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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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lunedì 15 maggio 2017

Stasera, alle 19:30, in sala rossa, ultimo incontro sull’enciclica Laudato si’, con la discussione finale - Il testo di tutte le mie Brevi note su vita di fede e questione democratica (incollato in coda)

Stasera, alle 19:30, in sala rossa,  ultimo incontro sull’enciclica Laudato si’, con la discussione finale -  Il testo di tutte le mie Brevi note su vita di fede  e questione democratica  (incollato in coda)

  Stasera, in parrocchia, alle 19:30 in sala rossa,  si svolgerà l’ultimo incontro (per quest’anno liturgico) sull’enciclica Laudato si’, diffusa nel 2015 da Papa Francesco. Ci sarà la discussione finale.
  Il metodo seguito negli incontri precedenti era di tipo interattivo, non sono stati semplici conferenze  o lezioni. Ma la discussione  sarà molto più impegnativa, perché a cose come queste non siamo molto preparati. Ciascuno tende a dire “che ne pensa”, ma questo serve a poco. Quando poi non ci si spinge a dare un giudizio sull’autore del documento, del tipo mi piace/non mi piace o utilizzando l’argomento “quello/quelli di prima era/erano meglio”. E anche questo serve a poco.
  Innanzi tutto: benché si discuta di un documento diffuso da un Papa, non deve essere il Papa al centro della nostra attenzione. Lo conosciamo troppo poco per dare un giudizio sulla sua persona, ed è troppo presto per dare una valutazione sulla sua figura storica. Il suo potere è un processo ancora in atto: bisogna vedere dove va e che cosa produce.
 Ma non dobbiamo nemmeno occuparci genericamente  del contenuto dell’enciclica. Affrontiamo, infatti, una discussione finale, dopo diversi altri incontri. L’evento va quindi preparato facendo memoria  di quello che s’è capito nelle riunioni precedenti. Non vi ricordate più nulla? Male! Bisognava essere più attenti e  prendere qualche appunto. Se non ricordate più nulla, meglio che tacciate nella discussione. Cercate almeno di recuperare ascoltando gli altri. Impariamo questo: non si viene in chiesa da spettatori distratti.
 Chi presiede l’incontro ci aiuterà, all’inizio, a ricordare, riassumendo, ciò che si è detto e fatto nei precedenti incontri.
  Se ricordate qualcosa di quello che s’è detto e fatto nei mesi passati, focalizzate la vostra attenzione sul punto che vi ha colpito di più. Non si tratta, ora, di fare una recensione e di dire se il Papa ha sviluppato bene o male un certo tema. Non si fa critica letteraria. Andiamo al punto, alla sostanza. Ad esempio: c’è bisogno di un nuovo modello di sviluppo economico, scrive. Ci credete? Ne sono convinti in molti e il Papa è uno di loro. Ma, voi, ne siete convinti? Vagliate gli argomenti  che ha proposto il Papa per sostenere la sua tesi. Il nostro attuale modello di sviluppo, quello inventato da noi Occidentali che poi si è diffuso in tutto il mondo, cioè si è globalizzato, quello basato sulla concorrenza e sull’espansione spinta  dei consumi, sta assorbendo troppe risorse naturali, è un sistema sbilanciato, e sta trasformando l’ambiente naturale rendendolo inospitale. In più la lotta per la vita, nella quale la concorrenza competitiva  consiste, ci rende cattivi, molto meno solidali, e anche l’ambiente sociale si sta degradando. Questa visione corrisponde alla vostra esperienza di vita? O vi state trovando bene nella società di oggi? E, se voi state bene, per gli altri come va? E se agli altri va meno bene che a voi, ci pensate un po’ anche a loro, o ognuno deve fare per sé, perché, in definitiva, si ha quel che si merita? Guardate che se ne può discutere liberamente! Non sono in questione verità normative. Quello che scrive il Papa nella Laudato si’ vale quando gli argomenti che porta a sostegno delle sue idee.
  Ad esempio, al  paragrafo n.149 dell’enciclica si legge:
“E’ provato inoltre che l’estrema penuria  che si vive in alcuni ambienti privi di armonia, ampiezza e possibilità d’integrazione, facilita il  sorgere di comportamenti disumani e la manipolazione delle persone da parte di organizzazioni criminali. Per gli abitanti di quartieri periferici molto precari, l’esperienza quotidiana di passare  dall’affollamento all’anonimato  sociale che si vive nelle grandi città, può provocare una sensazione di sradicamento che favorisce  comportamenti antisociali e violenza.”
  Il Papa scrive “è provato”, ma poi le prove non le espone. In un’enciclica non c’è lo spazio per farlo. Rimanda a studi ed esperienze precedenti, e, in particolare, ad un’esperienza di vita che pensa essere comune a molti. E’ anche la vostra? Li conoscete gli studi a cui si è riferito genericamente il Papa? Il nostro è un quartiere periferico. Ha manifestato una certa violenza: nel giro di non molti anni ci sono stati tre omicidi. Le macerie del bar ex Paranà,  distrutto da due incendi verosimilmente dolosi, stanno a dimostrare che la criminalità è nel quartiere. Durante il giorno si aggirano, come ombre, i più poveri tra noi, quelli che sono accampati sulle rive dell’Aniene, oltre il nostro Pratone: vanno a recuperare cose nei cassonetti delle immondizie e chiedono l’elemosina davanti chiesa e ai supermercati. Non viviamo nei quartieri più ricchi della città, quelli del centro o delle zone residenziali. La nostra esperienza di vita convalida le idee esposte nell’enciclica? I mali sociali che osserviamo dipendono anche da qualcosa che noi stessi abbiamo fatto o non abbiamo fatto? Si piò cambiare a partire da noi stessi, e come?
 Abbiamo  meno di un’ora per discutere insieme. Questo significa che ciascuno può prepararsi a parlare per non più di tre / cinque minuti. Bisogna essere sintetici. Se intervengono in molti ogni tema sarà esaminato da più punti di vista e questo aiuterà a capire meglio le questioni. Chi presiede avrà cura che i tempi assegnati vengano rispettati, per fare in modo che, capendo meglio, la discussione sia più produttiva.  Chi si allarga  con i propri tempi non lo fa solo a danno di ciascun altro che vorrebbe parlare, ma anche a danno di tutto il gruppo di discussione: il risultato del lavoro collettivo ne risente negativamente. Poi però bisogna anche ascoltare  ciò che dicono gli altri e questa è una parte molto importante in una discussione, in cui si parla,  si ascolta, e, se si parla dopo aver ascoltato, si tiene conto  di ciò che hanno detto gli altri, per  agganciare  il proprio discorso a quello degli altri. E' così che si costruisce l'azione collettiva. Il pensiero  e l'intesa  precedono e fanno strada all'azione. Chi parla per primo ha il compito più difficile: deve infatti aprire la strada. Chi viene dopo, dopo aver ascoltato, può prendere spunti da quello che hanno detto gli altri che l’hanno preceduto. Ma, per carità!, niente polemiche, come quelle che si vedono a volte in TV quando fanno parlare la gente comune e quella si azzanna. I discorsi di ciascuno dovrebbero, come ho detto,  agganciarsi  a quelli degli altri, perché lo scopo è quello di prendere determinazioni comuni sul da farsi. Perché, alla fine, questo è il bello: si tratta di programmare qualcosa da fare per cambiare le cose. Non ci si limita al mugugno, all'invettiva, al rancoroso prendersela con il mondo, a partire dai politici. Siamo noi stessi in questione, lo capite? Il Papa ci dice: siete voi stessi che state distruggendo l’ambiente in cui vivete, quello naturale e quello sociale! L’enciclica si chiude con la richiesta di una conversione. E come potrebbe essere diversa? L’ha organizzata e diffusa un Papa! Fa il suo mestiere. Siamo disponibile al tipo di conversione, che lui chiama  conversione ecologica, a cui ci esorta?
 Alla fine dell’incontro chi presiede farà la sintesi del dibattito, facendo il punto sullo stato di condivisione delle idee esposte nell’enciclica e, probabilmente, proponendo linee di impegno sulla base di ciò che è emerso.
  Di seguito incollo tutte le mie note recenti su vita di fede e questione democratica.
  Quel tipo di conversione che ci  viene proposta nell’enciclica deve essere collettiva, sociale, per  essere efficace e quindi richiede la democrazia.
 A stasera!
 Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

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Brevi note su vita di fede  e questione democratica
(maggio 2017)
di Mario Ardigò - per l’Azione Cattolica in san Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.


1. La “Politica” con la maiuscola

 Nel discorso del Papa all’Azione Cattolica del 30 aprile  2017  i commentatori hanno notato l’invito a fare Politica con la maiuscola. Non sorprende, perché la Chiesa cattolica è il principale agente politico del momento. In passato lo è stato il Papato, e non è la stessa cosa. La differenza sta nella collaborazione dei laici. L’Azione cattolica, dalle sue origini, si è specializzata nel fare proprio questo. Ma, è importante ricordarlo, l’Azione Cattolica non ha 150 anni. Essa non deriva dalle organizzazioni di azione sociale ispirata dall’ideologia del papato sorta da metà Ottocento e confluite dell’Opera dei Congressi, anzi sorge, per così, dire sulle loro ceneri. Nasce infatti per iniziativa del papato romano nel 1905, dopo lo scioglimento d’autorità di quelle, per emergere di correnti democratiche, in particolare di quella di democrazia cristiana  che ebbe tra i suoi principali esponenti il prete Romolo Murri, successivamente scomunicato. Si era nel pieno della persecuzione anti-modernista. Il modernismo era un movimento religioso  che, a livello europeo, proponeva un aggiornamento  nelle concezioni religiose. In Italia le correnti democratiche di azione sociale ispirate dalla fede furono sbrigativamente assimilate al modernismo e con essa condannate. Questo perché, all’epoca, in principi dell’azione sociale erano ritenuti integralmente compresi nella dottrina,  quindi negli insegnamenti normativi, del papato romano, senza alcuna autonomia dei laici. Chi la manifestava era considerato eretico. L’Azione Cattolica nacque quando il papato romano intese che la politica fino ad allora seguita, di intransigente  rifiuto del sistema politico democratico liberale che reggeva il Regno d’Italia, non aveva futuro. Organizzò quindi una propria forza politica e sociale profondamente integrata, e quindi controllata, dalla gerarchia. Di un’organizzazione simile non vi sono procedenti. Naturalmente non c’era solo questo nell’Azione cattolica, perché in essa è stata molto importante la formazione alla fede e il suo approfondimento. Ma l’azione  dell’Azione Cattolica era fondamentalmente sociale e politica. Essa seguì sempre gli orientamenti politici del papato romano, sia nella compromissione con il fascismo, sia nello sviluppo democratico. Dal 1945, con la mediazione di Alcide De Gasperi, l’Azione Cattolica si integrò profondamente con il partito cristiano, la Democrazia Cristiana. La politica di quest’ultima risultava da un compromesso tra il papato romano e il movimento dei cattolico democratici italiani, che aveva partecipato al rovesciamento del regime fascista con cui il papato romano si era federato, con i Patti Lateranensi conclusi nel 1929 con il Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano. La Democrazia Cristiana ebbe necessità delle masse cattoliche organizzate nell’Azione Cattolica per affermare la sua egemonia nel sistema politico democratico italiano. Ma l’Azione Cattolica era anche la sua principale scuola di formazione alla politica. In questa stagione, ai politici cattolici  venne riconosciuta dal papato romano un maggiore autonomia nell’applicazione  delle soluzioni che il papato romano riteneva giuste per l’Italia. Questo assetto terminò a seguito del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), quando i laici, riconosciuti come competenti  nelle vicende sociali e politiche, indicate con l’espressione temporali, vale a dire soggette a continui mutamenti con i progredire del tempo, distinte da quelle spirituali, ritenute eterne, vennero sollecitati a collaborare alla definizione dei principi di azione sociale. Questo lavoro avrebbe richiesto di trasformare le strutture sociali di base della Chiesa anche il laboratorio di pensiero e azione politica, dove i diversi orientamenti potessero confrontarsi. L’Azione Cattolica, verso la fine degli anni ’60 e sotto la presidenza di Vittorio Bachelet, rivide la propria organizzazione per svolgere al meglio questa opera sociale.
  Il nuovo corso durò circa dieci anni. L’autonomia riconosciuta al laicato ne comportò la frammentazione, in particolare tra le correnti democratiche e quelle neo-intransigenti. Non si riuscì mai a far posto, nell’organizzazione ecclesiastica ancora di tipo feudale, a laici autonomi. Tutto fu sospeso, come congelato, e cominciò quella che ho definito era glaciale. Fu il tempo in cui il papato romano si federò sostanzialmente con l’Occidente capitalista. Stavano crollando i regimi comunisti che dominavano nell’Europa orientale: si ritenne che questa fosse la scelta migliore. Il papato romano ebbe una svolta neo-intransigente  per quanto riguarda la politica specificamente italiana, che stava manifestando di dirigersi in direzione contraria. Il papato si avvalse maggiormente delle componenti neo-intransigenti  del laicato, piuttosto che dell’Azione Cattolica. Quest’ultima ha resistito fino all’ultima svolta del papato romano, nel 2013, perché profondamente radicata nella società italiana, in particolare tra i ceti colti. Ha continuato ad essere una delle principali scuole italiane di politica  e di azione sociale in genere e ad esprimere un ceto politico ai vertici dello Stato.
  Con il regno di papa Francesco, iniziato nel 2013, i fedeli laici, senza più considerare principalmente quelli italiani, sono stati esortati ad una nuova azione politica per salvare l’intero mondo dalla rovina. E’ questa la Politica  con la maiuscola, i cui principi sono sintetizzati nell’enciclica Laudato si’ del 2015. Quest’ultimo documento recepisce le conclusioni di diverse scienze contemporanee, sull’ecologia, sull’economia e sulla politica. Non si tratta propriamente più di una  dottrina, ma di una prospettazione che, innanzi tutto, deve essere confermata dall’analisi, perché la situazione mondiale è in continua e rapida evoluzione, e poi sviluppata. Questo sviluppo, che comprende anche i principi  di azione sociale,  è il campo proprio dei laici. Le componenti  neo-intransigenti,  mondi chiusi e in lotta ciò che è al loro esterno, non sono adatte a questo lavoro. Solo l’Azione Cattolica e altre componenti laicali che seguono il suo metodo, il dialogo e la mediazione culturale, lo sono. Questo il senso dell’appello del Papa.

2. La questione democratica

Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va trovando pur troppo ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione da ogni giogo di legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare cristiana. Non già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé riprovevole o porti di sua natura al disprezzo dell'autorità; ma perché non pochi, fraintendendone la natura, si sono volontariamente allontanati dalle norme che a rettamente promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro d'immortale memoria [il papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°]
[…]
 Del resto, Venerabili Fratelli, a porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a questo dilatarsi di spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo d'oggi innanzi assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a qualsiasi società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale, nominatamente, proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli Ordini sacri e pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di iscriversi alla Lega democratica nazionale, il cui programma fu dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome dell'autore, fu nell'anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione provvisoria.
[dall’enciclica Con animo pieno (di salutare timore) diffusa nel 1906 dal papa Giuseppe Sarto - Pio 10°]

  Quando si parla di “150 anni di storia dell’Azione Cattolica” non si fa memoria fedele, e quindi purificata, di quella storia: se ne fa una versione emendata dei tratti più duri. L’Azione cattolica nasce nel 1905 nel mezzo della persecuzione antimodernista, che oggi stupisce per la sua indiscriminata violenza. Il modernismo fu essenzialmente un movimento intellettuale che proponeva un aggiornamento della cultura religiosa. Fu colpito perché violava il monopolio che in questo campo era rivendicato dal papato romano nelle cose spirituali. In Italia venne confuso con le correnti democratiche del movimento cattolico, che contrastavano invece il monopolio politico all’epoca rivendicato dal papato romano. Esse avevano una forte impronta sociale, per venire incontro alle classi lavoratrici, in particolare nel settore dell’agricoltura in Emilia Romagna, ed erano animate da molti giovani preti. Uno di essi fu Romolo Murri, fondatore nel 1896 della Federazione Universitaria Cattolica Italiana - FUCI, poi integrata nell’Azione Cattolica pur mantenendo autonomia organizzativa, e  nel 1905 della Lega Democratica Nazionale, che può essere considerato il primo partito politico di ispirazione religiosa. La reazione disciplinare del papato romano colpì aspramente le correnti democratiche del movimento cattolico assimilandole al modernismo, quindi ad un movimento considerato come eretico. Ma l’eresia  dei cattolico-democratici era fondamentalmente la loro pretesa di indipendenza dal papato romano nelle questioni politiche e il loro parteggiare per le classi più umili della società.
 La diffidenza del papato romano per i processi democratici lo portò poi, in Italia, a compromettersi con il fascismo, dopo aver consentito, molto cautamente, con molte riserve e vietando denominazioni comedemocrazia cristiana  e simili,  esperimenti di politica democratica tra il 1912 e il 1926. La disfatta del fascismo lo costrinse ad accettare la collaborazione dei cattolico-democratici, i quali, formatisi in buona parte nelle organizzazioni intellettuali dell’Azione Cattolica, la FUCI e il Movimento Laureati, avevano partecipato alla guerra di Resistenza. Esso quindi accettò, non senza riserve, la proposta politica di Alcide De Gasperi.
  Negli anni ’60, la svolta impressa dal Concilio Vaticano 2° nei rapporti con le società civili, consentì lo sviluppo di processi democratici nel movimento cattolico nazionale, in particolare nell’Azione Cattolica, la quale, con il nuovo statuto del 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, volle definirsi palestra di democrazia. L’accettazione senza riserve della democrazia politica da parte del papato romano risale però solo al 1991, con l’enciclica Il Centenario, di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Non vi sono però molte sedi, in religione, per fare pratica di democrazia, al di fuori dell’Azione Cattolica. In particolare, non la si fa, in genere, nelle parrocchie. L’impegno politico richiesto oggi del papato romano, la richiederebbe. Infatti non si tratta più di preservare il potere politico del papato in Italia, ma, addirittura, di salvare il mondo, progettando un nuovo modello di sviluppo economico. Questo esige di collaborare con altre componenti sociali e lo si può fare solo con metodo democratico, quello basato sul dialogo. E l’esortazione al dialogo è stata al centro del recente messaggio di papa Francesco all’Azione Cattolica.
 Dal papato romano non è mai venuta alcuna autocritica per la lunga persecuzione antidemocratica, ma essa è necessaria per chi voglia procedere con metodo democratico. L’idea di democrazia non deve più essere accostata a quella di indisciplina e addirittura di eresia. Questo comporta un processo di riforma, che non verrà dall’alto per i limiti intrinseci all’organizzazione feudale delle nostre organizzazioni religiose. Esso può invece cominciare ad  essere sperimentato dal basso, su scala più piccola, per diffondersi ed estendersi in ciò che di buono produrrà. Il primo passo è di fare tirocinio di democrazia nelle decisioni delle esperienze sociali di prossimità, a tutte le età, fin da molto piccoli.

3. Potere democratico

La democrazia è una forma di organizzazione della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione alle decisioni comuni.
  Democrazia è una parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos, che significa popolo, e cràtos, che significa potere. Dunque significa il potere del popolo.
  Gli antichi greci furono tra i primi a ragionare sul potere sociale.
  Contrapponevano la democrazia, il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e alla oligarchia, il potere di pochi.
  Anche in democrazia i capi sono pochi, ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e possono essere periodicamente sostituiti.
  Ciò che distingue una democrazia da una oligarchia è dunque la possibilità di critica  sociale e  l’esistenza di regole  che limitino  il potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che coinvolgano i più.
  Schematicamente: in una democrazia il potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i pochi che saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto, perché i pochi che comandano scelgono i loro successori  e quelli che comanda ai livelli inferiori.
  Ogni democrazia, degenerando, tende a diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai processi democratici, così come ogni monarchia.
  Nelle società complesse non esistono vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle oligarchie dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere supremo rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.
  Un altro tipo di oligarchia è la ierocrazia (un'altra parola greca composta da ieròs, che significa sacro, e da cràtos): in essa i capi ritengono di essere stati scelti in modo soprannaturale per fare da tramite tra il Cielo e il mondo umano.
  Attualmente la nostra Chiesa è, dal punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia in cui si stanno sviluppando processi democratici.
  La Repubblica italiana è invece attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi oligarchici: questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che in pochi stati.
  Paradossalmente le monarchie dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni,  e dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici supremi.
  Le monarchie e le oligarchie in genere cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le democrazie possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.
  Queste informazioni vengono date di solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati nell’enciclica Laudato si’.

4. Alle origine della sacralizzazione  del potere politico

Ogni forma di organizzazione sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che ci viene dallo studio dei fatti umani, fin da quelli più antichi.
  Possiamo farci un’idea di come si era in tempi molto lontani studiando le società umane meno evolute che ancora ci sono e che verosimilmente vivono come i primitivi.
  L’evoluzione delle società umane è stata favorita dalla conquista del linguaggio e soprattutto da quella della scrittura. Con la produzione di documenti scritti inizia la storia umana. A quel punto le società erano già piuttosto complesse.
  Dal punto di vista biologico discendiamo da esseri viventi sociali. Come erano i nostri progenitori non umani? Si pensa che fossero simili alle scimmie antropomorfe (parola che significa: con  aspetti fisici e movenze simili a quelle umane) che vivono in gruppi sociali dominati da un maschio che si accoppia con molte femmine e al quale altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è sociale ha reso possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie di maschi o, più raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di più i cacciatori e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano come andavano le cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle società primitive contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità. Fin dalle origini probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere dominati da potenze non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le deificavano. Per rendersele propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie simboliche, che avevano bisogno di chi compisse le azioni prescritte: questo era il compito dei sacerdoti. I re, le figure dominanti tra gli oligarchi, erano in genere sacerdoti. Fin dalle origini troviamo quindi il potere connesso con la religione. Uno dei compiti degli oligarchi, e i particolare dei re, era quello di risolvere le controversie civili e religiose: questo produsse una giurisprudenza, vale a dire una tradizione nelle decisioni con cui si risolvevano le liti, connotata religiosamente. C’era un ordine nell’universo, di carattere sacro  perché non in dominio umano, e, nel caso venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione  e il diritto servivano a questo e venivano somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.
  Ai tempi nostri si ha talvolta l’idea che le società umani siano radicate  in certi posti.  Questo è uno sviluppo politico  relativamente recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.
  Il radicamento  politico su un territorio sviluppò molto la concezione giuridica della proprietà, sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come figure paterne, come  padri  del loro popolo, iniziarono ad agire come proprietari  di esso. Cercarono a lungo un’investitura divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani assumessero anche la carica di pontefice massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice  è uno dei nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo collegato all’ordine universale, cosmico  (cosmo è una parola del greco antico che significa universo). Si ebbe così una sacralizzazione  del potere, che significa appunto collegare il potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei  soprannaturali. Ciò che riguardava le cose soprannaturali era sacro, nel senso di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano accostare il sacro. Sacralizzare  il potere significò volerlo sottrarre alle contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era accentrato in chi deteneva il potere politico  e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione  del potere è ancora molto forte nella nostra organizzazione religiosa.

5. Potere politico sacralizzato  come potere assoluto

La sacralizzazione  del potere politico spiega perché i processi democratici siano stati considerati anche delle eresie e l’importanza che ha per la loro affermazione il principio della laicità  delle istituzioni pubbliche.
  Secondo il  principio della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche non devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni discriminazione su base religiosa.
  La sacralizzazione del potere si è sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi italiani siamo europei.
   Dal Quarto secolo della nostra era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la teologia della nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette in questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici che scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio,  nella regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella sacralizzazione: di là dominarono l’impero romano,  ridottosi poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,  procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici,  vale a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti dagli imperatori  di Bisanzio. In questo modello c’era un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia, piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.
  La sacralizzazione giustifica il potere assoluto, vale a dire  senza limiti, del sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del delegato terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel mondo. La sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è, secondo il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un sovrano assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un processo che si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era originario nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era stato  politicamente subordinato all’imperatore romano, in realtà al potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne politicamente un feudatario (che significa principe  di livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso, come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che, tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione  del potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale  del potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo quadro, un potere  assoluto, per di più attribuito a una sola persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi analoghi nella nostra organizzazione religiosa.

6. Il processo di desacralizzazione  del potere politico

Gli esseri umani, nella loro biologia e nella loro psicologia, quindi nel corpo  e nella mente,  e le loro organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto,  mutano continuamente. Se  non se ne è convinti, è inutile procedere con i ragionamenti sulla democrazia, in particolare sulla democrazia come la si concepisce dalla metà del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di democrazia serve a far cambiare la società pacificamente, ma a farla cambiare. La sacralizzazione  del potere politico serve invece a contrastare la tendenza delle società a cambiare, travolgendo che le domina. In una società dominata da un potere sacralizzato  un cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato  quando lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro  si ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà autorizzato a irrogarle  per conto  della potenza celeste che l’ha delegato.  Tutte le società europee in cui si svilupparono, dalla metà del Settecento, processi democratici erano dominate da regimi assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i sovrani di volta in volta da esse espressi, governavano “per grazia di Dio”.  Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.  Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere romano di Borgo. Lo definisce stato  in modo non del tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano, regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,  con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato  si legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione  del potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità dello Stato.
   Il principio giuridico, e addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di governare “per grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra religione, ma la sua strumentalizzazione politica, per la sacralizzazione  del potere politico.
  Storicamente il processo di desacralizzazione  del potere politico iniziò con il finire dell’era storia che definiamo Medioevo  europeo, nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelle università  europee cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.
  Dal Duecento in Europa si svilupparono università degli studi, istituzioni di studi superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione  del potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina Commedia  di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le concezioni dell’epoca sull’universo.
  Il primo regno ad essere colpito dal processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo in questione nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento, il papato romano, con la Riforma  promossa del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg, nella regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo processo, originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti politici, manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione  del potere politico, anche se  ad essere contestata era la sacralizzazione del papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel 1648  nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della Germania.
  Il papato romano, fino ad epoca recente,  reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare  il suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)], del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge (testo integrale su
https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html  ):

Il "laicismo"
La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.

 In seguito il papato romano usò toni più sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito essenzialmente spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici in Italia, e lo è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma operando attraverso la mediazione prima di un  partito cristiano desacralizzato, vale a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato  da poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate, presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.
  A conclusione di questo discorso, tengo a precisare che bisogna convincersi di questo: non sono le religioni che minacciano la pace politica, come talvolta sento sostenere, ma la sacralizzazione del potere politico. Se il potere politico è sacralizzato, allora   viene a dipendere per la propria stabilità da una, e una sola, religione. Per questo diventerà intollerante della altre e queste ultime lo avverseranno per affermare il proprio diritto civico ad esistere o per affermare un potere politico sacralizzato basato sulle proprie convinzioni di fede. Se invece lo  si desacralizza, quindi se trova giustificazioni non religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società in cui si manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche. Un esempio di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato regge una società complessivamente molto religiosa, secondo diverse confessioni.

7. La Questione romana  


L’evoluzione degli organismi e delle società lascia tracce di ciò che c’era prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché, ragionando sul futuro, è importante conoscere la storia, quindi gli eventi passati. Sotto certi profili il passato non è sempre veramente passato. Lo vediamo, ad esempio, nelle lingue umane. Dico “lingua” e parlo latino, la lingua della Roma di duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di oggi.
  La Questione romana ha travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del suo piccolo  stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali, sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un Regno che nel suo Statuto  proclamava: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!). Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori  di fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri  fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente  il conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il Quarantennale, del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando di apprezzarne l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma anche l’azione repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna autocritica è mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il riconoscere, come fece il papa Montini, la natura provvidenziale  della fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia nazionale.
   La lunghissima sacralizzazione  dei poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro  a sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente, dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse indispensabile possedere  uno stato. Nel mondo di oggi non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale, quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per deporre dittatori  o per far cessare crudeltà  e guerre. Un potere che possieda  uno stato non può più essere considerato solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.
 Ecco come  la rivista Panorama  ha sintetizzato quella vicenda in un articolo del gennaio 2013:

I bancomat funzionano in tutta la Capitale, ma non in quei 44 ettari che stando alle leggi (umane e anche divine) proprio Roma non sono: si tratta del perimetro della Città del Vaticano.
È così dal primo gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al distributore, al supermercato, al magazzino abbigliamento, al tabacchi ed elettronica, alla posta e in farmacia, si paga come una volta: solo in contanti o al massimo tramite il bancomat interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di Religione , che però i numerosi turisti e italiani che frequentano i Sacri Palazzi non hanno.
Colpa di Bankitalia, che non ha poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia, braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.
E per farlo Via Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché - secondo la normativa antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .
San Pietro, in altre parole, trattato come la peggiore isola caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank Italia, infatti, è un soggetto di diritto italiano e quindi controllato da Bankitalia. Quindici anni fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la necessaria autorizzazione.

 La storia ci ha lasciato in eredità il piccolo regno di quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un impaccio da chi lo governa. Sotto certi aspetti è un po’ un  parco a tema, come Disneyland, con tanti pittoreschi figuranti. Non è come capi di stato  che i papi contano nel mondo, ma come capi spirituali di circa un miliardo di fedeli. Possedere  uno stato è anche sotto certi altri aspetti controproducente per il papato romano, come segnalarono ai tempi del compromesso con il fascismo gli studiosi di diritto ecclesiastico: i fedeli infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si potrebbe tornare indietro? Il Papa è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno, certo che potrebbe farlo, ma, in realtà, non può. Quella storia di cui parlavo lo condiziona, lo limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in tante cose e, in particolare, nella questione della democrazia. Questo perché il cedimento al fascismo, avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce profonde in noi, nella cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo e religione si compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando pensiamo al modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello clerico-fascista. In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a sufficienza la memoria storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con l’ebraismo o con le genti che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni sulla famiglia. Su quella del Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte altre. Quando si sostiene superficialmente che la Chiesa non è una democrazia  si ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la Chiesa non è uno stato e non dovrebbe nemmeno possederne uno. Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio le parole del Maestro quando disse che il suo Regno non era di questo mondo? Se però,  nel mondo,  si costituiscono delle istituzioni per vivere collettivamente la religione, come possono essere un ente caritativo, un’università, o una parrocchia,  perché non si dovrebbe praticarvi il metodo democratico, che oggi è generalmente riconosciuto come migliore di quello feudale di tanti secoli fa? Perché, si sostiene, altrimenti i valori di fede sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene, su questo si può discutere. Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa intendiamo, ai tempi nostri, per democrazia.

8. Politiche di liberazione: libertà, uguaglianza, fraternità  come idee cristiane

Per chi scrivo queste brevi note  sulla democrazia? Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato LeggeScienze politiche  e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La democrazia infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire il futuro. L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una formazione per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’ di più? Ho studiato Legge  e ho approfondito un po’.
  La democrazia, più o meno come noi ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò nell’antica Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento anni prima che si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi greci produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era legato ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita umana e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento, si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota degli adulti maschi  liberiLiberi  da che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne, e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.
  La schiavitù non venne posta in questione dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù dell’affermarsi dei processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per abolirla vennero trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto che riteniamo di essere stati creati e di essere all'origine  figli di un unico Padre. Da qui l’idea che si sia creati uguali. Quindi i processi democratici contemporanei sorsero in  Europa, nel Settecento, sulla base di concezioni che intendevano liberare  gli esseri umani dalle schiavitù  sociali perché li si considerava uguali  per natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro, ma come ogni figlio  è diverso dal fratello. Il padre tra loro fa parti uguali.
  Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella degli schiavi.
  Benché dette con le parole della teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°  in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’”  è stato il motto della Rivoluzione francese.  In fondo sono idee cristiane ». Che progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come eretica, solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità, del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano l’accettazione della democrazia una degenerazione del magistero  e giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno detto cose diverse dai papi di un tempo.
  Certo, ai tempi in cui si formarono le nostre collettività delle origini, gli antichi processi democratici si erano da tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme politiche dominanti. E negli scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle collettività non troviamo dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo politico. Parlò di un Regno, ma non di questo mondo.  Il detto che gli è attribuito  “Date a Cesare quel che è di Cesare…”, non va inteso, naturalmente, come una sorta di regolamento di condominio tra poteri nel mondo, quello di Cesare, il nome a cui si richiamarono tutti gli imperatori romani, e quello  Celeste, ma nel senso che su tutto prevalgono le esigenze della fede. Così appunto lo intesero i primi nostri fedeli che si fecero ammazzare in forme in genere particolarmente crudeli, quando non poterono procurarsi carte false attestanti l’adempimento dell’obbligo di compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur di non riconoscere, con un atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che le nostre prime organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto monarchico, come piccoli regni federati tra loro con intese di  comunione: si riconoscevano reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci si attestava di andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica, e piuttosto frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale venne posta fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un processo ancora piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come propria forma di sacralizzazione  politica, e quindi come ideologia dei proprio regno politico, nel Quarto secolo della nostra era.

9. Liberare il lavoro per coinvolgere tutti nella democrazia.

Gli antichi filosofi greci, ragionando sulle esperienze politiche dei loro tempi, diffidarono della democrazia. Vi partecipava una minoranza  della popolazione che praticamente non doveva occuparsi d’altro, ma anche questa gente si lasciava trascinare dall’emotività, non aveva la pazienza d’approfondire, seguiva quelli che meglio mostravano di saper agitare  le collettività divenendone guide. I più decidevano secondo i propri interessi privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di volerli favorire, ma chi arrivava al potere promettendo  di farlo spesso ne abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare, per cui occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad esserlo. Al massimo furonoconsiglieri  di chi comandava di volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua  corte, un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri. Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura. Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.  In fondo è storia anche dei nostri giorni.
   In un mondo fatto di tanti servi abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di pochi, sembrava inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle cose della politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si manifestarono processi democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel dominio di imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica, poi nell’età d’oro dei Comuni  europei, le esperienze di libertà delle industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e fino al Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti che si riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare  il proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi dal lavoro, non avevano la capacità, ma neanche la libertà, di occuparsi della politica, in particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se non sempre fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una situazione naturale e che la ribellione fosse un grave delitto. I poteri assoluti  proposero diverse giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La loro sacralizzazione  li aiutò in questo: si presentarono come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa situazione di temuta anarchia, che è quando si cerca di fare a meno il più possibile di poteri sugli altri,  fu assimilata alla democrazia (che è invece un sistema di poteri condiviso), in particolare dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria veritiera.
  Quello che ho cercato di sintetizzare spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere  tutti  nei processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento. Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama l’Italia come una repubblica  democratica  fondata sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici sono entrati in crisi.

10. Democrazia pacificante

  Fare memoria del passato serve a organizzare il presente e a progettare il futuro. Parliamo della storia dei processi democratici e, quando costruiamo un nuovo gruppo sociale, ci troviamo di fronte a tutti i problemi che si sono presentati in quella evoluzione. E’ come se, per arrivare là dove ci si propone, occorresse ripetere, sintetizzandola, tutta quella lunga e complessa storia, tutti i suoi processi: la si rivive e i problemi vengono superati se si seguono la vie che in passato hanno avuto successo. La democrazia è quindi una conquista culturale che va raggiunta di generazione in generazione e così si consolida nella società. Tutti i fatti umani, la vita biologica come le società, sono così: sono processi, sia a livello collettivo che individuale. Un processo è una serie di eventi che si sviluppa nel tempo e in cui i precedenti influiscono sui successivi. Poiché la vita degli esseri umani è limitata nel tempo, in un certo senso di generazione in generazione si deve ripartire sempre da capo. Le generazioni però coesistono per una parte della loro storia, per cui quelle più anziane istruiscono le più giovani. Ma, in definitiva, il futuro è nelle mani di quelle più giovani. Le culture delle società umane si tramandano e questo processo viene chiamato tradizione. Essa è molto importante, in particolare, nelle questioni di fede. La tradizione culturale  consente di mantenere certe conquiste sociali, scientifiche, culturali in genere, ma ostacola il cambiamento. C’è una tendenza a ripetere, nelle cose sociali, perché quando si presentano problemi si cercano soluzioni nell’esperienza passata. Così, come in tutte le cose umane, il nuovo reca tracce dell’antico e questo accade anche nel caso di cambiamenti sociali molto veloci, a carattere  rivoluzionario, quando tutto improvvisamente sembra essere messo sottosopra. I cambiamenti più rivoluzionari sono avvenuti, nell’ultimo secolo, nel mondo della scienza. Lì il patrimonio culturale si è talmente ampliato che al problema di tramandarlo si è aggiunto quello di dominarlo nel presente: nessun individuo è in grado di farlo, ci si riesce solo in comunità molto vaste di specialisti, ciascuno dei quali controlla un settore molto limitato e dialoga  con gli altri integrando le proprie conoscenze con quelle altrui. E’ un processo che ha interessato anche i fatti sociali: l’umanità è diventata tanto numerosa, le società umane tanto complesse e interconnesse a livello mondiale, che nessun imperatore potrebbe governare da sovrano assoluto; la politica è, ai tempi nostri, necessariamente un fatto condiviso da molti, se si vuole che  consenta la sopravvivenza dei più. Questo significa che la via dell’umanità sarà necessariamente quella della democrazia o quella della catastrofe. Ma la democrazia che ci salverà non sarà quella delle origini, quella che aveva come problema principale il conquistare spazi di libertà verso oligarchie dinastiche, perché avrà davanti come problema principale quello di realizzare una pace stabile a livello globale.
  Fare pace  è tanto difficile anche nelle realtà di prossimità, lo possiamo toccare con mano. Costruiamo un piccolo gruppo e subito sorgono dissapori, gelosie, liti sul da farsi. Qualcuno riesce a tirarsi dietro i più, diventa loro capo e poi li tiranneggia. Ci sono quelli che hanno successo e gli umiliati. Ognuno pensa per sé e cerca di accaparrarsi il meglio. Si allea con altri, salvo poi tradirli appena non gli conviene più stare dalla loro parte. Ogni autorità tende ad espandersi e a liberarsi dai limiti. Nelle riunioni tendono a parlare sempre gli stessi e, in genere, chi ha la parola la tiene troppo a lungo. Il tempo passa veloce e si ha la sensazione di non aver concluso nulla. Alla fine si finisce per seguire i più svelti di  lingua e di mano, quelli che si fanno meno scrupoli. Attorno a loro e, in genere, a chi comanda si creano piccole corti. Ecco che, allora, si rivive il passato, la monarchia, l’oligarchia, varie forme di democrazia e anche l’anarchia, quando si cerca di fare a meno di regole e di autorità per dare il massimo spazio alla vita degli individui. La società fa soffrire, ma presto si capisce che ci è indispensabile per vivere. Si vorrebbe essere più liberi, ma allo stesso tempo si ci lega agli altri: la vita sembra non avere senso senza di loro. Un tempo lo si capiva fin da piccoli, giocando in cortile con torme di ragazzini: oggi i più piccoli vivono come piccoli monaci e questa esperienza viene ritardata. Ma alle medie, quando si comincia a uscire da soli, ci si accorge che senza gli altri non si sa che fare. Ma anche che, se con si dà ordine alle proprie esperienze sociali, non si arriva a nulla e ci si limita ad aspettare, con gli altri, che il tempo passi: si è  ragazzi del muretto, come diceva il titolo di un serie televisiva di qualche tempo fa.
  La democrazia si impara, non è innata nelle persone: è stata un conquista culturale per l’umanità e lo è, di generazione in generazione, per gli individui. Non basta leggerne sui libri, occorre farne tirocinio, metterla in pratica. Gli esseri umani imparano dagli errori: è anche così che evolvono i fatti sociali e, in particolare, è così che evolvono le scienze contemporanee. Io ho imparato la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici. Può sembrare paradossale, tenendo conto che in religione la si è tanto a lungo avversata. Ad un certo punto, però, si  è capito che era l’unica via per influire sulla società e la si è cominciata a insegnare, consentendone il tirocinio. E’ in FUCI che, ad esempio, ho imparato come si lavora in un’assemblea in cui bisogna prendere delle decisioni, il lavoro che deve fare la presidenza, come si propongono le deliberazioni su cui votare, come si propongono modifiche, gli emendamenti, come si vota, come si scrive un testo unificato delle decisioni prese. Alcuni di quelli che vidi in FUCI da ragazzo oggi sono parlamentari che fanno un lavoro molto importante in società, sono diventati dei protagonisti della politica italiana. E comunque tutti, in posti diversi, lavoriamo mettendo a frutto quella pratica di democrazia che si fece da giovani. Estendere questo tirocinio a realtà più ampie di ristretti settori di intellettuali, farne un fatto di massa,  è la sfida di oggi, ma in fondo quella di sempre da quando si sono sviluppati i processi democratici contemporanei ed essi sono diventati indispensabili per la sopravvivenza dell’umanità.
 Nei processi democratici gli individui non sono legati solo da rapporti di forza, come avviene nei fatti sociali elementari. In un certo senso ci si sceglie, come accade tra amici. In religione si è cominciato a parlare di democrazia come di un’amicizia sociale (si è ancora piuttosto cauti a nominarla esplicitamente in dottrina, e questo è qualcosa del passato che rimane). Le società umane sono quindi caratterizzate da qualcosa di comune che si pensa esserci tra gente che vuole andare d’accordo e  che storicamente è stato riassunto, ad esempio, in un mito, una storia leggendaria su origini comuni, o in certo modo di vivere e di pensare che si pensa scaturire dalle persone come le piante dalla terra. Quindi le società umane nascono come esperienze  definite, con dei  confini, con un dentro  e un fuori,  gli amici dentro, i nemici fuori.  Le democrazie nascono per consentire i più ampi spazi di libertà  dentro una società: ce li si deve riconoscere reciprocamente e quindi ci si deve riconoscere uguali in questo. Si è sperimentato che in società più libere si vive meglio perché le risorse sono meglio distribuite. Per essere liberi  in molti occorre però condividere delle regole, porre dei limiti ad ogni autorità e ad ogni arbitrio individuale, dentro la società. Alle origini le democrazie riguardavano, in ogni società, una minoranza di gente che si riconosceva l’uguaglianza  reciproca. Poi, più recentemente,  si vollero includere nei processi democratici tutti  gli adulti di una società, quelli che stavano dentro  una società. Si scoprì, però, che l’uguaglianza doveva essere realizzata, costruita, perché, a quel punto, non era più originaria. Lo si fece potenziando la solidarietà sociale  all’interno  delle società. Ora la sfida è di realizzarla globalmente, lì dove prima non si ammettevano limiti all’arbitrio umano e alla violenza (di chi era fuori  si poteva fare ciò che si voleva: le guerre europee di conquista dell’intero mondo furono fondate su questo principio).  Questo perché servono processi democratici a livello mondiale per salvare l’umanità. E allora serve anche solidarietà a livello globale. E’ una realtà che ci si impone, anche a voler chiudere gli occhi su di essa: ad esempio attraverso i fenomeni delle migrazioni di popoli dai posti dove si sta peggio a quelli dove si sta meglio. Ma che cosa ci lega a livello globale  per cui si debba essere solidali  a quel livello invece di massacrarci e rapinarci, a livello globale, come è sempre avvenuto?
  Oggi pensiamo che democrazia  e pace  vadano d’accordo: pensiamo ad un ordine democratico come a un ordine pacifico. Non è sempre stato così. E’, anzi, uno sviluppo piuttosto recente dei processi democratici. Storicamente le democrazie sono state piuttosto bellicose. Lo è stata, dall’origine, la prima democrazia contemporanea, gli Stati Uniti d’America, che hanno vissuto pochi periodi di vera pace. Sono stati l’unica potenza mondiale ad usare l’arma nucleare in una guerra, non una ma addirittura due volte, distruggendo due città giapponesi, durante la Seconda Guerra mondiale! La storia d’Italia, ai tempi in cui si realizzò l’unità nazionale, nell’Ottocento, vide processi democratici e conflitti bellici strettamente connessi. In questo le democrazie   a lungo non si distinsero dai regimi assolutistici che vollero sostituire.
   I nostri orientamenti religiosi oggi prevalenti ci propongono un impegno per una pace globale  che può servire a sorreggere processi democratici pacifici a livello mondiale: questo tema è al centro della predicazione di papa Francesco e si trova sintetizzato molto efficacemente nell’enciclica Laudato si’, del 2015. Ecco dunque che l’esperienza sociale che si fa ai tempi nostri in religione può avere, e anzi dovrebbe avere, questo significato anche civico a livello molto ampio. In un certo senso, a cominciare dalle realtà di prossimità, come è quella della parrocchia, si può cominciare  a cambiare il mondo. Si tratta di avviare nuovi processi democratici.



11. Democrazia e valori

Qui si ragiona di democrazia per metterla in pratica. Non dobbiamo mai perdere di vista questo obiettivo. Secondo le idee oggi correnti in religione, questo ha un significato anche per la vita di fede. Questo perché la democrazia, come ai tempi nostri la si pensa e la si vive, è legata a valori, vale a dire a principi di azione sociale, che sono condivisi dalla fede e, anzi, in buona parte originano da essa, anche se non sempre se ne è mantenuta consapevolezza. Quando la si è persa, la democrazia viene pensata come la sede dell’arbitrio delle maggioranze in danno di quei valori. A maggioranza si potrebbe decidere tutto. Sarebbe meglio, allora, mettere i valori nelle mani di oligarchie illuminate: sono i reazionari a pensarla così, quelli che vorrebbero che la storia umana tornasse sui suoi passi. Non è impossibile che accada: nella storia osserviamo civiltà che sono regredite. Ogni conquista culturale va rinnovata di generazione in generazione, altrimenti può essere perduta. L’umanità, quindi, potrebbe ancora tornare nelle mani di sovrani assoluti e, in effetti, di questi tempi si osservano processi sociali che vanno in questo senso. Rimane sempre nell’aria l’idea che alle controversie e alla violenze possa porsi rimedio solo con un’autorità superiore che imponga  la pacificazione: nella dottrina sociale la si vorrebbe a livello mondiale e talvolta sembra che il modello siano, in fondo, gli antichi imperatori dei primi tempi, quelli che sacralizzarono il proprio potere politico secondo la nostra fede. Non si tiene conto che una simile concentrazione di potere  fatalmente annienterebbe le libertà civili se non governata con metodi democratici ancora da pensare a livello globale, mondiale, di democrazia universale. Produrrebbe proprie corti, che degenererebbero in oligarchie, le quali, non limitate da processi democratici, si impadronirebbero  delle cose e delle persone e inizierebbero a farsi guerra. Se si riporta indietro la storia, si  è condannati a riviverla. In un mondo che si avvia agli otto miliardi di persone, molto complesso e interconnesso, attuare progetti reazionari porterebbe alla catastrofe, agli incubi  sociali proposti in tanti film di fantascienza, che presentano le conseguenze di una crisi  di regressione  della civiltà.
  Opporre democrazia e valori, come fanno i reazionari, anche quelli che abbiamo in religione, non è corretto, perché nelle democrazie contemporanee i principi di azione sociali più importanti sono sottratti alla volontà delle maggioranze. Fin dalle origini dei processi democratici contemporanei, nel Settecento, si ebbe chiara consapevolezza che le democrazie degenerano se cadono in mano a tirannie di maggioranze. Quando i reazionari accusano la democrazia di indifferenza  ai valori, la diffamano. Da quale parte stanno? Dalla parte dei valori? A ben vedere la loro critica si riversa contro i più. Questo fa sospettare che siano dalla parte di una qualche oligarchia, di gruppi di pochi che vogliono acquisire il controllo sociale liberandosi da limiti dal basso, per poi distribuire il potere sociale a loro discrezione, dall’alto verso il basso, secondo i costumi di sempre delle oligarchie. In religione, a volte, mimano, l’organizzazione del clero, che funziona ancora più o meno così: oggi però la sua struttura  feudale  non fa più gran danno perché  è un’oligarchia prevalentemente solo spirituale ed esercita la propria influenza politica, che rimane comunque rilevante, con la mediazione di un laicato che agisce secondo principi e metodi democratici, in contesto che relativizza ogni autorità pubblica. Nei movimenti reazionari laicali, e in genere politici,  questa mediazione salta: in fondo essi sono l’immagine di come diverrebbe la società se prevalessero.
 Se consideriamo la nostra Costituzione, un documento che contiene regole che possono essere cambiate solo con maggioranze molto vaste e alcuni principi che non possono essere cambiati, vediamo che è piena di valori, di principi di azione sociale che vengono imposti anche al legislatore, come ad ogni autorità pubblica. Ci sono , ad esempio, quelli della libertà religiosa e quello della laicità dello stato: in Italia non sono mai stati completamente attuati. C’è quello di uguaglianza, che oggi è a rischio. C’è quello di solidarietà sociale, anche questo oggi a rischio. Si tratta di principi che nessuna maggioranza potrebbe abolire: ragionandoci sopra lo ha stabilito la Corte Costituzionale, il collegio di giuristi ai quali è affidata l’interpretazione autentica della Costituzione per stabilire se le altre leggi la rispettano. I valori costituzionali in Italia si sono affermati prima tra la gente che nelle assemblee legislative. Scaturirono dalla disfatta del fascismo storico, all’inizio degli scorsi anni ’40: si ebbe un processo di conversione popolare, partito dal rifiuto della guerra e dalla presa di coscienza che ci si era trovati in mezzo ad essa a causa delle idee del fascismo, un regime oligarchico che proponeva la disparità sociale a fondamento della gerarchia pubblica, la violenza come via per la risoluzione dei conflitti sociali, l’aggressione internazionale come via per la ricchezza nazionale, la guerra come  igiene  della razza. Era un regime che metteva le armi in mano ai più piccoli, spingeva la gente alla violenza e alla guerra. Mantenne ciò che prometteva. Gli italiani ebbero la guerra. La disfatta del fascismo fu prima culturale che bellica. La gente non gli credette più, ammaestrata dal dolore: non fu una svolta opportunistica, come taluni sostengono. E infatti fu duratura. Ancora oggi i valori democratici sono vivi tra la gente, in particolare nei più giovani. Vivono, ma spesso se ne è perduta consapevolezza, non li si chiama con il loro nome. A volte li si vive, ma ce se ne vergogna, perché sono diffamati da gente potente.
  Negli anni passati, si sono considerati i quartieri romani, e anche il nostro, come terra di missione. Non sono mai stato d’accordo con questa visione delle cose. L’ho sempre considerata piuttosto clericale. Mi offendeva. Se le Valli  fossero veramente terra di missione significherebbe che tra la nostra gente i fedeli sono diventati minoranza, e minoranza esigua. Non è così, ancora. In una prospettiva clericale si è insoddisfatti della gente  e allora  si fa come se non fosse più della nostra fede. Una scomunica di fatto che è un vero arbitrio. E perché poi? La gente non segue la  vita buona  raccomandata, dicono. Questa però è stata più o meno la condizione di sempre della gente della nostra fede: che cosa è cambiato? Ci si sforza di essere migliori, ma in genere ci si approssima  solo a quella vita buona  idealizzata. E’ quello che accade anche tra il clero, dove sono molti di quelli che ci fanno la predica. Non sempre possono proporsi come esempi di moralità, in particolare ai livelli più alti. Lo ha detto il Papa ed è persona che penso di certe cose se ne intenda. Del resto: la vita buona raccomandata è veramente praticabile? In religione si ragiona di famiglia, ad esempio, e della famiglia non si ha una visione realistica. Del resto chi legifera in materia non ne ha esperienza se non da figlio e zio.  E così va nelle cose del sesso, ma lì è anche peggio perché chi legifera se lo vieta come peccato. I nostri capi religiosi sono scontenti delle nostre famiglie e di come facciamo sesso, ma in che cosa si è veramente peggiori dal passato? Le nostre famiglie di oggi sono molto meno violente e dispotiche che nel passato, nei rapporti tra i sessi è lo stesso. Non è un progresso? Le società del passato, permeate di religiosità tradizionale, esprimevano incubi famigliari. Intorno all'anno Mille gli stessi papi condussero vita sessuale dissoluta: si parlò, a proposito del loro potere, di pornocrazia. In seguito ciclicamente ci ricaddero, assumendo i costumi dei principi del loro tempo. Ed erano anche dei capi violenti. E' dal Settecento che la qualità dei papi cambiò: non è un caso che ciò avvenne con lo sviluppo di processi democratici che li sottoposero a critiche serrate. Ai tempi nostri sono dei sant'uomini.   A ben vedere, dietro l'insoddisfazione dei nostri capi religiosi per le nostre vite,  c’è la politica, si è scontenti di noi perché non assecondiamo più certi disegni politici nella società e siamo molto più coinvolti nei processi democratici. Pretendiamo di avere voce nella formulazione dei principi di azione sociale, del resto secondo la prospettiva dell’ultimo Concilio. Non accettiamo più certe discriminazioni, certe umiliazioni, di essere solo gregge  condotto qua e là da certi pastori. Siamo insofferenti di autorità che si propongono come assolute.  Questo, anche se non sempre se ne è consapevoli, è frutto di una compiuta assimilazione interiore dei valori democratici.
  Le Valli all’ultimo censimento avevano circa ventimila residenti: circa quindicimila di loro, secondo le statistiche nazionali, dovrebbero prendere come riferimento morale la nostra fede, anche se non vengono spesso in parrocchia o non ci vengono più. E’ tra questa gente che dobbiamo sviluppare processi democratici per poi parlare di valori e metterli in pratica. Si tratta di popolo vero, non dell’immagine clericale che se ne ha di solito quando se ne parla tra addetti ai lavori: c’è il buono e c’è il cattivo, e anche il molto cattivo. Ogni persona però è un processo: può cambiare, in meglio o in peggio. E così è per la società. Creare le condizioni per un miglioramento collettivo  e individuale è il lavoro delle democrazia come oggi la si concepisce, piena di valori  dei quali le maggioranze non sono arbitre. Non interveniamo sul quartiere da fuori, da colonizzatori, da  missionari. Ne siamo parte, nel bene e nel male. Viviamo in famiglia, ci prendiamo cura di altri, dei più giovani, dei più anziani, molte ore al giorno siamo al lavoro e come tutti soffriamo dei mali sociali. Queste nostre vite hanno un significato sia civile che religioso. Non è senza valore religioso ciò che facciamo in società, ma anche vero l'inverso: non è senza valore civile ciò che facciamo in religione. Migliorando in religione possiamo divenire anche cittadini migliori e divenendo cittadini migliori possiamo anche migliorare la nostra vita di fede, personale e collettiva. Ma come migliorare? Bisogna innanzi tutto  riprendere a incontrarsi: la parrocchia è un’opportunità perché ha le strutture per farlo. Ed è uno spazio in un certo senso pubblico, perché pagato anche con soldi pubblici, con una parte dei proventi dei nostri tributi che confluiscono in presa diretta nelle casse della nostra organizzazione religiosa.  La società si migliora solo lavorando insieme, di generazione in generazione. Non si tratta divenire in chiesa  come spettatori. Già proporsi che i più giovani abbiano in parrocchia un posto loro dove crescere insieme è importante: non ve ne sono altri nel quartiere, per quanto ne so. Accoglierli richiede la collaborazione degli adulti e si collabora efficacemente solo sviluppando processi democratici, imparando  la democrazia, che è potere condiviso, in cui si condividono innanzi tutto grandi principi umanitari, come quello che nessuno è meno degno di vivere di altri. Nella pratica, ad esempio, questo significa che, in un’assemblea, si cerca di ascoltare e capire gli altri, si rispetta il tempo  loro concesso per parlare, non li si zittisce e non li si sovrasta gridando. Nessuno umilia, nessuno esclude, c’è un posto per tutti, nessuna autorità senza limiti. Si pratica la democrazia e in essa si può scoprire l’agàpe  della fede, specialmente quando non la si affronta con spirito di circolo, ma cercando di espanderla per includervi nuovi  amici.

12. La laicità delle istituzioni pubbliche come principio inderogabile  della democrazia, contro ogni sacralizzazione  del potere politico

E’ evidente  quello che non ha bisogno di essere dimostrato, sul quale, quindi, non è necessario dare spiegazioni o anche giustificazioni. Lo vedono e lo capiscono tutti che è così, e basta.
  Il Sole sorge  e tramonta: è evidente. Che però  giri  intorno alla Terra può sembrare, solo  sembrare  evidente, ma poi abbiamo scoperto che è falso. Sono state necessarie, però, complicate dimostrazioni per convincersene. Per nulla evidente è che sia la Terra a girare  intorno al Sole. Se ne sono date spiegazioni, ma a lungo la si è ritenuta un’enormità impossibile da credere, addirittura un’eresia. Come anche che la Terra e poi il Sole non fossero al centro dell’Universo. Nel secolo scorso, mandando macchine e astronauti  nello spazio cosmico è emerso che il Sole è in posizione piuttosto decentrata in una tra le tantissime galassie dell’Universo, che non è ben chiaro come e dove evolva  e che fine farà, se poi una fine ci sarà mai ad un certo punto.
   In religione quasi nulla è evidente, anche se qualcosa talvolta sembra esserlo,  perché la fede religiosa tratta di potenze invisibili. Sono invece evidenti l’empatia e la compassione: realtà interiori, in un certo senso invisibili,  ma di cui facciamo esperienza. Siamo capaci di immedesimarci  negli altri, nelle loro gioie e nei loro dolori, e ci sentiamo spinti ad andare in loro soccorso quanto soffrono. La psicologia, le neuroscienze e l’antropologia ne danno spiegazioni, certo, ma si tratta di realtà  evidenti, e, innanzi tutto, proprio di  realtà, appunto perché ne facciamo esperienza quotidiana, tutti, almeno quando in noi non prevale la natura di antiche belve. In religione questo si chiama misericordia e il Papa ci torna spesso sopra. Si tratta quindi di realtà che hanno un significato per la fede  e sono al fondo della concezione religiosa dell’agàpe, del pensare di poter riunire tutti in un lieto convito in cui ce ne sia per tutti, nessuno escluso.
  Al di fuori della misericordia, che è evidente nel senso che ho precisato, mi pare che tutto in religione necessiti di complicate, e anzi complicatissime, spiegazioni, delle quali si occupa la teologia. Trattando dell’invisibile, è assai raro che i teologi siano d’accordo tra loro, quindi poi ci sono, più o  meno, tante teologie quanti sono i teologi. Questo però non ci deve scoraggiare, perché quasi tutto, nella vita umana, va così. La scienza, in particolare, funziona così, e per certi versi, nel suo argomentare razionale, conseguente, cercando di accordare conclusioni e premesse, la stessa teologia si è fatta scienza. Questo non significa che non si cerchino accordi, intese. Ci si incontra, si ragiona insieme, e talvolta si riesce ad arrivare a soluzioni condivise. Ma spesso in politica e nella religione che si fa politica, come anche nella politica sacralizzata, quella che strumentalizza la religione, si va per le spicce, non si ha tanto tempo da perdere. Allora si stabilisce che la  verità esca da una certa fonte, sia proclamata da una certa autorità, e che si sia obbligati a convincersene. Storicamente la faccenda della verità appare  strettamente connessa con l’autorità. Che cosa è la verità? E’ un problema filosofico, ma anche politico. La domanda risuona nei racconti della Passione e venne attribuita a Ponzio Pilato, il Procuratore della Giudea, funzionario di medio livello dell’imperatoreromano, quindi, tutto sommato, a un politico. Egli la pose, ma non stette ad attendere la risposta del Maestro. In politica appare inutilediscutere  di verità: e se poi ci fosse sfavorevole? Nessun politico di solito è disposto a lasciare il campo per questioni di verità. Preferisce quindi aggiustarsela. E gli argomenti non mancano mai. Quindi sceglie, tra le opinioni correnti, quelle che gli servono meglio e le impone agli altri con la forza del diritto, facendone norme giuridiche. Una verità vale quanto gli argomenti che si portano a suo sostegno, a meno che non sia evidente; un verità normativa, invece,  è una legge e vale quanto l’autorità di chi l’ha imposta e, in politica, quanto  la forza del potere che ha legiferato, militare, poliziesca, giudiziaria e via dicendo. Anche le religioni impongono verità normative, in particolare nelle società dove i poteri pubblici sono sacralizzati e quindi inglobano la religione nella propria giustificazione sociale. In esse poteri pubblici  e verità normative  si rafforzano a vicenda. Che accade però quando, in società con poteri sacralizzati, una  verità normativa viene posta in questione dai fatti, da argomenti seri? Il potere che l’ha imposta fa in genere resistenza, porta i dissenzienti davanti ai suoi tribunali e, se non cambiano idea, li condanna. Dal Cinquecento e per circa trecento anni è stato questo il dramma delle scienze  tra gli europei. Dalla fine del Settecento è toccato alla democrazia subire lo stesso travaglio. La faccenda è di solito, superficialmente, presentata come conflitto tra scienza e fede, ma, in realtà, si è trattato di un conflitto tra scienza e poteri sacralizzati e poi tra concezioni democratiche e poteri assolutistici sacralizzati.
  In democrazia si è tratto insegnamento dalla tremenda nostra storia del passato e si ripudia ogni sacralizzazione del potere: è questo il senso del principio della laicità  dei poteri pubblici. E’ uno di quei principi inderogabili, che non dipendono da questa o quella maggioranza. Se non lo si applica non c’è, o non c’è più, democrazia. Ma, allora, ci si può chiedere, non  è che nei regimi democratici quel principio della laicità dei poteri pubblici  stia virando in fondo verso la verità normativa, e finisca per rientrare in quelle idee sul mondo che non possono essere messe in questione solo perché sono divenute legge e si rischia forte ponendo dei dubbi? E’ la contestazione di sempre di ogni specie di reazionari. Si ribatte, di solito, che è cosa che ha a che fare con la morale non con la verità. Non è come quando in religione si sosteneva che il Sole girasse intorno alla Terra e si voleva imporre questa idea per legge, altrimenti, si pensava, l’Universo e con esso tutti i poteri politici e religiosi legati al Cielo sarebbero stati rovesciati. Teniamo conto degli altri  e ci poniamo dei limiti. Per questo rinunciamo a sacralizzare, quindi ad assolutizzare  rendendolo illimitato,  il potere politico che esercitiamo. E’ necessario se si vuole che quel potere sia condiviso e che, quindi, ognuno se ne senta responsabile. Capiamo che non possiamo fare degli altri tutto ciò che ci piace o ci conviene. Non sono nostro trastullo, ha detto il Papa criticando la prostituzione, né nostro strumento. Dobbiamo tener conto delle loro vite, ci sono, esistono, se pongono questioni ci sentiamo obbligati ad ascoltarli. Non abbiamo cuore di annientarli: questo ha a che fare con la misericordia e l’agàpe.  Che cosa resta al dunque?Questo resta: è scritto. La democrazia, in fondo, come oggi la si intende, è un sistema di limiti che ciascuno pone al proprio arbitrio, per questioni di cuore, di misericordia, sulla base di esperienze interiori evidenti.  E’ evidente, a questo punto, anche il collegamento con la nostra fede.