionerà la nuova Costituzione. Poiché la riforma scaturisce da un processo storico, le cose tenderanno ad evolvere nella direzione che hanno preso, salvo che si decida di correggerne il movimento, ciò che appunto si può fare nel prossimo referendum costituzionale, che si prevede si terrà nel prossimo novembre. E' necessario quindi comprendere il senso del movimento in atto.
 La riforma incide profondamente nella struttura della Repubblica, in particolare in quella del Parlamento e delle autonomie locali, ma ha riflessi importanti anche sulla Presidenza della Repubblica e sulla Corte Costituzionale. E i principi costituzionali sono sostanzialmente nelle mani  di chi svolge quelle funzioni, o nella fase normativa o in quella attuativa.
 Il processo storico dal quale è scaturita la riforma è quello di una crisi della politica. La riforma ne è il rimedio o una delle manifestazioni?
 La politica italiana è entrata in crisi negli scorsi anni '70. 
 Nel secondo dopoguerra si era prodotto in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di espansione economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del lavoro. Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere sociale a favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia del partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale della Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso" elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti  i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.
 L'attuale riforma costituzionale si inserisce nei tentativi di rendere il governo più indipendente dalla base sociale, realizzando così quella "governabilità" di cui si iniziò a discutere molto nel corso degli anni '80, in particolare sulle sollecitazioni del politico di governo più connotante quel periodo storico, il neo- socialista Bettino Craxi. Essa va letta insieme alla recente riforma del sistema elettorale della Camera dei Deputati, che consente alla formazione politica che "vince" le elezioni, raggiungendo anche solo una maggioranza "relativa", vale a dire inferiore al 50%, ed essendo preferita nel "ballottaggio" tra le due formazioni che hanno avuto il maggior numero di voti, di avere una solida e sicura maggioranza parlamentare, sufficiente anche per modificare la Costituzione.
 Negli anni della Repubblica democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici e politici, il Parlamento, com le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si attendeva, vale a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva attuazione della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il sistema fu "bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i partiti che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e capitalista avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i suoi legami culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano, per quelli con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo.  Tuttavia il lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere, traducendole in norme di legge, alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione comunista e di dare comunque voce a quella "missina" ( come venivano chiamati gli aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle attese aveva riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera "alta" che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora invecchiata come l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici, nello scegliere i candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini nominati da questi ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il Senato non apparì assolutamente come una istituzione inutile, anche se i costituzionalisti, fin dai tempi della Costituente, consigliavano di specializzarne le funzioni in modo che non fosse un puro e semplice "doppione" della Camera dei deputati. In effetti il Senato non lo fu mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si manifestò la politica come ora la viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata "Seconda Repubblica", che è quella in cui caddero tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al governo e,insieme, la politica parlamentare iniziò ad essere considerata una perdita di tempo.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma - Monte Sacro - Vali

giovedì 4 agosto 2016

Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte seconda

  Ho scritto di degrado della politica come origine della crisi dei partiti, trattando della riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum, perché si tratta di fatti collegati. Più precisamente, la riforma indebolisce il Parlamento come espressione della sovranità popolare, in quanto istituisce un Senato come espressione di un ceto politico di apparato, del governo locale. Può essere considerata come un'eclisse del Parlamento. Essa è conseguita ad una crisi dei partiti provocata dal degrado della politica.
 L'affermazione della democrazia di popolo fu storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei partiti di massa e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi democratici. Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che determinò la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al popolo collegata in maniera vitale.
 Il primo partito politico italiano popolare, di massa, fu la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
  Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto precocemente, fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a cui è intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente, dal Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento, agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa configurazione è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur dopo le molte riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo (1962-1965). Ha cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in concomitanza con la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano e più precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento, quando la gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo piccolo regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri sovrani europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del laicato di fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per sostenere le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle loro mani la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di movimento di massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito politico di massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera dei Congressi, fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del Regno pontificio, la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo molti riferimenti ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a favore delle masse. L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino Pecci, diffusa nel 1891, fu il suo manifesto ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì, dando loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il via libera all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione sociale.
 Altri partiti di massa furono il Partito socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia mazziniana, fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse il divieto per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale nell'attività parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don Luigi Sturzo e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati il Partito Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati all'esperienza socialista,  in quanto il primo originò per scissione dai socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi esponenti del socialismo  italiano, il suo "Duce", vale a dire il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942, sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in particolare nella FUCI  (gli universitari cattolici), nel Movimento Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista fondarono il Movimento Sociale Italiano,  partito che ebbe un seguito popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista, un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
 Ecco dunque descritti i principali attori dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del secolo scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni Novanta. La recente riforma costituzionale può essere considerata una manifestazione di questa crisi. Essa infatti allontana il popolo dal Parlamento introducendo in quest'ultimo un'anomalia, elevando alla sovranità esponenti politici locali svincolati dal dovere di considerare, nell'occuparsi delle questioni di stato, gli interessi della Nazione.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli

mercoledì 3 agosto 2016

Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte prima

   Nel corso dei passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento come un'istituzione troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel decidere, troppo costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La ragione può essere individuata nel degrado della politica che si era manifestato nel corso del decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente dalla degenerazione della politica controllata dai partiti, che si presentarono platealmente, nel corso di inchieste giudiziarie svolte con una certa sistematicità dal 1992, come minati dalla corruzione. Essi infatti avevano preso a finanziarsi pretendendo una quota del denaro pubblico erogato per appalti pubblici da chi aveva assunto gli appalti. E influivano sulla scelta degli appaltatori, facendo preferire illegalmente quelli che avevano accettato di versare quel tributo. I partiti avevano preso consapevolezza di questi fatti molto prima che emergessero in sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta si iniziò a parlare di " questione morale" e si faceva riferimento proprio al fatto che i partiti avevano iniziato a controllare a proprio beneficio, non nell'interesse pubblico, ogni settore della vita nazionale in cui venivano spese risorse pubbliche.
 Ma la corruzione pubblica non fu l'unica ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione del sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena attuazione dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica irriducibile, colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti si opponevano a tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una più attenta selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli affari di stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non ebbe lo stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse addirittura di  una " fine della storia". In Italia l'idea di sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo ideologico della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università religiose.
 Che c'entrano i partiti con il Parlamento? La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del progressivo minor credito dell'istituzione tra la gente?
 In realtà, nel sistema istituzionale disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, approvata dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori svolti dalla metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era fondamentale per realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico in cui le masse avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il popolo che i costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da individui atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti, attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare la politica nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano stati infatti i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro l'ultimo fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e ideologiche della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere la guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche le basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e proposte in seno ai partiti.
  Il faticoso processo di elevazione del popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso nei partiti di popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di popolo, che si proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo democratico fu una conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata dal fatto che la democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era stata un fatto elitario, essenzialmente espressione di una borghesia illuminata, in una situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del 10% della popolazione.
 Il primo grande partito politico di massa italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza, la Chiesa cattolica e fu antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia nazionale.
Mario Ardigò - Azione cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli