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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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Il sito della parrocchia:

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sabato 16 marzo 2019

Dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa) - Sollicitudo rei socialis, del papa Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. L’autentico sviluppo umano, 1987. From the encyclical The social concern (of the Church) - Sollicitudo rei socialis, of the pope Karol Wojtyla - John Paul 2^. Authentic human development.


Dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa)  - Sollicitudo rei socialis, del papa Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° (1987). L’autentico sviluppo umano.
From the encyclical The social concern (of the Church) - Sollicitudo rei socialis, of the pope Karol Wojtyla - John Paul 2^ (1987). Authentic human development.

My thoughts are translated into English with the help of Google Translator. After the Italian text of the passabes of the encyclical,  which I quote below, ther’is the  translation in english in the text circulated by the Holy See.
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Nota: Il papa Giovanni Paolo 2° pubblicò l’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa)  - Sollicitudo rei socialis  nell’anniversario ventennale della precedente enciclica Lo sviluppo dei popoli - Populorum progressio  pubblicata nel 1967 dal papa Paolo 6°, in un’epoca di vivissimi fermenti sociali in tutta Europa, dai quali emerse l’attuale Unione Europea, che fu costruita anche tenendo conto dell’orientamento politico del Magistero di quei Papi. In particolare, nel regno del papa Giovanni Paolo 2°. la Chiesa cattolica espresse un compiuto disegno ideologico di ricostruzione di una civiltà europea che comprendesse la parte Occidentale, ad economia capitalista e regimi politici liberali democratici, e quella Orientale, che usciva dall’economia comunista e da regimi politici marxisti leninisti. All’epoca, negli anni ’80 del secolo scorso, essa ebbe un enorme credito politico. L’integrazione politica degli stati usciti dal comunismo di scuola sovietica venne guidata dai democratici cristiani tedeschi, così come la riforma delle istituzioni europee per adattarle a quella nuova realtà politica. Un ruolo importante ebbero anche i democratici cristiani italiani.
Le tre encicliche sociali del papa Giovanni Paolo 2°  (Lavorando - Laborem exercens - 1981, La sollecitudine sociale della Chiesa - Sollicitudo rei socialis -1987 e Il centenario - Centesimus Annus - 1991) costituiscono un manuale di politica ancora molto attuale. Fin dalla prima enciclica sociale dei tempi moderni, la Le novità - Rerum  novarum, del 1891, quel tipo di documento del Magistero è un frutto di un lavoro collettivo, non solo del Papa che lo commissiona, ne supervisiona la elaborazione e ne ordina la pubblicazione.  Comunque, il pensiero del Papa vi si riflette sempre e questo si nota in particolare nelle encicliche sociali del papa Giovanni Paolo 2°, molto segnate dalla sua esperienza personale della politica europea dei suoi tempi. Egli visse con sofferenza la separazione tra Europa orientale ed Europa occidentale e spinse gli europei di allora a superarla. Egli era anche convinto che fosse giusto superare la politica dei due blocchi imperialisti dominati dagli Stati Uniti d’America e dall’Unione Sovietica e, più in generale, dell’imperialismo.
 Nel brano che segue, tratto dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa)  - Sollicitudo rei socialis, viene condannato l’ideale politico e sociale del supersviluppo, che è alla base dell’ideologia del liberismo capitalistico.  
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.
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IV - L'autentico sviluppo umano
27. Lo sguardo che l'Enciclica [Lo sviluppo dei popoli - Populorum progressio,  del papa Paolo VI, 1967] ci invita a rivolgere al mondo contemporaneo ci fa costatare, anzitutto, che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita.  Simile concezione, legata ad una nozione di «progresso» dalle connotazioni filosofiche di tipo illuministico, piuttosto che a quella di «sviluppo»,  adoperata in senso specificamente economico-sociale, sembra posta ora seriamente in dubbio, specie dopo la tragica esperienza delle due guerre mondiali, della distruzione pianificata e in parte attuata di intere popolazioni e dell'incombente pericolo atomico. Ad un ingenuo ottimismo meccanicistico è subentrata una fondata inquietudine per il destino dell'umanità. 
28. Al tempo stesso, però, è entrata in crisi la stessa concezione «economica» o «economicista», legata al vocabolo sviluppo. Effettivamente oggi si comprende meglio che la pura accumulazione di beni e di servizi, anche a favore della maggioranza, non basta a realizzare la felicità umana. Né, di conseguenza, la disponibilità dei molteplici benefici reali, apportati negli ultimi tempi dalla scienza e dalla tecnica, compresa l'informatica, comporta la liberazione da ogni forma di schiavitù. Al contrario, l'esperienza degli anni più recenti dimostra che, se tutta la massa delle risorse e delle potenzialità, messe a disposizione dell'uomo, non è retta da un intendimento morale e da un orientamento verso il vero bene del genere umano, si ritorce facilmente contro di lui per opprimerlo. Dovrebbe essere altamente istruttiva una sconcertante costatazione del più recente periodo: accanto alle miserie del sottosviluppo, che non possono essere tollerate, ci troviamo di fronte a una sorta di supersviluppo, egualmente inammissibile, perché, come il primo, è contrario al bene e alla felicità autentica. Tale supersviluppo, infatti, consistente nell'eccessiva disponibilità di ogni tipo di beni materiali in favore di alcune fasce sociali, rende facilmente gli uomini schiavi del «possesso» e del godimento immediato, senza altro orizzonte che la moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose, che già si posseggono, con altre ancora più perfette. É la cosiddetta civiltà dei «consumi», o consumismo, che comporta tanti «scarti» e «rifiuti». Un oggetto posseduto, e già superato da un altro più perfetto, è messo da parte, senza tener conto del suo possibile valore permanente per sé o in favore di un altro essere umano più povero. Tutti noi tocchiamo con mano i tristi effetti di questa cieca sottomissione al puro consumo: prima di tutto, una forma di materialismo crasso, e al tempo stesso una radicale insoddisfazione, perché si comprende subito che -se non si è premuniti contro il dilagare dei messaggi pubblicitari e l'offerta incessante e tentatrice dei prodotti -quanto più si possiede tanto più si desidera mentre le aspirazioni più profonde restano insoddisfatte e forse anche soffocate.
L'Enciclica di Papa Paolo VI segnalò la differenza, al giorno d'oggi così frequentemente accentuata, tra l'«avere» e l'«essere»,  in precedenza espressa con parole precise dal Concilio Vaticano II.  L'«avere» oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla maturazione e all'arricchimento del suo «essere», cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale. Certo, la differenza tra «essere» e «avere», il pericolo inerente a una mera moltiplicazione o sostituzione di cose possedute rispetto al valore dell'«essere» non deve trasformarsi necessariamente in un'antinomia. Una delle più grandi ingiustizie del mondo contemporaneo consiste proprio in questo: che sono relativamente pochi quelli che possiedono molto, e molti quelli che non possiedono quasi nulla. É l'ingiustizia della cattiva distribuzione dei beni e dei servizi destinati originariamente a tutti . Ecco allora il quadro: ci sono quelli - i pochi che possiedono molto - che non riescono veramente ad «essere», perché, per un capovolgimento della gerarchia dei valori, ne sono impediti dal culto dell'«avere»; e ci sono quelli - i molti che possiedono poco o nulla -, i quali non riescono a realizzare la loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni indispensabili. Il male non consiste nell'«avere» in quanto tale, ma nel possedere in modo irrispettoso della qualità e dell'ordinata gerarchia dei beni che si hanno. Qualità e gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro disponibilità all'«essere» dell'uomo ed alla sua vera vocazione. Con ciò resta dimostrato che, se lo sviluppo ha una necessaria dimensione economica, poiché deve fornire al maggior numero possibile degli abitanti del mondo la disponibilità di beni indispensabili per «essere», tuttavia non si esaurisce in tale dimensione. Se viene limitato a questa, esso si ritorce contro quelli che si vorrebbero favorire. Le caratteristiche di uno sviluppo pieno, «più umano», che-senza negare le esigenze economiche-sia in grado di mantenersi all'altezza dell'autentica vocazione dell'uomo e della donna, sono state descritte da Paolo VI
29. Uno sviluppo non soltanto economico si misura e si orienta secondo questa realtà e vocazione dell'uomo visto nella sua globalità, ossia secondo un suo parametro interiore. Egli ha senza dubbio bisogno dei beni creati e dei prodotti dell'industria, arricchita di continuo dal progresso scientifico e tecnologico. E la disponibilità sempre nuova dei beni materiali, mentre viene incontro alle necessità, apre nuovi orizzonti. Il pericolo dell'abuso consumistico e l'apparizione delle necessità artificiali non debbono affatto impedire la stima e l'utilizzazione dei nuovi beni e risorse posti a nostra disposizione; in ciò dobbiamo, anzi, vedere un dono di Dio e una risposta alla vocazione dell'uomo, che si realizza pienamente in Cristo. Ma per conseguire il vero sviluppo e necessario non perder mai di vista detto parametro, che è nella natura specifica dell'uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza (Gen1,26). Natura corporale e spirituale, simboleggiata nel secondo racconto della creazione dai due elementi: la terra, con cui Dio plasma il fisico dell'uomo, e l'alito di vita, soffiato nelle sue narici (Gen 2,7). L'uomo così viene ad avere una certa affinità con le altre creature: è chiamato a utilizzarle a occuparsi di esse e sempre secondo la narrazione della Genesi (Gen 2,15) è posto nel giardino col compito di coltivarlo e custodirlo, al di sopra di tutti gli altri esseri collocati da Dio sotto il suo dominio (Gen 1,25). Ma nello stesso tempo l'uomo deve rimanere sottomesso alla volontà di Dio, che gli prescrive limiti nell'uso e nel dominio delle cose (Gen 2,16), così come gli promette l'immortalità (Gen 2,9); (Sap 2,23). L'uomo, pertanto, essendo immagine di Dio, ha una vera affinità anche con lui.
Sulla base di questo insegnamento, lo sviluppo non può consistere soltanto nell'uso, nel dominio e nel possesso indiscriminato delle cose create e dei prodotti dell'industria umana, ma piuttosto nel subordinare il possesso, il dominio e l'uso alla somiglianza divina dell'uomo e alla sua vocazione all'immortalità. Ecco la realtà trascendente dell'essere umano, la quale appare partecipata fin dall'origine ad una coppia di uomo e donna (Gen 1,27) ed è quindi fondamentalmente sociale. 
30. Secondo la Sacra Scrittura, dunque, la nozione di sviluppo non è soltanto «laica» o «profana», ma appare anche, pur con una sua accentuazione socio-economica, come l'espressione moderna di un'essenziale dimensione della vocazione dell'uomo. L'uomo, infatti, non è stato creato, per così dire, immobile e statico. La prima raffigurazione, che di lui offre la Bibbia, lo presenta senz'altro come creatura e immagine, definita nella sua profonda realtà dall'origine e dall'affinità, che lo costituiscono. Ma tutto questo immette nell'essere umano, uomo e donna, il germe e l'esigenza di un compito originario da svolgere, sia ciascuno individualmente sia come coppia. Il compito è di «dominare» sulle altre creature, «coltivare il giardino», ed è da assolvere nel quadro dell'ubbidienza alla legge divina e, quindi, nel rispetto dell'immagine ricevuta, fondamento chiaro del potere di dominio, riconosciutogli in ordine al suo perfezionamento (Gen 1,26); (Gen 2,12); (Sap 9,2). Quando l'uomo disobbedisce a Dio e rifiuta di sottomettersi alla sua potestà, allora la natura gli si ribella e non lo riconosce più come «signore», perché egli ha appannato in sé l'immagine divina. L'appello al possesso e all'uso dei mezzi creati rimane sempre valido, ma dopo il peccato l'esercizio ne diviene arduo e carico di sofferenze (Gen 3,17). Infatti, il successivo capitolo della Genesi ci mostra la discendenza di Caino, la quale costruisce «una città», si dedica alla pastorizia, si dà alle arti (la musica) e alla tecnica (la metallurgia), mentre al tempo stesso si comincia «ad invocare il nome del Signore» (Gen 4,17). La storia del genere umano, delineata dalla Sacra Scrittura, anche dopo la caduta nel peccato è una storia di realizzazioni continue, che, sempre rimesse in questione e in pericolo dal peccato, si ripetono, si arricchiscono e si diffondono come risposta alla vocazione divina, assegnata sin dal principio all'uomo e alla donna (Gen 1,26) e impressa nell'immagine, da loro ricevuta.
É logico concludere, almeno da parte di quanti credono nella Parola di Dio, che lo «sviluppo» di oggi deve essere visto come un momento della storia iniziata con la creazione e di continuo messa in pericolo a motivo dell'infedeltà alla volontà del Creatore, soprattutto per la tentazione dell'idolatria; ma esso corrisponde fondamentalmente alle premesse iniziali. Chi volesse rinunciare al compito, difficile ma esaltante, di elevare la sorte di tutto l'uomo e di tutti gli uomini, sotto il pretesto del peso della lotta e dello sforzo incessante di superamento, o addirittura per l'esperienza della sconfitta e del ritorno al punto di partenza, verrebbe meno alla volontà di Dio creatore. Sotto questo aspetto nell'Enciclica Laborem exercens ho fatto riferimento alla vocazione dell'uomo al lavoro, per sottolineare il concetto che e sempre lui il protagonista dello sviluppo.  Anzi, lo stesso Signore Gesù, nella parabola dei talenti, mette in rilievo il severo trattamento riservato a chi osò nascondere il dono ricevuto: «Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso [...]. Toglietegli, dunque, il talento e datelo a chi ha dieci talenti» (Mt 25,26). A noi, che riceviamo i doni di Dio per farli fruttificare, tocca «seminare» e «raccogliere». Se non lo faremo, ci sarà tolto anche quello che abbiamo. L'approfondimento di queste severe parole potrà spingerci a impegnarci con più decisione nel dovere, oggi per tutti urgente di collaborare allo sviluppo pieno degli altri: «Sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini». 
31. La fede in Cristo Redentore, mentre illumina dal di dentro la natura dello sviluppo, guida anche nel compito della collaborazione. Nella Lettera di san Paolo ai Colossesi leggiamo che Cristo è «il primogenito di tutta la creazione» e che «tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui» (Col 1,15). Infatti, ogni cosa «ha consistenza in lui», perché «piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose» (Col 1,20). In questo piano divino, che comincia dall'eternità in Cristo, «immagine» perfetta del Padre, e che culmina in lui, «primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,15), s'inserisce la nostra storia, segnata dal nostro sforzo personale e collettivo di elevare la condizione umana, superare gli ostacoli sempre risorgenti lungo il nostro cammino, disponendoci così a partecipare alla pienezza che «risiede nel Signore» e che egli comunica «al suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1,18); (Ef 1,22), mentre il peccato, che sempre ci insidia e compromette le nostre realizzazioni umane è vinto e riscattato dalla «riconciliazione» operata da Cristo (Col 1, 20).
Qui le prospettive si allargano. Il sogno di un «progresso indefinito» si ritrova trasformato radicalmente dall'ottica nuova aperta dalla fede cristiana, assicurandoci che tale progresso è possibile solo perché Dio Padre ha deciso fin dal principio di rendere l'uomo partecipe della sua gloria in Gesù Cristo risorto, «nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati» (Ef 1,7), e in lui ha voluto vincere il peccato e farlo servire per il nostro bene più grande,  che supera infinitamente quanto il progresso potrebbe realizzare. Possiamo dire allora-mentre ci dibattiamo in mezzo alle oscurità e alle carenze del sottosviluppo e del supersviluppo-che un giorno «questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità» (1 Cor 15,54), quando il Signore «consegnerà il Regno a Dio Padre» (1 Cor 15,24) e tutte le opere e azioni, degne dell'uomo, saranno riscattate.
La concezione della fede inoltre, mette bene in chiaro le ragioni che spingono la Chiesa a preoccuparsi della problematica dello sviluppo, a considerarlo un dovere del suo ministero pastorale, a stimolare la riflessione di tutti circa la natura e le caratteristiche dell'autentico sviluppo umano. Col suo impegno essa desidera, da una parte, mettersi al servizio del piano divino inteso a ordinare tutte le cose alla pienezza che abita in Cristo (Col 1,19), e che egli comunicò al suo corpo, e dall'altra, rispondere alla sua vocazione fondamentale di «sacramento», ossia «segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano». 
Alcuni Padri della Chiesa si sono ispirati a tale visione per elaborare a loro volta in forme originali, una concezione circa il significato della storia e il lavoro umano, come indirizzato a un fine che lo supera e definito sempre dalla relazione con l'opera di Cristo. In altre parole, è possibile ritrovare nell'insegnamento patristico una visione ottimistica della storia e del lavoro, ossia del valore perenne delle autentiche realizzazioni umane, in quanto riscattate dal Cristo e destinate al Regno promesso.  Così fa parte dell'insegnamento e della pratica più antica della Chiesa la convinzione di esser tenuta per vocazione-essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi membri-ad alleviare la miseria dei sofferenti, vicini e lontani, non solo col «superfluo», ma anche col «necessario». Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino; al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo.  Come si è già notato, ci viene qui indicata una «gerarchia di valori»-nel quadro del diritto di proprietà-tra l'«avere» e l'«essere», specie quando l'«avere» di alcuni può risolversi a danno dell'«essere» di tanti altri. Nella sua Enciclica Papa Paolo VI sta nella linea di tale insegnamento, ispirandosi alla Costituzione pastorale Gaudium et spes.  Per parte mia, desidero insistere ancora sulla sua gravità e urgenza, implorando dal Signore forza a tutti i cristiani per poter passare fedelmente all'applicazione pratica.
32. L'obbligo di impegnarsi per lo sviluppo dei popoli non è un dovere soltanto individuale, né tanto meno individualistico, come se fosse possibile conseguirlo con gli sforzi isolati di ciascuno. Esso è un imperativo per tutti e per ciascuno degli uomini e delle donne, per le società e le Nazioni, in particolare per la Chiesa cattolica e per le altre Chiese e Comunità ecclesiali, con le quali siamo pienamente disposti a collaborare in questo campo. In tal senso, come noi cattolici invitiamo i fratelli cristiani a partecipare alle nostre iniziative, cosi ci dichiariamo pronti a collaborare alle loro, accogliendo gli inviti che ci sono rivolti. In questa ricerca dello sviluppo integrale dell'uomo possiamo fare molto anche con i credenti delle altre religioni, come del resto si sta facendo in diversi luoghi. La collaborazione allo sviluppo di tutto l'uomo e di ogni uomo, infatti, è un dovere di tutti verso tutti e deve, al tempo stesso, essere comune alle quattro parti del mondo: Est e Ovest, Nord e Sud; o, per adoperare il termine oggi in uso, ai diversi «mondi». Se, al contrario, si cerca di realizzarlo in una sola parte, o in un solo mondo, esso è fatto a spese degli altri; e là dove comincia, proprio perché gli altri sono ignorati, si ipertrofizza e si perverte. I popoli o le Nazioni hanno anch'essi diritto al proprio pieno sviluppo, che, se implica-come si è detto-gli aspetti economici e sociali, deve comprendere pure la rispettiva identità culturale e l'apertura verso il trascendente. Nemmeno la necessità dello sviluppo può essere assunta come pretesto per imporre agli altri il proprio modo di vivere o la propria fede religiosa. 
33. Né sarebbe veramente degno dell'uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli. Oggi, forse più che in passato, si riconosce con maggior chiarezza l'intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo. L'intrinseca connessione tra sviluppo autentico e rispetto dei diritti dell'uomo ne rivela ancora una volta il carattere morale: la vera elevazione dell'uomo, conforme alla vocazione naturale e storica di ciascuno non si raggiunge sfruttando solamente l'abbondanza dei beni e dei servizi, o disponendo di perfette infrastrutture. Quando gli individui e le comunità non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali, fondate sulla dignità della persona e sull'identità propria di ciascuna comunità, a cominciare dalla famiglia e dalle società religiose, tutto il resto-disponibilità di beni, abbondanza di risorse tecniche applicate alla vita quotidiana, un certo livello di benessere materiale- risulterà insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile. Ciò afferma chiaramente il Signore nel Vangelo, richiamando l'attenzione di tutti sulla vera gerarchia dei valori: «Qual vantaggio avrà l'uomo, se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?» (Mt 16,26).
Un vero sviluppo, secondo le esigenze proprie dell'essere umano, uomo o donna, bambino, adulto o anziano, implica soprattutto da parte di quanti intervengono attivamente in questo processo e ne sono responsabili una viva coscienza del valore dei diritti di tutti e di ciascuno nonché della necessità di rispettare il diritto di ognuno all'utilizzazione piena dei benefici offerti dalla scienza e dalla tecnica.
Sul piano interno di ogni Nazione, assume grande importanza il rispetto di tutti i diritti: specialmente il diritto alla vita in ogni stadio dell'esistenza; i diritti della famiglia, in quanto comunità sociale di base, o «cellula della società»; la giustizia nei rapporti di lavoro; i diritti inerenti alla vita della comunità politica in quanto tale; i diritti basati sulla vocazione trascendente dell'essere umano, a cominciare dal diritto alla libertà di professare e di praticare il proprio credo religioso. Sul piano internazionale, ossia dei rapporti tra gli Stati o, secondo il linguaggio corrente, tra i vari «mondi», è necessario il pieno rispetto dell'identità di ciascun popolo con le sue caratteristiche storiche e culturali. É indispensabile, altresì, come già auspicava l'Enciclica Populorum Progressio, riconoscere a ogni popolo l'eguale diritto «ad assidersi alla mensa del banchetto comune»»,  invece di giacere come Lazzaro fuori della porta, mentre «i cani vengono a leccare le sue piaghe» (Lc 16,21). Sia i popoli che le persone singole debbono godere dell'eguaglianza fondamentale,  su cui si basa, per esempio, la Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite: eguaglianza che è il fondamento del diritto di tutti alla partecipazione al processo di pieno sviluppo.
Per essere tale, lo sviluppo deve realizzarsi nel quadro della solidarietà e della libertà, senza sacrificare mai l'una e l'altra per nessun pretesto. Il carattere morale dello sviluppo e la sua necessaria promozione sono esaltati quando c'è il più rigoroso rispetto di tutte le esigenze derivanti dall'ordine della verità e del bene, propri della creatura umana. Il cristiano, inoltre, educato a vedere nell'uomo l'immagine di Dio, chiamato alla partecipazione della verità e del bene, che è Dio stesso, non comprende l'impegno per lo sviluppo e la sua attuazione fuori dell'osservanza e del rispetto della dignità unica di questa «immagine». In altre parole, il vero sviluppo deve fondarsi sull'amore di Dio e del prossimo, e contribuire a favorire i rapporti tra individui e società. Ecco la «civiltà dell'amore», di cui parlava spesso il Papa Paolo VI. 
34. Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere neppure dal rispetto per gli esseri che formano la natura visibile e che i Greci, alludendo appunto all'ordine che la contraddistingue, chiamavano il «cosmo». Anche tali realtà esigono rispetto, in virtù di una triplice considerazione, su cui giova attentamente riflettere. La prima consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri viventi o inanimati - animali, piante, elementi naturali -come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche. Al contrario, occorre tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato, ch'è appunto il cosmo.
La seconda considerazione, invece, si fonda sulla costatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio, mette seriamente in pericolo la loro disponibilità non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.
La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate. Sappiamo tutti che risultato diretto o indiretto dell'industrializzazione e, sempre più di frequente, la contaminazione dell'ambiente, con gravi conseguenze per la salute della popolazione.
Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l'uso delle risorse e la maniera di utilizzarle non possono essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali. Una di queste impone senza dubbio limiti all'uso della natura visibile. Il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di «usare e abusare», o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di «mangiare il frutto dell'albero» (Gen 2,16), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire. Una giusta concezione dello sviluppo non può prescindere da queste considerazioni -relative all'uso degli elementi della natura, alla rinnovabilità delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata -, le quali ripropongono alla nostra coscienza la dimensione morale, che deve distinguere lo sviluppo. 
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From the encyclical The social concern (of the Church) - Sollicitudo rei socialis, of the pope Karol Wojtyla - John Paul 2^ (1987). Authentic human development.

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Note: Pope John Paul II published the encyclical The social concern (of the Church) - Sollicitudo rei socialis on the twenty-year anniversary of the previous encyclical The progressive development of peoples - published in 1967 by Pope Paul 6^, in a era of very lively social unrest throughout Europe, from which the current European Union emerged, which was built even taking into account the political orientation of the Magisterium of those Popes. In particular, in the reign of Pope John Paul 2 °. the Catholic Church expressed a complete ideological plan to reconstruct a European civilization that included the Western part, with a capitalist economy and liberal democratic political regimes, and the Eastern one, which emerged from the communist economy and from Leninist Marxist political regimes. At the time, in the 1980s, it had a great political credibility. The political integration of the states emerging from the Soviet school communism was guided by German Christian democrats, as was the reform of the European institutions to adapt them to that new political reality. Italian Christian Democrats also played an important role.
 The three social encyclicals of Pope John Paul 2 (Through work - Laborem exercens - 1981, The social concern of the Church - - Sollicitudo rei socialis - 1987 e The centenary - Centesimus Annus - 1991)  constitute a still very current manual of politics. Since the first social encyclical of modern times, The novelties - Rerum novarum, of 1891, that type of document of the Magisterium is the fruit of a collective work, not only of the Pope who commissioned it, supervises its elaboration and orders its publication . However, the thought of the Pope is always reflected in this and this is particularly noticeable in the social encyclicals of Pope John Paul 2, very marked by his personal experience of European politics of his time. He suffered with suffering the separation between Eastern Europe and Western Europe and urged the Europeans of that time to overcome it. He was also convinced that it was right to overcome the politics of the two imperialist blocs dominated by the United States of America and the Soviet Union and, more generally, by imperialism.
In the passage that follows, taken from the encyclical The social solicitude (of the Church) - Sollicitudo rei socialis, the political and social ideal of superdevelopmen is condemned, which is the basis of the ideology of capitalist liberalism.
Mario Ardigò - Catholic Action in the Catholic parish of San Clemente Pope - Rome, Monte Sacro, Valli district
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IV. AUTHENTIC HUMAN DEVELOPMENT
27. The examination which the Encyclical [The progressive development of peoples - Populorum progressio, by Pope Paul VI, 1967] invites us to make of the contemporary world leads us to note in the first place that development is not a straightforward process, as it were automatic and in itself limitless, as though, given certain conditions, the human race were able to progress rapidly towards an undefined perfection of some kind.
Such an idea - linked to a notion of "progress" with philosophical connotations deriving from the Enlightenment, rather than to the notion of "development" which is used in a specifically economic and social sense - now seems to be seriously called into doubt, particularly since the tragic experience of the two world wars, the planned and partly achieved destruction of whole peoples, and the looming atomic peril. A naive mechanistic optimism has been replaced by a well founded anxiety for the fate of humanity.
28. At the same time, however, the "economic" concept itself, linked to the word development, has entered into crisis. In fact there is a better understanding today that the mere accumulation of goods and services, even for the benefit of the majority, is not enough for the realization of human happiness. Nor, in consequence, does the availability of the many real benefits provided in recent times by science and technology, including the computer sciences, bring freedom from every form of slavery. On the contrary, the experience of recent years shows that unless all the considerable body of resources and potential at man's disposal is guided by a moral understanding and by an orientation towards the true good of the human race, it easily turns against man to oppress him.
A disconcerting conclusion about the most recent period should serve to enlighten us: side-by-side with the miseries of underdevelopment, themselves unacceptable, we find ourselves up against a form of superdevelopment, equally inadmissible. because like the former it is contrary to what is good and to true happiness. This super-development, which consists in an excessive availability of every kind of material goods for the benefit of certain social groups, easily makes people slaves of "possession" and of immediate gratification, with no other horizon than the multiplication or continual replacement of the things already owned with others still better. This is the so-called civilization of "consumption" or " consumerism ," which involves so much "throwing-away" and "waste." An object already owned but now superseded by something better is discarded, with no thought of its possible lasting value in itself, nor of some other human being who is poorer.
All of us experience firsthand the sad effects of this blind submission to pure consumerism: in the first place a crass materialism, and at the same time a radical dissatisfaction, because one quickly learns - unless one is shielded from the flood of publicity and the ceaseless and tempting offers of products - that the more one possesses the more one wants, while deeper aspirations remain unsatisfied and perhaps even stifled.
The Encyclical of Pope Paul VI pointed out the difference, so often emphasized today, between "having" and "being," which had been expressed earlier in precise words by the Second Vatican Council. To "have" objects and goods does not in itself perfect the human subject, unless it contributes to the maturing and enrichment of that subject's "being," that is to say unless it contributes to the realization of the human vocation as such.
Of course, the difference between "being" and "having," the danger inherent in a mere multiplication or replacement of things possessed compared to the value of "being," need not turn into a contradiction. One of the greatest injustices in the contemporary world consists precisely in this: that the ones who possess much are relatively few and those who possess almost nothing are many. It is the injustice of the poor distribution of the goods and services originally intended for all.
This then is the picture: there are some people - the few who possess much - who do not really succeed in "being" because, through a reversal of the hierarchy of values, they are hindered by the cult of "having"; and there are others - the many who have little or nothing - who do not succeed in realizing their basic human vocation because they are deprived of essential goods.
The evil does not consist in "having" as such, but in possessing without regard for the quality and the ordered hierarchy of the goods one has. Quality and hierarchy arise from the subordination of goods and their availability to man's "being" and his true vocation.
This shows that although development has a necessary economic dimension, since it must supply the greatest possible number of the world's inhabitants with an availability of goods essential for them "to be," it is not limited to that dimension. If it is limited to this, then it turns against those whom it is meant to benefit.
The characteristics of full development, one which is "more human" and able to sustain itself at the level of the true vocation of men and women without denying economic requirements, were described by Paul VI.
29. Development which is not only economic must be measured and oriented according to the reality and vocation of man seen in his totality, namely, according to his interior dimension. There is no doubt that he needs created goods and the products of industry, which is constantly being enriched by scientific and technological progress. And the ever greater availability of material goods not only meets needs but also opens new horizons. The danger of the misuse of material goods and the appearance of artificial needs should in no way hinder the regard we have for the new goods and resources placed at our disposal and the use we make of them. On the contrary, we must see them as a gift from God and as a response to the human vocation, which is fully realized in Christ.
However, in trying to achieve true development we must never lose sight of that dimension which is in the specific nature of man, who has been created by God in his image and likeness (cf. Gen 1:26). It is a bodily and a spiritual nature, symbolized in the second creation account by the two elements: the earth, from which God forms man's body, and the breath of life which he breathes into man's nostrils (cf. Gen 2:7).
Thus man comes to have a certain affinity with other creatures: he is called to use them, and to be involved with them. As the Genesis account says (cf. Gen 2:15), he is placed in the garden with the duty of cultivating and watching over it, being superior to the other creatures placed by God under his dominion (cf. Gen 1:25-26). But at the same time man must remain subject to the will of God, who imposes limits upon his use and dominion over things (cf. Gen 2:16-17), just as he promises his mortality (cf. Gen 2:9; Wis 2:23). Thus man, being the image of God, has a true affinity with him too. On the basis of this teaching, development cannot consist only in the use, dominion over and indiscriminate possession of created things and the products of human industry, but rather in subordinating the possession, dominion and use to man's divine likeness and to his vocation to immortality. This is the transcendent reality of the human being, a reality which is seen to be shared from the beginning by a couple, a man and a woman (cf. Gen 1:27), and is therefore fundamentally social.
30. According to Sacred Scripture therefore, the notion of development is not only "lay" or "profane," but it is also seen to be, while having a socio-economic dimension of its own, the modern expression of an essential dimension of man's vocation.
The fact is that man was not created, so to speak, immobile and static. The first portrayal of him, as given in the Bible, certainly presents him as a creature and image, defined in his deepest reality by the origin and affinity that constitute him. But all this plants within the human being - man and woman - the seed and the requirement of a special task to be accomplished by each individually and by them as a couple. The task is "to have dominion" over the other created beings, "to cultivate the garden." This is to be accomplished within the framework of obedience to the divine law and therefore with respect for the image received, the image which is the clear foundation of the power of dominion recognized as belonging to man as the means to his perfection (cf. Gen 1:26-30; 2:15-16; Wis 9:2-3).
When man disobeys God and refuses to submit to his rule, nature rebels against him and no longer recognizes him as its "master," for he has tarnished the divine image in himself. The claim to ownership and use of created things remains still valid, but after sin its exercise becomes difficult and full of suffering (cf. Gen 3:17-19).
In fact, the following chapter of Genesis shows us that the descendants of Cain build "a city," engage in sheep farming, practice the arts (music) and technical skills (metallurgy); while at the same time people began to "call upon the name of the Lord" (cf. Gen 4:17-26).
The story of the human race described by Sacred Scripture is, even after the fall into sin, a story of constant achievements, which, although always called into question and threatened by sin, are nonetheless repeated, increased and extended in response to the divine vocation given from the beginning to man and to woman (cf. Gen 1:26-28) and inscribed in the image which they received.
It is logical to conclude, at least on the part of those who believe in the word of God, that today's "development" is to be seen as a moment in the story which began at creation, a story which is constantly endangered by reason of infidelity to the Creator's will, and especially by the temptation to idolatry. But this "development" fundamentally corresponds to the first premises. Anyone wishing to renounce the difficult yet noble task of improving the lot of man in his totality, and of all people, with the excuse that the struggle is difficult and that constant effort is required, or simply because of the experience of defeat and the need to begin again, that person would be betraying the will of God the Creator. In this regard, in the Encyclical Laborem Exercens I referred to man's vocation to work, in order to emphasize the idea that it is always man who is the protagonist of development.
Indeed, the Lord Jesus himself, in the parable of the talents, emphasizes the severe treatment given to the man who dared to hide the gift received: "You wicked slothful servant! You knew that I reap where I have not sowed and gather where I have not winnowed? ...So take the talent from him, and give it to him who has the ten talents" (Mt 25:26-28). It falls to us, who receive the gifts of God in order to make them fruitful, to "sow" and "reap." If we do not, even what we have will be taken away from us.
A deeper study of these harsh words will make us commit ourselves more resolutely to the duty, which is urgent for everyone today, to work together for the full development of others: "development of the whole human being and of all people."
31. Faith in Christ the Redeemer, while it illuminates from within the nature of development, also guides us in the task of collaboration. In the Letter of St. Paul to the Colossians, we read that Christ is "the first-born of all creation," and that "all things were created through him" and for him (1:15-16). In fact, "all things hold together in him," since "in him all the fullness of God was pleased to dwell, and through him to reconcile to himself all things" (v. 20).
A part of this divine plan, which begins from eternity in Christ, the perfect "image" of the Father, and which culminates in him, "the firstborn from the dead" (v. 18), is our own history, marked by our personal and collective effort to raise up the human condition and to overcome the obstacles which are continually arising along our way. It thus prepares us to share in the fullness which "dwells in the Lord" and which he communicates "to his body, which is the Church" (v. 18; cf. Eph 1:22-23). At the same time sin, which is always attempting to trap us and which jeopardizes our human achievements, is conquered and redeemed by the "reconciliation" accomplished by Christ (cf. Col 1:20).
Here the perspectives widen. The dream of "unlimited progress" reappears, radically transformed by the new outlook created by Christian faith, assuring us that progress is possible only because God the Father has decided from the beginning to make man a sharer of his glory in Jesus Christ risen from the dead, in whom "we have redemption through his blood...the forgiveness of our trespasses" (Eph 1:7). In him God wished to conquer sin and make it serve our greater good, which infinitely surpasses what progress could achieve.
We can say therefore - as we struggle amidst the obscurities and deficiencies of underdevelopment and superdevelopment - that one day this corruptible body will put on incorruptibility, this mortal body immortality (cf. 1 Cor 15:54), when the Lord "delivers the Kingdom to God the Father" (v. 24) and all the works and actions that are worthy of man will be redeemed.
Furthermore, the concept of faith makes quite clear the reasons which impel the Church to concern herself with the problems of development, to consider them a duty of her pastoral ministry, and to urge all to think about the nature and characteristics of authentic human development. Through her commitment she desires, on the one hand, to place herself at the service of the divine plan which is meant to order all things to the fullness which dwells in Christ (cf. Col 1:19) and which he communicated to his body; and on the other hand she desires to respond to her fundamental vocation of being a "sacrament," that is to say "a sign and instrument of intimate union with God and of the unity of the whole human race."
Some Fathers of the Church were inspired by this idea to develop in original ways a concept of the meaning of history and of human work, directed towards a goal which surpasses this meaning and which is always defined by its relationship to the work of Christ. In other words, one can find in the teaching of the Fathers an optimistic vision of history and work, that is to say of the perennial value of authentic human achievements, inasmuch as they are redeemed by Christ and destined for the promised Kingdom.
Thus, part of the teaching and most ancient practice of the Church is her conviction that she is obliged by her vocation - she herself, her ministers and each of her members - to relieve the misery of the suffering, both far and near, not only out of her "abundance" but also out of her "necessities." Faced by cases of need, one cannot ignore them in favor of superfluous church ornaments and costly furnishings for divine worship; on the contrary it could be obligatory to sell these goods in order to provide food, drink, clothing and shelter for those who lack these things. As has been already noted, here we are shown a "hierarchy of values" - in the framework of the right to property - between"having" and "being," especially when the "having" of a few can be to the detriment of the "being" of many others.
In his Encyclical Pope Paul VI stands in the line of this teaching, taking his inspiration from the Pastoral Constitution Gaudium et Spes. For my own part, I wish to insist once more on the seriousness and urgency of that teaching, and I ask the Lord to give all Christians the strength to put it faithfully into practice.
32. The obligation to commit oneself to the development of peoples is not just an individual duty, and still less an individualistic one, as if it were possible to achieve this development through the isolated efforts of each individual. It is an imperative which obliges each and every man and woman, as well as societies and nations. In particular, it obliges the Catholic Church and the other Churches and Ecclesial Communities, with which we are completely willing to collaborate in this field. In this sense, just as we Catholics invite our Christian brethren to share in our initiatives, so too we declare that we are ready to collaborate in theirs, and we welcome the invitations presented to us. In this pursuit of integral human development we can also do much with the members of other religions, as in fact is being done in various places.
Collaboration in the development of the whole person and of every human being is in fact a duty of all towards all, and must be shared by the four parts of the world: East and West, North and South; or, as we say today, by the different "worlds." If, on the contrary, people try to achieve it in only one part, or in only one world, they do so at the expense of the others; and, precisely because the others are ignored, their own development becomes exaggerated and misdirected.
Peoples or nations too have a right to their own full development, which while including - as already said - the economic and social aspects, should also include individual cultural identity and openness to the transcendent. Not even the need for development can be used as an excuse for imposing on others one's own way of life or own religious belief.
33. Nor would a type of development which did not respect and promote human rights - personal and social, economic and political, including the rights of nations and of peoples - be really worthy of man.
Today, perhaps more than in the past, the intrinsic contradiction of a development limited only to its economic element is seen more clearly. Such development easily subjects the human person and his deepest needs to the demands of economic planning and selfish profit.
The intrinsic connection between authentic development and respect for human rights once again reveals the moral character of development: the true elevation of man, in conformity with the natural and historical vocation of each individual, is not attained only by exploiting the abundance of goods and services, or by having available perfect infrastructures.
When individuals and communities do not see a rigorous respect for the moral, cultural and spiritual requirements, based on the dignity of the person and on the proper identity of each community, beginning with the family and religious societies, then all the rest - availability of goods, abundance of technical resources applied to daily life, a certain level of material well-being - will prove unsatisfying and in the end contemptible. The Lord clearly says this in the Gospel, when he calls the attention of all to the true hierarchy of values: "For what will it profit a man, if he gains the whole world and forfeits his life?" (Mt 16:26)
True development, in keeping with the specific needs of the human being-man or woman, child, adult or old person-implies, especially for those who actively share in this process and are responsible for it, a lively awareness of the value of the rights of all and of each person. It likewise implies a lively awareness of the need to respect the right of every individual to the full use of the benefits offered by science and technology.
On the internal level of every nation, respect for all rights takes on great importance, especially: the right to life at every stage of its existence; the rights of the family, as the basic social community, or "cell of society"; justice in employment relationships; the rights inherent in the life of the political community as such; the rights based on the transcendent vocation of the human being, beginning with the right of freedom to profess and practice one's own religious belief.
On the international level, that is, the level of relations between States or, in present-day usage, between the different "worlds," there must be complete respect for the identity of each people, with its own historical and cultural characteristics. It is likewise essential, as the Encyclical Populorum Progressio already asked, to recognize each people's equal right "to be seated at the table of the common banquet," instead of lying outside the door like Lazarus, while "the dogs come and lick his sores" (cf. Lk 16:21). Both peoples and individual must enjoy the fundamental equality which is the basis, for example, of the Charter of the United Nations Organization: the equality which is the basis of the right of all to share in the process of full development.
In order to be genuine, development must be achieved within the framework of solidarity and freedom, without ever sacrificing either of them under whatever pretext. The moral character of development and its necessary promotion are emphasized when the most rigorous respect is given to all the demands deriving from the order of truth and good proper to the human person. Furthermore the Christian who is taught to see that man is the image of God, called to share in the truth and the good which is God himself, does not understand a commitment to development and its application which excludes regard and respect for the unique dignity of this "image." In other words, true development must be based on the love of God and neighbor, and must help to promote the relationships between individuals and society. This is the "civilization of love" of which Paul VI often spoke.
34. Nor can the moral character of development exclude respect for the beings which constitute the natural world, which the ancient Greeks - alluding precisely to the order which distinguishes it - called the "cosmos." Such realities also demand respect, by virtue of a threefold consideration which it is useful to reflect upon carefully.
The first consideration is the appropriateness of acquiring a growing awareness of the fact that one cannot use with impunity the different categories of beings, whether living or inanimate - animals, plants, the natural elements - simply as one wishes, according to one s own economic needs. On the contrary, one must take into account the nature of each being and of its mutual connection in an ordered system, which is precisely the cosmos."
The second consideration is based on the realization - which is perhaps more urgent - that natural resources are limited; some are not, as it is said, renewable. Using them as if they were inexhaustible, with absolute dominion, seriously endangers their availability not only for the present generation but above all for generations to come.
The third consideration refers directly to the consequences of a certain type of development on the quality of life in the industrialized zones. We all know that the direct or indirect result of industrialization is, ever more frequently, the pollution of the environment, with serious consequences for the health of the population.
Once again it is evident that development, the planning which governs it, and the way in which resources are used must include respect for moral demands. One of the latter undoubtedly imposes limits on the use of the natural world. The dominion granted to man by the Creator is not an absolute power, nor can one speak of a freedom to "use and misuse," or to dispose of things as one pleases. The limitation imposed from the beginning by the Creator himself and expressed symbolically by the prohibition not to "eat of the fruit of the tree" (cf. Gen 2:16-17) shows clearly enough that, when it comes to the natural world, we are subject not only to biological laws but also to moral ones, which cannot be violated with impunity.
A true concept of development cannot ignore the use of the elements of nature, the renewability of resources and the consequences of haphazard industrialization - three considerations which alert our consciences to the moral dimension of development.