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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

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lunedì 31 agosto 2020

Cambiare democraticamente la società: un obiettivo importante anche per i laici di fede

 

Cambiare democraticamente la società: un obiettivo importante anche per i laici di fede

 

  La dottrina sociale indica ai laici l’obiettivo di cambiare la società in modo da consentirvi l’attecchimento della buona novella cristiana. Non si tratta di cristianizzare  la società: questo è un fine molto diverso. Le persone possono divenire persuase della buona novella cristiana e allora vengono accolte tra i cristiani, nella Chiesa. Se consideriamo invece le società cristiane, esse non hanno mai funzionato tanto bene. La cristianizzazione delle persone può presentare grandi vantaggi per le società, la cristianizzazione della società, vale a dire costruire l’organizzazione politica intorno a una qualche ideologia cristiana, porta ad escludere molti, e non solo i non cristiani, ma anche coloro che vogliono essere cristiani in modo diverso dal modello proposto dalla politica cristiana. La democrazia come ai tempi nostri la si intende è incompatibile con la cristianizzazione  politica  della società, non può darsi questo scopo se vuole mantenersi democrazia. Questo perché deve rispettare la dignità della persona, vale a dire il complesso dei diritti fondamentali che le sono connaturati e non dipendono da un riconoscimento politico. Tra essi, anche quello di professare una fede religiosa nel modo in cui se ne è persuasi. Questo diritto fondamentale è una delle condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. E’ il diritto alla libertà religiosa. La fede non può essere imposta. Avverto che questa convinzione è molto recente tra i cattolici e non condivisa in altre confessioni religiose. Uno dei principali e più fruttuosi metodi di evangelizzazione cristiana dal Quarto secolo fino al Ventesimo è stata la violenza politica, che storicamente raggiunse punte di spietata efferatezza ed ebbe anche connotati stragisti. E’ a questo che, ad esempio, si deve l’evangelizzazione dell’America Latina. Non ci si deve però scoraggiare: quella della pace sociale è un ideale molto recente, e non universale, acquisizione in nelle culture del mondo e, in passato, ognuno si è condotto secondo la cultura di riferimento. Così fanno gli umani e non possono fare diversamente, appunto perché sono umani, esseri limitati che dipendono dalle società che costruiscono.

  Cambiare la società significa influire sul suo governo, e quindi sulla sua politica. Significa anche misurarsi con le situazioni di conflitto che sempre travagliano le dinamiche sociali, in particolare quelle tra i gruppi che dominano e quelli che sono dominati, tra chi è ricco è chi non lo è (posizioni dipendenti da situazioni di dominio sociale), ma anche, ad esempio, tra chi parla una lingua maggioritaria e chi ne parla un’altra, da anziani e giovani, tra uomini e donne anche nella sottospecie delle relazioni coniugali (che esprimono posizioni sociali di dominio), tra chi vive in certi quartieri ben tenuti e chi in altri dove vivere è più penoso e via dicendo. Le situazioni di conflitto sociale dividono la società per strati, ceti, classi. L’apparenza di stabilità è ingannevole, come quella del suolo: al di sotto sono in azione forze potenti che ciclicamente si squilibrano con conseguenti sommovimenti.  Questa situazione può osservarsi in tutti i gruppi sociali, fin dai più piccoli, e anche nelle società dei bambini. Quando l’individuo inizia a interagire in società, fatalmente emergono situazioni di conflitto. Ma l’essere umano non può liberarsi a lungo dalla società perché ne dipende per la sopravvivenza. Solo nella collaborazione sociale è possibile procurarsi beni indispensabili. L’essere umano è un vivente che crea e governa società, è stato scritto nell’antichità: è un’affermazione che tutt’ora è valida. Ma come superare i conflitti? Questo il principale problema della politica. Ciò che ho scritto della società in generale, vale anche per la nostra Chiesa, nel suo aspetto di società umana. Dal punto di vista teologico vi è anche altro di molto importante, ma considerandola come società umana vi si notano tutte le dinamiche che si osservano più in generale nelle società intorno.

  La nostra Chiesa è anche  una società umana. Questo significa che anche in essa è possibile agire politicamente, perché è una società che, come tutte le altre, deve essere governata, e lo si deve fare in particolare per creare le condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. Si potrebbe però osservare che, per definizione, la Chiesa dovrebbe essere la migliore delle società sotto questo profilo, ma nell'esperienza pratica non è così. Una volta dirlo sarebbe costato caro, molto caro. Ora che però lo hanno insegnato anche i Papi è diverso. Un grande maestro in questo fu il papa Karol Wojtyla, che regnò dal 1978 al 2005 con il nome di Giovanni Paolo 2°, proclamato santo nel 2014, il Papa della mia giovinezza, al quale sono spiritualmente e affettivamente molto legato pur avendone chiari i limiti politici. Ci guidò, nel percorso di preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000, nel lavoro che definì di purificazione della memoria, che consiste nel considerare realisticamente ciò che i cristiani hanno fatto in passato per trarre esempio solo da ciò che, con il criterio del Vangelo, possiamo riconoscere come ben fatto. Non si tratta di condannare i morti. Ma di capire i limiti di come intesero essere cristiani e di cercare se sia possibile affrancarci, oggi, da quei limiti, per non ripetere un passato che non proprio non va. Si tratta, quindi, di un giudizio su di noi, innanzi tutto. Noi che, come sempre si è fatto fin dalla storia più antica, facciamo memoria degli avi per trarne orientamento.

  All’inizio del suo regno, nel 2013, l’attuale Papa, regnante con il nome di Francesco, ed era (ed è per certi versi) Jorge Mario Bergoglio, argentino,  ci ha esortato ad essere Chiesa in uscita, avendola trovata come barricata nei propri spazi liturgici con figure di doganieri  ai varchi per selezionare chi poteva entrare o non. E’ stata una dura critica a come si era stati Chiesa, in Italia, e in particolare a Roma. La leggiamo nell’esortazione La Gioia del Vangelo, del 2013, il suo primo messaggio a noi tutti. I Papi scrivono molto, anzi l’attuale Papa meno di altri, ma spesso le loro parole non ci raggiungono. Ci sono stati momenti nei quali l’imponente letteratura pontificia superava le nostre capacità di assimilazione, in un’Italia dove, stando alle statistiche, la maggior parte delle persone non legge nemmeno un libro all’anno. Bisogna dire però che papa Francesco ha integrato gli scritti con una catechesi verbale, e per gesti simbolici, molto efficace, per cui l’essenziale ci è divenuto sicuramente accessibile. Egli però viene, in tutti i sensi, da un altro mondo, lontano non solo in senso spaziale, ma anche culturale. Più lontano, in tutti i sensi, da quello da cui veniva san Wojtyla, tutto sommato vicino in senso geografico ma diviso da noi dalla barriera che fino agli anni ’90 divideva l’Europa tra sistemi politici di democrazia liberale e capitalista e sistemi politici ideologicamente di democrazia ed economia comunista ma degradatisi in autocrazie oligarchiche dispotiche, secondo la scuola sovietica ai tempi di Stalin. Il principale problema che riscontriamo con papa Francesco, come già con san Wojtyla, riguarda la concezione della democrazia, sulla quale i cattolici italiani progredirono molto, tanto che l’attuale Repubblica democratica è in gran parte opera loro. I due Papi, in particolare, appaiono disallineati con l’evoluzione ideologica che ha caratterizzato il processo di costruzione dell’Unione Europea. Ho spesso osservato che, del resto, per ciò che ne so (e mi ritengo solo una persona colta, ma non uno specialista delle scienze implicate in questa valutazione), non è stata ancora elaborata in ambito cattolico una teologia della democrazia. Il nostro potere ecclesiastico parla  e  intende  secondo la teologia e quindi non appare avere ancora gli strumenti sufficienti per intenderla bene.

  Per la gran parte dei cattolici italiani (ma residuano correnti clerico-fasciste di varia natura) quella della democrazia  è stata, più o meno dal ’39 e su esortazione pontificia del Papa Eugenio Pacelli – Pio 12° (1939-1958), la via privilegiata per incidere sui fatti sociali in modo da cambiare la società per favorire l’attecchimento della buona novella cristiana. Parlo naturalmente di un lavoro in società che è diverso da quello sulle persone, sulla loro formazione, sulla loro spiritualità. In particolare gran parte dei cattolici italiani ripudiarono il disegno perseguito sotto il fascismo storico, quello mussoliniano (1922-1945), di cristianizzare  forzatamente la società. E, con metodo democratico, riuscirono ad inserire nella Costituzione repubblicana i principi fondamentali della dottrina sociale cattolica. E procedettero nello stesso modo nel costruire l’Unione Europea, la cui bandiera è palesemente un simbolo mariano, con la corona di dodici stelle  in campo azzurro.  Va detto che a quella diffusa dai papi Leone 13° (enciclica Le novità,  del 1891) e Pio 11° (enciclica Il quarantennale, 1931), profondamente rielaborata dai loro successori,  storicamente si ispirarono anche despoti che si proposero di cristianizzare coercitivamente la società, del resto forti di apprezzamenti positivi del corporativismo mussoliniano contenuto nella seconda.

 Bisogna prendere atto che nell’Italia di oggi l’azione sociale per cambiare la società secondo le esortazioni della dottrina sociale può e deve  farsi solo con metodo democratico. Ogni altro metodo contrasta con l’affermazione di dignità inviolabile delle persone che, a ben vedere, è di diretta discendenza dal pensiero sociale cristiano.

  Tuttavia la democrazia si pratica poco nelle istituzioni ecclesiastiche, salvo che in alcuni limitati ambiti associativi  o di vita religiosa. Ad esempio n on si insegna e non si pratica, in genere, nelle parrocchie. La prima formazione religiosa, che per la maggior parte dei laici rimarrà l’unica per tutta la vita,  è fatta di solito di alcuni rudimenti di storia sacra, di alcune istruzioni etiche basate sui Comandamenti, e di un addestramento minimo su come partecipare alla Messa (in piedi, seduti, in ginocchio, come recitare le invocazioni e risposte che competono al popolo, come ricevere la Comunione). Non c’è da stupirsi che poi i ragazzi non manifestino interesse ad approfondire, visto che, crescendo, hanno bisogno di dritte  per inserirsi in società e quello che hanno imparato da piccoli al catechismo non serve. Servirebbe, invece, integrare fede  e democrazia, perché nell’Italia democratica di oggi, il saper agire in un contesto democratico fa una grande differenza. La formazione che si cerca di dare, anche raggiungendola mediante auto-formazione tra adulti,  in Azione Cattolica mira principalmente a dare quel tipo preparazione. E’ per questo che l’Azione Cattolica definisce se stessa come palestra di democrazia.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro Valli

 

sabato 29 agosto 2020

prof. Giuseppe Tognon storico delle idee - settimana MEIC online 25-28AG20 su “Pandemia: una sfida alla fede” - 27AG20 conferenza su “Cristiani e cittadini”

 

prof. Giuseppe Tognon

storico delle idee

settimana MEIC online 25-28AG20 su “Pandemia: una sfida alla fede

27AG20 conferenza su  “Cristiani e cittadini”

 

sintesi dai mei appunti, per come ho capito le parole del conferenziere. Mario Ardigò [sintesi non rivista dal conferenziere]

 

1. Il tema di questa iniziativa affronta un argomento molto interessante, e anche un po’ inedito, perché era da molti anni che non si poneva il tema di una sottomissione a un principio di natura eccezionale o superiore che tocca anche l’appartenenza eccesiale.

  Quello della sottomissione è un tema molto importante, per la storia politica e per quella religiosa.

 Ricordo semplicemente che lungo tutto il corso dei secoli il tema della servitù  è stato sempre impostato in due modi: la servitù  come condizione oggettiva, la servitù  come servitù volontaria, come adeguamento, come accettazione di un peso che ci viene offerto, ma che richiede che ciascuno di noi se lo metta sulle spalle. Il tema su come bisogna fare per sottomettersi alla verità, ai poteri, alla volontà di qualcun altro, alla forza dell’amore, è molto sfumato nell’età contemporanea, complicato, perché ha impattato con tutta la scienza della politica, con tutta la teoria della politica.

 Vorrei partire, in maniera molto semplice da questo, che rimanda a ciò che abbiamo vissuto durante il lockdown: la pandemia mostra che la politica è sempre di più decisione, cioè è governo, non è rappresentanza o altro. La politica quest’anno, in tutto il mondo, rimanda alla rapidità, all’abilità,  di prendere  decisioni, e poi di comunicarle. Questo argomento è molto delicato perché aggrava la crisi generale, antica, delle democrazia. La democrazia viene vista in molte parti del mondo come una malattia della decisione, come qualche cosa che impedisce di prendere  decisioni rapide ed efficaci. La democrazia come freno  dell’agire. Si considerino le esperienze degli Stati Uniti d’America, della Cina, delle Turchia, dell’India. Ma il tema del freno all’agire rappresentato dalle forme democratiche che noi pratichiamo e conosciamo si vede emergere un po’ anche nei paesi europei, anche dove c’è stata la storia più complessa, nella culla della democrazia rappresentativa. Quindi la pandemia è come una gara, sulla scena mondiale, tra chi è più bravo a prendere decisioni per salvare l’economia, prima di tutto le vite. E naturalmente anche le leadership dei paesi democratici si misurano sempre di più non sulla capacità di progettare, che è cosa da tempi normali, ma sulla capacità di decidere in presa diretta. Questo ha rilevanza politica, etica, ma anche per la vita quotidiana.

 Qual è il nodo del problema?

 Il nodo del problema è che quanto più c’è la volontà di decidere, tanto più mancano gli strumenti per poter fare delle decisioni qualcosa di sostanzialmente positivo. La decisione, se non è supportata da una istruttoria profonda, diventa sostanzialmente una fuga, la decisione diventa la manifestazione di impotenza. Si decide, ma non si sa bene come decidere. E’ ciò che abbiamo vissuto: il conflitto, o l’apparente conflitto, tra la scienza e la politica. Tra il Presidente del Consiglio e il Governo, da una parte, e i comitati tecnici, gli scienziati, dall’altra. Dentro questo grande marasma mediatico c’erano comunque dei ruoli ben precisi: è stato un grande spettacolo. La scienza dovrebbe però rappresentare la parte istruttoria sulla base della quale il decisore politico opera. Ma, da un lato, la scienza è senz’altro politica, lo sappiamo: le tecnologie, le ricerche, sono, in età moderna e contemporanea, il risultato di grandissimi investimenti, pubblici e privati. Il sapere è diventato uno degli elementi principali della competizione politica, basta vedere gli enormi investimenti che si fanno per la ricerca di un vaccino, o per le terapie. La scienza medica in questo momento sta diventando l’esempio supremo di quello che è stata la pretesa moderna di fare della scienza il volante  della storia. Ma la domanda è se la politica sia una scienza. Cioè se la politica è l’ultimo passo, il sigillo della decisione, da aggiungere a quello che la scienza ha mostrato. E’ qui appunto il nodo di quel problema che ho richiamato prima.

2. La politica è una scienza, nella misura in cui noi dobbiamo  studiarla con gli strumenti di analisi empirica, di confronto ecc., ma, per come è vissuta, non è una scienza: è sostanzialmente sempre un’utopia, è un universale concreto, diremmo oggi, qualcosa di cui tutti sentiamo l’esigenza, quello di governarsi, di convivere secondo delle regole, di esprimere degli ideali, delle idee, ma che risulta difficile perché è venuta meno la parte specifica, sua, di istruttoria politica, che era rappresentata dai partiti, dai luoghi di decisione, dalle associazioni, dalle democrazia rappresentativa e via dicendo.

  Un inciso: si voterà per la diminuzione di un terzo degli eletti nelle due Camere italiane. Senza entrare nella discussione, però è evidente che uno degli argomenti che accomuna sia il “no” che il “sì” è che si potrà decidere meglio perché saranno meno. Nessuno dice che più persone sono chiamate a riflettere e poi a prendere una decisione, più l’istruttoria è condivisa, perché questo cozza contro l’ansia di governo dei processi che sta emergendo prepotentemente.

  Fatto questo quadro, ritorniamo alla sottomissione. La sottomissione volontaria è un grande atto di libertà. Sottomettersi liberamente significa riconoscere la propria impotenza.  L’atto di sottomissione, il gesto della sottomissione, voi sapete, è presente in tutta la storia dell’arte, nelle liturgie, nelle consacrazioni, nell’inginocchiarsi, nel distendersi sulla terra, nel chinare il capo: sono tutte simbologie di qualcosa che dentro ciascuno di noi avviene in altro modo, avviene piano piano, avviene guardandosi dentro, avviene per un’urgenza forte di adesione a qualcosa che noi riteniamo essere invincibile. Ci si sottomette anche al desiderio di amore. Ci si sottomette anche a qualcosa che può non avere una enorme importanza, ma per che per noi è invincibile. Sapete che la scienza psicologica, psicanalitica, ma anche la filosofia, hanno dato un nome a questa attrazione verso qualcosa rispetto alla quale bisogna sottomettersi. A volte è l’inconscio, o il desiderio, qualche cosa che emerge dal profondo di noi. E questo ci fa capire che la dinamica psicologica, psicofisica, di ciascuno di noi si riproduce apparentemente in maniera molto grossolana anche nella rappresentazione della vita. E forse oggi, in tempo di pandemia, la politica del mondo è forse il più grande spettacolo a livello globale. Lo spettacolo pandemico non si sarebbe potuto immaginarlo più potente, non c’è serie televisiva più drammatica e più potente di quello, perché è il teatro della vita a livello mondiale.

  Veniamo alla fedeltà cristiana. Non era mai successo che un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri decidesse di chiudere le chiese. La polemica è stata più sul modo  con cui il Governo ha imposto la chiusura. Ma qui c’è una finzione di fondo, perché se è solo il modo, il Presidente del Consiglio avrebbe potuto dire che la Chiesa è sovrana, come molti vescovi pensano, esiste in Italia un Concordato, in cui è come se fossero due stati che si parlano, e quindi bisognerebbe bussare e attivare un processo tipico delle relazioni tra stati, un processo diplomatico. Le relazioni internazionali non possono esistere se non potenziando il processo diplomatico.

 Però questa diplomazia l’urgenza non l’ha permessa.

  Ma non è qui il problema. Il problema è un altro ed è quello sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione.

  E’ che è mancata, da parte della politica del nostro Paese una domanda esplicita  di sottomissione dei cristiani. Non è stato chiesto, come un gesto di generosità, ai cittadini credenti di rafforzare la loro adesione al rispetto delle norme di tutela e di salvaguardia, di isolamento, nei confronti dei giovani, dei vecchi e via dicendo. E’ mancato qualcosa rispetto alla quale si sarebbe potuto dire: doppia sottomissione, come cittadini e come credenti,  benvenuta sottomissione volontaria, e allora il sacrificio della Messa, dei sacramenti, dei funerali,  della compartecipazione alla liturgia, sarebbe stato un dono alla comunità. In realtà lo è stato. Perché, in quanto cittadini credenti non abbiamo fatto valere la sovranità del nostro essere cittadini della Chiesa, ed è stata una cosa straordinaria, che ha funzionato in gran parte del mondo. Non ha funzionato del tutto all’interno della Conferenza Episcopale, c’è stato uno scontro molto forte, ci sono state tracce di un conflitto. C’è chi ha accusato di cedimento al Governo, addirittura a un partito del Governo o a un Presidente del Consiglio. C’è chi ha detto che si è trattato invece di un gesto di grande apertura e di rispetto. In sostanza: dobbiamo essere fieri del fatto che ci è venuto naturale di poterci sottomettere, in quanto cittadini, e anche per il nostro interesse, per il rispetto delle norme, ma anche in quanto credenti. E’ una privazione  - sottomissione  di cui dobbiamo andare fieri.

  Vorrei concludere con due considerazioni.

   Come è stato possibile che i cristiani cattolici italiani abbiano potuto vivere sostanzialmente con grande serenità questa assenza, questa rinuncia? La mia tesi è questo è il momento in cui si vede venire alla luce il faticoso cammino, l’aratura profonda a partire dal Concilio Vaticano 2° fino ad oggi, cinquanta, sessant’anni di grande lavoro, discussione, di crisi, di secolarizzazione, di resistenza ai modelli imperiali, sovranisti,  o ateisti più banali. Il travaglio dei cattolici italiani ha consentito con naturalezza di fare della doppia fedeltà [allo Stato e alla Chiesa. Nota mia] un gesto di cui andare fieri. E qualcosa che ha dato una grande pace interiore.

 C’è chi ha detto che bisognava surrogare  con altre cose, il Rosario in casa, la preghiera. Il Papa ha dato una testimonianza non di surroga: ha mostrato come viveva lui, da solo,  anche lui solo, la pandemia. La Chiesa ha cercato di comunicare e di essere vicina, attraverso i media, però quello che è stato molto importante è di mostrare che il confine tra credenti e non credenti non è un muro, non è un confine tra potenze, non è un confine da gesti: è il fluire interiore di quella che oggi è la condizione dei cristiani, soprattutto nel nostro mondo occidentale.

 L’ultimo pensiero è sul virus. C’è chi ha detto che la Chiesa si è trovata così impreparata, così spiazzata dalla politica  e dall’urgenza, che ha perso la sua capacità di lettura della realtà. Non sono d’accordo su questa tesi. Ci possono anche essere stati errori. Ma ad esempio la Conferenza Episcopale italiana ha distribuito alla Diocesi centocinquanta milioni di Euro di proventi dell’otto per mille, il meccanismo concordatario di finanziamento pubblico della Chiesa italiana per il sostentamento del clero e per altre opere, le missioni e via dicendo, finalizzando questo trasferimento di fondi a tutta una serie di azioni, quindi ha innestato in questa assenza di liturgia un grande gesto di carità. E l’ha sostanziato attraverso l’utilizzo di risorse che altrimenti sarebbero rimaste nel bilancio normale della Conferenza Episcopale. Questi fondi sono stati gestiti bene, a volte meno bene, il bilancio si dovrà farlo. Ma è importante che nessun cristiano vero si è sentito in dovere, a parte le proteste formali per le questioni che ho sollevato, di dire che questa assenza di liturgia ha diminuito la propria fede. Questo è un punto molto delicato. La domenica, l’Eucaristia, sono cose fondamentali, ma l’assenza dell’Eucaristia, se vissuta come sacrificio, potenzia, virtualmente potremmo dire, spiritualmente, la presenza di Dio in noi.  E’ questo che va fatto valere, non che debba diventare un costume, o che questo sia l’ultimo colpo alla scristianizzazione o per il crollo della pratica religiosa, ma l’aver vissuto questa esperienza storica, unica a memoria d’uomo, ci deve far comprendere che la frequente Comunione non è semplicemente un traguardo, o un esercizio, un’abitudine virtuosa. La frequente Comunione può anche essere trasformata in una consapevole Comunione, in gesti di maggior pregnanza, laddove c’è quella istruttoria, quella preparazione, quell’atto di sottomissione, per cui tutta la Messa, tutta la celebrazione, tutta la preghiera confluiscono poi, a seconda delle religioni, in un gesto che ha valore simbolico, valore sostanziale. Per i cristiani questo dovrebbe essere molto importante.


venerdì 28 agosto 2020

Vita di fede e cittadinanza

 

Vita di fede e cittadinanza


E’ in corso su www.meic.net la Settimana teologica  del MEIC- Movimento Ecclesiale di impegno culturale”, associazione strettamente collegata con l’Azione Cattolica,  sul tema “Pandemia: una sfida alla fede”. Si può assistere dal sito del MEIC, e anche porre domande scritte partecipando su YouTube o Facebook. Stasera alle 18:30 si terrà l’ultimo incontro, intitolato “Dinamica del provvisorio”,  con la partecipazione del monaco Emanuele Bordello. Ieri ha parlato lo storico delle idee Giuseppe Tognon, sull’argomento “Cristiani e cittadini”.  Sto riordinando gli appunti che ho preso e conto di pubblicarli al più presto. Comunque, sul sito del MEIC si può rivedere l’incontro.

Siamo cittadini di una repubblica democratica, ma non sempre agiamo come tali. Più spesso lo facciamo secondo altri ruoli, ad esempio come lavoratori o come consumatori, o come genitori o figli, e anche come fedeli partecipando alle liturgie religiose. La cittadinanza è un ruolo politico, perché ha a che fare con il governo della società. Implica un riconoscimento di una dignità pubblica, ma anche, in democrazia, una partecipazione all’esercizio del potere politico. Questo non accade solo al momento di una votazione politica, per eleggere rappresentanti in organi collegiali o, come accadrà a breve, per approvare una legge. Infatti, a ben considerare, esercitiamo un ruolo politico anche ogni volta che la nostra volontà incide nella società intorno, quindi anche quando agiamo da datori di lavoro o da lavoratori, da commercianti o da consumatori, da genitori o figli, e anche come fedeli in una Chiesa. Ma pure, ad esempio, nel modo in cui depositiamo nell’ambiente i rifiuti: in modo ordinato secondo le indicazione di chi li dovrà trattare per riciclarli o comunque per inserirli nell’ambiente facendo il minor danno o invece in modo disordinato, dove capita. Così come quando interagiamo nella circolazione stradale da conducenti o da pedoni. Il più delle volte si conterà solo perché si è in tanti a decidere in una direzione o, comunque, ad agire secondo un orientamento.  Coloro che chiamiamo politici, perché ricoprono certe cariche pubbliche o perché si sono conquistati un’autorevolezza pubblica, conteranno di più, nel senso che potranno far valere di più la propria volontà. Ma, in democrazia, non c’è una differenza in dignità: la capacità politica dipende dall’essere cittadini.

  Si nasce cittadini o lo si diventa al termine di certe procedure burocratiche: è la legge che stabilisce le condizioni perché a una persona sia riconosciuta la cittadinanza. Ma, in altro senso, cittadini lo si deve sempre divenire, specialmente in una repubblica democratica, che vive della cittadinanza attiva: infatti bisogna imparare  ad agire da cittadini. Innanzi tutto occorre cercare di capire in modo affidabile la società in cui si vive, a partire dalla sua storia recente, che dà indicazioni su dove si sta andando, poi occorre maturare un orientamento generale in modo da non stare semplicemente a ricasco della folla, come lasciandosi trasportare da una corrente, e, infine, occorre capire come far valere la  propria volontà politica, secondo quell’orientamento generale, nei modi che la società ha organizzato.

  Seguendo una religione si agisce anche politicamente? Senz’altro sì. Da cattolici siamo inseriti in un’organizzazione pubblica che più o meno dal Settecento ha inteso presentarsi come uno stato nel senso in cui oggi ancora lo concepiamo. Ma anche prima la nostra Chiesa ha assunto l’aspetto di un’organizzazione politica mimando quelle in cui si trovò immersa. In particolare, dall’anno Mille cercò di emanciparsi da ogni altro potere politico al quale era stata soggetta, atteggiandosi ad impero. Certe liturgie magnificenti dei nostri vescovi e del Papato richiamano quell’esperienza, anche se oggi non si concepisce più il potere religioso in quel modo. Un simbolo di quelle epoche fu la tiara pontificia, la pesante corona pontificia a tre strati dismessa dai pontefici dagli anni Sessanta. La Chiesa cattolica e in particolare il Papato hanno avuto un ruolo determinante nella storia politica dell’Italia, e ancora lo hanno, seppure in forme diverse dal passato. Va detto che, purtroppo, il Papato è stato un gravissimo ostacolo all’unità nazionale nell’Ottocento. Ma la nostra democrazia di popolo, quella costituita dal 1948 in forma repubblicana, reca tracce evidenti del pensiero sociale sviluppato nella nostra Chiesa.

  In qualche modo, i primi trent’anni della nostra esperienza politica repubblicana influirono sul nostro modo di essere Chiesa cattolica in Italia. Questo tema fu centrale negli anni ’70 del secolo scorso. E’ concepibile, in particolare, una cittadinanza ecclesiastica, in riferimento alla dimensione pubblica e politica della nostra Chiesa? E addirittura una democrazia  ecclesiastica.

  Alcuni spesso sbottano con la sciocca espressione che “La Chiesa non è una democrazia”, sciocca in quanto intende che il potere che si esercita nell’organizzazione ecclesiastica non tollera, e non può tollerare,  forme democratiche, e quindi, in particolare, la pari dignità di chi governa e di chi è governata.  Invece, quando si è provato ad esercitarlo democraticamente ci si  è riusciti benissimo, innanzi tutto, fin dal Medioevo, nelle comunità monastiche che, a tutti gli effetti, furono e ancora sono organizzate, come repubbliche democratiche. La storia ha dimostrato che l’esercizio autocratico del potere ha avuto molte serie controindicazioni. E’ autocratico il potere che non richiede altra legittimazione che in sé stesso, in religione pretendendo un accreditamento soprannaturale. Esso quindi non ammette di essere messo in discussione dal basso, ma solo dall’alto e chi è più in alto di tutti, nella scala gerarchica, mai. La democrazia è invece un sistema di limiti diffusi, anche dal basso, fondato su valori, che sono sopra tutte le volontà individuali.  Tra i valori più importanti quello che non vi debbano essere poteri senza limiti.

  L’Azione Cattolica  definisce sé stessa, nel suo statuto, come palestra di democrazia: questo rende bene l’idea da che parte sta e anche in che cosa consista il suo impegno. La costruzione della cittadinanza è al centro del suo lavoro, perché la sua via di incidere sulla società è quella della cittadinanza attiva, partecipe.

  Se potessimo organizzare un incontro in videoconferenza in Meet,  o mediante un altro programma di videoconferenza, mi piacerebbe approfondire questo tema con voi, facendo in ciò tirocinio di metodo democratico. Quest’ultimo richiede anche che, nel corso di un incontro su un tema, per darsi un orientamento comune, o anche solo per chiarirsi le idee parlando con altri, tutti  abbiano modo di dire la propria. Infatti democrazia  è potere di tutti, ma per esercitare tutti  quel potere occorre fare spazio agli altri, perché, se qualcuno si sente escluso, allora la democrazia si ammala. Ma poi non è solo questione di dire la propria, perché occorre farlo con un certo metodo, tenendo conto degli altri, altrimenti si scade nel cosiddetto social, vale a dire nella rete telematica in cui ci si ritrova solo tra persone che la pensano in uno stesso modo e si va avanti ripetendo all’infinito le stesse cose ed escludendo chi non è d’accordo. Allora, una conferenza condotta con metodo democratico richiede che ogni intervento si colleghi in qualche modo ad un intervento precedente, e quando scrivo  collegarsi intendo che non basta prendere spunto, per poi magari prendere di petto  come si dice, ma occorre creare come una catena di pensiero agganciando un argomento proposto dagli altri che si condivide. La comune umanità ci lega nel mentre ci si divide sua altro: essa è il fondamento di quella particolare forma di benevolenza che chiamiamo, con termine del greco antico, agàpe, e che è al centro delle nostre convinzioni di fede, è quel linguaggio universale che ci consente  anche di confidare nell’efficacia della nostra azione missionaria. In ogni relazione con altre persone va cercata pazientemente, perché altrimenti è l’inferno.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.

 

giovedì 27 agosto 2020

In vista dalla ripresa delle attività del gruppo di AC

 

In vista dalla ripresa delle attività del gruppo di AC

 

 Il 6 ottobre prossimo abbiamo previsto la ripresa delle attività del nostro gruppo di AC.

  Le riunioni a cui partecipino persone anziane presentano un maggio rischio in tempi di epidemia di Covid-19. Questo potrebbe rendere necessario incontrarci utilizzando un programma di video conferenze come Meet. Bisogna prepararsi.  Acquistare un tablet (ce ne sono in vendita al di sotto dei 100,00 euro). Impratichirsi nell’avviarlo, spegnerlo e nell’accedere al programma di videoconferenza scelto per incontrarci e ad una casella di posta elettronica. Collegare il tablet  alla rete telefonica. Il minimo per partecipare a una videoconferenza. Si tratta di abilità pratiche sicuramente accessibili anche a persone anziane, come a persone molto giovani, addirittura ai bambini prima delle elementari. Le persone anziane  possono farsi aiutare in questo dalle più giovani.

  Proporrò di affiancare alle attività consuete un impegno più mirato alla mediazione tra l’attualità del nostro tempo e la fede personale. Questo in vista di una rigenerazione del nostro gruppo coinvolgendo in particolare le fasce d’età che sono ancora poco rappresentate.

  Nel complesso, la profonda modifica della vita sociale a seguito dell’epidemia ci ha sorpreso e più che altro siamo rimasti in attesa che tutto tornasse come prima, il che però non potrà avvenire tanto presto, almeno secondo ciò che si sa.

   Nella migliore delle ipotesi, una campagna vaccinale su larga scala per il Covid-19 non potrà iniziare prima della primavera inoltrata del prossimo anno, e prima che abbia raggiunto un numero di persone sufficienti a produrre effetti sul corso dell’epidemia se ne sarà andato tutto il prossimo anno di attività associative.

  Mettiamo in conto, dunque, di dover lavorare ancora in emergenza da ottobre fino alla fine delle attività associative prima della sospensione estiva del prossimo anno.

  Non avremo più tra noi il caro Ciccio, che ci ha lasciati a luglio. La fede ci insegna a contare i nostri giorni. C’è un tempo per ogni cosa e anche per ogni vivente. Le persone anziane vorrebbero lasciare qualcuno che proseguisse il loro lavoro, ma, nella religione, oggi vi sono tante difficoltà. E tuttavia non ci rassegniamo ad essere un gruppo ad esaurimento, come ci volevano in una passata stagione della vita parrocchiale. Ma se non ci diamo da fare, questo potremmo diventare, dando così ragione ai nostri critici di una volta.

   L’organizzazione ecclesiastica, d’altra parte,  è quella che è e certamente non incoraggia la partecipazione dei laici. Questi ultimi, in genere,  non vengono formati a partecipare attivamente e quindi non partecipano. Questo tema non è  compreso nella formazione di primo livello, che per molti è l’unica per una intera vita di fede.  Il clero si lamenta di laici piuttosto clericalizzati, ma dai laici si ribatte che spesso solo per i clericalizzati c’è vero spazio. Il lavoro dell’Azione Cattolica dovrebbe contribuire a superare questi problemi e, innanzi tutto, a imparare, facendone tirocinio, i metodi democratici di partecipazione. Il nostro statuto definisce l’associazione una palestra di democrazia. Il metodo democratico ha a che fare con i valori, non solo con le procedure, le votazioni,  per l’attribuzione degli incarichi. Tra quei valori è molto importante quello della formazione, anche mediante auto-formazione. La formazione rende capaci di pensiero autonomo  e quindi creativi. La formazione alla democrazia, che deve comprendere un vero tirocinio ad essa, rende possibile l’azione collettiva, superando, integrandole, le differenze caratteriali e di punti di vista, in modo da non dover sempre dipendere da un superiore istituito dall’alto per pacificare.  C’è, in definitiva, qualcosa di molto importante che ci accomuna ed è la nostra fede religiosa. D’altra parte ogni persona la vive in modo creativo, non si tratta semplicemente di adeguarsi a modelli della tradizione validi universalmente, per la donna e per l’uomo, per il bambino, il giovane o l’anziano, per chi vive nel mondo e per chi vorrebbe vivere fuori del  mondo (tuttavia legiferando sul mondo), per la persona sana e per quella malata, per l’oppresso come per l’oppressore e via dicendo. Leggo che a volte i laici di fede sono accusati di volersi costruire una fede a modo loro, secondo le rispettive esigenze personali, come quando si va al supermercato e qualcosa si sceglie e qualcos’altra la si scarta. E’ un addebito ingiusto e che largamente dipende da una visione clericalizzata del popolo dei credenti. Non c’è un modello di fede che vada bene per tutti. Ci sono del resto moltissime questioni aperte a livello teologico, che non conviene superare come nel nostro triste passato con delle specie di scomuniche. Ma anche nella pratica quotidiana, bisogna prendere consapevolezza che una parte dell’etica religiosa che ancora viene insegnata non è sostenibile. E certe volte sono proprio i metodi di insegnamento che non vanno, troppo centrati sulla forza dell’autorità, quando poi la storia ci dimostra chiaramente che l’autorità raramente ci piglia  nelle questioni che travagliano in particolare la vita dei laici. Del resto è effettivamente così che va nelle questioni di fede: finché ci si mantiene sulle generali, certi problemi sono avvertiti quasi solo dai teologi, quando invece si passa alle questioni pratiche e si osservano da vicino tutto si complica. Certo, abbiamo una teologia dogmatica spietata ma una pastorale piuttosto comprensiva, però questa non è una soluzione che soddisfi veramente. Un laicato consapevole potrebbe contribuire a superare questo stato di cose. Inutile cercare soluzioni nelle teologie correnti: la teologia ragiona sempre su ciò che è stato già acquisito per altra via, è un riflessione a posteriori. Bisogna cambiare, o almeno provare a cambiare, poi i teologi seguiranno. Una certa familiarizzazione con i ragionamenti teologici serve, perché i nostri vescovi e i nostri preti hanno fondamentalmente una cultura teologica,  parlano  teologico,  e se se ne è completamente digiuni non ci si intende, ma senza eccedere, perché il metodo della teologia porta  in genere a creare ostacoli insuperabili da parte della teologia stessa, ma superabilissimi nella pratica delle relazioni umane.

  Il contadino esce, guarda il cielo, e capisce se farà brutto tempo o non, e se è tempo di seminare o di mietere: è scritto. Ma di questi tempi questo non è più tanto vero per la questione dell’epidemia in corso. Finirà? Quando? Ne sappiamo ancora troppo poco per rispondere.  I ritmi della nostra vita ne risultano molto alterati. La stessa incertezza colpisce. Non si riescono più a are previsioni affidabili.  Rimane certo lo scorrere del tempo, per cui inesorabilmente ci si fa più anziani, così come rimangono le stagioni, perché il cosmo è indifferente al nostro problema biologico,  e ruota, ruota, ruota, ma la fede è un fatto sociale e se la vita sociale è colpita, addirittura certe volte interdetta, la fede ne risente.

  Mi pare che nei mesi scorsi si sia data troppa importanza alla sospensione delle attività liturgiche con la partecipazione effettiva della gente. Si è visto che si poteva ovviare con le riprese televisive. La pratica della fede non è solo liturgia, che spesso appare come la recita di certi copioni in una serie di rappresentazioni clericali che si succedono senza fine. E’ la nostra fede che riempie di senso vitale le liturgie a cui partecipiamo, ed è in questo che effettivamente essere realmente presenti è differente dall’assistere in televisione. Allora, però, occorre esercitarsi in quella nostra fede, svilupparla, praticarla attivamente, farla reagire con ciò che ci accade intorno. In modo, ad esempio, da essere capaci di liturgia anche quando non siano praticabili quelle consuete, dirette dal clero. Non  è possibile concludere che o la messa o nulla. Naturalmente anche a questo si è poco o nulla formati. Ed è un problema serio.

  Dunque,  per tutti noi l’anno di attività associativa che ci attende sarà molto impegnativo, richiederà di imparare e praticare cose nuove, perché stiamo vivendo tempi nuovi, terribili anche, ma essenzialmente nuovi. Ci sarà una fatica da affrontare, resistenze anche interiori da superare. Perché in genere ci hanno insegnato ad essere piuttosto conservatori e, facendoci anziani, lo diveniamo naturalmente. Ma i tempi nuovi scompaginano la tradizione, anche solo intesa come l’insieme delle nostre care consuetudini. Del reato non ci sono stati promessi così, tutti nuovi, i tempi che ci hanno insegnato ad attendere?

Mario Ardigò