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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

domenica 6 settembre 2020

Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia - Parte 3

 Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia

-

Parte 3

(dal n.10 al n. 24) 

(le parti precedenti sono pubblicate nei post successivi, nei post  precedenti sono pubblicate quelle successive. Questo testo è pubblicato in 8 parti)

 

di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

edizione ottobre  2020, con nuovi materiali

10

Azione Cattolica: un’esperienza di Chiesa

(7 ottobre 2012)

 

10.1. Non sono di quelli che, educati nella fede cattolica, poi l’hanno abbandonata o addirittura rinnegata e vi si sono riavvicinati da adulti o, comunque, crescendo. Con questo non voglio dire di essere stato una persona esemplare secondo le esigenze etiche della mia religione. Del resto nessuno si è mai aspettato nulla di simile da me, anche se sempre mi è stato additato l’obiettivo della santità. Fin da molto piccolo mi è stato detto che il male nella vita c’è e che ne sarei stato responsabile anch’io, per cui mi è stato insegnato a individuarlo, a  pentirmene e a cercare sempre, pervicacemente, di cambiare.  E’ ciò che ho fatto, confidando nei preti che ho incontrato e nella Chiesa come essi me la presentavano, convinta, sulla parola del suo primo maestro, che il male nel mondo non avrebbe prevalso, quindi anche quello di cui io ero stato artefice. Così la mia vita di fede in religione è stata improntata a una certa serenità. E c’è una continuità, mai veramente interrotta, tra la mia esperienza religiosa di bambino, degli inizi, e quella di oggi, di uomo di mezz’età. Se riprendo in mano il libretto del catechismo della mia Prima Comunione, che feci in quarta elementare qui nella nostra parrocchia di San Clemente Papa, e lo leggo oggi da cinquantenne  posso concludere serenamente con un amen, condivido ancora tutto quello che c’è scritto. Mi  è sempre venuto naturale essere una persona di fede, non vi ho trovato alcuna difficoltà, non mi è stato necessario fare particolari sforzi. In questo penso che la mia vita si differenzi un po’ da altre di cui ho saputo. Ci sono persone che sono molto più meritevoli di me sotto questo profilo, per aver dovuto faticare e soffrire molto per giungere dove io sono sempre tranquillamente rimasto. Quello che ho detto vale anche per la mia esperienza di Chiesa. L’ho considerata sempre la mia casa, la mia famiglia, dovunque sono stato. Anche nei periodi della mia vita in cui l’ho frequentata di meno, essa rimaneva dentro di me, perché non ho mai avuto il dubbio di non farne più parte. Sono stato scout, fucino, aderente ai Laureati Cattolici – MEIC e all’Azione Cattolica (della quale FUCI e MEIC un tempo facevano parte), ho partecipato a diversi gruppi di ispirazione religiosa, parrocchiali e non,  e mi  è sempre parso di muovermi da una stanza all’altra delle medesima casa. Ricordo che una volta, da scout (facevo le medie), condussi la mia squadriglia a Sulmona, secondo la missione che avevo ricevuto durante un campo estivo sui monti d’Abruzzo, e chiesi ospitalità al parroco di una chiesa vicina al centro: lui ci fece dormire, con i nostri sacchi a pelo, nel museo della parrocchia, che conteneva tante cose preziose; mi diede la chiave e mi disse che sarebbe ripassato il giorno dopo. Io mi meravigliai di quella fiducia, concessa a ragazzini che non aveva mai visto prima, e, riflettendoci su nel corso di quella notte, conclusi che lo aveva fatto perché noi lì eravamo di casa, eravamo infatti Chiesa, e le nostre divise da scout glielo avevano confermato, è come se lo avessimo scritto in fronte, come si legge nell’Apocalisse dei giusti.

 Il lavoro che si fa nella società come Azione Cattolica lo si fa come Chiesa. Non è inutile quindi confrontarsi sulle nostre esperienze di Chiesa e su che cosa sappiamo della fede comune su di essa.

 Ricordo ancora quando, da bambino, il parroco mi parlò della differenza che c’era tra “chiesa” (edificio) e “Chiesa” (gente). Con il Battesimo ero entrato a far parte della Chiesa ed era per questo che venivo in chiesa. Ne rimasi molto colpito e per un certo tempo lo andai ripetendo in giro, ai miei coetanei. Poi, crescendo, ho scoperto che il discorso sulla Chiesa è molto, molto più complesso. Una volta, mentre ero alle Paoline in via della Conciliazione, notai un libro di Battista Mondin sulle “ecclesiologie” (le concezioni sulla Chiesa), lo comprai, lo lessi con una certa difficoltà e scoprii che in giro, sia nella nostra Chiesa, sia nelle altre Chiese cristiane, c’erano tante idee di Chiesa. A parte questo, ci sono le varie esperienze individuali e collettive che uno fa della Chiesa durante la propria vita, che influiscono sul modo di condursi fuori della Chiesa.

 Se, ad esempio, una persona pensa di trovarsi in una sorta di fortezza assediata, con dentro pochi eroici difensori, un po’ come accadde a Fort Alamo (1836) in cui un piccolo presidio di secessionisti nordamericani tentò invano di resistere all’attacco dell’esercito messicano mandato a reintegrare l’unità nazionale, allora sarà portata a diffidare di tutto ciò che gli viene dall’esterno e a cercare di fare da sé in ogni cosa, utilizzando solo quello che gli viene di dentro, dal proprio gruppo, dal proprio ambiente abituale, costruendo in tal modo una sorta di città di Dio opposta alla città del diavolo, quella di fuori. Ci si muove un po’ in quest’ordine di idee nella poderosa opera De civitate dei (trad.Sulla città di Dio) di S. Agostino di Ippona (5° secolo dell’era antica), scritta in un tempo in cui l’ordinamento dell’Impero romano era travolto dalle invasioni di popolazioni del nord Europa.

 Sulla dottrina della fede in merito alla Chiesa ci sono diversi testi fondamentali del magistero mediante i quali ci si può informare meglio. Ricordo la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che potete leggere sul WEB  a questo indirizzo:

http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html

 Avverto che, trattandosi di un documento normativo, esso è scritto nel linguaggio e con il metodo della teologia, che potrebbe essere un po’ ostico ai non iniziati.

 Della Chiesa si tratta anche, in termini più accessibili, nel Catechismo della Chiesa cattolica (Parte prima, Sezione seconda, Capitolo terzo, art.9, numeri da 748 a 975). Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:

  http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM

 Se ne tratta in modo più semplice nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte prima, Sezione seconda, capitolo terzo, numeri da 147 a 201). Lo trovate sul WEB all’indirizzo:

http://www.vatican.va/archive/compendium_ccc/documents/archive_2005_compendium-ccc_it.html

 Leggendo le prime due opere, potrete constatare che  nella nostra Chiesa, quando si ragiona sulla fede comune, si tiene ben presente tutta la storia bimillenaria della nostra religione e i testi sacri, citando le fonti da cui si ricavano certe idee, a cominciare da quelle bibliche. Non si parte mai da zero e si cerca di tenere tutto insieme. Nel Compendio, per il carattere sintetico dell’opera, queste citazioni sono di meno, ma ci sono.

Storicamente l’Azione Cattolica ha ritenuto di potersi confrontare positivamente con la società in cui la Chiesa italiana vive: il suo moto fondamentale è stato quindi, ed è ancora, quello dell’apertura, non dell’opposizione, e questo naturalmente non significa accettare tutto ciò che gira nel mondo di fuori, ma pensare che certe idee sulla società che hanno un fondamento religioso possono (ancora) essere diffuse utilizzando il metodo e i principi della democrazia, sui quali l’ordinamento della nostra società si basa, e che ciò che si agita nel mondo abbia anche un significato religioso. Viene in Azione Cattolica chi non pensa di essere nella condizione di Fort Alamo. L’Europa di oggi, che ha realizzato un lunghissimo periodo di pace, dopo la serie storica interminabile dei conflitti armati tra i suoi popoli,  e mira ancora alla pace si fonda su idee cristiane: il Papa e i nostri vescovi non cessano di ricordarcelo.  Spinti dal magistero, in Azione Cattolica cerchiamo di agire di conseguenza.

10.2 Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza

 Continuo le mie riflessioni sulla base del libretto di  Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.

 Non possiamo ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):

          […] si deve inculcare al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia             (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità pratiche): ma insieme gli si deve             inculcare       che     questo egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la     perdita di tutta la credibilità come testimone ed esploratore dell’invisibile.

 In definitiva il nostro atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che altro quello di una pervicace  e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato, quindi  compreso con precisione, va piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,

         […] rende buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo             presente ed avere gioia non solo nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non             solo nella felicità, ma anche nella sofferenza […] La speranza procede attraverso la      gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di Dio  un futuro anche per ciò   che è transitorio, moribondo e morto.

  La speranza religiosa vive nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa  essere sempre minacciati e caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della storia.

 Proporre alla gente intorno a noi e a noi stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo  questione di ragionamenti e di argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal  modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In quest’ottica il profano, ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.

 

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11

Noi cattolici: cittadini o stranieri nella società in cui viviamo?

(8 ottobre 2012)

 

 L’Azione Cattolica non avrebbe senso in una società in cui non fosse consentita, in qualche forma, la partecipazione della gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più buio della sua storia, quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò un’altra cosa. Nel 1931 le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che costituivano il braccio operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la presa di distanza dei cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione della legislazione discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa può essere considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono diverse eccezioni (ad esempio la FUCI  e Movimento Laureati di Azione Cattolica),  una delle organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime fascista, il quale con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un accomodamento con i vertici ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani furono effettivamente, nella grande maggioranza, fascisti.

 Riprendo a questo punto alcune delle riflessioni esposte nel libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, A.V.E. editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento pubblico di Dossetti del 1987).

 Nella Bibbia c’è un certa diffidenza per le città e per gli ordinamenti politici, specialmente quelli che riunivano molti popoli diversi. La concezione ebraica di città era molto distante da quella greca, che impronta gli ordinamenti politici democratici contemporanei. Nella prima la città era essenzialmente un insediamento chiuso, protetto da alte mura, in funzione difensiva. Per i greci era principalmente il luogo in cui si svolgeva la cittadinanza comune, la partecipazione al governo, quindi la politica (dal termine greco pòlis, che significa città). Per certi versi la città, nella concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di violenza e di presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero vita travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si mostrò infedele e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto (ne abbiamo un esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione lo spirito religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai centri urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata nella prospettiva evangelica. Il regno  a cui tendono i discepoli cristiani non è di questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano addirittura come stranieri. Sono infatti portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti sociali e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a loro è dovuto (a Cesare quel che è di Cesare), ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre obbedire. Loro compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità cristiane, un ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta qualche affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne concepito come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse 17,6 e 18,2).

 Scrive Dossetti, nell’opera citata (pag.45-46):

          Per il regno di Dio e per la città di Dio  va ancora fatta una precisazione a scanso di             equivoci.

             Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio.      Non si realizza e neppure si prepara o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune,           architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.

              Il Regno giunge a noi senza di noi. Il pensare che noi possiamo attirarcelo e             appropriarcelo è “stoltezza umana, presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.

             All’uomo compete solo la fedeltà alla Parola, l’annunzio di essa, la pazienza longanime             che non spegne lo Spirito credendo di accelerarne le operazioni, la ferma fede che il    grano del Regno “cresce da solo” (in greco: automàte) (Vangelo secondo Marco 4,26- 29). Anche perché il             Regno verrà, per un decreto del Padre in un momento          imprevedibile “che il Padre ha             riservato alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).

             E allora sarà non il coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il             suo troncamento, in “ictu oculi” (Prima lettera ai Corinzi 15,52).

 Un famoso passo della Lettera a Diogneto, scritto cristiano che si fa risalire al 2° o 3° secolo della nostra era, è questo:

         [I cristiani] Abitano ciascuno la propria patria, ma come residenti stranieri; a tutto             partecipano attivamente come cittadini e a tutto assistono passivamente come stranieri;             ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera.

            [… ]

            Passano la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo.

            Obbediscono alle leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi.

 Insomma, concluderei che in religione non siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle nostre costruzioni sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non sarà dalle nostre mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo che riteniamo di aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere seguito da un regresso.

 Ma direi anche di più. Nella Bibbia c’è sicuramente il fondamento del concetto di dignità dell’uomo dal quale oggi ricaviamo la convinzione giuridica e politica in certi diritti umani  inalienabili, che sono la base delle democrazie contemporanee, ma la democrazia non c’è. Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun problema nell’aver mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha avuto alcun problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi, nel passato, a regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso naturalmente potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata elaborata anche una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che volesse dirsi ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si dovesse fare, da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in queste che sono delle specie di note operative per la nostra situazione concreta di oggi  quel discorso non serve.

 Io sto prendendo coscienza di questo: la situazione in cui ci troviamo nell’Europa democratica di oggi non ha precedenti storici, è qualcosa di totalmente inedito. E bisogna dire che questa realtà veramente nuova è stata costruita con l’apporto fondamentale del pensiero di cristiani sulla democrazia e della loro azione politica, di governo delle società.

 Noi, ad esempio, diamo per scontato che questo lunghissimo periodo di pace, che in Europa si protrae ormai dal 1945, rientri nella normalità. Ma non è così. Tanto che, quando frequentai le elementari, nella scuola di piazza Capri, il nostro maestro era solito dirci che dopo qualche anno saremmo diventati uomini, saremmo andati in guerra, e più o meno la metà di noi vi sarebbe morta. Le cose, diceva, erano sempre andate così, una guerra più o meno ogni quindici o vent’anni (e allora si era negli anni ’63-’67). Poi non andò così. L’ultima grande frontiera, edificata tra Est e Ovest Europa dopo la Seconda guerra mondiale, è caduta nel 1991, senza la catastrofe che per tanto tempo si era temuta.

 Aver realizzato, in democrazia, una potenza di pace sugli antichi, immensi, campi di battaglia ha un significato per la nostra vita in religione?

 

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12

Europa, pace, diritti umani. E noi? Abbiamo vinto il premio Nobel.

(13 ottobre 2012)

 

 Non mi pare che finora abbia fatto molta impressione il premio Nobel  per la pace dato all’Unione Europea, vale  a dire anche a tutti noi italiani, cattolici compresi. La nuova Europa è infatti innanzi tutto una realtà di popolo, e di questo c’è veramente scarsa consapevolezza, perché è fondata, più che su un sistema di relazioni intergovernative per lasciare libero passo all’economia (questa fu sostanzialmente la caratteristica della Comunità Economica Europea), sulla proclamazione di  un sistema di diritti umani fondamentali (è una delle caratteristiche fondamentali della nuova organizzazione creata dal Trattato di Lisbona del 2007, entrato in vigore il 1 dicembre 2009). Essi non sono stati ideati dai vertici dell’organizzazione europea, ma, prima di essere formulati in un testo normativo, in quella Carta dei diritti fondamentale la quale con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è divenuta legge europea, hanno corrisposto a un’esigenza forte posta dai popoli ora federati nell’Unione Europea. Su di essa si è fondata la duratura pace continentale e il processo straordinario di inclusione di nazioni che per millenni si erano combattute che ha convinto la celebre istituzione svedese a riconoscerne il merito non a questa  o a quella personalità, ma a tutti noi.Bravi!”, ci hanno detto, “avete fatto una cosa grande”.  E noi? Noi siamo rimasti perplessi, come è scritto che rimarranno i giusti, quando, alla fine dei tempi e presentatisi per il giudizio su ciò che sono stati e su ciò che hanno fatto, verrà loro indicata la porta del Regno beato.  Che abbiamo fatto per meritarci questo apprezzamento? Abbiamo fatto, abbiamo fatto…

  Ad esempio noi cattolici siamo divenuti più tolleranti verso le altre confessioni cristiane e verso le altre religioni che sono professate nell’Europa di oggi. Non si tratta di un impegno attuato solo dai capi delle nostre comunità, ma di una pratica molto diffusa tra le nostre genti, forse anche al di là di una chiara consapevolezza delle questioni implicate. In certi casi, come nei rapporti con l’ebraismo, a rapporti di aspra conflittualità è subentrata una franca amicizia. E’ uno sviluppo veramente importante, tenendo conto che la tremenda storia europea è stata duramente travagliata da guerre e altre stragi a fondamento religioso, in particolare nello scorso millennio. Abbiamo costruito in tal modo una civiltà fortemente inclusiva, in cui questo e quello possono trovare la loro patria indipendentemente dal loro rapporto con il soprannaturale, e infatti il moto fondamentale che riguarda l’Unione Europea è un afflusso di popoli dall’esterno verso l’interno, un moto centripeto, tanto che addirittura gli eredi di un nemico storico come l’Impero Ottomano turco bussano alle nostre porte nonostante tra loro prevalga di gran lunga la fede islamica; è qualcosa che richiama l’immagine del libro biblico di Isaia, nel brano in cui si profetizzano carovane di genti che da tutto il mondo vanno verso una Gerusalemme molto idealizzata, manifestazione dell’unione tra divino e umano, vale a dire di certi principi supremi e realtà  di vita. Questa cosa non c’è mai stata nella storia dell’umanità: prendiamone coscienza. Dispiace che non sia una cosa cattolica? Oh, ma è anche una cosa cattolica.

  Due giorni fa, con una fiaccolata, qui a Roma abbiamo celebrato il cinquantenario dell’apertura del Concilio Vaticano 2°. In quella occasione, avanzando in processione verso piazza San Pietro ci siamo manifestati come Chiesa che vuole essere luce delle genti, secondo l’insegnamento di uno dei documenti conciliari fondamentali, la costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: luce delle genti). Ebbene, convinciamoci che negli anni passati lo siamo veramente stati, tutti noi. Il papa Giovanni Paolo 2° volle invitarci a rifletterci su durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000. Considerate come siamo cambiati in meglio, noi Chiesa, da quando su certe cose andavamo molto per le spicce, come si suole dire. Ho cinquantacinque anni e non sono un nativo conciliare, vale a dire che ho avuto modo di vivere la Chiesa di prima, anche se da molto piccolo. Chi è più grande ricorderà meglio. E comunque ci si può informare sui libri di storia. Ai nativi conciliari, a quelli che sono nati e vissuti interamente nella nuova era, coloro che si incaponiscono ancora a vivere come si era prima sembrano un po’ strani. Non è così? Ma ci sarà modo di approfondire di più in questo che è stato proclamato, innanzi tutto come obiettivo del nostro impegno, Anno della fede.

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13

Insieme per agire da gente di fede

(14 ottobre 2012)

 

 Qualche anno fa partecipai a una riunione del mio gruppo  del MEIC – Movimento ecclesiale di impegno culturale, alla Cappella universitaria dell’Università La Sapienza, qui Roma, in cui un teologo ci parlò dei vari modi di pensare una dimensione comunitaria della vita di fede e di interventi nella storia dell’umanità motivati religiosamente e osservò che spesso si erano scelte delle vie che poi avevano costretto a dire molti “si, però…”, vale a dire a cercare di giustificare in qualche modo quelle che, con il senno del poi, venivano individuate come insufficienze in base all’etica religiosa proclamata. Ad esempio, la cristianità medievale,  in cui indubbiamente affondano alcune di quelle che possiamo considerare come radici delle società europee di oggi e che talvolta viene considerata un modello ancora attuale per la sua forte integrazione culturale del cristianesimo, produsse anche l’Inquisizione e le Crociate, modi di vivere la fede dai quali oggi abbiamo preso le distanze dichiarando di impegnarci a non replicarli; ma, ciò detto, siamo portati ad  aggiungere si però … l’idea di una società civile fortemente ispirata alla religione in fondo ci piace e cose simili. Non ci si poteva pensare un po’ meglio, prima, per non dover poi essere costretti a pentirsi? E’ un problema che riguarda anche noi, che vogliamo ancora influire nella società in cui viviamo per cercare, nella dinamiche democratiche, di determinare collettivamente scelte ispirate a certi valori che per noi hanno fondamento religioso. O forse sarebbe meglio non agire affatto e limitarsi solo ad attendere con pazienza che le cose cambino perché trascinate dal disegno provvidenziale, mentre noi ci incoraggiamo e aiutiamo a vicenda edificandoci nelle nostre comunità religiose con salmi, inni e canti spirituali, secondo le espressioni di San Paolo (Lettera ai Colossesi 3, 16. 1 Lettera ai Tessalonicesi 5,11)? Tenuto conto di quante sono le cose di cui abbiamo sentito il bisogno di chiedere collettivamente perdono, da quando ci siamo consentiti un simile esercizio, ci si potrebbe pensare seriamente.

 Riprendo a questo punto a seguire, in queste riflessioni, il libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrice A.V.E., collana Le Tessere e il Mosaico, 2011, euro 8,00, pagine 131, con prefazione di Giorgio Campanini.

 Il mondo nuovo che religiosamente attendiamo non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi la responsabilità. I nostri progetti non possono e non devono estendersi fino ad esso. Né possiamo immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una società da noi edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti (pag.45-46):

  Il Regno, giunge a noi, senza di noi.

[…]

   ,,,il Regno verrà, per un decreto del Pare in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1, 6-7).

 E allora sarà non il coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, in ictu oculi [trad.:in un batter d’occhio – greco: en ripè oftalmù] (1 Lettera ai Corinzi 15,52).

 Quest’ordine di idee è un bel sollievo. Secondo le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati colpevoli di non aver saputo realizzare, nelle nostre faticose e lunghe approssimazioni, il Regno, la società perfetta che non ha bisogno di lampade o di sole, “perché il Signore Dio li illuminerà”, secondo l’emozionante profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3,  e anche di non aver asciugato ogni lacrima dagli occhi dei sofferenti, e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il lutto, il pianto e il dolore. Fatemi sapere se condividete questo discorso.

 Ciò posto, se guardiamo all’Unione Europea di oggi, per la quale inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio Vaticano 2°, nella quale abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo stati Luce delle genti, ce ne compiacciamo, pur pentendoci del male che in esse non siamo riusciti ad evitare e sentendoci pur sempre impegnati a migliorarci, perché non solo ad esse apparteniamo, ma anche esse ci appartengono, nel senso che sono un nostro modo di essere e quindi riflettono coralmente nel bene e nel male le nostre vite, e noi, lo sappiamo, non possiamo dirci perfetti, anche se in qualche modo desideriamo, e a volte anche cerchiamo  e addirittura ci sforziamo, di corrispondere al disegno che religiosamente pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in definitiva, quei risultati, quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non sono tati accidentali, ma voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi che  lo volevamo fare e l’abbiamo fatto. Sono effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo e vediamo in esse cose buone  ma anche cose da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e zizzania, di Città secondo Dio  e di Città secondo l’avversario di Dio che non è in  fondo in nostro potere sciogliere del tutto.

 Ha un significato, per la nostra fede, l’aver agito e costruito? Dossetti ritiene di poter concludere di sì. Per amore infatti abbiamo agito. Scrive (pag.103-104):

 Tutto nella via del cristiano agito dallo Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere banalmente sulla contrapposizione fra “contemplazione” e  “azione” […] “contemplazione” per il senso originario   [che aveva nell’antica filosofica greca, in particolare in Plotino (3° sec.) – nota mia] ,,, non [è] propriamente un concetto cristiano e [continua] a trascinare e a veicolare più di un equivoco nella storia della spiritualità cristiana.

 In senso propriamente cristiano tutto è azione, e con diversi gradi di efficacia, peculiarmente là dove il concetto abituale di azione ne saprebbe vedere di meno.

 Azione è l’Eucaristia: prima di tutto azione di Cristo, poi azione della Chiesa, azione della comunità che la celebra, del cristiano che vi partecipa.

 Ogni preghiera, se fatta come deve essere fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.

 La lettura, e ancor più la “ruminatio” della Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.

 La malattia che riduce immobile in un letto, accettata nella fede,  è azione […].

  La concentrazione dell’anima nel suo oggetto più proprio […] è azione”.

  Per Dossetti, si agisce come risposta d’amore all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è una carità verticale, appunto dall’alto, che è “generante e condizionante rispetto ad ogni altro amore, sia pure il più santo e benefico” (pag.117).

  “L’amore rivolto ai fratelli ne sarà un segno necessario e precipuo: ma derivato…”.

 Dossetti segnala l’esistenza di un paradosso della carità eucaristica, dell’agire insieme, nel nostro mondo, su fondamento religioso:

 “L’altissima risposta d’amore trinitario sarà tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si preoccuperà e saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto più sarà silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà quel grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che può pervadere gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza 7,22-24) senza che se ne accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente” [Libro della Sapienza 7,25].

 Insomma: si agisce, si agisce insieme  e si agisce per amore, ma amore di una specie particolare, che  è risposta ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così, non si fa conto del risultato, che poi si è convinti che verrà in un battito di ciglia a tempo debito e non per opera nostra: lo scopo dell’azione è infatti solo quello di diffondere nella società un “effluvio puro della gloria dell’Onnipotente” (Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997). Questo equivale, detto in termini profani, a infondere nella società intorno a noi dei valori. Tutto ciò definisce bene il compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si prepara, si ragiona, si fa pratica e, infine,  ci si organizza  e si va in prima linea, dove per quei valori si lotta, e addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario, nel senso che in esso sono avversati quei valori. Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace, con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli specificamente mariani, segno dell’anelito a valori anche specificamente nostri, di quelle radici cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il richiamo alla corona di dodici stelle della donna vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene, l’Unione Europea di oggi ci appare veramente un segno grandioso, anche in senso specificamente religioso.

 Ho parlato di amore e questo termine, con il quale traduciamo tutti  i termini del greco neotestamentario con i quali specificamente si descrivono le relazioni tra i fedeli e tra essi e il mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri umani e il fondamento soprannaturale,  suona equivoco, e anche un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel greco del Nuovo Testamento (per quello che ho letto – ma la mia in merito è solo erudizione di liceale, neanche tanto studioso; non sono uno specialista) si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di quando si sta insieme per fare un bel pranzo; il secondo si riferisce all’amicizia, a un rapporto di reciproca simpatia e di preferenza, il terzo richiama l’idea di quando si partecipa ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario del greco del Nuovo Testamento non viene riportato il termine èros, che pure rientra nei significati della nostra parola italiana amore, e definisce la passione sessuale, quella che trascina emotivamente dalle viscere e acceca.  Penso quindi che questa metafora non sia stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente nell’Antico, mentre anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di molto più complesso, perché è insieme èros (come base emotiva della predilezione per una persona fisica), agàpe, filìa e coinonìa, oltre a patto  ed alleanza.

 Poiché la qualità e la direzione del nostro agire  dipende molto dalle ragioni e del modo del nostro stare insieme, è interessante ragionarci un po’ su. Mi piacerebbe sapere  a quali conclusioni siete giunti, cari lettori; come vi regolate nelle vostre vite.

 

 

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14

Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza

(12 ottobre 2012)

 Continuo le mie riflessioni sulla base del libretto di  Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.

 Non possiamo ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):

          […] si deve inculcare al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia             (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità pratiche): ma insieme gli si deve             inculcare       che     questo egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la     perdita di tutta la credibilità come testimone ed esploratore dell’invisibile.

 In definitiva il nostro atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che altro quello di una pervicace  e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato, quindi  compreso con precisione, va piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,

         […] rende buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo             presente ed avere gioia non solo nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non             solo nella felicità, ma anche nella sofferenza […] La speranza procede attraverso la      gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di Dio  un futuro anche per ciò   che è transitorio, moribondo e morto.

  La speranza religiosa vive nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa  essere sempre minacciati e caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della storia.

 Proporre alla gente intorno a noi e a noi stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo  questione di ragionamenti e di argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal  modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In quest’ottica il profano, ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.

 

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15

Noi: popolo di Dio

(15 ottobre 2012)

 

 Nella riunione di martedì 16 ottobre 2012 ci è stata presentata la costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°. Si tratta di un atto normativo, di una legge della nostra Chiesa. La Chiesa ha bisogno di leggi? Come ogni società di esseri umani, sì. Ma quella costituzione conciliare è molto più di una legge. E’ l’indicazione di una strada da prendere. Con autorità siamo stati chiamati a percorrerla, tutti noi che siamo stati persuasi dalla fede cristiana e quindi confidiamo in Gesù, il Cristo,  affidandoci a lui qui nella  vita terrena e oltre, sperando in quella eterna. Noi siamo convinti di costituire un popolo, il nuovo (rispetto all’antico popolo israelitico) popolo di Dio, non fuso in unità sulla base di discendenza etnica (secondo la carne), ma mediante la nostra fede (nello Spirito).

 Riconosciamo nostro capo Cristo, che riteniamo regni glorioso in cielo,  quindi al di sopra di tutto: il suo è un nome al di sopra di ogni altro nome. Il nuovo popolo:

 Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio [noi ci chiamiamo anche così],nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un Tempio [Lumen Gentium, cap.2°, n.9],

 Nella fede siamo stati come rigenerati dall’alto: La nostra legge suprema è ora di amare come lo stesso Cristo ci ha amati, secondo quanto espresso nel Vangelo di Giovanni 13,34 [Lumen Gentium, cap.3°,n.9]. Siamo così popolo costituito per una comunione di vita, di carità e di verità [Lumen Gentium, cap.2°, n.9].

 Riteniamo che ci sia stato affidato un compito, in particolare di essere stati inviati a tutte le genti del mondo,  come strumento di redenzione, luce del mondo e sale della terra. [Lumen Gentium, stesso numero sopra citato]. Dobbiamo estendere il nostro popolo, che deve però rimanere uno e unico, a tutto il mondo e a tutti secoli, per fare ciò che Dio vuole, vale a dire per radunare insieme i suoi figli dispersi [Lumen Gentium, cap.2, n.13].

 Bene, ma che cosa c’è di nuovo in questo rispetto alla fede della Tradizione, dei secoli precedenti? Ci ragioneremo su, in questo Anno della fede. Chi ha fatto esperienza ravvicinata della Chiesa prima del Concilio Vaticano 2° sa bene che qualcosa è effettivamente cambiato. Ma, nella nostra Chiesa, quando si cambia si cerca comunque di tenere tutto insieme, in particolare di collegarsi sempre alle esperienze delle origini, dei primi tempi, specialmente quando si scrivono i documenti ufficiali. Così, leggendoli superficialmente, si può in qualche modo rimanerne delusi. Anche perché, quando si parla del Concilio Vaticano 2° al di fuori della nostra Chiesa, lo si presenta come una sorta di svolta rivoluzionaria, che non c’è stata. Non è vero che c’è ancora un Papa a Roma? E ll vescovo suo vicario per la città di Roma? E un parroco nel nostro quartiere?

 Vi voglio però indicare un segno. Pensateci su. In parrocchia, davanti all’altare qualche volta ho visto esposta una grande menorah, il candelabro a sette braccia che è uno dei simboli dell’ebraismo. Oggi non ce ne stupiamo. Ancora nell’Ottocento ci sarebbe costato però molto caro, saremmo stati trattati un po’ come eretici e forse scomunicati, vale a dire tenuti isolati nella nostra comunità (non significa sbattezzati). Oggi invece è cosa  del tutto lecita e, anzi, ci edifica.

 Insomma, da sempre abbiamo saputo di essere stati inviati alle genti, ma dopo il Concilio Vaticano 2° abbiamo cominciato ad entrare in relazione con esse, come collettività e come individui, in modi sicuramente più amichevoli del passato.

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16

Essere popolo unito da una fede religiosa

(16 ottobre 2012)

 

Uno dei temi sui quali il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) ha riscoperto nella dottrina della tradizione potenzialità meno sviluppate nella storia bimillenaria della Chiesa è quello dell’essere tutti  i cristiani un popolo messianico, vale a dire genti unificate da una fede e da una missione. E, in questo parlare di popolo, hanno influito non poco concezioni moderne della politica, intesa come organizzazione della convivenza civile, così come quando in passato si parlava dello stesso tema si faceva riferimento ad altre concezioni in merito. Non dobbiamo meravigliarcene, perché la Chiesa è anche una organizzazione umana e in quanto tale è anche opera nostra e risente delle nostre visioni sul mondo e la storia. Questo che ho scritto da ultimo è sempre stato ben presente nell’idea che, riflettendosi sistematicamente sopra, si aveva della Chiesa, ma non lo era più tanto, e da secoli, quando iniziò il Concilio Vaticano 2°, nella ideologia ecclesiale, vale a dire in quella visione semplificata delle dinamiche sociali che serve a tenere unita la gente in una collettività organizzata. In quest’ottica, poiché si confidava molto negli effetti che alla Chiesa derivavano dall’essere insieme realtà umana e soprannaturale e corpo sociale sottomesso ai Pastori  (il Papapadre universale e vicario di Cristo, capo invisibile: viene dal greco pàpas che significa papà- e i vescovi –dalla parola greca epìscopos, che significa sorvegliante), si pensava che essa potesse sicuramente essere ordinata in modo diverso nel tempo e nei vari luoghi in cui viveva, ma che di volta in volta essa fosse il meglio che c’era in un certo momento e in un determinato luogo, vale a dire che nella storia fosse stata e fosse sempre una società perfetta. Ma vi è di più. Una conseguenza che si traeva da quest’ordine di idee era che la Chiesa, attraverso i propri Pastori, potesse, non solo insegnare con autorità, ma anche avere l’ultima parola in merito a tutte le altre organizzazioni sociali umane, che è come dire sulla politica delle società in cui viveva. Fin da quando, nel quarto secolo della nostra era, la Chiesa uscì, come dire, dalla clandestinità e cominciò ad influire con le proprie idee sulle società politiche in cui era immersa, quest’ultima pretesa fu materia di contrasto con i capi civili, i quali, al contrario, volevano spesso dire con autorità alla Chiesa come essa doveva essere. L’idea di una certa divisione di ruoli, di compiti e di materie da trattare tra le organizzazioni politiche civile e l’organizzazione della Chiesa, ciò che oggi chiamiamo laicità dello stato, è moderna: risale alla fine del Settecento. La troviamo attuata per la prima volta nella storia dell’umanità dopo la rivoluzione nordamericana, nell’ordinamento costituzionale degli Stati Uniti d’America (“nessuna professione di fede religiosa sarà mai imposta come necessaria per ricoprire un ufficio o una carica pubblica degli Stati Uniti”, art.6°, 3° comma, della Costituzione federale), benché i rivoluzionari avessero espresso nella Dichiarazione di indipendenza forti idealità religiose cristiane.

 Nella storia dell’umanità dalla fine del Settecento ad oggi abbiamo assistito ad un mutamento delle organizzazioni politiche da modelli monarchici, in cui il potere supremo era attribuito a una persona fisica o ad essa e a suoi stretti parenti, a modelli più partecipati da altri strati della società civile. Questo moto è all’origine delle democrazie di popolo contemporanee, basate sull’uguaglianza – intesa come pari dignità sociale – dei cittadini. In qualche modo esso si è espresso anche nella concezione di Chiesa che è stata proclamata con autorità durante il Concilio Vaticano 2°, anche se esso non ha avuto esiti propriamente rivoluzionari, né nelle intenzioni, né nella volontà espressa, né soprattutto nella pratica ecclesiale postconciliare.  Bisogna però osservare che ciò è dipeso anche dal fatto che la Chiesa ha rinunciato ad una sovranità politica su società civili, come quello che storicamente era stato attuato nello Stato pontificio, nell’Italia centrale, con capitale Roma. Sotto questo profilo ebbero effetti propriamente rivoluzionari la Repubblica romana napoleonica  (1798), quella  di Mazzini (1949) e la conquista e soppressione dello Stato pontificio (1870), nel senso che l’ordinamento politico instaurato dai Papi nell’Italia centrale venne in quelle occasioni  sovvertito, nel primo caso il Papa regnante fu preso prigioniero, nel secondo caso dovette fuggire da Roma e nel terzo dichiarò di considerarsi prigioniero in Vaticano.

 Possiamo misurare la rapida evoluzione di certe concezioni dal confronto tra queste due pronunce autorevoli, datate 1882 la prima e 1965 la seconda:

“[…]Presso i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e costanti nella religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà della Chiesa, di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da tutte le pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in forza dei quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini religiosi; confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le unioni contratte fuori del rito cattolico; esclusa l’autorità ecclesiastica dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale, cadde necessariamente nel potere di altri.

E Roma, la più augusta città del mondo cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e si vede profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio dell’eresia. Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad accogliere i rappresentanti e i capi della setta più ostile alla religione cattolica, i quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È abbastanza palese il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio che portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al Papato, sfidandolo nella sua stessa sede. Non è certamente da dubitare che la Chiesa esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia certo e manifesto che essi con siffatte arti intendono colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e distruggere, se fosse possibile, la religione.[…]

[Dall’enciclica Etsi nos, del papa Leone 13°, del 1882.]

 http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15021882_etsi-nos_it.html

“76. La comunità politica e la Chiesa

È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori.

La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana.

La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L'uomo infatti non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna.

Quanto alla Chiesa, fondata nell'amore del Redentore, essa contribuisce ad estendere il raggio d'azione della giustizia e dell'amore all'interno di ciascuna nazione e tra le nazioni. Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell'attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.

Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell'esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre.

Certo, le cose terrene e quelle che, nella condizione umana, superano questo mondo, sono strettamente unite, e la Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni. “

[Dalla costituzione pastorale Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Concilio Vaticano 2°-        1965]

 In sostanza il fattore unificante della Chiesa intesa come popolo di Dio è stato visto, nella concezione dell’ultimo concilio ecumenico, più nella fede  e nella missione comune, vale a dire di tutti, che nell’essere soggetti alla sovranità del Vicario di Cristo e, per quest’ultima, che ancora sussiste come legge della Chiesa,  è stato posto l’accento sulla sua finalità di servizio della vocazione personale  e sociale delle persone umane.

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17

Unire le genti per una vita buona

(17 ottobre 2012)

 

 La prima e fondamentale esperienza di una relazione con un’altra persona è quella che si fa da molto piccoli e qualcuno, di solito la madre, si prende cura di noi. E’ una cosa che ho letto, ma che corrisponde anche a quello che è successo a me. Da bambini piccoli non si potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro. Quel rapporto tra un adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto profondamente in noi. Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in particolare approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra la parola mamma. L’ho sentita pronunciare da diversi morenti. In qualche modo quel legame tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne sentiamo l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta La Pietà, posta nella basilica di San Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso. Ci attraversa  e, riflettendosi in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente  da ogni condizione esterna mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122]. Spesso, quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una parrocchia, lo facciamo disposti alla devozione filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo delusi. Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé stesse come (utilizzo un termine di Dossetti) micro modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente impegnate nel realizzare una comunità di vita amorevole. E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito di istruire i nuovi arrivati alle costumanze di un ordine o di una congregazione di vita religiosa, si sentivano in dovere di disilludere subito in merito i giovani. Del resto nelle disposizioni date da alcuni fondatori di collettività di frati e monaci ci sono esplicite disposizioni che riguardavano questo aspetto. Non si entra in una vita come quella per ottenere soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.

 Più le dimensioni di un agglomerato di persone che per varie ragioni devono vivere vicine crescono, più i problemi aumentano. Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur come individui sociali, siamo infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.

 Considerate ad esempio la situazione che si crea quando in piazza S. Pietro il Papa si affaccia, all’Angelus della domenica, e si rivolge alle migliaia di persone convenute ad ascoltarlo, dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto di una relazione profonda. Ciascuno/a ha un posto per lui nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un cervello elettronico che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a costruire eseguirebbe probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni singolo individuo nella piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca di dati. Un essere umano non funziona così. Guarda in basso e vede una folla  indistinta. Il Papa per la folla è un fattore di unità. Ma il Papa, essere umano, non è in grado biologicamente di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore. Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti alle loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro  le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo  quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane  Papa, e via dicendo, tanto che io, pur avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora  bene e mi ci commuovo.

 Ora, la Chiesa cattolica ha preso sempre molto sul serio l’impegno a radunare i figli di Dio dispersi, per estendere il suo popolo, mantenendolo però uno e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per farne una comunione di vita, di carità e di verità (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e 13, del Concilio Vaticano 2° - passi riportati in estratto in un post dei giorni passati]. Quando però si passa da una comunità delle origini di poche decine di discepoli a una di diverse centinaia di milioni di persone (se ne stimano ottocento milioni, in crescita) occorre porre molta attenzione agli elementi unificanti. Per quasi due millenni il principale di essi, nella Chiesa cattolica, è stato costituito dai Papi, nei quali si concentrava dal punto di vista normativo (e si concentra tuttora, nonostante qualche importante temperamento) l’autorità nella Chiesa, non essendo mai stata  concepita altra autorità che, all’interno della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare quella del Papa (altre questioni sono quelle dei problemi che sotto questo profilo i Papi ebbero con certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia che, nel primo millennio, ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa inoltre, come persona fisica, a volte con l’aggiunta di una certa idealizzazione, che in alcuni casi confinò con una sorta di mitizzazione della sua persona (ne era espressione il fasto che in certe epoche la circondava),  poteva agevolmente conquistare i cuori dei fedeli.

 Fin dai primi secoli sono stati importanti, al fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati anche fonte di divisione) anche quelle definizioni sintetiche dei principali argomenti di fede che sono detti simboli, due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo degli Apostoli che recitiamo insieme nella liturgia della Messa. Queste solenni e autorevoli definizioni sono state raccolte in un libro, il H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum [Raccolta di simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni in materia di fede e morale], molto utilizzato in teologia.

186. Fin dalle origini la Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e normative per tutti. Ma molto presto la Chiesa ha anche voluto riunire l’essenziale della sua fede in compendi organici e articolati, destinati in particolare ai candidati del Battesimo.

 Il simbolo della fede non fu composto secondo le opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti salienti, scelti da tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa della fede. E come il seme della senape racchiude in un granellino molti rami, così questo compendio della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento.

187.Tali sintesi della fede vengono chiamate “professioni di fede”, perché riassumono tutta la fede professata dai cristiani. Vengono chiamate “Credo” a motivo di quella che normalmente ne è la prima parola: “Io credo”. Sono anche dette “Simboli della fede”.

188.La parola greca “Sy’mbolon” indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come segno di riconoscimento. Le parti venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.

[dal Catechismo della Chiesa Cattolica 1992-1997]

 I Simboli  della fede, alcuni dei quali per la loro origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la comprensione legando affermazioni  che riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può facilmente tenere nel proprio cuore.

  Non va infine dimenticata l’importanza che storicamente ha avuto, come fattore unificante, la liturgia, anch’essa regolata spesso da leggi della Chiesa, quindi con autorità.

 Ora, per capire l’importanza che il Concilio Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica, bisogna comprendere questo: esso ha in qualche modo inciso su tutti e tre quei tradizionali  fattori unificanti  e ciò anche se, da un punto di vista teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti conciliari, di stabilire una continuità tra l’aggiornamento realizzato e la precedente Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una cesura non c’è e non si avverte nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I capi della Chiesa ebbero l’impressione, nel dopo concilio  di un marcato sbandamento del corpo ecclesiale e se ne preoccuparono. La biografia dell’attuale Papa ce ne parla.

 Nel corso di quella grande assemblea mondiali dei capi della Chiesa di allora, riuniti intorno al Papa, ci fu però la riscoperta di un ulteriore fattore unificante che alle origini c’era senz’altro e di cui si aveva avuto sempre consapevolezza, ma sul quale nel corso della storia bimillenaria della Chiesa non si era fatto molto affidamento, anche perché, in effetti, non poche volte aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.

 

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Un popolo nuovo

(19 ottobre 2012)

 

 E’ possibile che alcuni dei lettori che entrano in questo blog non abitino nel quartiere romano di Monte Sacro e in quella sua porzione che va sotto il nome di Valli, perché le sue strade portano il nome di diverse valli d’Italia: il posto in cui io vivo con gli altri del mio gruppo di Azione Cattolica. Possono trovarsi anche molto lontano, oltreoceano e addirittura agli antipodi. So ad esempio di famiglie di Ardigò che discendono da genti che dalla provincia italiana di Cremona, homeland di tutti gli Ardigò  del mondo, emigrarono in Brasile e in Argentina, come mio nonno paterno. Ecco che allora uno di quegli Ardigò, per trovare lontani parenti in Italia, potrebbe impostare una ricerca sul WEB su uno dei tanti motori che servono a questo scopo ed essere casualmente trasportato nella nostra piccola frazione di mondo. A pensarci bene è una cosa straordinaria, fantascientifica al tempo della mia infanzia e della mia adolescenza: essere connessi in una rete che collega potenzialmente miliardi di elaboratori elettronici e, idealmente e di fatto, le persone che sono dietro a loro. Certo, questa è poi solo una potenzialità, perché una sola vita umana non basterebbe per entrare effettivamente in relazione con tutta quella gente. Però è come quando si installa un cartellone pubblicitario sull’autostrada: chi passa legge. E allora, coloro che da lontano si mettono a leggere quello che in questi giorni sto scrivendo possono chiedersi dove voglia andare a parare. Dovete allora capire, cari lettori, che, certo, siamo lusingati del vostro interesse, ma qui ci si occupa di una piccola comunità religiosa, dall’Azione Cattolica che è nella parrocchia di San Clemente papa, in via Val Sillaro, Roma, Italia, Unione Europea: essa quest’anno, prendendo lo spunto dall’indizione di un Anno della Fede, aperto per la Chiesa cattolica lo scorso 11 ottobre, ha iniziato a riflettere sul significato della sua esperienza associativa e del suo ruolo nella Chiesa, anche per continuare a  proporsi nella società che la circonda e convocare in tal  nuovi amici che condividano i suoi ideali. Questo orientamento per così dire operativo si riflette nei temi trattati, per cui argomenti più generali vengono condensati e sistemati sulla base dei problemi che sono emersi nell’attività del gruppo.

 Roma è, a confronto con le maggiori metropoli del mondo, una piccola città, che, tutto sommato, conserva ancora una dimensione umana forte. Alcuni giorni fa lo si è detto di Firenze e i fiorentini se ne sono risentiti.  Ma non è una cosa negativa. Roma e Firenze sono città europee in cui si vive meglio che in altre agglomerati urbani molto più grandi. Per rendere l’idea, invito a portare l’attenzione su una grande conurbazione come San Paolo del Brasile, che conta una trentina di milioni di abitanti. Il nostro quartiere, poi, è, all’interno della città di Roma, una zona periferica del nord est senza particolari problemi. E’ cresciuta nel dopoguerra vicina alla riva destra dell’Aniene, uno dei principali affluenti del fiume Tevere, non molto distante dalla confluenza tra i due corsi d’acqua. All’inizio venne abitata da molti dipendenti pubblici, dello Stato, in particolare del Ministero del Tesoro e di quello delle Finanze, ma anche da militari,  e da dipendenti di altri enti pubblici, poi da una popolazione più varia.  I romani de Roma, quelli che discendono da famiglie insediate a Roma da molte generazioni, non prevalgono: i primi abitanti del quartiere arrivarono da varie parti d’Italia, dal Nord e dal Sud, ma anche dall’Abruzzo, ad Est, ed erano piuttosto giovani. Poi la popolazione si è fatta più anziana e solo negli ultimi anni sono cominciate ad arrivare famiglie con bimbi piccoli. Si è aggiunta anche un’emigrazione dal continente indiano, dalla Cina e dalla Romania. Nuovi poveri hanno ripreso ad abitare in rifugi precari nelle vicinanze del fiume, dove nel primo e secondo dopoguerra e fino agli scorsi anni ’70 c’erano i baraccati, gli sfollati per la guerra mondiale e poi i nuovi giunti emigrati dal Meridione.

 Il nostro gruppo di Azione Cattolica è composto in prevalenza di persone appartenenti alle famiglie che per prime si insediarono nel quartiere: costituiscono il nostro nucleo storico. Come si sa, l’Azione Cattolica dalla metà degli scorsi anni Settanta iniziò a perdere aderenti e ad avere difficoltà ad attirarne di nuovi. Si possono individuare diverse ragioni di ciò che è successo. I fattori negativi si sono succeduti e sommati. Complessivamente si può dire che la fede religiosa, come fattore sociale aggregante, ha perduto forza e questo, paradossalmente, proprio in anni in cui alcune convinzioni tratte dall’esperienza religiosa, in particolare quelle che riguardavano i diritti umani e la dignità delle persone umane, venivano poste alla base dello straordinario processo di unificazione continentale europea, una cosa mai accaduta nella storia dell’umanità,  e determinavano il convergere di moltitudini verso l’Europa e quindi un’imponente espansione politica per inclusione e non per conquista e sottomissione di altre nazioni. Si è trattato di un successo spettacolare, del quale di solito si è restii a rendersi conto. Basti pensare che una frontiera caldissima, come quella che divideva il continente europeo attraverso la Germania e lungo le frontiere orientali dell’Austria e dell’Italia si è improvvisamente dissolta tra l’89 e il ’91 senza un conflitto catastrofico. Questo enorme risultato non è attribuibile a questa o a quella persona, ad esempio al cancelliere tedesco cristiano democratico Khol, al quale pure si deve il processo di riunificazione politica, economica e sociale della Germania e il ritiro pacifico dell’Armata rossa dalla Germania orientale, o del nostro De Gasperi, democratico cristiano, o di altri, che si spesero in  momenti cruciali. Si è infatti trattato innanzi tutto  di un’opera collettiva, corale, in cui sono stati protagonisti i popoli europei. Per questo qualche giorno fa ci hanno dato il premio Nobel. Penso che si debba partire da questa considerazione anche per riflettere sulle ragioni del nostro stare ancora insieme in un gruppo di Azione Cattolica, impegnato, soprattutto dopo il Concilio Vaticano 2°, a diffondere valori nella società, in unione con tutte le altre persone di buona volontà.

 Si osserva qualche volta che il Concilio Vaticano 2° ebbe una visione ottimistica dei tempi. Effettivamente, considerando quell’evento complessivamente, può essere osservato che i capi ecclesiali i quali ne furono protagonisti nutrivano una certa fiducia nella gente comune, in particolare in noi laici. E, visti i risultati, non direi che si siano ingannati. Scrutarono, come scrissero, i segni dei tempi  e vi videro straordinarie opportunità, determinate dal fatto che la gente, che in passato era stata in genere succube dei propri capi politici, si era mostrata in grado di influenzare positivamente il corso della storia.

 I documenti conciliari furono scritti da teologi cattolici. Il particolare metodo seguito dalla teologia cattolica comporta che il nuovo  in genere non venga proposto come trascinato dal futuro e verso di esso in rottura con il passato, ma venga presentato come scaturente, e  spinto verso il futuro, da radici, in primo luogo in base alle scritture sacre e alla tradizione, quindi da un passato gravido di futuro, senza cesure, senza soluzioni di continuità. Questo anche quando ci si propone di attuare cambiamenti molto significativi.

 Ad un certo momento diventò centrale, nei discorsi conciliari, l’idea di popolo animato da grandi ideali religiosi, che venne presentato come nuovo (benché iniziato quasi duemila anni prima e animato da una missione analoga di salvezza) rispetto a quello antico costituito dall’Israele storico, senza che però il nuovo privasse di senso l’antico, data l’irrevocabilità delle promesse dall’alto e il radicamento del cristianesimo nell’ebraismo antico. Oggi questi discorsi non suscitano generalmente problemi, ma ancora ai tempi del Concilio Vaticano 2° sì, e di  molto grossi, e questo sulla base di una teologia molto antica, risalente ai primi scrittori autorevoli della Chiesa, dalla quale si erano tratte (indebitamente come riconoscemmo) conseguenze molto gravi dall’idea di un nuovo che sostituiva l’antico. Ecco che, allora, questo ideale di nuovo popolo (in senso prevalentemente storico e religioso) al quale ci si riferì durante il Concilio quando si parlava di popolo di Dio, iniziato con il cristianesimo circa duemila anni prima, venne ad un certo punto  ad assomigliare abbastanza, per come veniva caratterizzato,  a quello di popolo nuovo (in senso prevalentemente sociale: nel senso di collettività organizzata con proprie istituzioni e principi) - in italiano si coglie una differenza di significato anteponendo o posponendo l’attributo nuovo - manifestatosi solo dopo la Seconda guerra mondiale, dove nella prima espressione si aveva riguardo essenzialmente alla formazione di un popolo unificato su basi prevalentemente religiose rispetto a quello, che lo aveva preceduto storicamente, costituito prevalentemente su basi etniche, mentre nella seconda si faceva riferimento a un tipo di società umana come non c’era mai stata prima, che si era organizzata storicamente nelle Nazioni Unite e in altre organizzazioni (tra le quali oggi vi è la nostra Unione Europea) caratterizzate dalle medesime idealità e in particolare dall’affermazione dell’universalità di certi diritti umani fondamentali e dell’obiettivo della pace perpetua globale. Un’umanità nuova in cui, ad esempio, appunto, i cristiani, per  quegli ideali umanitari non (più) visti in contraddizione con quelli religiosi da loro professati, si proponevano di non perseguitare più gli ebrei e quindi in cui coloro che  consideravano sé stessi il nuovo non cercavano più di sopprimere coloro che consideravano l’antico. In questo si poté quindi cogliere una “novità” di tipo nuovo  del  popolo di Dio, ma radicata nelle origini, per cui l’evidente cambiamento di rotta venne considerato, in definitiva, una correzione  di rotta, insieme pentimento e conversione, teshuvà in ebraico, come poi, anni dopo, venne detto esplicitamente, in particolare dal papa Giovanni Paolo 2°.

  Ecco quindi un compito che si può individuare per noi cattolici europei che viviamo in una relativamente tranquilla periferia della  Roma di oggi: contribuire a consolidare come nuovo popolo (in senso religioso) il popolo nuovo (in senso sociale) che siamo diventati insieme a molti altri i quali, anche se non sono come noi esplicitamente religiosi, condividono certe nostre idealità che a ben considerare hanno fondamento religioso. Che è come dire: consolidare nella società di oggi certi valori che hanno base religiosa, come non cessano di ricordarci  i nostri vescovi.

 

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Micro-Macro e la ricerca della felicità

(20 ottobre 2012)

 

Riprendo la riflessione sul libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 129, euro 8,00, formato tascabile (cm 11,5x16,5), con introduzione di Giorgio Campanini e un pezzo di Giuseppe Gervasio inserito come prefazione alla precedente edizione del 1997 (si tratta del testo di un intervento che Dossetti, ormai prete e monaco dopo essere stato molti anni prima professore universitario e politico, fece il 1 ottobre 1987 durante il Congresso eucaristico della diocesi di Bologna):

 Come la Chiesa riunita dell’assemblea eucaristica è l’epifania [=manifestazione. Nota mia] anticipata del Regno, così la Chiesa inviata dall’Eucaristia è un’epifania della “polis” [=città in senso politico, come organizzazione sociale. Nota mia] salvata: “politicità” tutta “sui generis” [=in un senso particolare, suo proprio. Nota mia], che non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno di appetibile, ma unicamente per quello che sono “in mysterio” [nel mistero della loro realtà che rileva per fede religiosa. Nota mia] (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più intimo, più invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso. Nota mia], creando e divulgando ovunque – nel seno di ogni società grande o piccola, soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni sociologi laici ora raccomandano – un’atmosfera di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli altri, con spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine 121 e 122].

 Queste parole di Dossetti ricordano quelle che troviamo nella costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°, al capitolo 2°, n. 19:

 […] il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento di redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (si confronti  Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.

 Essere inviati collettivamente al mondo per essere strumenti di redenzione, vale a dire per influire su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente perché rifiuta di dominare gli altri e si propone di incontrarli nel loro intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di relazioni personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto un tipo di felicità, una società in cui nessuno sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga incontro alle esigenze degli altri con trasporto di tipo materno e li si tratti con animo fraterno, riconoscendo loro quella particolare dignità che deriva loro dall’essere figli di un padre comune (notate che certi concetti possono essere espressi bene solo con metafore tratte dalla vita familiare, molto idealizzata).

 Ora, naturalmente quest’ordine di idee presenta già qualche problema se lo si applica a piccoli gruppi, i quali pure vogliano impegnarsi effettivamente a realizzare quel tipo di comunità  a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli illuminati rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776)  si limitarono prudentemente a riconoscere il diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come collettività. E’ chiaro dunque che questo lavoro nella società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere stati ad essa inviati), è particolarmente difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo individuo e richiede un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono ispirati dalle nostre stesse idealità. Esso parte dai principi religiosi, ma richiede anche una sapienza umana che origina da ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la comprensione dei tempi e del mondo in cui si vive,  interagisce con quanto altri sono, fanno, sanno capire, conoscono del mondo in cui vivono,  e può produrre determinazioni comuni su ciò che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti concreti. Ma c’è di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche, come può essere ad esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere, deve mantenere comunque vitali quelle dimensione sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più limitate, a partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova sostegno, orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio avviso, significa non incontrare l’uomo dall’esterno e in superficie, ma nel suo “sé” più intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi tenere insieme macro e micro. Questo lavoro di cui ho parlato è il campo operativo principale dell’Azione Cattolica.

 Per oggi concludo osservando, nella linea di Dossetti, che in tutto questo agire collettivo ben ispirato si è indubbiamente esposti a una tentazione piuttosto forte, che è quella di ritenere che l’opera del nostro ingegno, le costruzioni sociali che riusciamo storicamente a realizzare, corrispondano ad un certo punto a un modello di perfezione sotto il profilo propriamente religioso, si tratti di famiglia naturale, di comunità religiosa, di organizzazione  di una città, di uno stato nazionale, di un ordinamento pubblico sovranazionale e, al limite, di un ordinamento globale di tutti i popoli della Terra, come nelle intenzioni vorrebbe essere l’organizzazione delle Nazioni Unite. Questa identificazione tra soprannaturale e naturale, espressa storicamente dal motto Dio è con noi, non la possiamo però legittimamente mai affermare, perché ci è stato detto che il Regno beato non è di questo mondo, con tutto ciò che da questo consegue. Nella visione di Dossetti, per quanto (giustamente) ci si dedichi a costruire comunità amorevoli e materne, ogni espressione della socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e in essa elementi positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre mescolati a elementi negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti storicamente ad attuare e quello che definiamo come  “il Regno”. E ciò si avverte con più forza a misura che le collettività organizzate diventano più grandi, aggregando moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le dimensioni dell’umanità intera, e a misura in cui esse incidono maggiormente nelle vite delle persone. Dossetti precisa:

 Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.

  Rimane pertanto questo paradosso, che, inviati verso gli altri per migliorare sulla base dei nostri principi di fede le società in cui insieme ad essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle società degli estranei, degli stranieri, dal punto di vista religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione. C’è sempre infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati ottenuti e questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da poco nell’ottica della nostra completa integrazione civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.

 

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Uguale dignità nella Chiesa tra tutti i fedeli

(21 ottobre 2012)

 

  Sintetizzo le riflessioni che ho svolto nei giorni scorsi su uno dei temi ancora caldissimi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), nel senso che in quella grande assemblea fu intuito e sviluppato concettualmente, ma ancora la sua realizzazione è, come dire, in corso d’opera,  e si tratta di un lavoro in cui l’Azione Cattolica è particolarmente impegnata.

 Prima di cominciare richiamo alla vostra memoria questo che segue, di cui mi sono occupato in interventi precedenti: a)dalla fine del Settecento e in particolare dalla metà del secolo scorso, si è prodotta nel mondo una evoluzione politica delle istituzioni supreme per la quale si è passati da forme di governo caratterizzate dall’accentramento del potere in poche persone, dalle quali poi il potere veniva delegato in un scala gerarchica discendente, ad altre che consentivano una più larga partecipazione delle genti; b) questi sviluppi erano basati sull’idea di uguaglianza  intesa come pari dignità sociale; c) la pari dignità sociale è fondata sull’affermazione di diritti fondamentali che devono essere riconosciuti a moltitudini di esseri umani; d) il riconoscimento di questi diritti fondamentali è alla base del metodo democratico, quello che rende possibile la partecipazione di masse al potere supremo e che quindi non consiste solo nella regola secondo la quale vince la maggioranza; e) dopo il secondo conflitto mondiale il movimento per il riconoscimento universale dei diritti umani fondamentali di tutti gli esseri umani ha avuto il suo massimo sviluppo, producendo, ad esempio con a Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, una serie di dichiarazioni in cui quei diritti fondamentali non vennero più legati a una condizione di cittadinanza politica particolare (essere cittadini italiani o di un altro stato), ma alla sola condizione di esseri umani; f) nel mondo globalizzato (che significa unificato dal farsi più deboli le frontiere politiche che lo dividevano) di oggi il sistema dei diritti umani fondamentali sta avendo la sua massima estensione ed è alla base dell’idea di cittadinanza universale, realizzata la quale non vi sarebbero più nel mondo apolidi, genti private di una qualche possibilità di influire sui destini comuni; g) l’idea dell’esistenza di diritti umani fondamentali ha fondamento religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano, perché, in fondo, non può argomentarsi per altra via l’idea della pari dignità degli esseri umani, che per i cristiani dipende dall’essere stati tutti gli esseri umani creati uguali sotto quel profilo della dignità, da un unico Padre.

 Questi sviluppi democratici dell’ordine mondiale trovarono eco nella gerarchia cattolica a partire dal radiomessaggio natalizio del 1944  del papa Pio 12° (la Seconda Guerra Mondiale era ancora in corso in una sua fase particolarmente cruenta):

Il problema della democrazia

 Inoltre — e questo è forse il punto più importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.

 Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.

 In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società?

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html

 Poiché ha rinunciato ad esercitare un potere politico diretto, salvo che su una specie di simulacro di stato nel quartiere Vaticano in Roma, e ritiene di avere la missione di custodire inalterati alti ideali che riguardano il senso dell’universo, il destino degli esseri umani e la morale, la gerarchia della Chiesa cattolica, intesa come il papa e i  vescovi, non ha voluto, sulla scia del movimento democratico globale, democratizzare anche la Chiesa cattolica, nel senso di sottoporre certe decisioni supreme, ma anche molte di minore spessore,  al consenso della maggioranza. Paradossalmente quindi la Chiesa, pur consigliando la democrazia al suo esterno, rimane una potenza non democratica, essendo tutto il potere canonico (sull’organizzazione ecclesiale) concentrato nel Papa romano e nella sua piccola corte (la Curia vaticana) e solo parzialmente decentrato ad altri vescovi. Tuttavia gli sviluppi contemporanei dell’idea di pari dignità degli esseri umani, che del resto ha fondamento religioso, non sono stati del tutto senza conseguenze nella  Chiesa. Ciò si rileva particolarmente nei documenti del Concilio Vaticano 2°, che per altro, secondo il metodo della teologia cattolica, la quale si sforza di tenere sempre insieme  vecchio e nuovo, passato, presente e futuro, l’umanità antica e quella nuova, i morti e i vivi e i popoli di tutta la Terra, secondo il comandamento di unità ricevuto, sono formulati in modo da evidenziare particolarmente la continuità piuttosto che la novità.

 Un passo centrale lo si ritrova nel capitolo 4°, n. 32, della Costituzione dogmatica Lumen Gentium  sulla Chiesa, dove è affermata la vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune di tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo. Questo il brano:

Dignità dei laici nel popolo di Dio

32. La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo, infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).

 Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).

Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo.

 http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html

 Che cosa comporta, per noi laici, questa pari dignità nella Chiesa?

 

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21

Città di Dio, città dell’uomo, città del diavolo

(22 ottobre 2012)

 

  Il peccato che è nell’uomo decaduto si ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più vaste e complesse: queste ultime possono assicurare agli uomini vantaggi sensibili in varie direzioni, ma tendono a porsi come grandi concentrazioni di potere (le megalopoli, gli imperi) e divenire sempre più anonime e soprattutto consentire uno sfrenamento più incontenibile delle peggiori passioni umane: l’ambizione prevaricatrice, l’avidità di illimitati guadagni, il lusso spettacolare, la lussuria sempre più cupida di ogni perversione, l’adulterazione industrializzata della verità, lo spargimento ingiusto di sangue ecc. Sicché non si può parlare di un’ambivalenza delle forme sociali e del potere, come fanno molti sociologi contemporanei, ma il credente deve riconoscere un loro inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio più grave di tutti è la guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a livello planetario.

[da Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]

 Dossetti pronunciò le parole sopra riportate dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e l’esperienza biblica, dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si era nel 1987, in un mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in particolare, non si era ancora nell’era della globalizzazione, della interconnessione planetaria delle economie e delle società umane.  L’umanità era dominata da due grandi sistemi politici sovranazionali, quello centrato sugli Stati Uniti d’America e quello che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e seguiva due gruppi di sistemi economici, piuttosto articolati al loro interno, quelli di tipo capitalista e quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse di perversione sociale venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli schieramenti, che concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno il rovescio dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli universi sociali contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti della  civiltà umana in cui si trovava, poteva fare riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno del bene, a un modello positivo. Ai tempi nostri quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta da potenze umane omogenee ed è diventata così più significativa la critica globale alle società umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo Dossetti: il male appare come universalmente connaturato con l’esperienza delle società umane e da esse ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una semplice ambivalenza tra male e bene, ma un inquinamento profondo che ora si manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E tuttavia, paradossalmente, il rischio di guerra globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle parole, sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei tempi antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un tempo in cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa è anche opera umana. La pace ha anche una valenza religiosa e quindi si è spinti a ragionarci su anche sotto questa prospettiva. E ci si può chiedere come conciliare le esigenze di impegno nel mondo nuovo in cui ci troviamo a vivere con il pessimismo biblico sulle organizzazioni sociali umane.

 Bisogna allora evidenziare un importante problema che noi, gente di fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre persone al di fuori della cerchia di chi condivide le nostre convinzioni religiose, le cose del nostro mondo: i principi ai quali vogliamo riferirci per orientare le nostre condotte individuali e collettive sono tratti da un’antica sapienza che si è formata in un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo. Non si tratta di una differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad esempio, il  mondo è più popolato; le armi oggi sono più potenti e via dicendo), si tratta di una novità profonda, strutturale e piuttosto recente. Non dobbiamo però pensare che si tratti di un processo anche irreversibile. I tempi nuovi in cui ci troviamo dipendono da una certa organizzazione sociale molto complessa e quindi anche particolarmente fragile, nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni fa uno scrittore italiano scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli,  della crisi di un’organizzazione sociale umana moderna molto articolata e complicata. Un nuovo medioevo, in senso negativo, una regressione catastrofica, è quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo prefigurare le condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche su scala globale ne possono essere considerate in qualche modo delle avvisaglie.  Oggi più che in qualsiasi altra precedente epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre società, una sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e dall’interazione solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per preservarla dai pericoli e dal  male che sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge verso la Città di Dio e quella che invece tenta verso la Città del diavolo, compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per la costruzione della Città dell’uomo, espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una specie di carestia biblica che coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico soprannaturale. Siamo spinti a scuoterci da una certa passività nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane  a cui ho accennato e dal concepirci sempre come stranieri in ogni patria terrena, nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato che questi sforzi collettivi possono avere successo.   Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca: per ogni problema se ne possono infatti  pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è strettamente correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani. Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa, che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità di una dottrina con quelle pretese formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a un contesto teologico, di coerenza teologica.

 Mi piacerebbe, a questo punto, concludere anticipandovi la soluzione delle soluzioni, il discorso ragionevole che chiuda il sistema in modo rassicurante per noi persone religiose, chiarendo che il problema è solo apparente e che vi è ancora una via semplice per vivere da persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo, perché di passo in passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre concezioni religiose, oltre le quali, benché la storia ci spinga collettivamente in quella direzione, non si sa bene che cosa ci si debba aspettare.

 Voglio precisare che la novità della situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su scala globale, mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città, quartieri, condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede, caratterizzato da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra nella nostra esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in essa, nella nostra vita feriale, e può, ad esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che chiede il riconoscimento di una cittadinanza universale sulla base di quella nuova organizzazione globale delle cose umane  di cui dicevo. In questioni come queste anche noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel continente europeo.

 

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22

Quale impegno nell’Anno della Fede? Andare avanti!

(24 ottobre 2012)

 

 Nella riunione di ieri del nostro gruppo ci siamo interrogati su quale debba essere il nostro atteggiamento in questo Anno della Fede, indetto dal papa Benedetto 16° con la lettera apostolica Porta Fidei  (trad. porta della fede) dell’11 ottobre 2011  e aperto lo scorso 11 ottobre, cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).

 Potete trovare il documento all’indirizzo WEB:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_porta-fidei_it.html

 Leggendo le parole del Papa possiamo individuare questi presupposti e  obiettivi dell’iniziativa:

                  ·        entrare nella Chiesa significa impegnarsi in un cammino che dura tutta la      vita. La fede cristiana è come una porta che, attraverso il Battesimo,  ce lo fa iniziare;

                  ·        bisogna riscoprire questo cammino nella fede, perché la fede ai tempi nostri non è più un presupposto ovvio;

                  ·        dobbiamo ritrovare il gusto di nutrirci del cibo che rimane per la vita eterna, vale a dire della Parola di Dio trasmessa dalla Chiesa e del Pane di vita, per continuare a credere in Gesù, il Cristo;

                  ·        attraverso la propria testimonianza di vita i cristiani sono poi chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato;

                  ·        l’Anno della Fede in questa prospettiva è un impegno a una rinnovata e autentica conversione al Signore, unico Salvatore del mondo;

                  ·        in questo spirito è anche necessario un più convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede; esso scaturisce da una fede rafforzata;

                  ·        il percorso comune nell’Anno della Fede deve portarci a capire in modo più profondo non solo i contenuti della fede ma anche il senso del credere, l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà, che è dono di Dio e azione della sua grazia, la quale agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo;

                  ·        la professione di fede comporta anche assumersi la responsabilità sociale di ciò che si crede: non è un fatto privato e implica anche una testimonianza ed un impegno pubblici; essa quindi è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede;

                  ·        per la conoscenza sistematica dei contenuti della fede cristiana tutti possono trovare nel Catechismo della Chiesa cattolica (1993; 1997) un sussidio prezioso ed indispensabile;

                  ·        non dobbiamo temere di argomentare razionalmente la fede, anche in quest’epoca in cui molti ritengono che certezze razionali possano conseguirsi solo nell’ambito del pensiero scientifico e tecnologico, perché confidiamo che tra la fede e la scienza non vi sia conflitto, in quanto entrambe, anche se per vie diverse, tendono alla verità;

                  ·        sarà decisivo nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato;

                  ·        In questo tempo siamo invitati a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento; in lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di salvezza”;

                  ·        nell’Anno della fede dobbiamo vedere anche un’occasione per intensificare la nostra testimonianza della carità; la fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di attuare il suo cammino;

                  ·        nell’Anno della Fede siamo inviati a scuoterci da una certa pigrizia nel conoscere e testimoniare la nostra fede religiosa comune; in particolare ciò riguarda i più anziani, che ritrovino gli ideali di gioventù: “Giunto ormai al termine della sua vita, l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di ‘cercare la fede’ (cfr 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr 2Tm 3,15). Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede”.

                  ·        nella fede siamo ricolmi di gioia perché, pur vivendo anche l’esperienza della sofferenza “noi crediamo con ferma certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la morte. Con questa sicura fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del maligno (cfr Lc 11,20) e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno della riconciliazione definitiva con il Padre”.

 Ora, uno dei modi di intendere gli impegni proposti nell’Anno della Fede è quello di presentarli come un cammino di ritorno: ci siamo allontanati dalla verità e ritorniamo indietro,  riconoscendo il male che c’è in noi e che da noi è scaturito. Questo corrisponde a figure storiche che troviamo nell’Antico Testamento e, in definitiva anche a insegnamenti che troviamo nel Nuovo. Ma esso presenta alcuni problemi, che sono collegati all’idea di cammino, a questa che è una metafora bella e  suggestiva fino a che corrisponda a come la Chiesa vuole concepire sé stessa. Ora, a ben considerare, questa idea del ritorno nella lettera apostolica citata non c’è (c’è quella di conversione, che è un’altra cosa: è cambiamento e nuovo orientamento come manifestazione di fede). Infatti il cammino che si propone ai fedeli non è verso la fede, ma a partire dalla fede (concepita come una porta). Certo, poi, per opera della grazia dalla nostra testimonianza di fede può accadere che altri, dal di fuori, decidano di passare per quella porta, ma per loro non si tratterà di un ritorno. Il documento del Papa a questo proposito si apre con la citazione di un brano degli Atti degli apostoli, 14,27 in cui si legge (versione CEI 2008):

 Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto capire per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.

  Quel passo si riferisce al ritorno di Paolo e di altri suoi compagni da una missione in città del mondo pagano del loro tempo.

 Per quanto indubbiamente nella vita delle persone ci possano essere momenti in cui esse si allontanano dalla Chiesa e poi le si avvicinano nuovamente, in un movimento effettivamente di ritorno, e quindi ci sono anche dei gruppi per così dire specializzati nel favorire questa decisione di rientro (anche se è tutta la Chiesa che dovrebbe ritenersi impegnata in questo), nella lettera apostolica citata non è questo ad essere centrale. Piuttosto il Papa appare preoccupato di una certa pigrizia  e distrazione  di noi fedeli nel rispondere alle esigenze di fede, nel trarre le conseguenze dalla nostra professione di fede, e teme che questo accada perché riflettiamo troppo poco su di essa. Non ci siamo dedicati abbastanza a tenere viva la comprensione dei contenuti della nostra fede e nel nostro impegno sociale, quando c’è stato,  a volte abbiamo tenuto più conto delle conseguenze sociali, culturali e politiche di esso che della sua origine religiosa, in una sorta di secolarizzazione dell’azione nostra. L’Anno della Fede, per come io credo di aver compreso l’invito che ci è stato rivolto, deve così servire a scuoterci da questa pigrizia e a porci nuovamente in cammino secondo l’orientamento che ci viene dalla comune fede religiosa: appunto un cammino nella fede. Come battezzati infatti, a prescindere da quella pigrizia e da quelle distrazioni abbiamo mantenuto sempre piena cittadinanza nella nostra Chiesa, non ne siamo mai usciti e nessuno ce ne può cacciare fuori, e questo è un effetto irreversibile del Battesimo.  Questo dobbiamo sempre ribadire con la massima forza, contro ogni retriva tentazione reazionaria, che storicamente purtroppo   è sempre presente di quando in quando.

 Per come la vedo io, noi, piccolo gregge dell’Azione Cattolica in San Clemente papa, in questo Anno della Fede, non dobbiamo prendere la strada per andare da qualche parte indietro, ma siamo spinti proprio dalla nostra fede in avanti.

La lettera apostolica citata pone poi espressamente, tra gli impegni per l’Anno della Fede, quello di “ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato”.

“Mentre la prima evidenzia il grande apporto che uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la misericordia del Padre che a tutti va incontro.”

 In questo ci indica anche quell’impegno  di purificazione della memoria, che significa comprendere ciò che nel nostro passato ecclesiale non andava nella direzione giusta e distaccarsene per il futuro (senza con questo volere anticipare il giudizio divino sulle vite delle persone che di  quel passato furono artefici), sulla quale la nostra Chiesa si è avviata per iniziativa del papa Giovanni Paolo 2° in occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000.

 La concomitanza tra l’apertura dell’Anno della Fede e il cinquantesimo anniversario dell’inizio del  Concilio Vaticano 2°, grande occasione di aggiornamento della nostra Chiesa, pur nella fede della Tradizione, rende chiaro che non è al passato che ci viene chiesto di guardare, in particolare a modi organizzativi che si riferiscono ad epoche che non sono più.

 Ciò che del passato ci viene richiesto di riscoprire è la fede della Tradizione, la fede di sempre, che è fede in colui che riteniamo il Salvatore dei secoli, ieri, oggi e domani: egli vive e trae a sé tutto.

 Certo, cari amici, ieri contandoci e considerando le nostre forze reali, dico noi del nostro gruppo in San Clemente papa, ci siamo chiesti se questo compito verso il quale siamo spinti in questo Anno della Fede non superi di molto le nostre forze. Ma non dobbiamo scoraggiarci, perché, e questa è una delle cose che possiamo riscoprire in questo Anno della Fede, noi non siamo soli: siamo parte di un lavoro collettivo molto più grande e poi confidiamo, nella fede, in colui che può dare successo a tutte le nostre opere.

 

 

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E pluribus unum: quale fondamento per l’unità?

(25 ottobre 2012)

 

 Sullo stemma degli Stati Uniti d’America compare il motto latino E pluribus unum, che significa da molti, uno. Fu proposto dai rivoluzionari autonomisti nordamericani Adams, Jefferson e Franklin nel 1776 e successivamente adottato ufficialmente. Si riferisce alla volontà delle tredici colonie britanniche nordamericane di unirsi in una dichiarazione di indipendenza contro la Gran Bretagna, fondata sulla convinzione della  pari dignità umana, per essere stati gli esseri umani creati uguali in certi diritti umani fondamentali inalienabili e, innanzi tutto, in quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.  Perché mi riferisco spesso alla nascita degli Stati Uniti d’America? Perché quella vicenda storica segna l’origine delle democrazie contemporanee e, nello stesso tempo, la creazione di un’unità politica in democrazia caratterizzata da un forte anelito religioso cristiano. Essa mostra quindi che ideali cristiani e ideali democratici possono convivere, non sono necessariamente in conflitto. Ciò con cui la democrazia non può convivere è infatti la tirannia. Questo era tanto chiaro a quei rivoluzionari che Benjamin Franklin aveva anche escogitato un altro motto: Ribellarsi al tiranno è obbedire a Dio. Benché quest’ordine di idee fosse molto antico nell’ideologia cristiana e fosse stato in particolare  affermato, su basi bibliche, nell’ordine concettuale di S.Tommaso D’Aquino (filosofo del Duecento, il cui pensiero venne approvato ufficialmente con l’enciclica Aeterni patris del Papa Leone 13° - del 1879), la democrazia come  è intesa oggi (con l’affermazione del diritto politico di resistenza al tiranno che violi quei diritti umani fondamentali inalienabili) venne accettata dalla Chiesa cattolica come regime politico preferibile solo nel 1944 (radiomessaggio natalizio del papa Pio 12°).

 Anche lo stato dal quale i rivoluzionari nordamericani vollero staccarsi era fondato sull’unità di diversi popoli (Inghilterra, Galles e Scozia: la Gran Bretagna), In questo caso però il fattore di unità era la sudditanza a una dinastia monarchica, la quale ad un certo punto, sulla base di precise accuse storiche esplicitate nella Dichiarazione di indipendenza  del 1776, venne vista come tirannica. Paradossalmente quindi la proclamazione di un’unità politica su certi principi, fatta dai rivoluzionari nordamericana, coincise con la secessione da un’unità politica fondata sulla sudditanza a un potere visto come tirannico.

 La questione dei fondamenti dell’unità è stata una di quelle fortemente critiche anche nella Chiesa cattolica, in particolare da quando, nel quarto secolo della nostra era, essa divenne rilevante per l’unità politica dei popoli unificati nell’impero romano e successivamente  anche per quella dei nuovi stati sorti dalla dissoluzione, nell’Europa Occidentale, di quel dominio. Quando si parla di radici cristiane dell’Europa ci si vuole riferire anche  a questo. In questa materia ha inciso potentemente il Concilio Vaticano 2°, aprendo veramente una nuova epoca.

 Il punto di partenza del nuovo ordine concettuale è la pari dignità delle persone che formano il popolo di Dio.

  ...comune è la dignità dei membri per  la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché “non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,28 gr; cfr Col 3,11).

[…]

… vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo.

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].

 Questa pari dignità conduce a rispettare la varietà nella Chiesa che raduna quel popolo

La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà.

[…]

Così nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo.

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].

  Il fattore di unità è di ordine spirituale:

… infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la  Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr At, 2,42).

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]

 La realizzazione dell’unità è impegno comune di tutti i fedeli:

…le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono con uno scambio mutuo universale verso la pienezza dell’unità.

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]

 Ad essa siamo spinti dalla legge dell’amore cristiano:

Questo popolo messianico ha per capo Cristo […] Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel core dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34).

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.9]

 Per capire a che tipo di amore ci riferisca quando si parla della legge cristiana dell’amore è opportuno leggere il testo greco del brano del Vangelo di Giovanni citato nella costituzione dogmatica: “Entolèn cainèn dìdomi umìn, ina agapàte allèlus, cathòs egàpesa umàs, ina cai agapàte allèlus.(trad.:Vi do un comandamento nuovo che vi amiate [agapàte] gli uni gli altri; come io vi ho amato [egàpesa], così amatevi [agapàte] anche voi gli uni gli altri”. In questo brano viene utilizzato il verbo greco agapào che ha la stessa radice del sostantivo agàpe [in italiano tradotto con amore], il quale nella Bibbia richiama l’idea di pasti comuni come segno d’amore reciproco.

 Riassumendo: secondo le concezioni conciliari, l’unità non significa necessariamente uniformità e trova fondamento dal basso, in una comune ispirazione ideale che spinge gli uni verso gli altri, come quando si partecipa a una bella cena tutti insieme, per una comunione di vita, di carità e verità [Lumen Gentium, n. 9].

 Ora, non è che queste idee siano veramente nuove, perché erano tra quelle fondamentali fin dalle origini. La loro portata innovativa sta nel fatto che esse sono stata proclamate nel Concilio Vaticano 2° dopo che per quasi due millenni i fattori di unità nella Chiesa cattolica erano stati visti principalmente nella sudditanza sacrale ad un unico Pastore terreno  e nella stretta uniformità ideologica e liturgica (ad esempio nell’uso universale del latino liturgico).

 Dove voglio andare a parare con tutto questo? Cerco di dirlo nel modo meno “traumatico” possibile.

  Il fatto che l’Anno della Fede che è appena iniziato  sia stato così esplicitamente collegato al Concilio Vaticano 2°, tanto da essere stato fatto iniziare nel giorno del cinquantesimo anniversario dell’apertura di quel concilio, rende ben chiaro che non si vuole da noi il ritorno alla preponderanza degli antichi fattori di unità. Quell’era della nostra confessione religiosa è finita. Dobbiamo resistere alla tentazione di “ritornare” nel senso di incamminarci di nuovo per vecchie strade che portano a un mondo dal quale faticosamente ci siamo infine distaccati, dopo tanto dolore, perché basato su principi non evangelici. L’evo antico ha comportato nella storia della Chiesa, della quale nella  lettera apostolica Porta Fidei di indizione dell’Anno della Fede siamo chiamati a prendere maggiore consapevolezza, fatti gravi dei quali abbiamo dovuto collettivamente pentirci, sotto la guida del papa Giovanni Paolo 2°, nel corso del  Grande Giubileo dell’Anno 2000.

[…]

Un Rappresentante della Curia Romana: 

Preghiamo perché ciascuno di noi, 
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale, 
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici 
nel pur doveroso impegno di difesa della verità, 
sappia imitare il Signore Gesù, 
mite e umile di cuore. 

Preghiera in silenzio. 

II Santo Padre: 

Signore, Dio di tutti gli uomini, 
in certe epoche della storia 
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza 
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore, 
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa. 
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori 
e accogli il nostro proposito 
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità, 
ben sapendo che la verità 
non si impone che in virtù della stessa verità. 
Per Cristo nostro Signore. 

R. Amen. 

R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie, eleison. 

[Dalla liturgia della Giornata del perdono, celebrata il 12-3-2000 nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000]

 Come risulta chiaramente dalla lettera apostolica di indizione, si vuole che nell’Anno della Fede noi fedeli approfondiamo un cammino comune nella fede, aiutandoci gli uni gli altri in unione spirituale pur nella legittima varietà  di stili di vita individuali e comunitari, anche per un rinnovato impegno di testimonianza nella società in cui viviamo, per influire in tal modo su di essa con rinnovata sapienza e consapevolezza infondendo  valori cristiani, cercando di promuovere, secondo il comando ricevuto, l’unità spirituale di tutti i popoli della Terra. Non ci viene chiesto invece di realizzare un’unità discriminatoria, separando da noi, come “infedeli” o “scarsamente fedeli”, coloro che su alcune cose legittimamente la pensano diversamente da altri, nel presupposto che questi ultimi siano monopolisti della retta dottrina, della retta liturgia, dei retti principi di vita comunitaria. Questo significherebbe in un certo senso  tornare al nostro tremendo passato, equivocando gli scopi dell’importante iniziativa alla quale siamo stati tutti chiamati.

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Gioia e timore alla base dell’impegno religioso nella società

(27 ottobre 2012)

 

 Leggo in Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8, che ho utilizzato questa estate per le mie meditazioni religiose:

[…] nella … nuova economia l’amore –motivo fondamentale dell’osservanza dei precetti non elimina il santo timore filiale che, con soggezione totale e trepidante adorazione della maestà di Dio, deve permanere a ogni livello della vita spirituale.

 Perciò, anche restando nel Nuovo Testamento, vediamo che c’è un timore di Dio che e inculcato assiduamente dagli apostoli (la stessa Lettera ai Romani 11,10; la Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato da Gesù stesso come necessario (Mt 10,28),

[…]

Certo l’Eucaristia, se davvero vissuta nella fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia sensibile.

 Deve esser una gioia non adolescenziale, ma da adulto, che non presuppone … di saltare il timore, ma che nasce proprio da un timore virile e consapevole: stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo eterno di Dio”.

 Questo  discorso che Dossetti riferiva specificamente all’Eucaristia può essere esteso all’atteggiamento che complessivamente la persona religiosa può avere nei confronti del tempo e della società in cui si trova a vivere. Il timore deriva dalla consapevolezza della grandezza degli ideali professati e dalla conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della stessa fonte e, in particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano basati solo sulle proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso, sia tratto da una forza irresistibile, non spinto da noi, verso un  suo beato compimento. In altre circostanze, al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva dall’incertezza sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla considerazione dell’insufficienza delle proprie forze e  conseguentemente la gioia, se anche c’è, finisce per essere piuttosto precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia nell’oggi e anzi addirittura solo nell’ora corrente. Quella che scaturisce dal timore religioso è invece gioia per il passato, per il presente e per il futuro, quindi si basa su una valutazione complessivamente positiva e fiduciosa della storia. Si fonda su una considerazione realistica delle cose come vanno, e questa è come si dice nel lessico attuale la sua laicità, perché la fede non è solo immaginazione e sentimento, ma anche su una spiritualità intima e quindi profonda che cambia molto l’atteggiamento che si ha verso ciò che ci circonda e che, in tanti modi, ci determina, ci interroga, ci sollecita e, a volte, ci atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di fronte ad ogni difficoltà della vita, sia  essa di quelle proprie personali o di quelle di realtà vicine come la famiglia o l’ambiente umano abituale, come anche su scala maggiore, di quelle che riguardano la propria città, regione, nazione o, al limite, l’intera umanità, innanzi tutto si raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare il suo legame con il fondamento beato, in quell’atteggiamento che Dossetti indica come di devozione filiale, quindi in una familiarità di relazione con esso che non intacca il sentimento di stupore e trepidazione di fronte ad un assoluto che si pensa sorprendentemente  animato da amore viscerale, materno, ma anche virile, paterno, nei confronti di noi umani. Il passo successivo è quello della comprensione del mondo intorno a sé e poi dell’azione in esso, nel tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica, Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di quel fondamento religioso, nell’impegno laicale nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte, innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente responsabilità globale  in ciò in cui di fatto si influisce su di essa o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio si definisce come cattolicità attiva, che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti della nostra confessione religiosa  (ad esempio per procurarle privilegi ed esenzioni) o di militi o messi di una potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio l’imperativo religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità, insegnando loro ad osservare tutto ciò che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.

 Questo programma, che ho esposto brevemente, non è facile da attuare e, innanzi tutto, richiede che si impari a collaborare con gli altri. L’impegno religioso, come ci  è stato ricordato nella lettera apostolica Porta Fidei (2011) con cui è stato indetto l’Anno della Fede iniziato l’11 ottobre scorso, non è un fatto privato. Ecco che in questo può essere interessante l’impegno in Azione Cattolica. Esso è appunto un impegno, quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del tutto scontati e in cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una base di partenza negli esercizi di laicità che si faranno, vale  a dire nello sforzo di comprensione  realistica del mondo in cui si vive alla luce di una spiritualità religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di Azione Cattolica ricette  di vita, personale o comunitaria, già pronte e ammaestramenti globali su ciò  che si deve fare o si deve pensare in ogni occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui sergenti maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta  i propri doni in un mutuo scambio che accresce gli altri, in uno sforzo comune per promuovere l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più vicine fino a quella globale.

 “[…] la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito con lui.

[,,,] In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità”

[dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n.13, del Concilio Vaticano 2°]

 Ora  è chiaro, riprendendo il discorso da cui sono partito, che l’universalità di questo impegno comune, la sua cattolicità, la sua effettiva apertura a tutte le genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal suo fondamento religioso e quindi da quel timore  di cui si diceva, il quale, in particolare, deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare una soluzione, un modello, un’esperienza, un  cammino, una ideologia, una concezione filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto caratterizzata, appunto, da devozione filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità.  Questo, ben lungi dallo scoraggiare e umiliare, è anche la base della creatività religiosa  nella società e quindi dell’efficacia della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi  e determinarsi con sapienza di conseguenza, rinnovandosi incessantemente.