Chiesa povera
1.
L’atteggiamento ecclesiale ed
ecclesiastico verso la povertà è al centro dell’enciclica Ci ha amati – Dilexit
nos (ottobre 2024) e dell’esortazione apostolica Ti ha amato - Dilexit te (ottobre 2025). Ecclesiale
significa della comunità di tutte le
persone di fede; ecclesiastico significa della struttura gerarchica e
degli ordini religiosi. Il tema comprende l’atteggiamento verso i
poveri, che ha anche una rilevanza etica, lo stile di vita personale e
istituzionale quindi verso sé stessi e verso e nella comunità, ed anche questo
aspetto ha un valore etico, e la riforma delle società e delle loro istituzioni
per contrastare le cause della povertà e lenirne le conseguenze, quindi le
politiche riguardanti la povertà.
Nella nostra cultura, una persona è
considerata povera quando non dispone,
o non dispone a sufficienza, di beni ritenuti essenziali per condurre una vita considerata
dignitosa nella società di riferimento. La povertà è considerata assoluta
quando la carenza riguarda beni fondamentali per la sopravvivenza e relativa
quando si dispone di beni in misura
sensibilmente inferiore a quella media della popolazione.
Come ricordato nell’esortazione apostolica Ti
ha amato, ci sono varie specie di povertà: riguardano, ad esempio, i beni
materiali, la salute, fisica e mentale, ma anche l’istruzione e l’integrazione
sociale. Una persona può essere ricca di beni, ma povera di salute e sola,
quindi povera nelle relazioni sociali. Fatalmente il sommarsi di varie povertà,
e non di rado l’una è causa dell’altra, fa scivolare le persone verso la
povertà assoluta.
Nelle tradizioni cristiane, tributarie in questo
del giudaismo delle origini, il tema della povertà è trattato sotto il profilo
della giustizia. Figlie e figli di uno stesso Padre, è considerato
ingiusto abbandonare una sorella o un fratello nella povertà, soprattutto se si
vive nell’abbondanza e ancor più se si vive nell’abbondanza mentre il povero
languisce poco distante. E’ l’insegnamento etico che emerge dalla parabola di
epulone e di Lazzaro [nel Vangelo secondo Luca, capitolo 16, versetti da 19 a
31 – Lc 16, 19-31]. Si è esortati ad aiutare i poveri dividendo la propria
abbondanza.
Negli stati moderni, la povertà è divenuta un
problema politico, quindi di governo delle società, perché si è acquisita
consapevolezza delle sue cause sociali. Non si fa più questione solo di
giustizia, ma di benessere collettivo. Viene considerato interesse
pubblico accrescere il benessere collettivo, compreso quello delle singole
persone, perché questo rende più stabili, sicure e felici le società: vi si
vive meglio. Da qui una serie di politiche attive per realizzare quell’obiettivo,
finanziate con lo strumento tributario, che consente di drenare legalmente una quota
delle ricchezze private a beneficio pubblico, ma anche, in certi casi,
organizzando attività economiche controllate direttamente da istituzioni
pubbliche. L’espansione di queste politiche ha seguito lo sviluppo di democrazie
avanzate, che ha consentito una maggiore partecipazione politica della
popolazione, compresa quella esclusa dal controllo privato delle leve dell’economia.
C’è quindi una relazione diretta tra sviluppo delle politiche di benessere
collettivo e sviluppo della democrazia. In genere si sostiene che in Italia
negli ultimi vent’anni quelle politiche sono arretrate: è opinione comune che nello stesso periodo
sia entrata in crisi anche la nostra democrazia.
2. La questione di una Chiesa povera riguarda essenzialmente le istituzioni
ecclesiastiche.
Nelle società di solito i ricchi sono delle
minoranze. Esse tendono a controllare le leve del potere politico, in mancanza
di procedure democratiche. La ricchezza apre le porte della politica e l’esercizio
del governo aumenta la ricchezza di chi lo pratica.
La nostra Chiesa come comunità ecclesiale, si
stima che ne facciano parte oltre un miliardo di persone, non è composta in
maggioranza da gente ricca e, anzi, in essa vi sono larghe fasce di povertà. Di
più: la maggior parte delle persone è appena sopra la soglia della povertà relativa:
basta una malattia o la perdita del lavoro perché vi cada dentro.
Il problema di una Chiesa povera riguarda, invece, sicuramente da vicino l’apparato
ecclesiastico, che povero non è (tuttora in Italia la nostra
Chiesa è tra i primi proprietari immobiliari). Storicamente emerse all’inizio
del Secondo millennio quando si cominciò ad avvertire nelle società europee che
stavano uscendo dal Basso Medioevo e in cui si stavano manifestando effervescenti
movimenti popolari, l’incoerenza tra le esortazioni evangeliche e gli stili di
vita degli ecclesiastici, i cui vertici avevano iniziato a vivere come
principi. Il fenomeno risale al 6° secolo, quando il Papato romano progressivamente
assunse caratteristiche di un vero e proprio regno territoriale, ma si sviluppò
enormemente dall’11° secolo, quando la nostra Chiesa assunse, progressivamente,
le caratteristiche attuali e, dal Seicento, quelle di uno stato.
All’inizio del Secondo Millennio la nostra Chiesa
venne riformata prendendo come riferimento il modello monastico. I monaci
facevano voto di povertà, ma gli ordini religiosi di appartenenza divennero molto
ricchi. Quello che i monaci facevano come penitenza, per la maggior parte del
resto della popolazione era routine necessitata da reale povertà. Lo osservò una
volta, un po’ polemicamente, David Maria Turoldo, grande poeta e predicatore,
lui stesso frate dell’Ordine dei Servi di Maria.
Si cominciò a predicare a tutti la povertà
come ideale di vita ecclesiale. Una persona come Francesco d’Assisi ne trasse
le estreme conseguenze, riscuotendo un vastissimo consenso popolare, prova di
quanto fosse divenuto intollerabile lo scandalo tra la ricchezza dei principi
ecclesiastici e la povertà della maggior parte dell’altra gente.
L’argomento di uno stile di vita ecclesiastica
più sobria divenne consueto nei ciclici tentativi di riforma, con alterne fortune.
E questo fino al Concilio Vaticano 2°, celebrato a Roma tra il 1962 e il 1965,
durante il quale del tema si discusse anche se il dibattito non portò a
decisioni nei documenti finali.
Con l’aiuto di ChatGPT faccio memoria di un
episodio di quel dibattito.
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Il cosiddetto
“Patto delle Catacombe” è uno degli
episodi più suggestivi e profetici avvenuti a margine del Concilio
Vaticano II, anche se non fa parte ufficialmente dei documenti conciliari.
Ti riassumo qui in modo chiaro il suo significato storico e spirituale
1. Data e luogo
·
Roma, 16 novembre 1965, poche settimane prima
della chiusura del Concilio Vaticano II.
·
Firmato
nella Catacomba di Domitilla, una
delle più antiche catacombe cristiane di Roma.
2. Chi lo
firmò
Circa 40
vescovi parteciparono alla celebrazione e firmarono il testo; nei mesi
successivi le adesioni salirono a oltre
500 (su più di 2.000 padri conciliari).
Tra i firmatari ricordiamo:
·
Dom
Helder Câmara (arcivescovo di
Recife, Brasile),
·
Mons.
Enrique Angelelli (Argentina),
·
Mons.
Charles-Marie Himmer (Belgio),
·
Mons.
Manuel Larraín (Cile),
·
Mons.
Giacomo Lercaro (Italia, cardinale
di Bologna, simpatizzante del movimento).
Molti provenivano dall’America Latina, dove il documento ispirò poi la teologia della liberazione e le assemblee episcopali di Medellín (1968)
e Puebla (1979).
3. Contenuto
del Patto
Il testo, intitolato «Patto delle Catacombe
per una Chiesa serva e povera», è un impegno
personale e comunitario dei vescovi a vivere lo spirito evangelico di povertà, semplicità e servizio.
Contiene 13 punti principali. Ecco i
più significativi:
1. Vivere in
povertà personale,
rinunciando a segni esteriori di ricchezza (vesti, titoli, abitazioni
lussuose).
2. Rifiutare i
privilegi di
potere o di prestigio ecclesiastico.
3. Condividere la
vita con i poveri,
visitandoli, ascoltandoli, partecipando alle loro condizioni.
4. Amministrare i
beni della Chiesa in spirito di servizio, non di potere.
5. Rinunciare ai
titoli onorifici
(come “Eminenza”, “Eccellenza”) per usare appellativi più fraterni, come
“Padre” o “Fratello”.
6. Collaborare
con i laici,
soprattutto con coloro che si impegnano per la giustizia e la pace.
7. Promuovere
strutture di partecipazione e corresponsabilità nella Chiesa.
8. Sostenere i
poveri e le comunità oppresse nei loro sforzi per la liberazione.
4. Significato
storico
Il Patto delle Catacombe nacque come testimonianza evangelica e impegno profetico, non come atto
ufficiale del Concilio.
Esprimeva però una corrente interna al
Vaticano II — quella che desiderava una “Chiesa dei poveri”, come auspicato da Giovanni XXIII nel discorso
di apertura del Concilio.
Fu un gesto silenzioso ma fortemente simbolico:
i firmatari scesero nelle catacombe, luogo delle origini cristiane e del
martirio, per rinnovare la fedeltà a un cristianesimo povero, libero da potere
e privilegio.
5. Eredità
·
Il
documento restò a lungo quasi sconosciuto, ma venne riscoperto negli anni ’80-’90.
·
Papa
Francesco ne ha ripreso chiaramente
lo spirito: spesso parla di una “Chiesa
povera per i poveri”, espressione che riecheggia il linguaggio e l’intento
del Patto.
·
Oggi
è considerato una pietra miliare del
rinnovamento ecclesiale e un punto di riferimento per la pastorale sociale
e missionaria.
In sintesi
Il Patto delle Catacombe fu un impegno
spontaneo di alcuni vescovi del Concilio Vaticano II a vivere la povertà
evangelica e a costruire una Chiesa
serva e solidale con i poveri.
Non è un testo ufficiale del Concilio, ma ne incarna lo spirito più radicale e
profetico.
Testo integrale in traduzione
italiana
del Patto delle Catacombe per una Chiesa
serva e povera, così come appare nelle edizioni più autorevoli (es.
Edizioni Dehoniane e Archivio Helder Câmara).
Patto delle
Catacombe – per una Chiesa serva e povera
(Catacombe di Domitilla, Roma, 16 novembre
1965)
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II,
consapevoli delle deficienze della nostra vita di povertà,
spinti dallo spirito di Cristo,
decisi a seguire le orme dei Padri conciliari,
ricordando la parola di Gesù Cristo che dice:
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il
Regno dei cieli” (Mt 5,3),
ci impegniamo a quanto segue:
1. Cercheremo di vivere
secondo la maniera ordinaria della nostra popolazione, in ciò che concerne
l’abitazione, il vitto, i mezzi di trasporto e tutto ciò che ne consegue.
2. Rinunciamo per sempre
all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nei nostri abiti
(stoffe ricche, colori vistosi) e nei segni esteriori di materia preziosa
(metalli, pietre), che dovrebbero appartenere più ai simboli della Chiesa che
alle persone.
3. Non possederemo né beni
immobili, né conti in banca a nostro nome; se è necessario avere dei beni, li
metteremo a nome della diocesi, delle opere sociali o caritative.
4. Affideremo
l’amministrazione finanziaria e materiale delle nostre diocesi a una
commissione di laici competenti e coscienti del loro ruolo apostolico.
5. Rifiuteremo di essere
chiamati con nomi e titoli che esprimono grandezza e potere (Eminenza,
Eccellenza, Monsignore); preferiremo essere chiamati con il nome evangelico di Padre.
6. Eviteremo tutto ciò che
può sembrare concessione di privilegi, precedenze o onori; rifiuteremo di
ricevere trattamenti speciali nei viaggi, nelle cerimonie o nei luoghi
pubblici.
7. Non depositeremo alcun
bene o denaro a nostro nome personale; e se ciò fosse necessario, sarà per
esigenze di servizio e sotto la vigilanza di persone di fiducia.
8. Cercheremo di affidare il
più possibile ai laici la responsabilità dell’amministrazione, per potere
esercitare più liberamente il nostro ministero pastorale e spirituale.
9. Considereremo la nostra
missione pastorale come servizio e non come potere; cercheremo di essere
presenti in mezzo alla gente, in particolare ai lavoratori, ai poveri e agli
emarginati.
10.
Sosterremo,
per quanto possibile, le opere sociali e le iniziative che tendono alla
giustizia e alla pace, soprattutto in difesa dei più deboli e dei più poveri.
11.
Cercheremo
di partecipare, insieme ai nostri fedeli, ai programmi di trasformazione
sociale, fondati sulla giustizia, sulla carità e sulla fraternità.
12.
Ci
impegniamo a condividere la nostra vita con i sacerdoti, i religiosi, i laici,
in spirito di comunione, fraternità e corresponsabilità.
13.
Torneremo
alle nostre diocesi per essere i vescovi dei poveri, servitori del Vangelo, e
non capi temporali.
Conclusione
“Con l’aiuto di Dio, con la preghiera dei
fedeli e la grazia dello Spirito Santo,
ci sforzeremo di essere fedeli a questo impegno.
Possano Dio e i poveri venirci in aiuto.”
(Firmato da circa 40 vescovi, nelle Catacombe
di Domitilla, Roma, 16 novembre 1965)
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Negli anni scorsi, con papa Francesco gli
ideali di quel Patto, vennero riproposti (lui stesso apparve volervi
tener fede nel suo stile di vita da Papa), anche sulla base dell’esperienza
latinoamericana del CELAM – Consiglio episcopale latinoamericano nelle Conferenze
generali da Medellin (1968) ad
Aparecida (2007), citate nell’esortazione apostolica Ti ha amato.
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Con
l’aiuto di ChatGPT
Le grandi Conferenze generali
del CELAM
Il
CELAM è conosciuto soprattutto per aver promosso le Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano, che hanno
avuto grande influenza sulla teologia e sulla pastorale mondiale:
Anno |
Luogo |
Tema / Importanza |
1955 |
Rio
de Janeiro |
Fondazione
del CELAM. Prima riflessione comune postbellica. |
1968 |
Medellín
(Colombia) |
Attuazione
del Concilio Vaticano II in chiave latinoamericana; nascita della teologia
della liberazione. |
1979 |
Puebla
(Messico) |
Riconoscimento
dei “volti dei poveri” e dell’opzione preferenziale per i poveri. |
1992 |
Santo
Domingo (Rep. Dominicana) |
Evangelizzazione
e cultura nel V Centenario dell’arrivo del Vangelo in America. |
2007 |
Aparecida
(Brasile) |
Linee
guida per una Chiesa missionaria; redazione del documento coordinato dal
cardinale Jorge Mario Bergoglio,
futuro papa Francesco. |
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Nel magistero del CELAM venne posto in risalto che la gerarchia
ecclesiastica in America Latina era stata in genere dalla parte della popolazione
ricca, che deteneva le leve del potere politico, integrandosi con essa: da qui
la decisione di cambiare direzione, esprimendo una opzione preferenziale per
la gente povera, per liberarla da una condizione di sofferenza frutto
di rapporti sociali squilibrati.
Nel magistero pontificio dagli anni ’70 si approfondì
il discorso delle cause sociali della povertà, viste come strutture sociali
di peccato.
Per quanto ne so, tuttavia, non si arrivò mai
a vedere nei processi democratici la via per contrastarle. Il magistero rimase
e rimane sempre profondamente diffidente verso la democrazia avanzata contemporanea.
Questo è risultato evidente durante gli anni spesi nel tentativo di attuare una
riforma sinodale della nostra Chiesa, dall’ottobre 2021.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli