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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

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giovedì 15 settembre 2022

ELEZIONI POLITICHE 2022 -16- Appunti per una scelta consapevole

 

ELEZIONI POLITICHE 2022

-16-

Appunti per una scelta consapevole

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  Due anni fa ho pubblicato, per il mio gruppo di Azione Cattolica, alcune note sulla democrazia, che ora possono risultare utili per un rapido ripasso.

  La democrazia è una forma di convivenza benevola: ha dentro di sé l’amicizia sociale. La più recente dottrina sociale lo mette bene in evidenza.

  Che significa?

  Mentre, ad esempio, in un condominio gli altri sono spesso un ostacolo alla piena realizzazione del proprio diritto di proprietario, la democrazia di base sulla constatazione, per così dire sperimentale, che le altre persone sono necessarie alla nostra felicità, e non solo le circa centocinquanta con cui abbiamo qualche relazione abituale, ma anche quello che non conosciamo e che non arriveremo mai a conoscere, e che tuttavia ci sono.

  La felicità  è qualcosa di diverso dal semplice interesse economico, secondo il quale si cerca di avere sempre di più. In economia in genere si è soddisfatti quando in un scambio riceviamo l’equivalente. Ma ci sono relazioni, addirittura quelle più importanti in fondo, che non consistono in questo, per cui si può essere soddisfatti dal solo pensare che altre persone vivono, e allora si cerca di lavorare insieme perché continuino a vivere, a prescindere da quanto in un certo momento ne ricaviamo.

  Ecco perché il politico virtuoso è chi tesse relazioni che rendono felici più gente possibile. Un altro modello è quello del pastore, che alle persone di fede richiama l’esempio del Maestro, che guida verso posti sicuri dove avere ciò che si necessita. Naturalmente il modello evangelico diverge da quello per così dire imprenditoriale, secondo il quale nella pastorizia, alla fine, parte del gregge viene tosato e parte macellato. Il Buon Pastore è felice di vedere il gregge al sicuro, dove può alimentarsi, i verdi pascoli dove riposare, come canta il salmo.

  Ma chi deve fare il tessitore il pastore? Solo la persona alla quale viene riconosciuto un potere sugli altri? No. In democrazia tutti si è tessitori e pastori.

 

 

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Capire la democrazia

 

 1.   La democrazia: non solo regole, ma una forma di convivenza sociale per risoluzione pacifica dei conflitti. 

      La democrazia è  un sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società  o generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro estensione. Una volta che si è radicata in un corpo sociale, ne consente anche l’evoluzione senza che esso venga disperso nel corso di conflitti violenti. Per questo la democrazia viene mantenuta sempre in una fisiologica instabilità, in modo da consentire le dinamiche sociali di potere, ma in una instabilità controllata, come accade nei reattori nucleari per la produzione di energia elettrica, nei quali le reazioni di fissione nucleare, capaci di produrre potenze distruttive, vengono moderate e contenute, ma comunque attivate. 

  Gli esseri umani, in particolare nelle società contemporanee estremamente complesse in particolare per essere composte da vastissime moltitudini di individui, dipendono dalle loro società per la sopravvivenza. Un gruppo di esseri umani diventa società quando manifesta la capacità di azione collettiva. Le azioni individuali devono quindi essere coordinate, per produrre un’azione collettiva. Questo coordinamento è dato da dinamiche di potere che coinvolgono individui e gruppi di individui. Ad un certo punto un individuo o, più spesso, un gruppo di individui riesce ad imporsi e a dettare le linea collettiva: questa è una situazione di potere. Essa tende sempre a prolungarsi nel tempo e ad estendersi, finché non incontra una resistenza. In questo momento si produce una situazione di conflitto sociale che arcaicamente veniva risolta prevalentemente mediante la violenza collettiva e, progressivamente, producendosi delle culture dalle società umane, quindi evolvendo le società umane, anche con altre modalità che preservassero la società dall’essere sfasciata nel conflitto. In particolare questo avvenne, e ancora avviene, mediante la produzione del diritto. Il diritto è uno dei modi in cui si possono  limitare i poteri collettivi e privati in modo che non giungano a confitti distruttivi. E’ integralmente una produzione sociale, che si basa essenzialmente sull’esperienza storica e sociale delle conflittualità sociali. Oggi siamo abituati a pensare il diritto come un sistema di ordini di autorità pubbliche, quindi di leggi, ma esso non si genera solo in quel modo, anzi, per millenni, la legge non ne fu la fonte prevalente. Una volta accettata l’idea che alla società convenga limitare i conflitti sociali per preservare la sua integrità e quindi la sua efficacia per la sopravvivenza collettiva, essa costituisce un valore, e un valore molto importante, che è anche tra quelli fondamentali nelle concezioni democratiche. Come risolvere senza violenza i conflitti sociali? Mediante la pratica dell’equità, che implica una certa proporzionalità negli scambi e una certa ragionevolezza nella pretesa dell’esercizio di poteri pubblici, sugli altri. L’equità  e la ragionevolezza  sono altri valori tipici del diritto, ma anche molto rilevanti nelle concezioni democratiche. Sono espressione dell’idea di dignità  della persona che si trova inserita in una società, persona della quale i poteri sociali, privati o collettivi, non possono, appunto per ragione di equità, fare ciò che vogliono, a loro arbitrio. Le democrazie contemporanee si distinguono da quelle antiche, medievali e moderne (che si sono sviluppate dalla fine del Settecento alla metà del Novecento) per aver molto sviluppato l’idea di dignità  della persona umana, fino a fare un valore  fondamentale, attorno al quale ruotano tutti gli altri. Precisamente le concezioni contemporanee della democrazia  riconoscono  ad ogni persona umana una dignità  che non può essere lesa da alcun potere pubblico o privato, che quindi viene limitato. Questa concezione di dignità è uno sviluppo del pensiero sociale cristiano, dall’epoca in cui le masse europee iniziarono ad affermarsi politicamente. Essa è anche insegnata dalla dottrina sociale cattolica, sebbene la Chiesa cattolica sia stata storicamente uno dei più accaniti avversari della democrazia contemporanea, fino addirittura a scomunicarla nel 1901, con l’enciclica Le gravi controversie sulle relazioni economiche del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°. Solo a partire dal 1939, dopo aver preso consapevolezza dei disastri che la compromissione con i fascismi mondiali aveva provocato, la posizione iniziò a cambiare, fino a giungere nel 1991, con l’enciclica Il Centenario  del papa Karol Wojtyla, ad un riconoscimento dell’utilità dei processi democratici nel governo delle società civili, per indurne la pacifica evoluzione nel senso di sviluppare la dignità delle persone. La democrazia è in genere ancora negata nell’organizzazione ecclesiastica, da cui lo sciocco e superficiale detto “La Chiesa non è una democrazia”: chi ne fa uso mostra di non avere consapevolezza della realtà sociale della Chiesa e delle sue dinamiche di potere, a cui certamente converrebbero processi democratici. Può accadere che ne abbia consapevolezza, ma tema che con la democrazia venga mutato un sistema di potere che lo avvantaggia o, molto spesso, teme, una volta scelta la strada della democrazia, si perda il controllo del corpo sociale dei fedeli.  In effetti la democrazia consente l’evoluzione delle società. Del resto solo una concezione mitica della nostra Chiesa, e in particolare della sua gerarchia, può condurre a negare che essa sia mutata anche su aspetti essenziali. Ma l’evoluzione è stata storicamente molto travagliata e a prodotto atroci sofferenze e violenze. Le guerre di religione  sono cessate, nelle loro manifestazioni più eclatanti, con l’affermarsi dei processi democratici. Essi hanno portato a riconoscere la dignità delle persone anche nei confronti delle autorità religiose e, in particolare, a negare validità pubblica alla loro pretesa di incondizionata sottomissione. Questa pretesa non è però ancora sopita ed è legata al valore dell’obbedienza incondizionata all’autorità religiosa, che senz’altro non è evangelico e umilia la dignità delle persone. In quest’ottica, la vera libertà starebbe nella rinuncia alla propria libertà, quindi alla propria dignità. Si crede, in questo modo, di prevenire i conflitti sociali e di preservare l’unità del gregge, risolvendo i confitti sociali mediante la pretesa, appunto, di  sottomissione. La sottomissione non è certamente un valore democratico. La democrazia conosce, nelle dinamiche di potere, il valore dell’adesione, a seguito di dibattito pubblico secondo procedure democratiche, e quello della  resistenza, quando pace, equità, ragionevolezza e dignità sono minacciate da poteri che si manifestano dispotici, in quanto pretendano sottomissione arbitraria, e ciò anche se si tratti di poteri maggioritari. La resistenza è un dovere democratico anche contro la tirannia della maggioranza, come venne definita dai primi teorici dei processi democratici. La democrazia non tollera alcun potere arbitrario, che si pretenda illimitato e voglia sottomissione, perché contrario alla dignità delle persone. Non tutto in democrazia è nell’arbitrio delle maggioranze: non lo sono la pace, l’equità, la ragionevolezza, la dignità delle persone. 

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2. Cambiare democraticamente la società. 

La dottrina sociale indica ai laici l’obiettivo di cambiare la società in modo da consentirvi l’attecchimento della buona novella cristiana. Non si tratta di cristianizzare  la società: questo è un fine molto diverso. Le persone possono divenire persuase della buona novella cristiana e allora vengono accolte tra i cristiani, nella Chiesa. Se consideriamo invece le società cristiane, esse non hanno mai funzionato tanto bene. La cristianizzazione delle persone può presentare grandi vantaggi per le società, la cristianizzazione della società, vale a dire costruire l’organizzazione politica intorno a una qualche ideologia cristiana, porta ad escludere molti, e non solo i non cristiani, ma anche coloro che vogliono essere cristiani in modo diverso dal modello proposto dalla politica cristiana. La democrazia come ai tempi nostri la si intende è incompatibile con la cristianizzazione politica  della società, non può darsi questo scopo se vuole mantenersi democrazia. Questo perché deve rispettare la dignità della persona, vale a dire il complesso dei diritti fondamentali che le sono connaturati e non dipendono da un riconoscimento politico. Tra essi, anche quello di professare una fede religiosa nel modo in cui se ne è persuasi. Questo diritto fondamentale è una delle condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. E’ il diritto alla libertà religiosa. La fede non può essere imposta. Avverto che questa convinzione è molto recente tra i cattolici e non condivisa in altre confessioni religiose. Uno dei principali e più fruttuosi metodi di evangelizzazione cristiana dal Quarto secolo fino al Ventesimo è stata la violenza politica, che storicamente raggiunse punte di spietata efferatezza ed ebbe anche connotati stragisti. E’ a questo che, ad esempio, si deve l’evangelizzazione dell’America Latina. Non ci si deve però scoraggiare: quella della pace sociale è un ideale molto recente, e non universale, acquisizione in nelle culture del mondo e, in passato, ognuno si è condotto secondo la cultura di riferimento. Così fanno gli umani e non possono fare diversamente, appunto perché sono umani, esseri limitati che dipendono dalle società che costruiscono. 

  Cambiare la società significa influire sul suo governo, e quindi sulla sua politica. Significa anche misurarsi con le situazioni di conflitto che sempre travagliano le dinamiche sociali, in particolare quelle tra i gruppi che dominano e quelli che sono dominati, tra chi è ricco è chi non lo è (posizioni dipendenti da situazioni di dominio sociale), ma anche, ad esempio, tra chi parla una lingua maggioritaria e chi ne parla un’altra, da anziani e giovani, tra uomini e donne anche nella sottospecie delle relazioni coniugali (che esprimono posizioni sociali di dominio), tra chi vive in certi quartieri ben tenuti e chi in altri dove vivere è più penoso e via dicendo. Le situazioni di conflitto sociale dividono la società per strati, ceti, classi. L’apparenza di stabilità è ingannevole, come quella del suolo: al di sotto sono in azione forze potenti che ciclicamente si squilibrano con conseguenti sommovimenti.  Questa situazione può osservarsi in tutti i gruppi sociali, fin dai più piccoli, e anche nelle società dei bambini. Quando l’individuo inizia a interagire in società, fatalmente emergono situazioni di conflitto. Ma l’essere umano non può liberarsi a lungo dalla società perché ne dipende per la sopravvivenza. Solo nella collaborazione sociale è possibile procurarsi beni indispensabili. L’essere umano è un vivente che crea e governa società, è stato scritto nell’antichità: è un’affermazione che tutt’ora è valida. Ma come superare i conflitti? Questo il principale problema della politica. Ciò che ho scritto della società in generale, vale anche per la nostra Chiesa, nel suo aspetto di società umana. Dal punto di vista teologico vi è anche altro di molto importante, ma considerandola come società umana vi si notano tutte le dinamiche che si osservano più in generale nelle società intorno. 

  La nostra Chiesa è anche  una società umana. Questo significa che anche in essa è possibile agire politicamente, perché è una società che, come tutte le altre, deve essere governata, e lo si deve fare in particolare per creare le condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. Si potrebbe però osservare che, per definizione, la Chiesa dovrebbe essere la migliore delle società sotto questo profilo, ma nell'esperienza pratica non è così. Una volta dirlo sarebbe costato caro, molto caro. Ora che però lo hanno insegnato anche i Papi è diverso. Un grande maestro in questo fu il papa Karol Wojtyla, che regnò dal 1978 al 2005 con il nome di Giovanni Paolo 2°, proclamato santo nel 2014, il Papa della mia giovinezza, al quale sono spiritualmente e affettivamente molto legato pur avendone chiari i limiti politici. Ci guidò, nel percorso di preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000, nel lavoro che definì di purificazione della memoria, che consiste nel considerare realisticamente ciò che i cristiani hanno fatto in passato per trarre esempio solo da ciò che, con il criterio del Vangelo, possiamo riconoscere come ben fatto. Non si tratta di condannare i morti. Ma di capire i limiti di come intesero essere cristiani e di cercare se sia possibile affrancarci, oggi, da quei limiti, per non ripetere un passato che non proprio non va. Si tratta, quindi, di un giudizio su di noi, innanzi tutto. Noi che, come sempre si è fatto fin dalla storia più antica, facciamo memoria degli avi per trarne orientamento. 

  All’inizio del suo regno, nel 2013, l’attuale Papa, regnante con il nome di Francesco, ed era (ed è per certi versi) Jorge Mario Bergoglio, argentino,  ci ha esortato ad essere Chiesa in uscita, avendola trovata come barricata nei propri spazi liturgici con figure di doganieri  ai varchi per selezionare chi poteva entrare o non. E’ stata una dura critica a come si era stati Chiesa, in Italia, e in particolare a Roma. La leggiamo nell’esortazione La Gioia del Vangelo, del 2013, il suo primo messaggio a noi tutti.I Papi scrivono molto, anzi l’attuale Papa meno di altri, ma spesso le loro parole non ci raggiungono. Ci sono stati momenti nei quali l’imponente letteratura pontificia superava le nostre capacità di assimilazione, in un’Italia dove, stando alle statistiche, la maggior parte delle persone non legge nemmeno un libro all’anno. Bisogna dire però che papa Francesco ha integrato gli scritti con una catechesi verbale, e per gesti simbolici, molto efficace, per cui l’essenziale ci è divenuto sicuramente accessibile. Egli però viene, in tutti i sensi, da un altro mondo, lontano non solo in senso spaziale, ma anche culturale. Più lontano, in tutti i sensi, da quello da cui veniva san Wojtyla, tutto sommato vicino in senso geografico ma diviso da noi dalla barriera che fino agli anni ’90 divideva l’Europa tra sistemi politici di democrazia liberale e capitalista e sistemi politici ideologicamente di democrazia ed economia comunista ma degradatisi in autocrazie oligarchiche dispotiche, secondo la scuola sovietica ai tempi di Stalin. Il principale problema che riscontriamo con papa Francesco, come già con san Wojtyla, riguarda la concezione della democrazia, sulla quale i cattolici italiani progredirono molto, tanto che l’attuale Repubblica democratica è in gran parte opera loro. I due Papi, in particolare, appaiono disallineati con l’evoluzione ideologica che ha caratterizzato il processo di costruzione dell’Unione Europea. Ho spesso osservato che, del resto, per ciò che ne so (e mi ritengo solo una persona colta, ma non uno specialista delle scienze implicate in questa valutazione), non è stata ancora elaborata in ambito cattolico una teologia della democrazia. Il nostro potere ecclesiastico parla  e  intende  secondo la teologia e quindi non appare avere ancora gli strumenti sufficienti per intenderla bene. 

  Per la gran parte dei cattolici italiani (ma residuano correnti clerico-fasciste di varia natura) quella della democrazia  è stata, più o meno dal ’39 e su esortazione pontificia del Papa Eugenio Pacelli – Pio 12° (1939-1958), la via privilegiata per incidere sui fatti sociali in modo da cambiare la società per favorire l’attecchimento della buona novella cristiana. Parlo naturalmente di un lavoro in società che è diverso da quello sulle persone, sulla loro formazione, sulla loro spiritualità. In particolare gran parte dei cattolici italiani ripudiarono il disegno perseguito sotto il fascismo storico, quello mussoliniano (1922-1945), di cristianizzare  forzatamente la società. E, con metodo democratico, riuscirono ad inserire nella Costituzione repubblicana i principi fondamentali della dottrina sociale cattolica. E procedettero nello stesso modo nel costruire l’Unione Europea, la cui bandiera è palesemente un simbolo mariano, con la corona di dodici stelle  in campo azzurro.  Va detto che a quella diffusa dai papi Leone 13° (enciclica Le novità,  del 1891) e Pio 11° (enciclica Il quarantennale, 1931), profondamente rielaborata dai loro successori,  storicamente si ispirarono anche despoti che si proposero di cristianizzare coercitivamente la società, del resto forti di apprezzamenti positivi del corporativismo mussoliniano contenuto nella seconda. 

 Bisogna prendere atto che nell’Italia di oggi l’azione sociale per cambiare la società secondo le esortazioni della dottrina sociale può e deve  farsi solo con metodo democratico. Ogni altro metodo contrasta con l’affermazione di dignità inviolabile delle persone che, a ben vedere, è di diretta discendenza dal pensiero sociale cristiano. 

  Tuttavia la democrazia si pratica poco nelle istituzioni ecclesiastiche, salvo che in alcuni limitati ambiti associativi  o di vita religiosa. Ad esempio n on si insegna e non si pratica, in genere, nelle parrocchie. La prima formazione religiosa, che per la maggior parte dei laici rimarrà l’unica per tutta la vita,  è fatta di solito di alcuni rudimenti di storia sacra, di alcune istruzioni etiche basate sui Comandamenti, e di un addestramento minimo su come partecipare alla Messa (in piedi, seduti, in ginocchio, come recitare le invocazioni e risposte che competono al popolo, come ricevere la Comunione). Non c’è da stupirsi che poi i ragazzi non manifestino interesse ad approfondire, visto che, crescendo, hanno bisogno di dritte  per inserirsi in società e quello che hanno imparato da piccoli al catechismo non serve. Servirebbe, invece, integrare fede  e democrazia, perché nell’Italia democratica di oggi, il saper agire in un contesto democratico fa una grande differenza. La formazione che si cerca di dare, anche raggiungendola mediante auto-formazione tra adulti,  in Azione Cattolica mira principalmente a dare quel tipo preparazione. E’ per questo che l’Azione Cattolica definisce se stessa come palestra di democrazia (nell’atto normativo diocesano per l’AC nella Diocesi di Roma). 

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3. Democrazia e istituzioni. 

Spesso ho sentito presentare la democrazia come un insieme di regole di buona creanza civile imposte dall’alto. Lo stesso per la religione. Entrambe sono molto di più, ma anche di diverso. 

  Viviamo in società che sono altamente istituzionalizzate. Questo significa che ci si muove, nelle relazioni sociali quotidiane, secondo rigide regole formali che, se violate, comportano vari tipi di sanzioni. Ci si trova inseriti in organizzazioni disegnate da quelle regole. Accade sul lavoro, nell’utilizzare servizi pubblici, ma anche, ad esempio, nella pratica della  nostra religione. 

  La parrocchia, ad esempio,  è stata istituita anche come un ufficio burocratico dipendente gerarchicamente dal vescovo. E’ retta da un funzionario ecclesiastico che è il parroco, che la rappresenta giuridicamente e accentra ogni potere. In questo contesto, i fedeli sono utenti di un servizio ecclesiastico, gli altri preti e i diaconi, come anche i catechisti  e chiunque altro abbia affidate mansioni ecclesiastiche anche a titolo di volontari,  sono sostanzialmente degli  impiegati. In parrocchia  i fedeli ricevono un’istruzione religiosa e vari servizi liturgici. Sono anche organizzati spazi conviviali, specialmente per i più anziani, che si ritengono ormai usciti dal sistema della formazione. Non vi è possibilità di esercizio di una certa autonomia da parte dei fedeli, che, al più, sono chiamati a collaborare come impiegati o consulenti. Questa la realtà istituzionale  della parrocchia. Se però ne vogliamo parlare con i concetti della teologia, allora essa ci viene presentata come comunità, nella quale ognuno ha pari dignità e vi partecipa come in una famiglia allargata. Il parroco e i preti e diaconi che con lui collaborano sono pastori  che conducono il gregge  per il giusto cammino, in un contesto di relazioni di benevolenza e rispetto. Il gregge ama  il buon pastore ed è da lui riamato. Questa realtà, di carattere spirituale, non corrisponde però a quella istituzionale, formale, giuridica. Entrambe non sono democratiche. La parrocchia, in entrambi quegli aspetti, non è un ambiente democratico, la democrazia non vi viene praticata, non vi viene insegnata, la si riserva per i rapporti civili, dove però dovrebbe essere lo strumento con il quale i laici  di fede dovrebbero influire sulla società per renderla aperta a ricevere la buona novella della fede. Dove si impara la democrazia? A scuola, viene da rispondere. In realtà, però, a scuola la si insegna sommariamente, come dicevo prima, come un sistema di regole di buona creanza imposte dall’alto. Ma ben presto si fa esperienza di una cosa fondamentale: in società le regole vivono diversamente da come sono scritte o anche solo tramandate per consuetudine. Questo perché le società, come gli esseri viventi cambiano. Quindi ognuno, nel concreto delle relazioni sociali quotidiane, è costantemente impegnato ad impersonare  quelle regole che trova in società e, innanzi tutto, a decidere se, e in che misura, valgono per lui e nei rapporti sociali in cui è coinvolto. In questo, ciascuno di noi esercita un potere sociale, anche se spesso non ne ha consapevolezza o ne sottovaluta l’importanza. 

 Questo che ho osservato serve a rendere l’idea che ogni fatto sociale, come lo sono la democrazia e la religione, come anche qualsiasi altra forma di potere sociale, ad esempio quello in cui si dovrebbe essere solo sudditi di un’autocrazia, un potere che non vuole rendere conto che a se stesso, o quello rigidamente diviso per caste  o ceti corporativi, nel quale le regole cambiano a seconda del gruppo sociale in cui ci si trova inseriti o si è ammessi, vive  e quindi viene impersonato, e, in questo, viene anche cambiato, perché, per quanto ci si sforzi di ottenere uniformità, rimane il fatto che gli esseri umani sono viventi l’uno diverso dall’altro, è ciò anche nella coscienza e nella volontà. 

  Il sistema politico e la religione non sono solo un sistema di regole, ma innanzi tutto sistemi di convivenza sociale sempre soggetti a mutamenti più o meno rapidi secondo le dinamiche sociali, quindi alle relazioni di potere in cui ciascuno, solo che viva in società, è coinvolto come attore e, insieme, oggetto. 

  La Chiesa assume teologicamente di essere sempre la stessa dalle origini, e questo, secondo una concezione mitologica che non significa erronea ma non necessariamente corrispondente alle dinamiche sociali, perché comprende anche aspetti emotivi che sono connaturati negli umani, può anche essere accettato, tenendo conto degli elementi di continuità che indubbiamente emergono nella sua storia bimillenaria, innanzi tutto la riflessione sulle Scritture. Ma, da un punto di vista sociale, e anche giuridico, la nostra Chiesa è molto diversa da quella delle origini, perché è espressa da una società molto diversa, anzi, studiando la sua storia, ci si può convincere che nel tempo, sotto l'aspetto sociale, ci sono state molte Chiese, quindi molti modi in cui si è vissuta e impersonata la Chiesa, e certamente quelli dei bellicosi e irruenti vescovi dei primi secoli della storia della  nostra fede, che avevano l’anatema (oggi diremmo scomunica) facile,  non corrispondono al nostro  attuale modo di essere Chiesa. E, tuttavia, noi cattolici veneriamo i nostri santi, ma anche nella tradizione delle altre confessioni religiose c’è una analoga alta considerazione per certi personaggi del passato molto significativi nelle questioni di fede, perché vorremmo stabilire una continuità  ideale con le vite di chi ci ha preceduto e ci ha trasmesso  quello che definiamo deposito di fede, che non è fatto solo di scritti, concetti, pensieri, regole, ma soprattutto di modi di vivere la fede. E’  per questo che troviamo annoverati tra i nostri santi anche persone di fede del passato piuttosto criticabili sotto vari aspetti, ma delle quali apprezziamo ancora l’impegno fortissimo a vivere  la propria fede come il valore  fondamentale della loro vita. Quindi non le lasciamo seppellire dal passato, ma recuperiamo il loro messaggio di vita per trarne ispirazione oggi. Ed è anche per questo che ciclicamente rivediamo  il catalogo dei santi, che una volta proclamati tali sicuramente non possono essere come dire declassificati dal punto di vista delle procedure istituite nella nostra Chiesa, nel senso che di epoca in epoca ne risaltano di più alcuni e meno altri. Ad esempio, dell’elenco dei papi “Pii” dall’Ottocento al Novecento, le scelte politiche antirisorgimentali di un papa Pio 9°, il Papa del Sillabo (1964; l’elenco di proposizioni erronee contro il liberalismo che contribuì a rendere difficilissima l’assimilazione della democrazia tra i cattolici), o quelle religiose di un papa Pio 10°, che ordinò una durissima e spietata persecuzione antimodernista causando gravissime sofferenze e lacerazioni nella Chiesa e la perdita di grandi anime (lo stesso don Romolo Murri, che aveva teorizzato tra i primi l’ida di una democrazia cristiana  ne cadde vittima), che, con il senno del poi si  sono rivelate del tutto inutili, o l’apprezzamento positivo verso il corporativismo del fascismo mussoliniano e l’elogio della repressione antisocialista di un papa Pio 11°, ci creano ora qualche difficoltà e, di fatto, non seguiamo quei loro insegnamenti. Noi, oggi, non impersoneremmo più la fede in quel modo. La nostra religione, intensa nel suo aspetto di convivenza sociale, è molto diversa. 

  E, tuttavia, parlando di democrazia, che è il sistema politico in cui i più sono nati e che solo i più anziani hanno contribuito a costruire con il loro voto per l’Assemblea Costituente nel 1946, e di religione, e uno della mia età ne ha vissuto ormai almeno cinque versioni, a partire da quella degli anni Sessanta del secolo scorso, nel trapasso dalla rigidità gerarchica della Chiesa del papa Pio 12° alla Chiesa del Concilio, a che punto siamo in termini di convivenzasociale

 

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4.  Democrazia, desacralizzazione e secolarizzazione. Le società creano istituzioni allo scopo di durare. Così, nella vita quotidiana, ciascuno sa qual è il suo posto, chi comanda, che si deve fare in ogni occasione, come può relazionarsi con gli altri per avere ciò che gli necessità, quando rischia una sanzione. Una istituzione è un sistema di regole formali che riguarda l’esercizio del potere pubblico. Ingloba, quindi, un sistema di potere. Per alcune istituzioni sono previste regole per modificarle, altre, quasi nessuna in democrazia, vengono presentate come non modificabili e quindi sono sacralizzate. Il sacro è appunto ciò che in nessun caso può essere cambiato. Ogni potere storicamente ambì la sacralizzazione. Le religioni, anche la nostra, vennero strumentalizzate per produrla. Di fatto le società cambiano e con esse le loro istituzioni, vale a dire i loro sistemi di potere. Se questi ultimi mantengono la loro pretesa di sacralizzazione, ad un certo punto vengono rovesciati, se non riescono a reprimere i movimenti rivoluzionari. Nella preghiera del Magnifica (Vangelo di Luca, capitolo 1, versetti 49-53), che si recita ogni sera nei Vespri, c’è un versetto che accenna a questo: 

Grandi cose ha fatto per me l'Onnipotente 
e Santo è il suo nome; 
50di generazione in generazione la sua misericordia 
per quelli che lo temono. 
51Ha spiegato la potenza del suo braccio, 
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; 
52ha rovesciato i potenti dai troni, 
ha innalzato gli umili; 
53ha ricolmato di beni gli affamati, 
ha rimandato i ricchi a mani vuote. 

  In quelle parole vi è la descrizione di un processo propriamente rivoluzionario. Un monito severo verso ogni potere che pretenda di sacralizzarsi. Per quanto si finisca umiliati da un potere dispotico, si confida che esso  abbia fine e  in un diverso modo di convivenza. La nostra Chiesa ha prodotto una forte sacralizzazione del proprio potere pubblico, ma, fin dall’antichità, i biblisti hanno concluso che quel “Ha rovesciato i potenti dai troni”,  non le si applica. Tuttavia, nonostante la sacralizzazione delle sue istituzioni, elaborata in particolare all’inizio del Secondo Millennio, quando il Papato romano si costituì in una sorta di impero religioso, affrancandosi dal precedente vassallaggio politico agli imperatori civili, esse sono storicamente molto cambiate. In particolare vanno ricordate tre grandi stagioni di riforma, nell’11°, nel 16° e nel 20° secolo, quest’ultima con il Concilio Vaticano 2°, celebrato a Roma, in Vaticano, dal 1962 al 1965. La seconda fu catalizzata dalla Riforma protestante, che, in religione, costituì un moto propriamente rivoluzionario, quindi un rovesciamento. 

  La democrazia è un tipo di convivenza sociale che non utilizza la sacralizzazione per avere continuità. Quando se ne cominciò a parlare, nel Settecento se ne temette l’instabilità. Nell’Ottocento la parola democrazia  venne anche utilizzato per intendere confusione sociale. Questo perché si voleva praticarla con un’estensione che non aveva mai avuto nel passato, in particolare nell’antichità greca, da cui ricevemmo le prime teorizzazioni e il termine stesso democrazia (che in italiano e nel  greco antico e contemporaneo suona uguale),  nell’esperienza repubblicana di Roma antica, dove si contava in base al censo, e in quella del Medioevo europeo, in cui era dominata dalle corporazioni dei mestieri. Nell’era contemporanea se ne predica l’universalità senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. E’ chiaro, da ciò, il  motivo per cui l’affermarsi dei processi democratici, in particolare in Europa, comportò il ripudio del propositi di cristianizzare, con le buone (la persuasione) o con le cattive (la coercizione mediante le istituzioni), la società. Quando si parla di secolarizzazione  delle nostre società contemporanee, si vuole appunto intendere questo, non certo che la gente non creda più all’azione di agenti soprannaturali. Quindi certamente la secolarizzazione della società, nel senso di desacralizzazione  dei suoi poteri pubblici, è elemento costitutivo della democrazia: non può esservi democrazia in un ambiente di istituzioni sacralizzate. Questo spiega i problemi che i democratici, anche i cristiano democratici, hanno sempre incontrato, e per certi versi ancora incontrano, nelle loro Chiese, ma in particolare nella Chiesa cattolica, data l’elevata sacralizzazione delle sue istituzioni e addirittura delle persone stesse che dirigono ai vertici quelle istituzioni. Nella Chiesa cattolica ancora si teme la dissoluzione procedendo nella desacralizzazione dei propri poteri pubblici, e questo anche se l’esperienza delle democrazie Occidentali contemporanee dovrebbe convincere del contrario.   Quindi nella dottrina sociale, il pensiero sociale diffuso dal Papato e dagli altri vescovi, non troviamo una teologia  della democrazia, ma solo una cauta ammissione dei processi democratici nel governo delle istituzioni civili in quanto più confacenti alla dignità delle persone umane, come oggi anche nella Chiesa la si intende. Di conseguenza, la formazione alla democrazia non viene ritenuta compresa nei programmi per l’istruzione religiosa di base, e nemmeno per quella di secondo livello, venendo certamente fatta, e questo è un bel passo in avanti, prevalentemente per i fedeli che hanno un’istruzione superiore, quindi agli universitari e post- universitari. L’Azione Cattolica fa certamente eccezione perché la pratica fin dai più piccoli: anche per loro vuole essere quindi palestra di democrazia. 

  Poi, naturalmente, i nostri vescovi si lamentano che i laici di fede non contano più molto nella società civile, in particolare nei processi politici. Certo, ancora dalla scuola della dottrina sociale escono ancora grandi ingegni, persone alle quali tutti si rivolgono nei tempi di crisi come riserve della Repubblica, ed esse si riconoscono per avere nelle loro biografie periodi più o meno lunghi, più o meno intensi, di formazione alla democrazia nelle istituzioni culturali religiose (molte università religiose hanno corsi specifici), ma i più hanno avuto solo la formazione alla democrazia che è comune a tutti, vale a dire i pochi cenni alla democrazia come buona creanza  civile che si fanno nella scuola e poi nulla di nulla, anzi l’anti-formazione che si riceve nel marketing politico, quel modo di accattivarsi la simpatia dell’elettore che  è pubblicità commerciale e che si base essenzialmente nello sfruttare le possibilità di inganno cognitivo su base emotiva che la nostra mente offre, un’anti-formazione che umilia  dove invece la democrazia si propone di elevare. 

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5. Democrazia: una forma di convivenza che consente il cambiamento sociale. 

Richiamo la definizione di democrazia che ho proposto all’inizio: 

«La democrazia è  un sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società  o generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro estensione». 

  Se la democrazia, prima che un sistema di regole formali, è una forma di convivenza, c’è molto spazio per l’ingegno e la creatività personali. Essa è stata anche interpretata in istituzioni, in organismi sociali costruiti per durare e quindi più rigidi, ma le istituzioni democratiche non coprono l’intero campo della democrazia come convivenza. E, per quanto molto dettagliate, le regole delle istituzioni democratiche non riescono mai a disciplinare ogni aspetta della convivenza democratica nelle istituzioni. Infine c’è la grande area sociale non ancora democratizzata  o non completamente democratizzata. Come si disse per la  nonviolenza,  anche per la democrazia ogni giorno può portare progressi per l’azione dei democratici, per cui si può concludere che «ieri eravamo meno democratici». Se scopo della democrazia come oggi la si intende è anche quella di aumentare la felicità e il benessere sociali, questo significa che la democrazia è una forza sociale di progresso. La mentalità democratica, come anche la nostra mentalità religiosa, comporta un certo grado di insoddisfazione nei confronti di ciò che è stato realizzato: una società democratica è necessariamente dinamica

   L’anno scorso ho scritto: 

 

«"Chi è il più grande tra voi diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto tra voi come colui che serve" (dal Vangelo secondo Luca, capitolo,22, versetti 26 e 27 - traduzione in italiano CEI 2008. CEI 1974, dove CEI 2008 ha "il più giovane" traduce con "il più piccolo" - il testo in greco antico ha "neòteros": letteralmente "il più nuovo"). 

   Credo che storicamente nessuna autorità, civile o religiosa, anche se ispirata ai principi di fede, sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica il comando evangelico che ho sopra citato. E questo anche nel caso di vere rivoluzioni, vale a dire di un completo rovesciamento di un ordinamento politico, con instaurazione di un nuovo ordine politico retto da regole opposte rispetto alle precedenti. 

  Rivoluzione è un termine che il pensiero politico ha tratto dall'astronomia, dove significa il moto di un corpo intorno ad un altro corpo, che si considera come centro. Una rivoluzione è compiuta, dal punto di vista politico, quando viene istituito un nuovo ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai potenti di starecome colui che serve, vale a dire di agire di conseguenza, significa introdurre un principio di insoddisfazione permanente davanti a qualsiasi potere, quindi anche a quello che si presenti come rivoluzionario. Questa appunto l'origine dei gravi problemi politici che le nostre prime comunità di fede ebbero nei primi quattro secoli dell'era corrente e, in seguito, degli analoghi problemi che travagliarono i nostri riformatori che intesero promuovere un ritorno alla fedeltà a quel comando evangelico.» 

  

  Il sistema democratico è anche, quindi, una convivenza sociale in cui è ammessa la libera critica di ogni potere, pubblico o privato, rispetto al quale si conviene che ciascuno abbia libertà di coscienza, e dunque di pensiero, e di manifestazione del pensiero, nella parola, negli scritti, nelle arti e in ogni altro modo in cui questa libertà possa essere esercitata. Questo significa che è aliena alla convivenza democratica la pretesa e la pratica della sottomissione. Una persone che vive democraticamente non si sottomette mai. La sua osservanza alle regole stabilite democraticamente, all’esito di una procedura regolare che abbia consentito anche la presa di coscienza e il dialogo su di esse, non è sottomissione, ma adesione ad un metodo e accettazione delle decisioni pubbliche che produce. Rimane però sempre spazio per la resistenza, che in democrazia è un diritto e un dovere, quando un potere collettivo, anche con metodi corretti dal punto di vista delle procedure, leda una posizione umana che si ritenga incoercibile e non vulnerabile, un diritto umano inviolabile in quanto connesso con la dignità della persona umana. Certamente questo pone sempre la convivenza sociale democratica in una situazione di fisiologica instabilità, nella quale ogni potere deve sapersi conquistare e saper mantenere innanzi tutto con la persuasione la propria legittimazione sociale e politica, a prescindere da quella giuridica, e in cui il corpo sociale organizzato per convivere democraticamente mantiene un permanente stato di tensione dialettica verso qualsiasi potere. In particolare la delega per la rappresentanza politica non consiste, in democrazia, in una investitura, come le incoronazioni  dei monarchi, data la quale quel potere non potrebbe più essere messo in questione per tutta la sua durata istituzionale.  E’ proprio quella fisiologica instabilità che consenta al sistema di convivenza democratica di adattarsi  ai mutamenti sociali e di resistere  ad ogni potere che tenda ad espandersi arbitrariamente. E, va detto, la legge sociale del potere pubblico è che esso tende ad espandersi fino a che incontri una resistenza valida. 

  La gran parte delle relazioni sociali più significative della nostra vita si svolgono in spazi non o poco istituzionalizzati. La famiglia, un’associazione ricreativa o sportiva, hanno quel carattere. Vi sono però spazi sociali quotidiani piuttosto istituzionalizzati nei quali tuttavia vi è molto spazio per configurare liberamente una convivenza sociale, ad esempio nella scuola e nella parrocchia. Gli ambienti di lavoro sono spesso poco o per nulla democratizzati, specialmente quando l’organizzazione del lavoro è fatta da un datore di lavoro proprietario. Sui luoghi di lavoro la democratizzazione è rappresentata dall’azione sindacale che è in tensione dialettica con i potere del soggetto proprietario dell’impresa. La democratizzazione delle organizzazioni del lavoro  è una grande sfida e ha un significato altamente politico dove mette in questione la concezione della proprietà. I processi politici di democratizzazione delle società europee, dal Settecento, ebbero nella proprietà quale frutto del lavoro e quindi espressione della dignità socialepersonali un punto di forza, e questo in particolare verso quei poteri politici connessi alla proprietà terriera tramandata di generazione in generazione in dinastie di nobili, accreditate da un potere supremo anch’esso dinastico e sacralizzato. Ma nel progresso delle concezioni democratiche sta venendo meno l’assolutizzazione della proprietà, espressione, proprio in quell’assolutizzazione, di un potere con caratteri di arbitrarietà sociale, a favore di una diversa concezione, che troviamo scritta nella nostra Costituzione repubblicana, che ne richiede una funzione sociale, vale a dire una finalizzazione anche al benessere e alla felicità collettivi. 

   Ciò detto, il primo passo per un tirocinio democratico non è studiare un complesso di regole, come viene in genere proposto agli studenti nell’insegnamento di educazione civica e allora si prende in mano la Costituzione, di creare  forme di convivenza democratica nella propria quotidianità o di modificare  in senso democratico quelle alle quali si partecipa nella propria quotidianità. Il primo campo di applicazione è il piccolo gruppo  di prossimità, ad esempio la classe scolastica, o un gruppo parrocchiale, come è il nostro dell’AC parrocchiale. 

  Si riscontrerà che elevare un gruppo alla democrazia richiede uno sforzo, una fatica, per la necessità di vincere resistenze determinate da abitudini consolidate, in particolare da stati di sottomissione nei quali alcuni si trovano rispetto ad altri. Ho notato che non di rado nei gruppi religiosi i capi tendono a debordare nel loro potere, che assume carattere autocratico e addirittura sacralizzato. Data questa condizione, i capi così impostisi hanno poi in genere la scomunica facile, come i bellicosi primi vescovi delle nostre comunità religiose, anche se  si tratta di un potere arbitrario, perché nella nostra Chiesa l’allontanamento del fedele è disciplinato rigidamente da una normativa penale, analoga a quella degli stati, è riservato a casi gravissimi,  e nessuno può arrogarselo. Una delle prime manifestazione democratiche è dunque quella  chi resiste a quella pretesa di allontanamento arbitrario, ad opera di colui che, avendo conseguito una qualche posizione di potere ed avendola estesa di fatto a danno altrui, indica sbrigativamente la porta al dissenziente. Se in passato si avesse avuto più coraggio in questa azione di resistenza attiva, ci saremmo potuti risparmiare molti problemi e, innanzi tutto, una certa disaffezione da parte delle persone più giovani alla vita religiosa. La democrazia non è fatta certamente per persone remissive verso le posizioni di potere, per persone con la tendenza ad essere docili,  richiede coraggio, e innanzi tutto quello di rimanere ad occupare gli spazi sociali contro ogni potere pubblico o privato che pretenda di escludere e, lì, di prendere la parola.   

 

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6. Democrazia come convivenza che libera da sottomissioni umilianti.  Il conflitto è una dinamica costitutiva delle società umane ed è pertanto ineliminabile. E’ legato alla nostra struttura biologica e, in particolare, al funzionamento della nostra mente. Gli psicologi cognitivi osservano che la nostra mente risale a duecentomila anni fa e ancora possiamo influirvi in maniera molto limitata. Produce, in particolare, le emozioni, oltre al pensiero riflesso, quello che consideriamo razionale.  

  Le situazioni di conflitto consentono il cambiamento delle società e quindi possono essere anche  un fattore di progresso. Ma possono semplicemente distruggerle se divengono troppo intense e, soprattutto, se coinvolgono non solo limitati gruppi sociali, ma la società intera o addirittura varie società. La democrazia è una forma di convivenza che si propone di risolvere  in progresso le situazione di conflitto sociale. A lungo è stato un lusso per ceti privilegiati, ad esempio, nell’antica Grecia, per gli uomini che non avevano necessità di lavorare per vivere. Allora, le altre persone, le donne, le persone troppo giovani, i lavoratori, e nell’antichità si faceva ampio ricorso al lavoro schiavo, insomma tutte le persone escluse dai processi democratici, erano ridotte ad una posizione di pura e semplice sottomissione  ai poteri sociali costituiti. Dall’inizio dei processi democratici contemporanei, dalla fine del Settecento, essi si fecero sempre più inclusivi, fino a comprendere ora tutte  le persone umane, anche a prescindere dalla loro cittadinanza o maggiore età. Ciò per l’affermarsi della cultura dei diritti umani fondamentali, che ancora è visto con sospetto dalla dottrina sociale, espressione del Magistero dei vescovi cattolici. Questo, appunto, per il potenziale di liberazione  da poteri dispotici e arbitrari che comporta. Da essa si teme l’inasprirsi del conflitto sociale e la dissoluzione della società, in particolare della nostra Chiesa, e questo con una considerazione realistica basata sull’esperienza, senza far tanto conto sui miti religiosi che ne predicano un fondamento soprannaturale e che dovrebbero porla al riparo secondo la profezia del “non prevarranno”.  

 

«[…] io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.» [dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 16, versetto 18] 

 

  Da 2013 in Italia stiamo vivendo un’esperienza propriamente rivoluzionaria:  è stata quasi totalmente rinnovato il ceto politico nazionale e locale e i partiti politici che conobbi fino agli anni ’80 non ci sono più. L’ultimo a rigenerarsi, era rimasto l’ultimo dei partiti politici che c’erano già negli anni ’80, è stata la Lega Nord, che ha completamente rivisto la propria ideologia, diventando un partito nazionalista, da anti-nazionalista che era alle origini e fino al 2013. Nella politica nazionale si sta passando da un’ideologia neo-liberista in economia ad una neo-statalista, mentre si danno battaglia neo-nazionalismo identitario ed europeismo. Nel giro di due anni si  è passati da un governo che era il più a destra di sempre ad uno che da molti viene considerato come tra quelli più a sinistra. Questi processi sono stati aggravati dalla crisi istituzionale provocata dall’emergenza sanitaria nazionale determinata dalla pandemia della malattia Covid 19, che ancora si manifesta estremamente attiva e che ha prodotto forti mutamenti nei metodi di governo e la necessità di aspri confronti internazionali. A tutto ciò si aggiungono le crisi internazionali riguardanti il conflitto libico, in cui l’Italia è coinvolta, e quella prodotta dal recente espansionismo militare turco, che minaccia importanti interessi economici italiani nel Mediterraneo, generando da ultimo potenziali situazioni di guerra. E tuttavia, nonostante questi profondi scossoni politici e una situazione sociale ed economica in veloce cambiamento, la società continua a funzionare e una persona distratta potrebbe addirittura non rendersi conto di ciò che sta accadendo. Questo perché in Italia si è radicata, in particolare nei primi quarant’anni di esperienza nella Repubblica fondata dal ’46, una convivenza democratica. Questo appunto è il miracolo delle concezioni evolute della democrazia che si sono sviluppate in Italia, in Europa e altrove nel mondo, dal secondo dopoguerra, vale a dire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945). 

  Ogni situazione di conflitto che non sia risolta democraticamente genera o la sottomissione  dei ceti subalterni, che quelli dominanti riescono controllare e finché ci riescono, o processi rivoluzionari violenti. Nel primo caso si ha l’infelicità dei sottomessi, nell’altro l’infelicità sociale diffuso, perché la violenza genera sempre infelicità. Inoltre l’esplosione della violenza sociale di massa è una catastrofe che, come i terremoti naturali, non si sa che cosa porterà e come potrà essere risolta, iniziando una nuova ricostruzione sociale. Nella Somalia contemporanea abbiamo l’esempio di una situazione rivoluzionaria catastrofica che, iniziata all’inizio nel corso degli anni ’80, non si è ancora conclusa e ha portato alla dissoluzione dello stato, che era stato costituito nel 1960, alla fine della dominazione coloniale italiana e inglese, sul modello europeo, ma presto caduto preda di un dispotismo militare, che solo formalmente manteneva alcune procedure democratiche. La rivoluzione democratica italiana, tra il ’43 e il ’45, ebbe caratteristiche diverse per merito di un ceto politico democratico, che nella guerra di Resistenza fronteggiò quello fascista, del quale i cattolici democratici ispirati alla dottrina sociale ebbero un ruolo determinante. Ma il lavoro di formazione democratica del popolo, svolto in particolare in Azione Cattolica e nei partiti politici, per creare cittadini democratici dopo la lunghissima sottomissione al fascismo, così come l’adeguamento delle strutture dello stato alle regole e principi della nuova democrazia, poterono dirsi conclusi solo all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, quando, per effetto della globalizzazione  dell’economia e della dissoluzione della frattura con le economie comuniste, il mondo, e in esso l’Italia, prese nuovamente a cambiare. 

  Proprio all’inizio degli anni ’90 quel lavoro di formazione popolare alla democrazia venne interrotto, in particolare per la rapida dissoluzione dei partiti italiani storici. Continuò e continua ad essere svolto in Azione Cattolica. Tuttavia in questo ambiti ci si scontra con il fatto che la Chiesa, pur investita da processi democratici dagli anni ’70, con il rinnovamento della catechesi, non è strutturata come una democrazia, ma come una autocrazia oligarchica, e ciò anche riguardo l’inquadramento del laicato. In essa i conflitti vi sono, ma vengono negati e si cerca di mantenerli, come dire, sotto traccia. La modalità con cui in genere i  laici si rapportano con le varie gerarchie che pretendono di dettare la linea è quella della sottomissione. Però la stessa gerarchia li vorrebbe anche capaci di influire nella società democratica intorno con gli strumenti e secondo i principi della democrazia. Questo è il nostro, di noi laici di fede, problema dei problemi nella Chiesa in cui siamo immersi. La conquista di una cittadinanza ecclesiale  democratica è ancora da costruire e in genere si è nella condizione di sudditi, quindi di sottomissione, della quale viene bene resa l’idea con l’immagine del gregge, che saremmo noi verso i nostri pastori terreni. Quella del gregge  è indubbiamente una figura evangelica, ma riferita al Buon Pastore soprannaturale: è solo lui che ci proponiamo di seguire e amare incondizionatamente. Ogni altra autorità, salvo per certe questioni e solo nella teologia e nel diritto canonico cattolici quella del Papa, non ha veramente titolo e legittimazione per sacralizzarsi, rifiutando di essere messa in questione, costituendosi in autocrazia, sottraendosi a processi democratici.  

 

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7. Democrazia: cominciare dal piccolo e dal basso 

  Di solito a scuola si studiano le istituzioni democratiche e le regole democratiche. Si accenna alla storia della nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza  politica popolare,  vale  a dire di massa, a un potere autocratico, quello del fascismo mussoliniano, che aveva sottomesso  le genti d’Italia. Si aggiunge che il risultato fu quello di una Liberazione politica e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà, dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra, che per gli italiani, a differenza degli stati che la combattevano contro gli stati del fascismo europeo, fu anche propriamente di Liberazione politica. Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da Regno che si era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in quanto condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un voto popolare ad un referendum  a cui parteciparono per la prima volta nella storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non fu solo di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità. Dalla fiducia nelle virtù della guerra, propagandata dal fascismo mussoliniano, all’anelito verso la pace determinato dalle gravi sofferenze belliche che avevano riguardato anche la popolazione civile, finita sottomessa al nazismo hitleriano, quindi ad un dispotismo straniero. Questa formazione alla pace, profondamente contrastante con quella, opposta, insegnata dall’ideologia fascista, si fece in particolare sull’esortazione del Papato, era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°, contenuta in una serie di radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore di encicliche, e che furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione popolare condotto dal clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali che coinvolsero in vario modo la gente di fede.  

  E’ alla formazione di questa mentalità che dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che dovrebbe farsi ad ogni livello tra i laici, per renderli capaci di operare in una società democratica per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della buona novella cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei laici che collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove possibile, e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della convivenza democratica, quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino con caratteri autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità personale. Ciò è largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e, in particolare, nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si articolano.  

  Spesso l’affanno per i servizi  che la parrocchia deve rendere alla comunità, in particolare quelli liturgici per gli eventi della vita e per il ciclo liturgico delle messe, come anche le attività di formazione di base e per il matrimonio, che finiscono per assorbire quasi interamente le energie del clero parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di gestione del patrimonio parrocchiale, in particolare di quello immobiliare, porta una certa burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia un po’ al modo di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il parroco decide tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta la parrocchia come ente ecclesiastico con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più rimangono consulenti. E le istituzioni minime di democrazia previste per questa attività di consulenza, l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio pastorale, il Consiglio  per gli affari economici  rimangono talvolta sulla carta, ma comunque contano poco. Non si sente, ad esempio, l’esigenza di esporre un bilancio  patrimoniale ed economico della gestione parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone, il suo indebitamento, e quali siano le sue esigenze.  

  Nell’ultima grande riforma della Chiesa Cattolica, quella attuata con il Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa - comunità, ma di fatto direi che siamo appena agli inizi degli sviluppi conciliari per quanto riguarda questo aspetto. Non c’è da aspettarsi molto dalla gerarchia, perché la legge del potere sociale è che  chi ce l’ha non lo lascia fino a quando non è costretto a farlo per l’emergere di poteri resistenti che pretendano condivisione. La riforma in senso democratico, dunque, può anche essere pensata  dall’alto, ma, se non si fa dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o trapasso nei sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va dal noto all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno forza i poteri che si vorrebbe ristrutturare.  

  Non basta quindi riconoscere, come ormai generalmente si riconosce, che il sistema di potere ecclesiastico cattolico è obsoleto, e oltretutto inefficiente e poco o per nulla trasparente: la critica deve essere accompagnata alla dimostrazione pratica che forme più democratiche di conduzione funzionano, e non disperdono il gregge, innanzi tutto perché c’è una mentalità che,  a prescindere dall’intervento di poteri autocratici, porta a considerare fondamentale il valore dell’unità. Ma c’è tra noi laici? Possiamo dire che, le rare volte che abbiamo voce in qualche cosa, fosse anche solo l’organizzazione delle iniziative per la festa del santo patrono della parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto vuol dire avere particolarmente a cuore l’unità? La mia esperienza con il laicato non è questa: in realtà spesso le discussioni generano contrasti che rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di meglio che cercare di prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del parroco o addirittura di chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti ad andarsene. Qualche anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla Pasqua, che nella nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola accesi dissidi sul modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa, organizzò una serie di incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in frizione. Ciascuno disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva bisogno di unità, che la via che aveva scelto era la migliore e che quella della separazione  era la sola soluzione che consentisse una convivenza pacifica. Notai in ogni gruppo di lavoro in cui eravamo stati divisi la presenza di capi delle comunità: questo evidentemente impediva di andare avanti nel processo di assimilazione reciproca. In genere i capi di comunità assumono le consuetudini del clero, si clericalizzano, e quindi tengono molto a marcare le differenze e consolidare la sottomissione degli altri al proprio potere. La via giusta credo sia, sulla base di quell’esperienza, non quella di riunirsi per discutere, ma per fare qualcosa insieme, nel contempo convenendo che, in quel fare, per la durata di quel fare, limitatamente a quel fare, si è sciolti da altri poteri che non sia quello collettivo dell’assemblea di coloro che si sono riuniti per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa costituiti per specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di estensione. Questo che ho descritto è uno spazio democratico di base. Il fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione, e quindi conoscenza. Si diffida di chi non si conosce. E la convivenza democratica si basa essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella basata sulla comune sottomissione sulla presenza di un’autorità autocratica comune alla quale tutti si sottomettono.  

 Ogni piccolo gruppo parrocchiale, e più in generale ogni piccolo gruppo sociale, dovrebbe essere trasformato in uno spazio democratico di base per fare tirocinio di convivenza democratica e per convincersi che la democrazia funziona. Ho letto che questa esperienza è molto diffusa in una delle culle della democrazia, in Gran Bretagna, dove ogni esigenza collettiva genera un comitato. Abbiamo ricevuto la parola comitato dal latino, lingua in cui si componeva della parole che significavano andare con, espressione corrispondente a quella sinodo che ci viene dal greco  antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in uno stesso modo (ordine di idee in cui si dà dell’eretico  chi non la pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel rimanere insieme sulla via nonostante  non la si pensi nello stesso modo. Questo è al centro della convivenza democratica. 

 

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 8. Democrazia: una questione di dignità. 

  «L’uomo è un vivente che costruisce e governa società»: questo è uno degli insegnamenti più noti del  filosofo greco Aristotele, vissuto nel Quarto secolo dell’era antica, quella che contiamo a ritroso partendo dall’anno in cui convenzionalmente poniamo la nascita di Gesù il Cristo. Una filosofa vissuta nel secolo scorso, Anna Arendt, osservò che esso non dice tutto delle persone umane nelle loro società. Questo perché la società è un modo di vivere in relazione e, dunque, è propria degli umani nelle loro relazioni, non dell’uomo  in sé. E costruire e governare società è appunto un modo degli umani di vivere in relazione tra loro, un modo di convivere.  E’ ciò che definiamo  politica.  

 Eppure è anche vero che la società dice molto di noi, ci determina. Siamo ciò che la società riconosce che siamo.  In società riceviamo un nome, ci vengono riconosciuti dei parenti, quindi linee di discendenza biologica che si ramificano e creano legami molto forti, ci viene data una lingua, quella che chiamiamo  madre perché non la impariamo a scuola ma da una delle relazioni umane più forti della  nostra vita, ma anche molto altro, ad esempio i ritmi della vita, il modo di vestire, il modo di atteggiarci quando siamo con gli altri, crescendo anche un ruolo sociale, che comprende l’esercizio di poteri e la soggezione a poteri altrui, la nostra posizione nelle dinamiche sociali di potere. Tanto che ci riesce difficile isolare una persona umana dalla sua società e che, quando muovendoci passiamo da una società ad un’altra, anche noi cambiamo: questa è una delle esperienze fondamentali del viaggio. Il monaco eremita si isola dalla sua società appunto per cambiare, lì dove cerca una relazione privilegiata con Colui che incessantemente cerca e che nessuno ha mai visto, è scritto, ma comunque gli è stato rivelato, e dunque attende di essere cambiato in e da  quella relazione.  

  Nel romanzo Robinson Crusoe, scritto dall’inglese Daniel Defoe all’inizio del Settecento, ci viene presentata l’esperienza di un naufrago su un’isola disabitata. Egli, raccogliendo cose scampate dal naufragio e costruendosi abitudini quotidiane di vita cerca di mantenersi nella civiltà di origine, ma recupera veramente la sua umanità solo quando gli giunge un indigeno, che libera da chi lo aveva fatto prigioniero per ucciderlo e mangiarlo (nella sua società di origine si praticava il cannibalismo), ed entra in relazione con lui assegnandogli anche un nuovo nome, Venerdì. Ecco il nucleo fondamentale dalla società, che manifesta immediatamente la politica perché richiede di essere governata. La governa Robinson, l’Europeo. Il contatto con il diverso ha stabilito delle relazioni di potere. Uscendo dalla società dei nativi e stabilendo una nuova relazione sociale con l’Europeo, e attraverso di lui con la società degli Europei che Robinson sta cercando di mantenere sull’isola, Venerdì  ne  ricava un nuovo nome, ma anche una nuova identità sociale. Ma anche Robinson, in fondo, ne esce cambiato. E’ un’esperienza comune nei grandi racconti di viaggio, reali o immaginari: la ritroviamo, ad esempio, nel racconto di Marco Polo, il veneziano che nel Duecento raggiunse la Cina e vi visse a lungo, divenendo anche un dignitario della corte dell’imperatore che all’epoca dominava quella società. 

   In sostanza: dalla società in cui viviamo immersi e dalla sua politica,  vale a dire da com’è costruita e governata, ci viene riconosciuta la nostra dignità sociale, che quindi ne dipende. Ecco perché non è la stessa cosa esservi solo sottomessi ad una politica, ma anche parteciparvi.  

  Ma, mi si può obiettare, dal punto di vista religioso riteniamo che  la nostra dignità di esseri umani preesista alla società e non dipenda veramente da essa, secondo quanto fu scritto a fine Settecento dai rivoluzionari nordamericani che proclamarono la loro Dichiarazione di indipendenza dalla monarchia inglese: 

«Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità. Che per assicurare questi diritti sono istituiti tra gli uomini i Governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che quando una qualsiasi Forma di Governo diventa distruttiva di questi fini, è Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e di istituire un nuovo Governo, ponendo il suo fondamento su questi principi e organizzando i suoi poteri in una forma tale che sembri ad esso la più adeguata per garantire la sua sicurezza e la sua felicità.» 

  Eppure, se quella nostra dignità non ci viene riconosciuta  socialmente ci sentiamo infelici. Per questo fu fatta quella rivoluzione: « è Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e di istituire un nuovo Governo» Ecco perché nella nostra Costituzione repubblicana, all’art.2,  si fa obbligo a tutti, questa è legge fondamentale della nostra società politica, appunto, di riconoscere  quella dignità 

 

Art. 2 della Costituzione. 

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. 

 

 Di solito questa norma viene presentata come diretta ai pubblici poteri, in primo luogo allo Stato, ma, in realtà, è diretta a tutti  coloro che esercitano una forma di potere, pubblico o privato, e anche religioso. Perché è in questione la Repubblica, quindi la convivenza sociale e politica di tutti noi, che si vuole anche democratica, è scritto nell’art.1 della Costituzione.  

 

Dall’art.1 della Costituzione.  

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. 

 

 Nessun potere, nemmeno quello che esercitiamo in famiglia e nelle altre realtà sociali di prossimità, e neanche quello di una Chiesa, neppure quello di una Chiesa come la nostra che abbia avuta riconosciuta una sovranità nelle cose sue, può ledere la dignità della persona umana, che è caratterizzata da quel complesso di diritti fondamentali che nella nostra Costituzione vengono definiti inviolabili. Questa dignità è colpita tutte le volte che in società una persona viene costretta solo a subire  il potere altrui, senza poter in alcun modo interagire, quindi  quando si è totalmente  in mani altrui. 

  Quest’idea, alla quale spesso non prestiamo abbastanza attenzione, è piuttosto ostica nei nostri ambienti religiosi, e in particolare nella nostra teologia e nella nostra pratica religiosa. Abbiamo, in particolare, diverse preghiere usate nelle pratiche di pietà dei laici che evocano una totale sottomissione non solo al Creatore, ma anche alla Chiesa intesa come realtà sociale, e quindi anche come sistema di potere costituito nella società religiosa in cui siamo stati accettati. Sono specchio di una condizione laicale che, con i principi che iniziarono ad essere accettati nelle leggi ecclesiastiche al tempo del Concilio Vaticano 2°, ormai oltre cinquant’anni fa, si voleva cambiare, perché non solo umiliante, ma anche controproducente per ciò che dal laico si pretende in religione quanto ad azione   sociale in un contesto democratico. 

  Di fatto, ad esempio, vediamo, che nella vita parrocchiale i laici contano ancora poco. Sono apprezzati se fanno quello che gli si dice, ma non li si ritiene, in genere, capaci di collaborare anche con la propria volontà,  in processi democratici in cui possano realmente influire sulle decisioni collettive. Ecco perché, in fondo, si ritiene inutile insegnare  la democrazia negli ambienti religiosi, come una volta si riteneva inutile istruire le donne.  

  Questa mancanza di istruzione democratica, fa sì che poi la convivenza sociale ne risenta, nelle relazioni interpersonali, nelle quali non ci si manifesta capaci di risolvere i contrasti, venendo subito alle mani, metaforicamente e non,  ma anche in altri aspetti della vita religiosa, nella quale ci si sente poco considerati, posti nella condizione, diciamo, di gregge, e alla quale quindi ci si disaffeziona, non solo perché umiliante, ma anche perché inutile per interagire collettivamente in società. Se possibile, infatti, si cerca di evitare le situazioni umilianti, e una di quelle più umilianti è l’essere costretti a fare cose inutili. In religione, invece, spesso l’umiliarsi è presentato come una virtù, ma una cosa è farlo verso il Creatore, altra è farla verso qualsiasi autorità umana, anche sacralizzata. 

  Da dove cominciare a provare se ci si può organizzare in modo diverso? Direi di farlo passo dopo passo, senza fretta od ambizioni eccessive, a cominciare dai piccoli gruppi e dalle piccole cose, per prendere confidenza con un metodo, quello democratico, con questa forma di convivenza sociale, verso le quali  ancora il clero, e il potere religioso è formalmente quasi tutto nelle sue mani, è piuttosto diffidente. Poi si può provare ad estendere questa esperienza fin dove possibile, fin dove si arriva allo scheletro autocratico del diritto canonico, e lì il processo sarà molto più lungo e complicato ma in definitiva riguarda meno la nostra vita quotidiana, fino ad esempio a tentare ciò che si è fatto altrove, vale a dire un Sinodo  parrocchiale nel quale non ci si limiti a stare a rimorchio del clero, ma si sia creativi.  

 

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9. Istituzioni e comunità 

9.1. Un’istituzione sociale è un’organizzazione che si vuole rendere stabile dandole regole che possano essere cambiate solo con precise procedure e ottenendole il riconoscimento da parte delle altre  istituzioni, in un sistema di relazioni ordinato secondo altre regole, per il quale alcune istituzioni sono tra  loro pari ordinate, alcune subordinate ed altre sovraordinate ad altre. 

  L’istituzione è stata una conquista culturale molto antica dell’umanità: essa, ci dicono gli antropologi, risale addirittura a tempi preistorici, quindi a quando ancora non ci si tramandava il ricordo del succedersi degli eventi sociali. Essa è strettamente collegata all’esercizio di poteri sociali, dalle cui relazioni emergono le regole di convivenza  pubblica, che è quella non limitata agli ambienti familiari e amicali. 

  Attraverso le istituzioni i poteri sociali diventano stabili e si perpetuano, addirittura di generazione in generazione. 

 Il potere politico, vale a dire quello che riguarda il governo delle società, e la proprietà, quel complesso di poteri che le persone esercitano sulle cose, ma che storicamente è stato imposto anche sugli esseri umani, sono i principali moventi per la creazione di istituzioni sociali. 

  Nelle narrazioni evangeliche ci si accorge presto che, nella vita delle prime comunità di seguaci del Maestro, l’istituzione non è presente, e questo anche se, per ragioni essenzialmente ideologiche, di legittimazione dell’esercizio di poteri religiosi si cerca in quella prima esperienza di vita di fede un accredito per istituzioni che furono di molto successive. 

  Una delle ragioni della mancata istituzionalizzazione religiosa nei primi tempi può essere vista nella mancanza di esigenze propriamente politiche e di problemi relativi alla proprietà. Verso la politica dell’epoca, si praticava un blando anarchismo e si cercava più che altro di marcare i confini tra la sfera pubblica, che è il campo della politica, e quello interpersonale, che fu lo spazio privilegiato per la prima diffusione della buona novella. 

  Hannah Arendt, in uno dei saggi raccolti nel libro Che cosa è la politica, pubblicato postumo nel 1993 e attualmente disponibile in commercio (anche in e-book) edito da Einaudi [si tratta di un testo di difficile lettura che richiede come minimo il livello di conoscenze che si raggiunge nell’ultimo anno delle scuole superiori], cita una frase dello scrittore  cristiano Tertulliano, vissuto nel 2° secolo, il quale esercitò una grande influenza nella formazione della prima teologia cristiana: «Niente è più estraneo a noi cristiani della cosa pubblica»  [dal trattato Apologetium, 38].  Arendt sostiene che le prime tendenze antipolitiche del cristianesimo si devono al fatto che all’origine fu centrato  su ciò che è essenziale per la convivenza umana nelle relazioni interpersonali. 

9.2. Sappiamo però che, già alla fine del 1° secolo della nostra era, le nostre comunità di fede presero a istituzionalizzarsi, a organizzarsi in istituzioni sociali, come emerge ad esempio nel pensiero di Clemente Roma, al quale è intitolata la nostra parrocchia, vescovo di Roma vissuto nel 1° secolo, da quello di Eusebio di Cesarea, vescovo di Cesarea in Palestina vissuto nel Quarto secolo, molto ascoltato dall’imperatore Costantino,  e da quello di Gelasio, vescovo di Roma vissuto nel Quinto secolo, e, soprattutto, da Agostino vescovo di Ippona, nell’attuale Algeria, uno dei maggiori teologi della cristianità  di tutti i tempi, vissuto tra il Quarto e il Quinto secolo. 

  Quella istituzionalizzazione delle Chiese cristiane fu una delle più importanti delle loro molte metamorfosi rispetto alle comunità delle origini. Una volta istituzionalizzate, in particolare intorno ad episcopati monarchici, esse presso ad entrate in relazione con le istituzioni politiche del loro tempo, divenendo anch’esse tali. 

  L’istituzionalizzazione specificamente politica delle nostre Chiese fu un fatto decisivo nella conquista dei popoli al cristianesimo, nella sua nuova versione istituzionalizzata, quando la pressione per la conversione venne sorretta anche dalla coercizione politica, e quindi anche dalla violenza politica. In questo contesto di istituzionalizzazione della religione, acquistò sempre più rilevanza il clero, costruito come classe sacerdotale, secondo una teologia che prendeva liberamente spunto dai modelli sacerdotali israelitici presenti nelle Scritture. Ma la acquistarono anche gli ordini religiosi monastici, e successivamente altri tipi di ordini religiosi, nei cui ambiti si rivivevano, ma in spazi ben delimitati dalle loro istituzioni, interni  ad esse,  le esperienze di libertà evangelica delle origini, quindi anche di separazione dalla politica. Clero e religiosi, istituzionalizzandosi, presero ad esercitare  poteri propriamente politici sul resto della società, ma anche ad accumulare proprietà. La Chiesa cattolica è accreditata oggi per essere uno dei maggiori proprietari di immobili in Italia e vi possiede, addirittura, una istituzione organizzata come uno stato, la Città del Vaticano a Roma. 

  Sia la politica che le proprietà vennero considerate strumenti essenziali per sostenere l’evangelizzazione dei popoli. Questa è la situazione nella quale ai tempi nostri ancora ci troviamo, anche se, negli anni ’60 del Novecento, prese corpo quel movimento di riforma religiosa volto a recuperare l’esperienza di comunità amicale delle origine, secondo una nuova teologia del “Popolo di Dio”, che assimila anche elementi dei principi democratici contemporanei. La riforma venne deliberata, infine, durante il Concilio Vaticano 2°, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965, ma in gran parte attende ancora di essere attuata, in particolare per quanto la posizione dei laici cattolici, tuttora piuttosto marginale e umiliante.  

  Tra quella teologia comunitaria e la teologia e la dottrina delle istituzioni religiose si  è conseguentemente creata una certa tensione, che si manifesta anche in una realtà sociale di base come la parrocchia. Infatti, una volta che si  riusciti a radunare una comunità viva, le regole delle istituzioni, tramandate addirittura da secoli, sono sentite come troppo coercitive e, soprattutto, poco rispettose della dignità delle persone che si sono incontrate comunitariamente, in quanto pretendono sottomissione a poteri autocratici e fondamentalmente insindacabili. D’altra parte, istituzioni religiose che tengano conto solo delle loro regole di organizzazione, con il principale obiettivo di perpetuarsi mantenendo certi poteri politici e sociale e la disponibilità delle loro proprietà, senza avere in sé comunità vive, e cioè attive e creative, perdono rapidamente attrattiva sociale, e, dove non possano più valersi della coercizione politica e della pressione ambientale al conformismo perbenistico per mantenere la loro presa sociale, perdono senso, rimanendo solo vuote burocrazie. 

 

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9.3. Radicare la democrazia nelle istituzioni a partire da tirocini  democratici nelle realtà di base. 

  Quando si cerca di spiegare di democrazia si parte in genere dalle regole, perché la si vede essenzialmente come uno dei metodi per fare ordine  nella società e, per questo, come molto legata alle sue istituzioni. La democrazia, quindi,  come adesione ad un sistema di regole vissute come norme di buona creanza  sociale, ma alla cui creazione non si   è collaborato. Un po’ come le convenzioni della lingua parlata e scritta e quelle sul modo di vestire. E le istituzioni come presidio di quelle regole, in una sorta di polizia  sociale.  

  Certo, anche la democrazia esprime istituzioni e quindi ha le sue regole, ma esse non ne sono la caratteristica principale e la sua ragion d’essere. Anche altri regimi politici non democratici hanno istituzioni e regole e, con esse,  si propongono di mantenere un ordine sociale, quindi, fondamentalmente,  di stabilizzare  un ceto assetto di potere sociale, secondo il quale c’è chi domina e chi è dominato e chi domina vive meglio. In democrazia, invece, ci si propone di assecondare i moti sociali che pongono in conflitto i gruppi che compongono le società, consentendo il cambiamento sociale, e quindi anche di regole e istituzioni, senza che le dinamiche di conflitto distruggano le società o generino infelicità sociale nei processi di dissoluzione o di repressione. Il suo metodo politico è quello della limitazione di ogni potere mediante la pressione della partecipazione popolare attiva mediante dialogo sociale e persuasione personale. Il principio fondante della democrazia è che nessuno potere sociale sia illimitato: questo fa spazio per la partecipazione. Proprio perché ci si propone di assecondare il movimento sociale che deriva dal mutare fisiologico delle società, la democrazia è tenuta programmaticamente in una condizione di instabilità controllata. Proprio quella che i regimi non democratici temono. 

  La nostra dottrina sociale  è ancora piuttosto affascinata dall’idea che, a livello mondiale, ci debba essere, e vada quindi istituita, un’autorità superiore che  metta ordine nel mondo e lo mantenga, mettendo in tal modo fine ai confitti sociali. E’ il modo in cui si ripropone il modello medievale dell’impero religioso. In questa concezione il governo della società è essenzialmente affare di istituzioni,  che si vorrebbero coordinate tra loro in modo che ce ne sia una  al vertice alla quale sia riconosciuto il massimo potere e che quindi spenga i conflitti. Fino al magistero di papa Francesco, i Papi nella loro dottrina sociale in genere si rivolsero, infatti, ai governanti,  vale a dire alle persone che esercitavano autorità politica nelle istituzioni di governo, dando loro dei precetti d’azione, che, al di là della loro formulazione come regole solamente morali, avevano la natura di direttive politiche, come quella, che ricorre spesso dagli anni ’40 del secolo scorso, di porre fine alle guerre. Questo accade perché la teologia della dottrina sociale in materia di democrazia è veramente poco sviluppata, anche nel magistero di papa Francesco, e questo sebbene, in esso, abbia un posto molto rilevante l’idea di popolo. In realtà la democrazia è essenzialmente cosa che riguarda coloro che, nella concezione politica che distingue governanti  e governati,  sono indicati come i  governati. È infatti un metodo che li vuole elevare  alla partecipazione al governo della società senza mai farne dei governanti, vale a dire dei monopolisti del potere politico mediante il controllo delle istituzioni. Quindi vuole abolire la distinzione tra governanti  governati. La partecipazione democratica al governo, in quanto pluralistica e programmaticamente nonviolenta,  può avvenire solo nel dialogo,  nel quale  ai partecipanti sia riconosciuta la medesimo dignità  politica e sociale: questa  è la politica  secondo la concezione democratica. E’ molto chiaro che la nostra Chiesa è ancora strutturata, invece, secondo il modello governanti / governati e quindi quando superficialmente, alle proposte dei cristiani persuasi della democrazia, si sbotta “Ma la Chiesa non è una democrazia”, si dice una cosa vera. Ma se poi si vuole anche intendere che la Chiesa non potrà essere mai una democrazia, perché le è connaturata l’autocrazia secondo la quale  è stata organizzata fin dall’alto Medioevo, e la religione svanirebbe con una diversa organizzazione, si dice una cosa senza fondamento, perché, non solo, dal punto di vista concettuale,  la Chiesa potrebbe senz’altro assimilare i processi democratici senza alcun danno per l’essenziale della fede, anzi con molti vantaggi per essa, ma dall’esperienza storica di altre Chiese cristiane emerge che la democrazia può effettivamente essere realizzata anche in religione. La profonda diffidenza delle istituzioni religiose cattoliche, quindi dei nostri governanti  religiosi, vale a dire della gerarchia  religiosa cattolica, verso i processi democratici, comporta che la formazione religiosa non comprende ancora, se non per il ceto intellettuale, una formazione ai processi democratici e, anche dove si fa, con la prescrizione di agire democraticamente solo fuori  della Chiesa, pena il disconoscimento e l’emarginazione. Questo è stato finora il destino di chi ha cercato di agire e pensare diversamente.  La nostra Chiesa è fondamentalmente ancora organizzata come un’autocrazia sacrale che umilia i governati. E questa umiliazione, vista come manifestazione di obbedienza filiale, di docilità, viene addirittura presentata come una virtù. Questo effettivamente ostacola i processi democratici che richiedono, invece,  una elevazione  in dignità e la consapevolezza  della propria dignità sociale. 

  Ecco che cosa la filosofa Hanna Arendt scrisse su questi temi [da uno dei saggi raccolti nel libro Che cosa è la politica, edito da Einaudi anche in e-book]: 

 

«[…] Dietro i pregiudizi  nei confronti della politica si celano la paura che l’umanità possa autoeliminarsi  mediante la politica e gli strumenti di violenza di cui dispone , e, in stretta connessione con tale paura, la speranza che l’umanità si ravveda e, anziché se stessa, tolga di mezzo la politica, ricorrendo a un governo universale che dissolva  lo stato in una macchina amministrativa, risolva i conflitti politici per via burocratica e sostituisca gli eserciti con schiere di poliziotti. Certo tale speranza è del tutto utopica se per politica si intende, come normalmente avviene una relazione tra governanti e governati. In questa ottica, invece di una abolizione del politico otterremmo una forma dispotica di governo di dimensioni mostruose, in cui lo iato tra governanti e governati assumerebbe proporzioni così  gigantesche da impedire qualunque ribellione,  e tanto più qualunque forma di controllo dei governanti da parte dei governati. Tale carattere dispotico non cambierebbe neppure qualora in quel regime mondiale non si potesse più individuare una persona, un despota; infatti il dominio burocratico, il dominio mediante l’anonimità degli uffici, non è meno dispotico perché “nessuno” lo esercita; al contrario: è ancora più terribile, perché nessuno può parare o presentare reclamo a quel Nessuno. Se però per politico si intende una sfera del mondo dove gli uomini  si presentano primariamente come soggetti attivi, e dove conferiscono alle umane faccende una stabilità che altrimenti non le riguarderebbe, la speranza appare tutt’altro che utopica. L’eliminazione degil uomini in quanto soggetti attivi è riuscita spesso nella storia, sebbene non a livello mondiale: sia sotto forma di quella tirannide  che oggi ci sembra antiquata, dove la volontà di un uomo pretendeva totale libertà di azione, sia sotto forma del moderno totalitarismo, dove si vorrebbe liberare la presunta superiorità  dei processi e delle “energie storiche” impersonali e sottomettervi gli uomini.» 

 

  Data l’importanza politica che la nostra Chiesa ha sempre avuto nelle questioni italiane, tutto ciò ha inciso molto negativamente nell’acculturazione democratica della nostra gente, in particolare a partire dal durissimo contrasto del Papato, nell’Ottocento, contro l’irredentismo italiano durante il nostro Risorgimento. Tra pochi giorni ricorre il centocinquantesimo anniversario della soppressione, mediante conquista militare cruenta, con decine di morti da ambo le parti,  dello Stato Pontificio da parte del Regno d’Italia, il 20 Settembre 1870.  Una istituzione ormai obsoleta, quel regno del Papato nel Centro Italia, rifiutava ostinatamente di evolvere, e, anche in quel caso, come sempre quando si affrontano temi simili, fu questione di potere politico e di proprietà, non di religione (tra i precetti evangelici, quello di costituire un regno  territoriale religioso  in Italia - o altrove - non c’è). Ma la tragedia più grande non fu quella, quanto invece la susseguente decisione del Papa all’epoca regnante, Giovanni Battista Mastai Ferretti - Pio 9°, nel 2000 proclamato beato, di ordinare ai cattolici, sotto pena di scomunica, di non partecipare alla democrazia nazionale nel Regno d’Italia, e questo per sostenere le rivendicazioni territoriali del Papato su Roma. E, in effetti, il governo nazionale del Regno d’Italia, quello che aveva deciso la conquista del regno pontificio, era espresso da una democrazia liberale, anche se escludeva ancora le donne, gli incolti, i meno abbienti. La democrazia e il liberalismo,  che della democrazia aveva posto i fondamenti culturali, erano temuti dal Papato come fonte di insubordinazione,  di usurpazione di poteri sacralizzati  e di predazione dei patrimoni delle istituzioni religiose. Contro di essi si cercò di far insorgere il popolo  italiano nel presupposto che fosse rimasto nonostante tutto  nella condizione di gregge  sottomesso all’autocrazia sacrale del Papato. Questo sostanzialmente l’ordine di idee sotteso anche alla prima dottrina sociale, in dura polemica politica con il liberalismo e il socialismo (il movimento che intendeva promuovere l’elevazione sociale del proletariato - proprio così definito nell’enciclica Le novità,  del 1891, del papa Leone 13°- Vincenzo Gioacchino Pecci). In realtà i processi democratici che da fine Ottocento coinvolsero anche il laicato cattolico portarono poi, in un lungo e travagliato processo nel quale l’Azione Cattolica fu protagonista, a ridefinirne il senso, appunto in direzione dei principi democratici. Questo consentì poi ai cattolici democratici italiani di avere un ruolo assolutamente di primo piano nella costruzione della nuova Repubblica democratica, dopo la vittoria sul fascismo mussoliniano,  e poi nel governo nazionale fino al 1994. Ciò però fu possibile solo quando, dal 1939, il Papato richiese  il superamento del fascismo mediante processi democratici, con una serie di radiomessaggi che costituirono la nuova base ideologica in particolare per i gruppi intellettuali in Azione Cattolica. Quindi, in fondo,  l’emancipazione politica  dall’autocrazia religiosa è ancora da conquistare. Finché non ci sarà dal Papato un via libera per costruire, all’interno del pensiero sociale cattolica, una sezione sulla democrazia che trovi base anche in una teologia sulla democrazia (la dottrina sociale è considerata una branca della teologia), è poco probabile che accada qualcosa di nuovo e che quindi si inneschino processi di reale riforma.  

  Questo non toglie che si possa cominciare dalla base, nelle realtà di prossimità come le parrocchie,  da un tirocinio pratico  di democrazia, negli spazi (pochi), lasciati liberi, per acquisirne dimestichezza e imparare come fare, e anche per convincersi che funziona. Questo tirocinio potrebbe poi essere progressivamente esteso, tenendo conto che, come in genere si scrive, la democrazia è in crisi un po’ in tutti i settori della società, anche in quelli che la praticavano, e, in questa condizione, assumono un rilievo preponderante le istituzioni, però sempre meno collegate a una vita democratica diffusa e quindi sentite sempre più distanti e indifferenti, e quindi avviate verso una sorta di tirannia istituzionale,  in quella che recentemente si è denominata, con una certa ironia, democratura, vale a dire un sistema sostanzialmente di dittatura  ma formalmente ancora democratico. 

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro - Valli