Pellegrinaggi, gite e sinodalità
  Nel nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica cerchiamo
di praticare la sinodalità ecclesiale. 
  Nell’ultima riunione abbiamo trattato con
quel metodo un caso spiacevole che era capitato.
  Una
socia e il marito, due persone piuttosto avanti con gli anni, non avevano
potuto partecipare ad un pellegrinaggio a Loreto perché il pullman era partito
senza di loro. Erano arrivati con un po’ di ritardo, probabilmente una decina
di minuti o poco più. Si era deciso di partire senza aspettarli perché il
programma era molto intenso e il viaggio di andata e ritorno piuttosto lungo. Si
era anche deciso di fare una tappa non programmata, al ritorno, al santuario
dello Splendore di Giulianova, in Abruzzo, paese che conosco bene perché vi
sono stato pretore per circa tre anni. Lì è nata la mia primogenita.
  Il caso è stato presentato al nostro piccolo
sinodo associativo, che era veramente tale poiché c’era anche il nostro caro
assistente ecclesiastico. 
  Mi piace affrontare le questioni con il
metodo della gente di legge, quindi partendo da una vicenda della vita concreta,
per stabilire quale sia la via giusta, anche per il futuro.
  I due soci lasciati a terra si lamentavano di
come erano stati trattati. Hanno difficoltà nel cammino e i marciapiede, da
casa loro alla parrocchia, a volte sono sconnessi, quindi avanzano piano piano,
con circospezione. Perché, almeno, non li si era chiamati al telefono, per sapere
la ragione della loro assenza? E’ emerso che chi guidava il pellegrinaggio non
aveva  disposizione il loro numero. Non
era stato annotato al momento della prenotazione. C’era chi lo aveva tra coloro
che erano sul pullman, ma aveva avuto remore perché si era all’alba e temeva di
disturbare persone che, magari, per qualche motivo, avevano dovuto rinunciare a
partecipare e ancora dormivano. 
  Aspettando ancora si rischiava poi di far
troppo tardi la sera e partecipavano molte persone anziane.
  La signora che non aveva potuto partire aveva
poi fatto con un certo calore le sue rimostranze in parrocchia, ma lì non l’avevano
presa molto  bene. Quindi le aveva riproposte
nel nostro gruppo di Azione Cattolica. 
  Dopo averne discusso, non abbiamo preso una
decisione se non quella di chiedere all’assistente ecclesiastico di segnalare
il caso ai suoi confratelli del presbiterio. Però sono emersi alcuni
orientamenti.
  Io ho fatto notare che non si era trattato di
una gita, ma di un pellegrinaggio ad un santuario mariano. Nello
spirito dei pellegrini, si sarebbe dovuto aspettare chi mancava e accertarsi
della ragione della sua assenza. E’ come quando anticamente si partiva in gruppo
come pellegrini verso un luogo santo: non si lasciava nessuno indietro, tra l’altro
perché il viaggio era in genere irto di pericoli e c’era il caso di dover
soccorrere chi non c’era. 
  Mi sono anche lasciato andare ad un po’ di
retorica spiritualistica, e non è mio costume, ma è qualcosa che mi è uscito
dentro d’impeto. Come l’avrà presa la Madonna di Loreto non vedendo arrivare i
due che aspettava? Appunto perché era un pellegrinaggio, in cui chi si mette in
viaggio è aspettato lì dove si propone religiosamente di andare. E’ laggiù
nelle Marche c’era la Madre ad aspettare. 
  Quante volte ho portato là mia madre, devota
mariana! Veramente mia madre trasformava il viaggio in un pellegrinaggio,
spiegandomi tutto bene e aiutandomi a pregare!
  Osservo che la questione si sarebbe potuta
affrontare sinodalmente già sul pullman. La gente del pellegrinaggio avrebbe potuto
aver voce, e invece non l’ha avuta. E, se avesse potuto aver voce, avrebbe potuto
decidere religiosamente di attendere chi 
mancava, appunto perché si trattava di un pellegrinaggio e non di una gita.
Ricordiamo il principio guida della sinodalità: non senza di noi, non solo
da noi. In questo caso ha deciso, in solitudine, la persona che guidava il
pellegrinaggio. E se il caso fosse stato portato alla decisione sinodale si sarebbe
potuto utilmente mettere in pratica il principio di agàpe, che significa
non voler fare a meno di nessuno, non lasciare indietro nessuno. 
  Nella decisione avrebbe potuto pesare questa
considerazione: si era programmato un pellegrinaggio a Loreto e poi, senza
comunicarlo a chi si era iscritto, si era deciso di allungarsi fino a Giulianova,
almeno due ore in più rispetto alla durata preventivata. In definitiva si poteva
rinunciare a questo di più, non previsto inizialmente, per ottenere la presenza
dei (moderatamente) ritardatari. Si fosse trattato di una gita sarebbe
stato diverso. I partecipanti avrebbero potuto concludere di mettere il loro
divertimento prima della cortesia di aspettare chi, in fin dei conti, era in
difetto di puntualità.  Ma, appunto, si
trattava invece di un pellegrinaggio, a cui si partecipava da sorelle e fratelli
per andare dalla Madre: è  così che si fa
tra sorelle e fratelli, li si lascia a terra se ritardano una decina di minuti?
  Nella nostra riunione ho proposto, se il caso
si dovesse purtroppo ripetere, che le persone del nostro gruppo che si trovino
a partecipare al pellegrinaggio scendano dal pullman condividendo in tal modo
la condizione di chi viene lasciata a terra.
  Il caso meriterebbe di essere portato all’attenzione
del Consiglio pastorale parrocchiale, per dare linee guida per il futuro. Di
pellegrinaggi infatti ne organizziamo abbastanza e, per la verità, per
esperienza personale so che sono organizzati molto bene. Ma dovrebbe essere posto
in risalto che sono pellegrinaggi e che quindi ci si dovrebbe regolare
di conseguenza. 
  Nel corso della passata riunione abbiamo
iniziato a prendere in esame la bella Esortazione apostolica Ti ho amato –
Dilexi te, firmata lo scorso 4 ottobre, solennità di san Francesco d’Assisi,
e pubblicata il successivo 9 ottobre. Verso la fine c’è un bellissimo passo che
ci potrebbe essere utile nel caso di cui si discute:
  L’amore è soprattutto un modo di concepire la
vita, un modo di viverla. Ebbene, una Chiesa che non mette limiti all’amore,
che non conosce nemici da combattere, ma solo uomini e donne da amare, è la
Chiesa di cui oggi il mondo ha bisogno.
 Sia attraverso il vostro lavoro, sia
attraverso il vostro impegno per cambiare le strutture sociali ingiuste, sia
attraverso quel gesto di aiuto semplice, molto personale e ravvicinato, sarà
possibile per quel povero sentire che le parole di Gesù sono per lui: «Io ti ho
amato» (Ap 3,9).
 
 Si parlava
dell’amore verso i poveri.
 Fare  a meno delle altre persone, in particolare di
quelle della famiglia, e la parrocchia come l’intera nostra Chiesa è una
famiglia, ci rende poveri, poveri degli altri, della loro amicizia, della loro
cara presenza.
  Viviamo in
un mondo che sa essere spietato e superficialmente pensa di poter fare a meno
di chi non produce o si attarda perché non ce la fa. Ma noi dobbiamo saper
essere diversi, ce lo insegnano i nostri Papi, lo ripeteva sempre papa Francesco
e ora lo insegna il nuovo Papa: un gesto di aiuto, semplice, molto personale
e ravvicinato per far sentire al povero le parole di Gesù per lui, «Ti ho amato».
Ad esempio attendere la persona anziana che ritarda, cercarla, provare a
capire perché non c’è, che cosa le è successo. Di modo che quando giunga
affannata lì dove temeva che non ci fosse più nessuno, ecco che invece ci trovi
ad attenderla. Che gioia, che sollievo, per lei ma anche per chi l’attendeva.
Eccoci di nuovo insieme, non abbiamo perso nessuno! 
  E poi perché
prendersela quando chi è stata lasciata indietro ci parla del suo dolore?  
  A volte, da
persone anziane si ha l’impressione di essere diventate invisibili agli altri.
Lo sto sperimentando anch’io, da recente pensionato. 
   Meglio seguire il magistero del papa Giovanni
Paolo 2° quando a Sarajevo, in Bosnia, il 13 aprile 1997, in una storica omelia
in quella terra di feroci eccidi, da poco cessati, disse:
 Carissimi Fratelli e
Sorelle! Quando nel 1994 desideravo
intensamente venire qui tra voi, facevo riferimento ad un pensiero che s'era
rivelato straordinariamente significativo in un momento cruciale della storia
europea: «Perdoniamo e domandiamo perdono». Si disse allora che non era quello
il tempo. Forse che quel tempo non è ormai giunto?
  Ritorno oggi dunque a questo pensiero e a
queste parole, che voglio qui ripetere, affinché possano discendere nella
coscienza di quanti sono uniti dalla dolorosa esperienza della vostra città e
della vostra terra, di tutti i popoli e le nazioni dilaniate dalla guerra: «Perdoniamo
e domandiamo perdono». Se Cristo deve essere il nostro avvocato presso il
Padre, non possiamo non pronunciare queste parole. Non possiamo non
intraprendere il difficile, ma necessario pellegrinaggio del perdono, che porta
ad una profonda riconciliazione.
«Offri il perdono, ricevi
la pace», ho ricordato nel Messaggio di quest'anno per la Giornata
Mondiale della Pace; ed aggiungevo: «Il perdono, nella sua forma più vera e più
alta, è un atto d'amore gratuito, come lo fu la riconciliazione offerta da Dio
all'uomo mediante la croce e la morte del suo Figlio incarnato, il solo Giusto.
Certo, «il perdono, lungi dall'escludere la ricerca della verità, la esige»,
perché «presupposto essenziale del perdono e della riconciliazione è la
giustizia». Ma resta sempre vero che «chiedere e donare perdono è una via
profondamente degna dell'uomo». 
 I nostri Papi: grandi uomini. Li onoriamo, ma
spesso li ascoltiamo distrattamente, come se quello che dicono non riguardasse
le nostre vite, ma cose molto più  vaste.
Scrivono, ma li leggono in pochi, pensando forse che si rivolgano ai potenti e
ai sapienti. E, invece, parlano, scrivono, predicano, proprio per noi. 
 Pratichiamo dunque il perdono, riconoscendo
ciò che non è stato fatto bene e proponendoci di cambiare, perdoniamo e
domandiamo perdono, invocando la pace. Sia di nuovo e sempre pace tra noi.
Amen
 Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli
 
 
  
