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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

domenica 6 settembre 2020

Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia - Parte 8

 Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia

 -

Parte 8

 (dal n.72 al n.74)

(le parti precedenti sono pubblicate nei post successivi. Questo testo è pubblicato in 8 parti)

 

di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

edizione ottobre  2020, con nuovi materiali

72

A compagni di fede spietati

(agosto 2019)

 

72.0. Premessa e contesto storico. Nel giugno 2019 il Governo italiano approvò un decreto legge, convertito in legge nel successivo agosto, che consentiva al Ministro dell’Interno, di concerto con  i Ministri della Difesa e delle infrastrutture e dei Trasporti di vietare alle navi che avevano effettuato soccorsi in mare nel caso vi fossero motivi di ordine e sicurezza pubblica o nel caso di violazione alle leggi sull’ immigrazione e della disciplina internazionale sulla disciplina del soccorso in mare. Era attuazione della politica dei  porti chiusi (alle persone migranti irregolari soccorse in mare e alle navi che avevano eseguito il soccorso). Di seguito riporto le nuove norme.

                               Art. 1

 

Misure a tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e  in  materia

di immigrazione

 

  1. All'articolo 11 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286,

dopo il comma 1-bis e' inserito il seguente:

  «1-ter. Il Ministro dell'interno, Autorita' nazionale  di  pubblica sicurezza ai sensi dell'articolo 1 della legge    aprile  1981,  n.121, nell'esercizio delle funzioni di coordinamento di cui  al  comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell'Italia,  può limitare o vietare l'ingresso, il transito o la  sosta  di  navi  nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non  commerciale,  per  motivi  di  ordine  e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano  le  condizioni  di cui all'articolo 19,paragrafo 2, lettera g), limitatamente  alle violazioni delle leggi di  immigrazione  vigenti,  della  Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre  1982, resa esecutiva dalla legge 2 dicembre 1994,  n.  689.  Il  provvedimento  è  adottato  di concerto con il  Ministro  della  difesa  e  con  il  Ministro  delle infrastrutture e dei trasporti,  secondo  le  rispettive  competenze,  informandone il Presidente del Consiglio dei ministri.».

Art. 2

 

Inottemperanza  a  limitazioni  o  divieti  in  materia  di   ordine, sicurezza pubblica e immigrazione

 

  1. All'articolo 12 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286, dopo il comma 6  sono inseriti i seguenti :

  «6-bis. Salvo che si tratti di  naviglio  militare  o  di  navi  in servizio governativo non commerciale, il  comandante  della  nave  è tenuto ad osservare la normativa internazionale  e  i  divieti  e  le limitazioni eventualmente disposti ai sensi dell'articolo  11,  comma1-ter.

In caso di violazione del divieto di  ingresso,  transito  o sosta in acque territoriali italiane, salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, si applica al comandante  della  nave  la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 150.000  a euro 1.000.000. La responsabilità solidale  di  cui  all'articolo  6 della legge 24 novembre 1981, n. 689, si estende  all'armatore  della nave. E' sempre  disposta  la  confisca  della  nave  utilizzata  per commettere la violazione,  procedendosi  immediatamente  a  sequestro cautelare. A seguito di provvedimento definitivo  di  confisca,  sono imputabili all'armatore e al proprietario della  nave  gli  oneri  di custodia  delle  imbarcazioni  sottoposte  a  sequestro  cautelare.

All'irrogazione delle sanzioni, accertate  dagli  organi  addetti  al controllo,  provvede  il  prefetto  territorialmente  competente.  Siosservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n.  689.

 6-ter. Le navi sequestrate  ai  sensi  del  comma  6-bis  possono essere affidate dal prefetto in custodia agli organi di polizia, alle Capitanerie  di  porto  o  alla  Marina  militare  ovvero  ad   altre amministrazioni dello Stato che ne facciano richiesta  per  l'impiego in attivita' istituzionali. Gli oneri relativi alla gestione dei beni sono posti a carico dell'amministrazione che ne ha l'uso, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

  6-quater. Quando il provvedimento che dispone la  confisca  diviene inoppugnabile, la nave e' acquisita al patrimonio dello  Stato  e,  a richiesta, assegnata all'amministrazione che ne  ha  avuto  l'uso  ai sensi del comma 6-ter. La nave per la quale non sia stata  presentata istanza di affidamento  o  che  non  sia  richiesta  in  assegnazione dall'amministrazione che ne ha avuto l'uso ai sensi del  comma  6-ter e', a richiesta,  assegnata  a  pubbliche  amministrazioni  per  fini istituzionali ovvero venduta, anche per  parti  separate.  Gli  oneri relativi  alla  gestione  delle  navi  sono  posti  a  carico   delle amministrazioni assegnatarie. Le navi  non  utilmente  impiegabili  e rimaste invendute nei due anni dal primo tentativo  di  vendita  sono  destinate   alla   distruzione.   Si   applicano   le    disposizioni dell'articolo 301-bis, comma 3, del testo  unico  delle  disposizioni legislative in materia doganale, di cui  al  decreto  del  Presidente

della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43».

 

  A seguito  dell’entrata in vigore delle disposizioni che ho citato, si iniziò a vietare l’attracco in porti italiani alle navi, civili italiane e straniere ma anche a navi della Guardia costiera italiana che avevano effettuato soccorsi i mare di stranieri diretti verso le nostre con imbarcazioni precarie e sovraffollate, nel verosimile intento di sbarcare in Italia irregolarmente dal punto di vista della normativa sull’immigrazione, vale a dire senza passaporto o altro documento valido all’ingresso in Italia e il visto dell’autorità consolare dove richiesto. Le navi con la gente soccorsa rimanevano a lungo al largo delle nostre coste, con i passeggeri in condizioni sempre più disagevoli. Contemporaneamente fu attuata una politica per riservare alla Guarda costiera libica, sostenuta e addestrata dall’Italia, i soccorsi i mare in una vasta area di mare internazionale denominata S.A.R. (area di sorveglianza - Search e soccorso - Rescue) al largo delle acque territoriali libiche, non impegnando in tale attività la missione internazionale e nazionale, con navi, sommergibili, droni, aviazione, reparti in Libia, istituita per il sostegno del governo della Libia occidentale, riconosciuto dall’Italia e dall’ONU ma non dall’analoga entità insediata nella Libia orientale. La Libia era in condizioni di guerra civile tra tali due entità governativa. I soccorritori privati osservavano che la Libia non era un  porto sicuro ai sensi della convenzione sul soccorso in mare, per quella condizioni di guerra civile. Inoltre, la gente soccorsa veniva catturata e internata, in condizioni pessime, in campi di detenzione in Libia, in genere senza prospettiva di altra soluzione in tempi brevi.

 I vescovi italiani richiesero pressantemente, in nome del Vangelo,  di non porre ostacoli al  soccorso in mare e di consentire alle navi dei soccorritori di sbarcare la gente soccorsa, salvo poi eventualmente  ripartire l’onere dell’accoglienza, per chi risultasse averne diritto, con altre nazioni europee in base ad accordi internazionali, o disporne ed eseguirne il ripatrio, in condizioni di sicurezza e con un programma di assistenza, dopo le cure sanitarie indispensabili (spesso le persone soccorse avevano subito sevizie, torture e altre abusi in Libia e comunque erano state internate in condizioni misere e igienicamente proibitive), per quelli che non ne avessero diritto.

 Da una ricerca statistica diffusa da IPSOS risultava che il 51% dei fedeli cattolici italiani, senza distinzione tra praticanti e non praticanti, non erano d’accordo con ciò che richiedevano  i vescovi italiani ed erano invece d’accordo con la politica dei  porti chiusi.  Quale può essere stata la ragione? Per i più verosimilmente è stata quella di sempre quando ci si manifesta spietati anche senza essere personalmente cattivi: la paura, questa volta  però anche indotta e fomentata mediante l’influenza di potenti reti sociali di massa guidate con l’utilizzo di tecnologie di intelligenza artificiale le quali, consentendo una accurata personalizzazione del messaggio che genera paura, lo rendono più credibile.

  E’ un problema antico. Ricordo l’accorato appello di Karol Wojtyla, papa a lungo regnante come Giovanni Paolo 2° e poi santo riconosciuto, quando svolse l’omelia nella Messa di inaugurazione del pontificato, il 22 ottobre 1978:

 

Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà!

Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera!

Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!

Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!

Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna.

 

 

72.1. Motivazione alla fede

  Una fede religiosa, la nostra, c'è. Ha una sua realtà sociale che si manifesta anche in certe istituzioni. La parrocchia è quella che ci è più prossima. Nasce appunto per questo: per farci prossima la fede religiosa. Celebra riti, programma un'attività formativa. Per la scarsità delle forze ci si concentra sull'essenziale: quella di base per i più piccoli, quella di secondo livello in preparazione all'ingresso nella società degli adulti, quella in vista del matrimonio. Questa formazione rientra nell'idea di catechismo, perchè consiste anche nell'esposizione ordinata di contenuti, che riguardano il Cielo, gli esseri umani e gli altri viventi in rapporto al Cielo, la storia sacra, l'etica individuale e collettiva, i riti individuali e collettivi e inoltre le varie funzioni che si svolgono nelle collettività religiose, materia che comprende anche di sapere chi e in che misura esercita l'autorità. Il tempo, però, è poco e l'interesse, al quale agli inizi fa da stampella l'autorità dei genitori, tende in genere a calare quando si cresce. Questo lavoro di istruzione ed educazione religiosa viene completato, di solito, in chi si fa diacono o prete o in chi chiede di essere ammesso in un ordine religioso, per farsi monaca o monaco, suora o frate. L'altra gente spesso non ne     sa a sufficienza e, non seguendo un programma di formazione permanente, tende anche a scordare ciò che ha imparato. Questo sta creando gravi problemi di questi tempi, nei quali si vanno diffondendo correnti ideologiche esplicitamente contrarie ai fondamenti della nostra fede. Non vi è una sufficiente resistenza culturale e pratica in coloro che hanno conservato un orientamento religioso, che sono tuttora la grande maggioranza di quelli che vivono in Italia.

  È un'esperienza che si è vissuta nel confronto con il liberalismo, con i comunismi atei, con i fascismi europei, e con i capitalismi liberistici. Il liberalismo criticò l'oscurantismo clericale e il suo dispotismo. I comunismi atei criticarono la fede religiosa come frutto di un inganno delle classi dominanti in danno di quelle sottomesse, che comprendevano la maggioranza della gente. I fascismi vollero inglobare la fede religiosa nella loro ideologia nazionalista, basata sull'idea che ci si dovesse compattare per predare gli altri popoli, considerati come inferiori. I capitalismi liberistici criticano la pretese religiose di porre limiti ai risultati dello scontro tra le forze economiche e al disequilibrio degli scambi: ritengono che un affare sia condotto al meglio se c'è una parte che prevale, considerano fonte di inefficienza la pretesa di equità perché pensano che i deboli debbano essere eliminati dal mercato, e questo anche se si tratta della vita delle persone non di merci o imprese.

 Di fronte agli aspetti ateistici di quelle ideolologie si ebbe una resistenza popolare efficace. Dal liberalismo si imparó di nuovo il rispetto della persona umana, che del resto ha antichi fondamenti religiosi, e il rispetto delle scienze e, in genere, della cultura; dal socialismo si imparó di nuovo l'antica etica religiosa della condivisione. Dal capitalismo si imparó l'etica dell'iniziativa privata e del rispetto di essa, ponendo tuttavia dei limiti inderogabili allo sfruttamento degli esseri umani e della natura. Del fascismo non ci fu nulla da salvare perché l'etica della predazione è radicalmente irreligiosa. E tuttavia la religiosità di alcune nazioni cattoliche rimase impregnata di fascismo, in particolare in Italia dove si ebbe una commistione tra ideologia fascista mussoliniana e parti dell'etica religiosa, dopo il Concordato Lateranense del 1929.

  I tempi che stiamo vivendo vedono il manifestarsi di neo-fascismi capitalistici. Dei fascismi storici hanno il programma di repressione del dissenso e la volontà di predare. Del capitalismo hanno il mirare all'arrichimento personale, mentre i fascismi europei storici proponevano una mistica del sacrificio personale per la gloria delle nazioni di riferimento. Da un punto di vista religioso essi sono gravemente peccaminosi, perché negano uno dei principi fondamentali della nostra fede: quello della fratellanza universale. Senza di esso, semplicemente la nostra fede non c'è più. Si tratta quindi di ideologie atee.

  Tuttavia ci si è accorti che la (scarsa) formazione religiosa della gente non consente a molti di avvedersene e ciò contro i chiarissimi moniti dei pastori, anzitutto del Papa. Nella prima parte della mia vita sono vissuto in epoche in cui i Papi venivano duramente criticati, e anche vilipesi, ma mai, assolutamente mai, ignorati. L'attuale Papa deve invece far l'esperienza di essere ignorato. Anche dai suoi fedeli e su punti fondamentali della dottrina, in cui ha senz'altro il diritto canonico di essere obbedito. Ma questo, tutto sommato, è il meno. Si ignora addirittura il Fondamento santo e la sua Via, che in una prospettiva religiosa è l'unica che porti alla vera salvezza, che è anzitutto quella salvezza dal pericolo di tornare come  le antiche belve nostre progenitrici. Ci si illude di potersi salvare per altra via e, a questo punto, la religione non è più espressione di fede, ma più che altro un bel cerimoniale, dall'inizio alla fine.

 Che fare?

 Alcuni propongono di predicare con le parole dei Vangeli così come sono, senza alcuna mediazione, confidando che esse possano (ancora) essere intese dalla nostra gente, così come le si legge. Secondo la mia esperienza ci si illude che funzionino. Non funzionano.

  Del resto, nei due millenni della nostra storia religiosa esse hanno dovuto sempre essere spiegate, vale a dire mediate. Era così anche quando ancora non erano state scritte, come dimostra l'episodio evangelico dei discepoli di Emmaus. E non le si può nemmeno spiegare semplificando molto come si fa con i bambini, e si faceva con gli incolti quando in società non contavano nulla. In un'ambiente di democrazia popolare come (ancora) è l'Italia, anche gli incolti votano, e così hanno nelle loro mani le sorti della nazione, compresa la loro. Che succederà se decideranno ignorando che si è tutti fratelli e che ci si salva tutti insieme o si perisce, perché le società mondiali sono diventate talmente interconnesse da non rendere possibile altra salvezza che quella?

 L'affermazione sociale della nostra fede religiosa, dalle origini nell'antica Siria all'epoca inglobata nell'Impero greco-romano il quale, sviluppatosi a Roma, si cristianizzò in Grecia, attorno alla corte di Costantinopoli, fu difficoltosa e contrastata, durò circa quattro secoli, e fu caratterizzata da aneliti rivoluzionari quanto al modo di esercitare il potere politico. Essi furono all'origine di ricorrenti azioni di repressione. Il politico cristiano lo si voleva molto diverso dai politici dissoluti di quelle epoche. Lo si voleva sottomesso all'etica della fraternità universale. Che dipendeva dall'idea di una comune figliolanza universale. Dall'avere,tutti, un Padre comune. Gli imperatori romani consideravano se stessi  "padri" dei molti popoli caduti nel loro dominio. Ma tendevano a considerarsi misura del giusto e dell'ingiusto. Quelli tra loro che chiesero onori divin non era perché si considerassero onnipotenti,creatori del Cielo e della Terra, (non erano dei folli), ma solo persone eccezionali: nell'antico politeismo non vi erano dei onnipotenti. In virtù di questa loro "eccezionale umanità"  ritenevano di poter legiferare senza altro limite che se stessi.  Ma, secondo la nostra fede, nessun potere è legittimo se rifiuta l'etica della fraternità universale: il che significa porre limiti ad ogni potere che si esercita da esseri umani, benché eccezionali, su altri esseri umani. Questa l'obiezione fondamentale della dottrina etica secondo la nostra fede verso ogni potente della Terra. In ambiente democratico essa riguarda anche  tutti coloro che, a vario livello, sono partecipi di dinamiche di potere. "Ricordati" è il suo monito "che tu non sei un dio", "la vita dei tuoi fratelli non è nelle tue mani". Chi si sente rimproverare così forse lo considera ingiusto, perché pensa di essere lui in pericolo, non gli altri che subiscono le conseguenze di certe politiche alle quali egli dá l'assenso, e di non avere altra via d'uscita. Alla fine spesso ci sono quelli che finiscono per uscirsene con qualcosa di simile al tremendo  "sono forse io il guardiano di mio fratello?" biblico.E non sono nemmeno capaci di rendersi conto di aver così deliberato la propria condanna morale e storica,

 Sentiamo ancora la necessità dì fraternità universale? Crediamo ancora che in essa sia la vera salvezza, quella individuale come quella collettiva? Si tratta, ancor prima dell'evangelizzazione esplicita, di contribuire a ricostituire le motivazioni alla base della decisione personale per la fede. È cosa che o si fa insieme, in ambiente comunitario, innanzi tutto rimettendo insieme quel tipo di società di base, o non riesce.

72.2. Un progetto per una realtà di base

  Non scrivo per il mondo, anche se il mondo potrebbe leggermi, se avesse abbastanza tempo. Il problema è che non lo ha. Lo insegna la Scrittura: impara a contare i tuoi giorni. Ma non ho nemmeno interesse a rivolgermi a tanta gente: rimarrebbero tutti degli sconosciuti. Questo deriva da nostri limiti cognitivi di specie, per i quali possiamo interloquire veramente con non più di una trentina circa di persone alla volta. E anche su questo ci ammoniscono le Scritture. A chi, alle origini, venne spiegata ogni cosa? A dodici  uomini. Eppure, a partire da essi, in un processo che nei primi secoli è ancora piuttosto oscuro, e lo rimarrà, la nostra fede si è diffusa su tutta la Terra, secondo il comando ricevuto. Questo modo di procedere è profondamente umano e comporta di prendersi cura degli altri, nelle fasi di tradizione della fede, come una chioccia con i suoi pulcini , e questa appunto è un'immagine evangelica (leggi nel Vangelo secondo Matteo, capitolo 23, versetto 37), Ci avvertono che siamo sulle soglie di una svolta epocale, che alcuni descrivono come la fondazione/creazione di una nuova specie, che saprà superare quei limiti cognitivi umani. Nel nuovo mondo in cui noi o i nostri discendenti vivremo, si rimarrà umani? Questo è un bel problema. Alcuni tra gli esperti avvertono: "non è detto". Altri dicono: " vedremo". Altri ancora: "È una delle possibilità". Per ora siamo ancora un po' al di qua della frontiera che idealmente ci divide da quel futuro. Già ora possiamo dire però che l'Intelligenza Artificiale (I.A.), che ancora non è un'individualità ma solo un potente strumento, rende possibile influenzare le masse come mai prima d'ora era stato possibile. Chi è colui che può ascoltare tutti quelli che gli si rivolgono come se stesse parlando con uno solo e che  può leggere tutto ciò che si scrive? Lascio a voi la risposta. Capite bene, allora, come deve sentirsi chi dispone di strumenti così potenti, che lo innalzano tanto sopra gli altri. Ma a chi si occupa, a qualsiasi livello, di tradizione della fede certe cose sono vietate. Si parte da realtà di base, in modo da poter chiamare per nome gli interlocutori. Si confida che il di più venga dal Cielo, che si attui il miracolo per cui l'universale scaturisce dal particolare e limitato: il prodigio più sorprendente di tutti, ciò che ha reso umani gli umani. Rimaniamo umani!

72.3. Mandati a tutti i popoli della Terra

 L'evoluzione della specie umana, durata circa quattro milioni di anni, non ci ha reso in fondo molto diversi dagli altri Primati che si sono evoluti insieme a noi e sono riusciti, superando le crudeli dinamiche della natura, a sopravvivere fino ai nostri tempi. La differenza fondamentale tra noi è loro può essere individuata in alcune limitate porzioni del cervello, che ci rendono capaci di esprimere ciò che chiamiamo "spirito" (diverso dall' "anima" in senso religioso) e a cui alludiamo parlando di noi come "persona". Esso si basa su fenomeni psichici che condividiamo con altri viventi, ma, almeno allo stato delle nostre conoscenze, ci è caratteristico. Definiamo quindi "essere umano" un vivente dotato di "spirito", se non vogliamo limitarci alla classificazione puramente  zoologica. Abbiamo lo spirito e lo riconosciamo negli altri. Da bambini e nel sogno lo riconosciamo anche ad altre realtà naturali, e così facevano pure gli antichi, ma per certi versi l'abbiamo continuato a fare a lungo, fin quando l'era del pensiero scientifico non ha preso piede nelle nostre società e, considerando la natura per ciò che è, ha compreso quanto era diversa da noi. È quello che definiamo "secolarizzazione", che comprende una "demitizzazione", la liberazione dalle favole semplificatorie del lontano passato.  Anche la nostra religione ne è stata potentemente investita e in questo processo ha perso/rinunciato a molto di ciò che le si era attaccato addosso e che non le era proprio e cartteristico. Tra esso, ad esempio, la vuota pompa imperiale praticata a lungo anche dalla corte papale romana e che venne appresa nel Primo Millennio alla scuola di Costantinopoli. Ma anche l'idea che per noi esistano Terre Sante e la fiducia in persone e siti miracolanti. Per molti che sono divenuti esterni alla nostra fede perche vi hanno perso consuetudine personale profonda, e dunque riescono ad accostare solo i "fatti" religiosi,l'esteriorità, si tratta invece di idee e pratiche irrinunciabili. E considerano disadorne, e non accattivanti, le consuetudini religiose che evocano i fondamenti santi, ad esempio la celebrazione della Messa in ambienti poveri e senza orpelli d'arte. Eppure, è un detto evangelico, la natura ha saputo realizzare splendori tali che umiliano l'arte nostra, e, al più, noi cerchiamo di farcene imitatori o evocatori (leggi nel Vangelo secondo Matteo, i versetti dal 25 al 34 del capitolo 6).

   Insieme allo spirito ci distanzia dagli altri esseri viventi nostri simili l'idea che possa esistere una fraternità universale. Essa è frutto dello spirito e nessun'altro vivente l'ha mai praticata, non dico "pensata". È anche al centro della nostra fede, che la presenta in un modo che le è fortemente caratteristico. È proprio essa che giustifica la nostra missione fino agli estremi confini della Terra. Non ci venne infatti comandato di "tornare" a una qualche Terra Santa, ma di rendere tutti santi affratellandoceli, raggiungendoli dov'erano. Ci venne dato il dono delle lingue, perchè non si doveva affratellare a chiacchiere, ma soccorrendo, secondo l'esempio del nostro Maestro, il quale fu medico prima che predicatore. Il soccorso è linguaggio che può essere inteso da tutti. Cosí possiamo concludere che chi nega il soccorso va in altra direzione, precisamente quella della spietata natura dalla quale originiamo secondo la nostra biologia. Nega la nostra fede.

72.4 Filantropia

  Filantropo è chi prende a cuore la condizione dei bisognosi e dei sofferenti e realizza azioni caritatevoli in loro aiuto. La parola "filantropo" deriva da due termini del greco antico che significano "amicizia" e "uomo": il suo senso letterale è dunque "amico dell'essere umano". L'amico aiuta l'amico nel bisogno e nel pericolo. Perché però l'amico viene a trovarsi in quella dura condizione? Se si cerca di capirlo e di porvi rimedio si aiuta tutta la società intorno, perché la sofferenza dei suoi membri non le fa bene, la rende cattiva. Così però si va oltre la filantropia come comunemente è intesa ed è attività che richiede di mettere in piedi un'organizzazione sociale. Quando si è amici e si collabora ad un'azione sociale con quelle carartteristiche ci si definisce anche "compagni". È appunto in questo modo che l'apostolo Paolo chiama il suo collaboratore Tito in una delle sue lettere ai cristiani della greca Corinto (leggi nella seconda lettera ai Corinzi il versetto 23 del capitolo ottavo). Il termine greco che usa è koinonòs, che ha la stessa radice di quello koinonìa, parola che traduciamo di solito in italiano con comunione e in dottrina indica la particolare relazione amicale tra credenti della nostra fede nel fare insieme ciò che a loro è stato comandato in religione.

  Questa forma di amicizia è molto importante perché è stata evocata in un detto evangelico molto significativo riferito appunto alla missione tra gli altri esseri umani che ci è stata comandata (leggi nel Vangelo secondo Giovanni nel capitolo 15 i versetti da 12 a 17). Che ci è stato comandato? Ciò che traduciamo in Italiano con amore, ma nel testo greco evangelico richiama l'idea di organizzare un lieto convito dal quale nessuno sia escluso, l'agápe. L'amore richiama benevolenza e soccorso. Per noi fedeli è un comando e anche condizione dell'amicizia verso il Cielo. Disobbedirlo è il peccato, e un peccato molto grave perché riguarda il Fondamento. Così, mentre per il filantropo il soccorso ai bisognosi può essere il soddisfacimento di un impulso emotivo e, tutto sommato, nei limiti accettati dalla società intorno, con le sue convenienze e le sue leggi di polizia, per chi è persuaso della nostra fede si tratta di qualcosa di molto più profondo, senza il quale la religione, e in particolare i suoi riti individuali e collettivi, ha poco senso e che va fatto ad ogni costo. Ecco perché si suole dire che non siamo una ONG, vale a dire un'organizzazione caritatevole privata, non governativa, anche se lavorare in un'ONG può far parte dell'impegno di agápe che ci è comandato in religione. Ciò risalta maggiormente quando l'azione caritativa è vietata da norme di polizia, come ciclicamente è accaduto e accade. In questo caso il filantropo rischia, come ad esempio rischiarono coloro che in Europa decisero di recare aiuto ai perseguitati politici o etnici dei fascismi europei e dei comunismi dispotici dell'Europa orientale, dando loro rifugio e cercando di trasferirli clandestinamente in luoghi sicuri. Il maggior pericolo di queste particolari attività filantropiche in quelle condizioni storiche in cui la filantropia è socialmente sconveniente o addirittura vietata richiede una motivazione più intensa, che anche la nostra fede può dare. Al culmine può accadere di rischiare, e di perdere, la propria vita. Non c'è amore più grande, è scritto nel brano evangelico che ho citato (leggi il versetto 23). Dal punto di vista religioso quell'impegnativo tipo di amore/agápe è legato anche all'altro comando di farsi prossimi degli altri, che comporta l'amicale soccorso verso chiunque ne abbia necessità, non solo verso i membri del proprio clan, e il muoversi per andare verso chi si trova in pericolo. Ciò è reso anche con l'immagine dell'ospedale da campo: non si attende che i feriti giungano in una struttura stabile, ma si va e si allestisce il soccorso dove serve, facendosi prossimi e innanzi tutto quindi approssimandosi ai sofferenti.

72.5. Il nostro vangelo

  La nostra fede è una sapienza pratica: la sua bontà si riconosce dai suoi frutti. Questo è un detto evangelico (leggi dal Vangelo secondo Matteo, dal capitolo 7 i versetti 15-20). Ciò ha richiesto continui aggiustamenti per far corrispondere la pratica al modello che ci è stato proposto come fondamento. Esso è l'agápe, che potremmo tradurre con amicizia universale, senza limiti, senza esclusioni, fino al sacrificio supremo di sè. Nei due millenni della nostra storia ciascuno, e ogni collettività di fede, si è sforzato di tradurla in realtà quotidiana, ma i risultati non si sono mai dimostrati definitivi e durevoli. Del resto gli esseri umani mutano nel tempo e così le loro società e culture. La pratica della nostra fede è quindi sempre in divenire ed è stato osservato che non si è mai veramente uno della nostra fede, ma si è sempre per via di diventarlo. Nel suo sforzarsi di diventare, ognuno dice agli altri un proprio personale vangelo (parola che viene dal greco antico e che significa buona notizia), che è il bene che riesce ad essere per loro. Di ciò però non se ne assume il merito perché si è sforzato in quanto si è fatto discepolo e allora rende grazie al suo Maestro. Eucaristia, altra parola che viene dal greco antico e significa appunto rendimento di grazia, è uno dei nomi che diamo al centro  delle nostre liturgie. 

72.6. Oltre il mondo fisico e la storia

 Questo blog è iniziato nel 2012 e da allora non ha mai trattato temi esplicitamente religiosi, salvo che nel dar conto di documenti del Magistero cattolico e di celebrazioni liturgiche. Ci si è occupati prevalentemente di azione sociale ispirata alla fede religiosa, quindi di come la fede la si è attuata. In questo quadro la fede veniva presupposta. In  un discorso di motivazione alla fede bisogna però andare oltre, avvicinare il fondamento. Provo a farlo avvertendo dei miei limiti. La nostra fede è frutto di un lavoro collettivo che si è sviluppato per oltre due millenni e anche i più dotti ne sono solo parzialmente informati. Di solito ci si concentra su un campo di indagine e sul resto si hanno in mente delle sintesi. Si approfondisce quando serve. Nel dialogo ci si aiuta a capire. Basti dire questo: approfondendo si scopre che molto raramente ciò che si è pensato non è stato giá pensato, detto, scritto, discusso, confutato, ribadito, corretto e riproposto prima. Ma anche che raramente ciò che è stato pensato prima può essere riproposto senza adattamenti ai tempi nuovi. E infine che tutto ciò che è stato pensato prima va attuato con una certa originalità in ognuno, perché non ci si può limitare a copiare quello che altri sono stati. Questo significa che ognuno introduce con la sua vita di fede qualcosa che prima non c'era e anche riesce a tramandarla quando ha responsabilità formative, come le hanno ad esempio  i genitori.

  Dunque, inizio così: non direi tutto della fede se non avvertissi che ha convinzioni su ciò che esiste oltre il mondo fisico e la storia. 

 Fin dall'antichità l'umanità le ha avute, per spiegare il senso degli eventi in ciò che non erano sotto il suo controllo, come l'azione delle forze della natura. Pensava che fossero dominate da esseri personali superiori, gli dei. La mentalità e le consuetudini di questi ultimi erano immaginate simili a quelle degli umani: in particolare si riteneva che gli dei avessero emozioni e sentimenti analoghi a quelli degli umani. Verso gli umani potevano essere quindi mossi da amore e simpatia o da ira e avversione, da generosità o avidità. Si pensava che gli umani potessero accattivarsene il favore mediante offerte rituali, sacrificali, altri riti e costruendo santuari loro dedicati, con splendide statue che li raffiguravano. Gli antichi erano profondamente religiosi, come ancora dimostrano chiaramente i resti dei grandi templi da loro costruiti. A Roma possiamo entrare in uno di essi, magnificamente conservato, il Pántheon, parola che attraverso il latino ci arriva dal greco antico e che significa "Dedicato a tutti gli dei". Ora è utilizzato come chiesa cristiana, a dimostrare una certa continuità rituale tra antica e nuova religione. La stessa continuità si coglie anche in altre nostre costumanze religiose, ad esempio nelle spiritualità basate su miracoli, apparizioni, santuari e Terre sante.

  Ora, bisogna capire che, nonostante quelle costumanze tradizionali, la nostra fede si differenzia radicalmente dalle antiche religioni politeistiche. Ma si differenzia radicalmente anche dall'ebraismo antico e contemporaneo, con il quale pure condivide un rilevante partrimonio culturale, e, in particolare, gran parte delle Scritture sacre e alcuni importanti temi teologici, in specie di etica religiosa. Basti pensare che l'ebraismo è molto preso dall'idea di un ritorno verso la Gerusalemme della storia, mentre la nostra fede si è formata allontanandosene. Da nessuna parte ci è stato comandato di ritornare in quella città.

 Quindi a chi fosse interessato a capire o riscoprire la nostra fede direi innanzi tutto di non considerare essenziali cose come basiliche, santuari, miracoli, luoghi e persone miracolanti, apparizioni prodigiose, Terre sante, eventi folcloristici a sfondo religioso, ma anche certe antiche tradizioni liturgiche che vengono mantenute polemicamente con spirito reazionario, in particolare quelle che ancora travagliano con il latino dei tempi in cui le liturgie erano oscurate ai più con quella lingua dotta, e infine la vuota pompa di certe magnificenti liturgie inscenate da coloro che ci si propongono come nostri "prìncipi" religiosi. Insomma, avrete compreso che non vi propongo come essenziale la gran parte di ciò che chi accosta superficialmente la nostra fede ritiene tale.

  Non crediate neppure che il centro della nostra fede sia puramente e semplicemente l'essere umano, pur con tutto ciò che egli riesce a fare per merito degli sviluppi della sua evoluzione biologica e dei suoi progressi culturali. L'antropologia ci rimanda tutto sommato l'immagine di un vivente piuttosto limitato, non molto distante biologicamente dai suoi antichi progenitori non umani e dagli altri Primati suoi contemporanei. Si andrebbe poco lontano basandosi solo su di lui.

  I teologi della nostra fede insegnano: al centro c'è Gesù di Nazaret. Io non posso che ripetervi appunto questo. Egli è il Cristo della nostra fede, vale a dire colui che ci è stato mandato a fini di salvezza. Egli è per noi l'unico mediatore con un Dio Paterno, molto diverso da come si immaginava che fossero gli antichi capricciosi dei. Gesù è stato mandato per condurci a lui, questa appunto la salvezza: diciamo quindi che è la via. Non c'è un modo diverso di dire il fondamento della nostra fede. Ma chi è Gesù? Su questo sono sorte infinite discussioni e ancora si discute. Di lui sappiamo molto meno di ciò che desideremmo. Per i cristiani della nostra Chiesa egli è vero uomo e vero Dio. Proprio in quanto uomo, oltre che Dio, é la nostra via di salvezza. Anche altre Chiese nostre contemporanee condividono questa convinzione. Chi è Dio? Nel greco antico degli scritti sacri della parte della Bibbia scaturita dall'esperienza di fede delle nostre prime comunità, si afferma che O Teòs agápe estìn, che significa che Dio è agápe. In italiano traduciamo  agápe con amore, ma si rende meglio l'idea dicendo amicizia universale di condivisione. Peró Dio, nella nostra fede, è concepito come persona, non è solo un sentimento o un orientamento dello spirito o un'energia. Delle persone abbiamo solo l'esperienza umana e perciò, nella preghiera gli ci si rivolgiamo come se avessimo di fronte uno di noi. Condividiamo in questo  i costumi delle antiche religioni? Sì e no. In realtà preghiamo come Gesù ci ha insegnato ed è tutto ciò che abbiamo da dire sul punto.

  Qual è poi la conseguenza di quelli che ho detto? Che la nostra fede è misurata su ciò che ho definito agápe, e che comprende condivisione e soccorso, non su tutto quello che ho definito non essenziale. Ripudiare l'agápe è ciò che secondo la nostra fede è il peccato. Di solito, quando pecchiamo, cerchiamo di proporre buoni motivi per giustificarcene. La conversione consiste appunto nello smontarli e nel ritornare sulla via giusta. Nell'ottica della nostra fede: a Gesù e ai suoi insegnamenti e comandi. Accade agli individui e alle collettività. C'è un peccato individuale e ci sono peccati sociali, che si manifestarono ad esempio nella legislazione razzista del fascismo italiano storico. Bisogna obbedire alla legge che va contro Dio o a Dio? È un problema che si pose molto presto alle nostre comunità di fede, innanzi tutto nei rapporti con le autorità religiose dell'antico ebraismo,che accusavano i cristiani di empietá, ma anche,presto, nei rapporti con le autorità dell'antico impero romano, che formulavano un'accusa simile, oltre a quella di sedizione. Si noti che nei primi secoli i cristiani non godevano del favore della popolazione intorno. Non è ancora ben chiaro come poi la loro fede sia riuscita a imporsi addirittura come base di una nuova ideologia di stato. Sono state proposte diverse spiegazioni. Al dunque il mondo antico aveva bisogno di qualcosa di simile e la sofisticata teologia che fu sviluppata, inizialmente tra Antiochia, in Siria, e Alessandria, in Egitto, né forni  le basi culturali e anche giuridiche.

72.7. Un altro mondo

 Sono tra coloro che danno poca importanza al sacro, inteso come cose, istituzioni, persone che manifestano realtà soprannaturali per come sono e non per come funzionano/agiscono. Del resto chi è persuaso della nostra fede non è obbligato a darvi alcun credito. A loro riguardo osservo che distraggono dall'essenziale. Uno, ad esempio, porta con sè un'immaginetta mariana come un talismano, pensando così di essere favorito nei suoi progetti per la virtù miracolante dell'oggetto. Come può accadere? Agli scettici si oppone la fede, si dice  che è questione di fede, o ci credi o non ci credi. Ma il fedele non è obbligato ad essere un credulone, un sempliciotto, uno a cui la si può dare a bere facilmente. Se lo è, va aiutato da chi ne sa di più. Anche a questo serve la Chiesa, l'agápe di coloro che cercano di rimanere uniti al Fondarore attraverso i secoli. Soccorrere chi ne sa di meno è un'opera santa, perché manifesta l'agápe e quindi il Fondamento. Opere di quel tipo si fanno per comando di Gesù, che è Fondatore e Fondamento e via verso il Padre: questo è un modo di dire la nostra fede. Certo, uno legge di teologia e rimane affascinato, poi partecipa ad una riunione di condominio o, per i più giovani, sta qualche ora negli ambienti scolastici e tutto quel bel mondo ideale gli crolla addosso. Ricostituire il mondo in modo da eliminare il male che c'è in esso non è alla portata delle nostre sole  forze. Questo ognuno lo può constatare ed è vero anche secondo la nostra fede. Gesù, introducendoci all'agápe santa, non ci ha mai detto che avremmo potuto da noi stessi cambiare il mondo. Farlo è quindi opera soprannaturale, ma i frammenti di agápe che riusciamo  a realizzare giá qui ed ora nel nome di Gesù ne sono manifestazioni. Al centro delle nostre celebrazioni liturgiche c'è appunto questo,  un'agápe in cui ci raccogliamo tra noi ma insieme a lui, nel suo nome e ci uniamo a lui. Questo è un grande prodigio. Per questo anche la celebrazione meno apprezzabile dal punto di vista artistico mantiene un valore infinito, come manifestazione iniziale di un altro mondo. E lo sono anche tutti gli altri frammenti di agàpe che ci riesce di rendere concreti nel nome di Gesù. Riprendendo un'immagine evangelica li si può paragonare a semi che germogliano (leggi nel Vangelo secondo Marco i versetti dal 26 al 32 del capitolo quarto). Perché, ne siamo convinti nella fede, questo mondo con tutta la sua spietata brutalità, il mondo di chi preda per primeggiare e di chi oppone la forza a chi chiede pietá, è destinato a crollare sotto il peso della sua iniquità, e i suoi potenti ad essere rovesciati dai troni che si sono costruiti, e sarà sostituito dal Regno santo annunciato da Gesù, quello degli umili e amorevoli, a discredito di ogni superbia. Questo è fondamentalmente il senso della pietà mariana, che ho imparato a conoscere bene attraverso mia madre.

72.8. La patria celeste

  Il Vangelo ci è venuto da Gesù di Nazaret, il quale era ebreo e crebbe e iniziò il suo magistero nella Galilea del Primo secolo, che così abbiamo iniziato a denominare contando gli anni dalla sua nascita, quando abbiamo preso coscienza della svolta epocale che da lui aveva preso origine e fondamento. Questo ci lega all'ebraismo di quel tempo e, attraverso di esso, ci lega e ci legherà all'ebraismo di ogni tempo. E tuttavia la figura e l'insegnamento di Gesù ce ne separa anche, e irreversibilmente. Di ciò hanno insufficiente consapevolezza sia coloro che immaginano possibile un'assimilazione del l'ebraismo nostro contemporaneo, sia coloro che tentano un'ebraicizzazione dei nostri costumi immaginando così di avvicinarsi maggiormente a Gesù. L'assimilazione è vissuta come un pericolo mortale dall'ebraismo, oggi come sempre, e non è possibile un vero dialogo con l'ebraismo, sulla base del rilevante parrimonio culturale che con esso condividiamo, se non rinunciamo al proposito di assimilarlo, in particolare sotto specie di conversione. Tra le principali differenze con l'ebraismo nostro contemporaneo vi è la concezione di patria, che molte correnti dell'ebraismo tendono ora a individuare nello Stato d'Israele e che in passato i nazionalismi cristianizzati, oggi si direbbe sovranismi, tesero a individuare nei rispettivi stati nazionali. In realtà, teologie cristiane molto risalenti nel tempo, addirittura inglobate nelle Scritture, attendono patrie dal fondamento più stabile, perché costruite da Dio stesso. Ve ne è traccia nella seconda lettura della Messa di ieri, tratta dal capitolo 11 della Lettera agli ebrei: "Egli [Abramo] aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto è Dio stesso [...] Nella fede morirono tutti costoro [Abramo, Isacco, Giacobbe], senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarci; ora invece aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha infatti preparato per loro una città". Patria celeste non significa necessariamente nell'al di là, ma senz'altro costruita da Dio stesso. Al di fuori di essa si vive nella condizione di migranti, in viaggio verso di essa. Il confronto tra essa e le nazioni è bruciante: queste ultime sono travagliate dalla brutalità, non di rado dei loro stessi capi. Un'azione sociale per migliorarle è però possibile, avendo come modello la Patria celeste, ma finché Dio stesso non vi porrà mani i risultati saranno sempre provvisori, non duraturi, così quei pellegrini che dovremmo sempre essere in un'ottica di fede saranno sempre insoddisfatti e non potranno legare più di tanto il loro cuore all'opera delle loro mani. Non avranno mai in questo mondo una Gerusalemme a cui tornare e ne agognano una Celeste, vale a dire scesa dal Cielo, secondo l'immagine che troviamo al termine del libro dell'Apocalisse, che significa costruita da Dio stesso. Nella Messa pensiamo di renderne  visibile un frammento, quando Dio viene a noi e in noi e ci manifestiamo nel rito suo popolo, tratto da tutti i popoli della Terra per abitare con lui la Patria celeste. Ognuno può dire di essere nato in essa, nessuno vi è più straniero. E vi è abolita l'inimicizia.

72.9. Ad uno spietato

  Non ho un'indole sacerdotale. Ad una persona che mi dice di non essere credente, di solito rispondo: "va bene". Ne prendo atto e non sto a insistere. Vada per la sua strada. Non di rado quella, però, si risente. A lei non va bene. Ma che voleva da me? Lei da una parte e io dall'altra, non è che ci si debba azzuffare, siamo persone civili. No, in realtà questa mia indifferenza non l'accetta. Preferirebbe che questionassi, che le spiegassi perché dovrebbe credere. In effetti, come cristiano, sono inviato anche a lei per raggiungerla nella sua incredulità. Non è un compito solo per sacerdoti, anche se per loro è una specie di mestiere, al quale si preparano a lungo. Io però non so fare di meglio che indicare all'incredulo Gesù: egli è infatti via, verità e vita (leggi dal Vangelo secondo Giovanni, il versetto 6 del capitolo 14; in forma contratta si scrive Gv 14,6). In gran parte dei post che ho scritto su questo blog non sono stato così esplicito, perché mi sono occupato prevalentemente di azione sociale, che richiede un complesso lavoro di mediazione per potersi intendere con tutti, ma trattando direttamente di fede, e in particolare di motivazione alla fede, non dando quindi la fede come presupposta, devo esserlo. Ma è un lavoro semplice: infatti Gesù è principio e fondamento della nostra fede. È la porta. L'ha insegnato lui stesso (leggi dal Vangelo secondo Giovanni, il versetto 9 del capitolo 10; Gv 10,9). Non c'è altro da dire sul punto. Tutta la complicata nostra teologia serve poi per capire che fare in base a chi Gesù è, quindi per la conseguente azione sociale. Che si deve fare in concreto? Anche questo c'è l'ha insegnato lui, e si deve cominciare da lì: amare come lui ha amato (leggi dal Vangelo secondo Giovanni i versetti 12 e 17 del capitolo 15). Amare: niente di sentimentale però. Si tratta dell'agàpe che significa, nel greco antico evangelico, amicizia di condivisione e soccorso universale, amore operoso. E infatti: non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici, ci è stato insegnato (leggi nel Vangelo secondo Giovanni il versetto 13 del capitolo 15). Ma ci è comandata addirittura l'agape universale incondizionata,  per amare in quel senso anche i nemici (leggi dal Vangelo secondo Matteo i versetti 43 e 44 del capitolo 5). Ora mi proponi tante tue giustificazioni per limitare questa agápe universale? Non ti ascolto. Conosco solo Gesù e Gesù crocifisso, lui, il Dio mio amico che diede la vita per me, questo mi hanno insegnato (leggi nella prima lettera di Paolo apostolo,il versetto 2 del capitolo 2). Mi dici che è difficile seguirlo? Ti rispondo: sì no. È difficile costruire nel nostro mondo l'agape, dunque il fare, esso richiede sapienza, che significa anche cultura oltre che buona volontà;  molto più semplice è il non fare, l'astenersi dal male. Comincia da lì. Anche questo può costare caro, ad esempio il discredito sociale. Gesù morì da reietto sociale, non solo fu ucciso, ma giustiziato. Ma, insomma, se, ad esempio, io non mi associo al coro di quelli che di questi tempi gridano "Lasciateli affondare! Chiudete i porti a chi li ha soccorsi!", che rischio? Dico solo quello che dice il Papa. Sarò forse criticato da alcuni, forse sarò aggredito a parole sulle reti sociali, ma poco di più. Mi costa poco seguire Gesù nell'astenermi da quel male. Ad alcuni questo non va? Dunque vadano per la loro strada, io non li seguirò. O meglio, sono tentato di non seguirli, perché in realtà Gesù, via, verità è vita, Buon Pastore, li segue per riportarli al sicuro, per la retta via, che è lui stesso, e così devo fare anch'io, suo seguace, benché, lo confesso, molto riottoso perché per indole preferirei tenermene lontano, Dove andate, voi, spietati, senza Gesù?, mi corre l'obbligo di ricordare loro. Nella sofferenza non invocate anche voi misericordia, quella stessa che però negate agli altri? Perché fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi? Lo sapete che, una volta introdotto in società il principio di spietatezza, quello vi si ritorcerà contro, quando le forze, fatalmente, vi abbandoneranno? Questa è appunto la spietata legge di natura, quella delle belve nostre antiche progenitrici secondo la biologia. Se vi farete belve, farete la loro fine. Imparate dalla natura.

 Gesù, nostra unica speranza nella fede! Nei racconti evangelici delle procedure che condussero alla sentenza di morte su di lui ad un certo punto entra in scena la folla, composta da abitanti di Gerusalemme, città nella quale alcuni giorni prima Gesù era stato acclamato a gran voce. Quella folla invocò, pretese la sua morte (leggi nel Vangelo secondo Luca in versetti dal 13 al 25 del capitolo 23). Non ci sono forniti particolari. A Gerusalemme c'erano sicuramente seguaci di Gesù. Egli infatti fu condotto a Pilato, alto funzionario dell'Impero romano, potenza straniera che occupava la Palestina dell'epoca, con l'accusa di essere un sobillatore del popolo. Ecco che si rischia ad insistere con chi non vuol sentire! Ma, in occasione di quella sorta di processo in piazza, la voce dei suoi sostenitori non fu udita. Gesù non ebbe avvocati difensori. Fu lasciato solo nelle mani dei suoi nemici. Ora, in genere, siamo portati a deplorare tutto questo e non ci piacerebbe pensarci in mezzo a quella folla che urlava a Pilato "Crocifiggilo!". Ma in realtà ci comportiamo proprio come quelli lá quando gridiamo "Lasciateli affondare" o addirittura "Affondateli" e comunque "Chiudete i porti". Non vi è stato insegnato che tutto ciò che si fa a quei disperati in pericolo di affogare o strappati al mare ma ancora in pericolo in mezzo al mare è come se fosse fatto a Gesù stesso (leggi dal Vangelo secondo Matteo i versetti dal 41 al 46 del capitolo 25)? Questo è il peccato, e un peccato molto grave perché commesso contro Gesù, il fondamento. Sono solo chiacchiere, si dice. Che male possono fare in fondo? Ma non sapete che anche quelle sono peccato, perché, come recitiamo all'inizio della Messa, si pecca anche in pensieri e parole? Ma poi ad esse, in democrazia, seguono anche le opere, opere malvagie, perché in democrazia la voce della folla è ascoltata da chi comanda, come lo fu da Pilato, e dunque ecco che quelli che abbiamo chiesto di lasciar affondare affogano veramente  e quelli che sono stati soccorsi e salvati in mare soffrono vicino alle nostre coste perché i nostri porti sono stati effettivamente chiusi, come era stato chiesto. Su tutto questo ci ammonisce il Papa, con autorità, la suprema autorità secondo la nostra confessione: è peccato e peccato grave, quello che macchia e che esclude dalla Comunione, ci istruisce accorato, ma non è ascoltato. Attenti però, spietati, che lui ci indica il Buon Pastore, la via, gli altri, quelli che vi hanno persuasi alla spietatezza, sono solo ladri e briganti (leggi nel Vangelo secondo Giovanni i versetti da 1 a 4 del capitolo 10).

72.10. Due parole sulla Chiesa

  Nei giorni passati vi ho scritto solo ciò che mi è stato insegnato. Di alcune cose vi potrei dire con precisione quando e da chi le ho imparate. Alcune le ho imparate fin da bambino, perché sono cresciuto nella Chiesa cattolica, una delle maggiori Chiese cristiane. Chiesa: la parola ci deriva attraverso il latino dal greco antico ekklesìa, che significava assemblea. Una Chiesa cristiana unisce anche a Gesù, non solo tra chi ne è partecipe. Della Chiesa cattolica  sono parte viva e nessuno mi può togliere questa mia condizione. Mi deriva dal Battesimo, con il quale sono stato unito a Gesù, e mediante lui a tutta l'umanità di ogni tempo. Quale parte viva non sono la semplice replica di altri: questo significa che in quello che vi ho trasmesso c'è indubbiamente qualcosa di mio che voi probabilmente ricorderete. È come con ciò che abbiamo appreso dalla persona che ci è stata madre. La madre è la prima maestra. E i cattolici chiamano la loro Chiesa madre maestra. Vivere insieme agli altri è profondamente umano. La nostra Chiesa lo è. Vive da due millenni e molto si è aggiunto a ciò che c'era alle origini. È servito a vivere i tempi nuovi e in particolare per la missione che le è stata affidata da Gesù, quella di raggiungere gli esseri umani fino agli estremi confini della Terra, per farne dei discepoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e insegnando loro a osservare tutto ciò che Gesù ha comandato. Gesù ha promesso di essere con noi, in questo lavoro, fino alla fine del mondo (leggi nel Vangelo secondo Matteo, i versetti dal 16 al 20 del capitolo 28). Le Chiese cristiane sono riuscite a svolgere questa missione? Sì, altrimenti non avremmo conosciuto Gesù. Insieme all'essenziale è stato trasmesso molto altro. L'essenziale, quello che ci mantiene uniti a Gesù, non passa, il resto potrebbe essere cambiato senza danno, ed in effetti così si è fatto. Il volto delle Chiese cristiane, come società di credenti, è molto cambiato dalle origini, anche perché i tempi sono cambiati. Anche questo è profondamente umano. Il passato non ci domina, il nostro sguardo è rivolto al futuro. Nel presente dobbiamo sempre discernere ciò che del passato deve essere mantenuto, e senz'altro c'è!, ed è ciò che ci unisce a Gesù. È una decisione collettiva, non individuale, perché la missione è collettiva. Ciascuno però può collaborarvi, con l'esempio di vita, la proposta motivata, il dialogo, secondo il proprio ruolo nella propria Chiesa e l'autorità che gli è storicamente riconosciuta in essa.  Ad esempio: la Città del Vaticano, lo stato che la Chiesa cattolica possiede (non  "è": la Chiesa cattolica non è uno stato) qui da noi a Roma non rientra nell'essenziale.

72.11. Su tutta la Terra

  È ancora piuttosto misterioso come la nostra fede abbia potuto diffondersi alle sue origini  intorno al Mediterraneo fino a creare le premesse della sostituzione dell'ideologia politica basata sull'antico politeismo. Le fonti storiche appaiono influenzate dagli sviluppi successivi. Probabilmente ebbe un ruolo importante lo sviluppo di una sofisticata teologia sulla base dei concetti filosofici ellenistici, di cultura greca, che fornì la risposta a molti problemi politici dell'epoca. Ma l'evoluzione più spettacolare si ebbe nell'integrare le culture dei popoli che, intorno al Quinto secolo della nostra era, iniziarono a premere contro la parte occidentale dell'Impero romano, finendo per conquistarlo ma facendosene assimilare culturalmente. Il fattore più influente di questo processo può essere individuato nella rilevantissima forza di integrazione interculturale  che è insita nei principi sociali della nostra fede. Quest'ultima  infatti manca del tutto, a differenza della cultura religiosa del suo ebraismo delle origini, di connotati etnici o geografici. Il Dio in essa rivelato è detto Padre di tutte le genti. Il suo Regno è universale ed è fondato sull'agápe, l'amicizia universale di condivisione e soccorso. I discepoli della nostra fede sono inviati fino agli estremi confini della Terra per insegnare a tutte le genti il comando dell'agàpe. Questo insegnamento è totalmente traducibile nella lingua dell'agàpe, che è l'agape stessa, la quale  può essere intesa da tutti. Tanti anni fa un famoso fisico credente, il prof. Enrico Medi, veniva chiamato, anche dai vescovi, a tenere affollate conferenze di argomento religioso. In una di esse, della quale sono disponibili fonoregistrazioni (la mia purtroppo l'ho persa), disse che il laico cattolico ha l'occasione nella sua vita di celebrare una sola Messa, ed è in occasione della sua morte, con l'affidamento del suo spirito al Padre e l'offerta della sua vita per gli altri.  È un modo molto suggestivo di presentare il contributo del singolo a quella grande liturgia che è la pratica  dell'agàpe. Ora, se cerchiamo di discernere i segni dei tempi, di quelli nostri  che stiamo vivendo, vediamo con chiarezza che essi sono costituiti principalmente dall'abolizione di ogni confine e divisione nell'umanità, ciò che da un po' va sotto il nome di globalizzazione, con riferimento prevalentemente  alle sue caratteristiche e dimensioni geografiche, ma che, se riuscissimo ad umanizzarla, dovremmo probabilmente chiamare con un nome nuovo. In questo quadro  si offrono inedite opportunità all'agápe  secondo la nostra fede. Le possiamo sperimentare tutte le volte che incontriamo di persona gente di altre culture ed etnie. Un'esperienza che caratterizzò le nostre comunità  delle origini.

72.12. Cose dell’altro mondo

 La nostra fede ci spinge a lavorare per cambiare la società in cui viviamo, aspettando che l’opera sia portata a compimento da Dio stesso alla fine dei tempi, o, principalmente,  a essere buoni, e quindi anche a fare il bene, per  procurarci dopo la nostra morte un posto in un mondo di spiriti con Dio, ai quali, alla fine dei tempi, sarà restituito un corpo e che quindi rivivranno? Pensate che sia  facile dare una risposta? Vi consiglio allora di approfondire la storia della nostra religione: vi convincerete che non lo è. Non si tratta solo di complicazioni inutili. Per dire: a chi propone di soccorrere in base ad un imperativo etico religioso, si lancia spesso l’accusa di fare sociologia  e non  teologia, di occuparsi quindi (troppo) della cose della Terra a discapito di quelle del Cielo. Che rispondere? Uno come Francesco d’Assisi, vissuto tra il 1182 e il 1226, ha cercato di tagliare cortoimitando Gesù. Non dava importanza allo studio colto della teologia, nel quale vedeva la presunzione di inserire glosse, vale a dire aggiunte esplicativa, al Vangelo, depotenziandolo, ma, in effetti, ebbe una sua teologia, che è appunto quella dell’imitazione dei Gesù. I frati dell’Ordine da lui fondato, che poi si sviluppò in varie organizzazioni religiose, furono però anche persone molto colte.

 Sicuramente nella nostra fede pensiamo ad una vita dopo la morte fisica, e anzi vi confidiamo,  e lo facciamo perché ce l’ha insegnato Gesù. Ma la vita   in questo  mondo ci deve essere indifferente, vada come vada, noi si deve pensare solo  a quell’altra? Ci sono correnti spirituali che l’hanno pensata così. Esse si  contrappongono frontalmente al nostro  mondo  e sembrano però anche  inaugurarne un altro qui tra noi  a fianco  di  esso, vivendo un’etica molto rigorosa. Che valore ha questo mondo alternativo, separato?

 Nel greco evangelico la parola che traduciamo con  mondo  erakòsmos e in quell’antica lingua richiamava l’idea di ordine.

 Nell’antica religione politeistica dei greci, Kàos  -  l’universo disordinato -  era uno degli dei delle origini, insieme a Gea,  la Terra, Tartaro, l’al di là, ed Eros, la forza riproduttiva. Si riteneva che tutti gli altri dei fossero nati da Kàos   e da Gea. Dalle loro lotte, secondo questa storia di dei detta teogonia - generazione degli dei -  emerse alle fine un ordine, ilKòsmos, governato da un dio supremo ZèusGiove  nell’italiano di derivazione latina, detto Padre universale degli dei e degli esseri umani.

 Uno dei brani evangelici più importanti in cui è utilizzata la parolakòsmos è quello del Vangelo secondo Giovanni, capitolo 1°, versetto 10, che nella Bibbia CEI 2008 viene tradotto così:

Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.

e che nel testo greco ritenuto maggiormente affidabile suona:

En to kòsmo en,

nel mondo era,

kai o kòsmos di’ autù egèneto

e  il mondo per mezzo di lui nacque

kai o kòsmos ouk ègno.

e il mondo non lo riconobbe.

 Un’altra frase evangelica molto importante che ha kòsmos è quello nel Vangelo secondo Giovanni, capitolo 18, versetto 36, che riporta la risposta di Gesù alla domanda di Pilato “Tu sei il re dei Giudei”, che la Bibbia CEI 2008 traduce in questo modo:

Rispose Gesù: "Il mio regno non è di questo mondo;

e che nel testo greco ritenuto maggiormente affidabile suona:

Apekrìte Iesùs e basilèia emè uk èstin ex tù kòsmu tùtu

rispose   Gesù il regno     mio  non è     del  mondo questo.

  Parlando di un altro  mondo / kòsmos Gesù intendeva riferirsi al mondo degli spiriti lassù o a un altro ordine universale e quindi anche sociale già quaggiù, conforme al suo Vangelo?

 La questione non può essere risolta solo sulla base dall’analisi letteraria del testo, perché il greco antico kòsmos  aveva vari significati e viene utilizzato nei testi evangelici con vari significati.

 Un raccordo tra Terra e Cielo può essere visto in questo famoso detto evangelico che troviamo nel Vangelo secondo Matteo, nel capitolo 10, versetti da 25 a 46, che CEI 2008 traduce così:

[31] Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. 
[32] E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, 

[33] e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. 
[34] Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. 
[35] Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 
[36] nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. 
[37] Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? 
[38] Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 
[39] E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? 
[40] Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. 
[41] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. 
[42] Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; 
[43] ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. 
[44] Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? 
[45] Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. 
[46] E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna". 

 Dunque, si insegna di solito nella nostra pastorale, ciò che facciamoquaggiù  è importante anche lassù. Ma fino a che punto la nostra missione quaggiù  è collegata con il nuovo ordine di lassù? E’ solo questione di retribuzione nel mondo di lassù? Nell’ordine di idee dell’imitazione di Gesù si può argomentare in modo diverso, vale a dire che la nostra missione quaggiù  non abbia solo senso per accumulare crediti per la vita di lassù.

 Vi dico che cosa ho imparato in una vita trascorsa nell'ascoltare  quegli insegnamenti: in materia di fede, non bisogna avere fretta di rispondere, bisogna riflettere molto. Come in ogni cosa, meglio partire dalle cose semplici per arrivare, riflettendoci molto sopra, a quelle più complesse. Quindi, ad esempio, accogliere lo straniero  che giunge tra noi nudo, affamato, assetato, malato. Questo comando  è molto chiaro e ci viene da Gesù. Egli, la via, la porta, del Cielo. Chi l'accoglie passa per quella porta, non così chi non l'accoglie. Secondo quel brano evangelico, chi non accoglie, non accoglie Gesù e allora  non avrà in eredità il Regno. Ma che cos'è questo Regno? In questo detto evangelico se ne cerca di rendere un’idea (lo trovate nel Vangelo secondo Marco, al capito quarto, versetti 31 e 32):

[31] Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; 
[32] ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra". 

 Un’altra avvertenza che ciclicamente faccio: ricordate che su ogni parola della Bibbia, ma in particolare dei Vangeli, si sono scritte, nei due millenni della nostra storia collettiva di fede, tantissime pagine, tante che ormai nessuno, nemmeno i più dotti, riescono ad averle tutte presenti, e inoltre che dalle parole bibliche ergono ancora tantissimi altri nuovi significati ai quali prima non si era ancora pensato. Occorre quindi affrontare ogni brano biblico con spirito di massima umiltà, pronti ad essere corretti da chi ne sa di più e meglio, tanto più se non si è passata un’intera vita affinando una sapienza su quei temi, come chi di mestiere o per ministero li insegna, ma si è solo un fedele tra i tanti, come me.

72.13. Sono persone!

In questo  sesto anniversario della visita a Lampedusa, il mio pensiero va agli “ultimi” che ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li affliggono. Sono gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto; sono gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in campi di un’accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea. Essi sono solo alcuni degli ultimi che Gesù ci chiede di amare e rialzare. Purtroppo le periferie esistenziali delle nostre città sono densamente popolate di persone scartate, emarginate, oppresse, discriminate, abusate, sfruttate, abbandonate, povere e sofferenti. Nello spirito delle Beatitudini siamo chiamati a consolare le loro afflizioni e offrire loro misericordia; a saziare la loro fame e sete di giustizia; a far sentire loro la paternità premurosa di Dio; a indicare loro il cammino per il Regno dei Cieli. Sono persone, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie! “Non si tratta solo di migranti!”, nel duplice senso che i migranti sono prima di tutto persone umane, e che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata.

[Papa Francesco - dall'omelia dell'8-7-19 - Messa nella Basilica di San Pietro a Roma in occasione dell’Anniversario della sua visita a Lampedusa]

 

 

Il Papa insegna una cosa ovvia: chi incrudelisce contro i migranti va contro Gesù, che «ci chiede di amare e rialzare». Bisogna scegliere. La scelta ha un carattere particolare perché è politica. Non è come quando, ad esempio, decidiamo come comportarci con una persona della nostra famiglia o con un vicino di casa. Questo non mi pare chiaro  a molti e, del resto, i nostri politici non aiutano a capirlo. Anzi tendono ad assimilare quella scelta, che riguarda il governo della società, a quelle che facciamo nei nostri ambienti di prossimità. Accade così quando, a fronte delle critiche a certe politiche di discriminazione e respingimento, dicono ai dissenzienti di  prenderli a casa loro [i migranti poveri]. Ancora agli inizi del Novecento si ragionava in Italia in questo modo in merito alle spese sanitarie per curare le singole persone: la malattia era un male privato e ciascuno doveva sostenere da sé il costo delle cure. In gran parte del mondo è ancora così, in particolare nei Paesi più poveri. Ma anche negli Stati Uniti d’America solo di recente è stato introdotto un sistema di assicurazioni private con finalità sociali che garantisce a una parte della fasce meno abbienti di quella nazione (che è ancora tra le più ricche del mondo) una parte delle cure loro occorrenti, senza che facciano carico del tutto ai malati e alle loro famiglie. Ma l’attuale Presidenza federale statunitense si propone di abolirlo. In generale, negli Stati Uniti solo chi ha un lavoro stabile ha garantite le cure mediche a carico di assicurazioni private e le prestazioni variano a secondo del tipo di impiego o professione. In Italia , invece, gran parte delle cure sanitarie, anche quelle molto costose, sono a carico del Sistema Sanitario Nazionale, gestito dalle Regioni con fondi che in massima parte derivano dai tributi che versiamo allo Stato. Questo è previsto nella nostra Costituzione. E' stata una scelta politica. 

  Il problema del soccorso, accoglienza e integrazione o respingimento dei migranti è sociale, collettivo, e va risolto con un’organizzazione collettiva. Il fatto che al soccorso in mare ai migranti nel tratto di mare tra le nostre coste e quelle libiche si dedichino in prevalenza organizzazioni private è un segnale che qualcosa non va: e infatti da qualche anno lo Stato italiano non organizza più quel servizio e ha ritirato la flotta che impiegava per svolgerlo. Di esso vi sarebbe ancora necessità: infatti fonti affidabili segnalano che finora circa novecento persone sono annegate nel 2019 in quel tratto di mare.  Non solo: recenti disposizioni di legge creano difficoltà anche alle organizzazioni private. Vorremmo che a soccorrere fosse la Guardia costiera libica. Questo soccorso si configura in realtà come una cattura, perché le persone soccorse vengono poi internate in centri in Libia in condizioni di detenzione, che l’ONU ha dichiarato pessime. La Libia è uno stato in guerra. Ad oriente vi è un’organizzazione che sta attaccando quella ad occidente, dove attualmente manteniamo un corpo di spedizione. La Guardia costiera libica è organizzata nella parte occidentale, dove teniamo lla gente nostra, soldati e funzionari civili. Opera con navi fornite dall’Italia, con personale addestrato dall’Italia e verosimilmente sulla base di informazioni sulla posizione dei migranti fornite dall’Italia, che le acquisisce mediante il proprio dispositivo militare nell’area. Osservo: si può capire che uno stato in condizioni di guerra come quello della Libia occidentale cerchi di contrastare l'immigrazione irregolare di stranieri, ma perché dovrebbe contrastare anche l'emigrazione irregolare di stranieri (non di propri cittadini)? In realtà questa attività di contrasto dell'emigrazione  irregolare di stranieri dalla Libia viene svolta nell’interesse dell’Italia, è un forma di protezione avanzata delle  nostre  frontiere. Essa non viene svolta solo nelle acque territoriali libiche, ma molto oltre, nel mare internazionale. Quando viene svolta nel mare internazionale può riguardare solo imbarcazioni in difficoltà, perché le norme internazionali vietano di assaltare quelle che non lo sono (sarebbe pirateria), salvo il caso di guerra o di convenzioni internazionali che consentano quell’attività, come quando una nave militare inizia l’inseguimento nel mare territoriale e lo prosegue in acque internazionali. Le operazioni di polizia libica su navi di migranti in difficoltà, per catturarne i passeggeri e riportarli in Libia, sono svolte dalla Guardia costiera libica nel quadro di un’attività di sorveglianza e soccorso in un’area di mare internazionale individuata come zona S.A.R. - di sorveglianza e soccorso -  e riconosciuta alla competenza e responsabilità della Libia occidentale nel giugno dell’anno scorso. La critica che si fa è questa: non si tratta in realtà di soccorso  ma di cattura, a cui segue un internamento in Libia, in pessime condizioni, senza prospettive di una rapida soluzione per gli internati. Ciò che si fa, si fa con mezzi forniti dall’Italia e nell’interesse dell’Italia, ma senza che l’Italia si assuma la responsabilità degli internati, vale a dire delle persone catturate mentre stavano emigrando  dalla Libia più o meno verso le nostre coste (l’Italia è lo stato europeo che con Malta, un piccolo arcipelago, è il più vicino alla Libia: è la principale porte d’Europa per chi parte dalla Libia occidentale).  Questo il problema sociale, che è anche politico, e che in democrazia riguarda tutti quelli che hanno il diritto di votare alle elezioni. Con il loro voto possono scegliere tra le soluzioni politiche proposte e indirizzare l’azione di governo. Quel problema non  è  da oggi: si è manifestato dall’inizio degli anni ’90, quindi da circa trent’anni, ma la politica italiana, senza distinzione dei suoi orientamenti politici, non è riuscita finora ad andare molto più in là del sistema ora vigente, che risale ad accordi conclusi molto tempo addietro con il capo libico Gheddafi, ucciso nel 2011 nel corso della prima fase della guerra civile libiche, che da allora è stata sempre in corso e che ha visto e vede l’intervento di varie potenze straniere, tra le quali l’Italia [fino al settembre 2018 la missione in Libia MIASIT prevedeva un impiego massimo di 400 militari, 130 mezzi terrestri e mezzi navali e aerei (questi ultimi tratti nell’ambito delle unità del dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro) fonte:https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/Libia_Missione_bilaterale_di_supporto_e_assistenza/Pagine/Contributo_nazionale.aspx].

  Per i migranti la nostra scelta è per la vita o per la morte e ne ha la responsabilità chi in Italia ha voce in politica, innanzi tutto gli elettori. Ma il problema riguarda da vicino anche la nostra vita, perché, semplicemente respingendo, non lo si risolve, ma lo si aggrava poco al di là dei nostri confini, lì dove abbiamo importanti fonti di approvvigionamento energetico e dove, pertanto, abbiamo interesse a mantenere tranquilla la situazione.

72.14. Riconoscere o rinnegare Gesù

Dal Vangelo secondo Luca, capitolo 12, versetti 8 e 9: «Io vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio.»

 

 C’è una relazione tra Terra, dove siamo noi ora quaggiù, e il Cielo, la nostra vera e unica patria secondo la fede, che indichiamo con lassù per significare la distanza, ma senza sapere  dove  precisamente sia, essendoci state date solo immagini di  come  è, ed è insieme a Dio e ai suoi angeli. Quella relazione è mediata da Gesù, detto anche la  via  e la porta, che danno accesso al Cielo. Non si tratta di fargli atto di formale sottomissione, ma di fare ciò che comanda, ed egli ci comanda l’amore-agàpe,  l’amore di condivisione e soccorso. Il modello è il farsi prossimi  agli altri come il Samaritano  della parabola narrata nel Vangelo secondo Luca, nel capitolo 10, versetti dal 25 al 37. Questo mi è stato insegnato. La pratica della fede sta tutta qui. E’ una cosa semplice da dirsi e da capire, molto più difficile da farsi. Molto, molto più difficile di tutta la teologia di ogni tempo, che è solo cultura pensatadetta, per di più riferita a quel Cielo di cui ho scritto prima, che ci si sottrae nella sua distanza dalle cose e dalla vita di quaggiù. La pratica della fede richiede una certa sapienza: la si impara, certo, ma la si deve anche sperimentare, e non è detto che vada sempre bene al primo colpo. E’ come tutte le cose umane: sempre perfettibile. Per la fede, ciò che motiva a quella pratica, è invece diverso. Dicono che  si cresce  nella fede, ma nella mia esperienza non è proprio così. Vedo che si ricomincia sempre da capo, di età in età, e non è detto che si migliori con la sua pratica, acquisendo quindi una certa sapienza pratica. Non è detto che i vegliardi siano migliori dei più giovani. E’ questo che si vuol dire in religione quando si afferma che la fede ci  è donata.  E’ come con la manna, il pane dal Cielo, dell’episodio biblico, che non poteva essere accumulata (leggi nel libro dell’Esodo, i versetti dal 14 al 21 del capitolo 16). Il dono deve essere rinnovato di giorno in giorno, per tutti i giorni della vita. Così può accadere che uno sappia di teologia e di liturgia, che quindi sappia parlare con sapienza della fede e sappia insegnare preghiere e riti ma, ad un certo punto, non abbia più la fede, ad esempio se non accetta di riceverla in dono ma cerca di costruirsela in base a ciò che sa.  E’ descritta anche come sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna, acqua viva (leggi dal Vangelo secondo Giovanni, i versetto 10 e 14 del capitolo 4). Ci viene da Gesù, questo  si insegna in religione. Non è opera nostra. E, del resto, è tanto diversa dalla logica delle cose di quaggiù! Solo dal Cielo ci poteva venire. Supera ogni nostra attesa. Ci conduce al Cielo.

  Per chi si allontana da Gesù le cose di quaggiù riprendono però il loro aspetto di natura e la società appare nuovamente espressione della sua dura e spietata legge, che è quella a cui soggiacciono gli animali i quali, dal punto di vista della biologia, discendono anch’essi dalle antiche belve nostre progenitrici. Nell’allontanarsi non si tratta della fede pensata  o parlata,  ma della sua pratica, ad esempio quando si rifiuta di soccorrere, di  farsi prossimi  ai sofferenti che chiedono aiuto. Ci è infatti comandato di amare, non di ragionare sull’amore. Non obbedire al comandamento dell’amore - agàpe è appunto il rinnegare Gesù e dipende da noi. Ci è stato insegnato infatti che ogni cosa che si fa ai sofferenti è come se fosse fatta a lui (leggi nel Vangelo secondo Matteo, dal capitolo 25 i  versetti dal 31 al 46). Questo ci ripete il Papa, accorato, quasi ogni giorno, ma  è poco ascoltato, anche da chi parla di fede e sbandiera simboli religiosi. «Maria Santissima ci aiuti a lasciarci purificare il cuore dal fuoco portato da Gesù, per propagarlo con la nostra vita, mediante scelte decise e coraggiose.» ha detto all’Angelus domenica scorsa. Così avvenga, così sia, amen.

72.15. Il principio evangelico di insoddisfazione

"Chi è il più grande tra voi diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto tra voi come colui che serve" (dal Vangelo secondo Luca, capitolo,22, versetti 26 e 27 - traduzione in italiano CEI 2008. CEI 1974, dove CEI 2008 ha "il più giovane" traduce con "il più piccolo" - il testo in greco antico ha "neòteros": letteralmente "il più nuovo").

 

   Credo che storicamente nessuna autorità, civile o religiosa, anche se ispirata ai principi di fede, sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica il comando evangelico che ho sopra citato. E questo anche nel caso di vere rivoluzioni, vale a dire di un completo rovesciamento di un ordinamento politico, con instaurazione di un nuovo ordine politico retto da regole opposte rispetto alle precedenti.

  Rivoluzione è un termine che il pensiero politico ha tratto dall'astronomia, dove significa il moto di un corpo intorno ad un altro corpo, che si considera come centro. Una rivoluzione è compiuta, dal punto di vista politico, quando viene istituito un nuovo ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai potenti di stare come colui che serve, vale a dire di agire di conseguenza, significa introdurre un principio di insoddisfazione permanente davanti a qualsiasi potere, quindi anche a quello che si presenti come rivoluzionario. Questa appunto l'origine dei gravi problemi politici che le nostre prime comunità di fede ebbero nei primi quattro secoli dell'era corrente e, in seguito, degli analoghi problemi che travagliarono i nostri riformatori che intesero promuovere un ritorno alla fedeltà a quel comando evangelico.

72.16. Grideranno le pietre

 Alcuni farisei tra la folla gli dissero: "Maestro, rimprovera i tuoi discepoli". Ma egli rispose: "Io vi dico che se questi taceranno, grideranno le pietre" [dal Vangelo secondo Luca, i versetti 39 e 40 del capitolo 19 - vi vengono riferite parole di Gesù pronunciate entrando a Gerusalemme tra la folla che lo acclamava re].

 

 Per trattare di questioni sociali nell'ottica della mia fede cristiana facendomi intendere da tutti non mi occorre un linguaggio esplicitamente religioso: mi basta usare quello universale dell'agápe, dell'amicizia di condivisione e soccorso. In questo senso è senz'altro vero: anche le pietre gridano. Se però vi devo parlare della mia fede, devo indicarvi Gesù: non conosco altro Dio, e per il resto sono completamente ateo. Apprezzo ogni persona religiosa, anche di altre fedi, che riesca anche a manifestarsi buona. Con lei ci intendiamo con il linguaggio dell'agápe. Ma non so parlare di Dio se non mediante Gesú. Vorrei appartenere al suo Regno e ne attendo la piena manifestazione: è ciò che è stato promesso, egli tornerà nella gloria. Non saprei condurvi a Dio per altra strada, al massimo potrei riuscire a convincervi degli antichi dei della natura, a questo portano le prove dell'esistenza di Dio che nei secoli passati sono state escogitate, tutte. Perché dunque sono passato dal linguaggio dell'agàpe a quello specificamente cristiano? Ho cambiato gli interlocutori, per un po': ora sono i miei compagni di fede, quelli che nel greco evangelico sono chiamati koinonòi appunto compagni. Così si chiamavano gli uni gli altri i cristiani delle prime comunità (con il termine comunitá traduciamo il greco del Nuovo Testamenti koinonìa). Il termine koinonòs definisce letteralmente chi è parte attiva di un impegno collettivo, comune nel senso di condiviso. Che mettono in comune i cristiani? Ciò che non deriva da loro, che è stato loro donato, la loro fede. Il termine italiano compagni richiama qualcosa di più: il condividere il pane. Ma intende la stessa cosa. Si condivide la vita nel corso di un lavoro collettivo. Come compagni ci si fa attivi d'intesa con altri che condividono la medesima fede. I cristiani sono compagni perché sono impegnati in un'opera comune, inviati a tutte le genti del mondo per condividere con loro il pane di vita, che è Gesù stesso, per la salvezza dell'umanità. Sono mandati in suo soccorso. Leggiamo nel Vangelo secondo Giovanni, nel versetto 35 del capitolo 6: "Gesù rispose loro: 'io sono pane della vita; chi viene a me non avrá fame e chi crede in me non avrà sete, mai!". Leggiamo anche nel capitolo 15 del Vangelo secondo Giovanni, nei versetti 12 e 14: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati [...] Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando". Questo mi è stato insegnato, questo ho appreso, questo condivido con voi, miei compagni di fede. 

 Vi domando: si può essere spietati  e cristiani? Storicamente lo si è stati. Ma è stato giusto esserlo? È, oggi, giusto esserlo? È un tema di stretta attualità, come sapete, per noi italiani. Voi spietati che vi dite anche cristiani, che per confermarlo esibite pubblicamente anche la corona del Rosario, la preghiera che ci fa fare memoria di Gesù in ogni suo capitolo (detto mistero), quale maestro, quale pastore, quale profeta, state seguendo? Non è la spietatezza il comando di Gesù, egli che è la via, la porta, l'acqua viva, il pane della vita. Ma l'amicizia di condivisione e soccorso. Questo continuano a ripeterci concordemente e pressantemente il Papa e i vescovi, e, tra i pastori cristiani, non solo loro. In questo tante divisioni del passato sono state superate.

72.17. Sapienza evangelica

   " In quel tempo Gesù disse: 'Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti (il testo greco ha sofò sofòn, con la stessa radice di sofìa che significa sapienza") e ai dotti (il testo greco ha sunetòn, cioè coloro che sono capaci di capire e di fa capire, rendendo condivisa la conoscenza; da sùnesis che è appunto questa facoltà) e le hai rivelate ai piccoli (il testo greco ha nepìoisda nèpios, che significa bambino che ancora non sa parlare). [traduzione in italiano CEI 2008 dal greco antico; dal Vangelo secondo Matteo, il versetto 25 del capitolo 11]

 

 Il detto evangelico che ho sopra trascritto è polemico verso gli intellettuali dell'ambiente sociale in cui Gesù svolse il suo ministero. I bambini capiscono meglio le cose della fede  degli adulti che si sforzano di capire? Il lavoro degli intellettuali è inutile per la fede e, anzi, controproducente? Così, ad esempio, intese Francesco d'Assisi. Nei Vangeli però l'unico ragazzino che troviamo discutere con degli intellettuali, indicati con il termine greco didàskalos (insegnante), è il Gesù dodicenne, nel Tempio di Gerusalemme, dell'episodio che leggiamo nel Vangelo secondo Luca, in particolare nel versetto 46 del capitolo 2.  Però egli non insegnava: è scritto che ascoltava faceva domande, come ci si attende che faccia uno scolaro. Nel versetto 47, che segue, si legge: "E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza [il testo greco ha epì te sunèseie le sue risposte". I maestri, dunque, interrogarono il ragazzino, anche qui come ci si aspetta che avvenga a scuola. Secondo quei brani evangelici l'intelligenza/sùnesis di Gesù a quell'epoca venne valutata da quei suoi maestri dalle sue domande e dalle sue risposte alle loro domande. Quando però si discute tra intellettuali tutto è più complicato, perché si ragiona tra pari e conta la validità delle argomentazioni svolte secondo certi schemi condivisi. Poco prima del versetto del Vangelo di Matteo che ho sopra citato si legge (capitolo 11, versetto 19) si legge: "Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie". Le opere di Gesù non vennero interpretate correttamente da molti del suo ambiente. In base ad esse egli pretendeva che gli fosse riconosciuta autorità.  Del resto egli proponeva una via e un metodo che, benché presentati con le categorie culturali dell'ebraismo della sua epoca e del suo ambiente, non corrispondevano a schemi condivisi nel ceto dei maestri di fede di quella cultura e richiedevano un radicale cambiamento di mentalità. Nella cerchia dei primi più stretti seguaci di Gesù non vengono menzionati intellettuali. Tra loro e per loro egli fu quindi l'unico Maestro. Essi fecero affidamento su di lui, ma, benché testimoni delle sue opere, non capirono tutto subito di lui.

  L'intellettuale lavora con la mente, che è la funzione fisiologica dell'elaborazione dei pensieri e del decidere consapevolmente. Nel greco antico mente si diceva nòus (si pronuncia nus). Il nòus è implicato in una pratica religiosa molto importante che nel greco antico si dice  metánoia, parola che ha in sè la medesima radice del nòus / nus e che letteralmente significa cambiamento di mentalità e  in italiano in genere si ritiene corrispondere alla parola conversione. Il principio della vita cristiana è la conversione a Gesù come Cristo, appunto ciò che Gesù, nel detto che ho,sopra citato, lamentava essergli stato rifiutato.  È il raggiungimento di una sapienza pratica perché si manifesta ed è quindi riconoscibile nell'agápe, l'amicizia universale di condivisione e soccorso, ma richiede anche una preventiva comprensione, un'attività del nòus, che si consegue dal valutare correttamente certi fatti, dal domandare e dal rispondere, anche con certe azioni. Si è riconosciuti cristiani essenzialmente in base a queste ultime. Esse però si basano su decisioni che avvengono nel nòus e che richiedono il confronto con i maestri. Questa è un'esperienza comune. Spesso, nelle società profondamente permeate dalla nostra fede, i primi maestri sono i genitori. Crescendo ne incontriamo altri. Dal punto di vista della nostra fede, tutti i maestri fanno bene il loro mestiere se ci portano verso il Maestro, Gesù. Perché, come ho detto, la conversione, nell'ottica della nostra fede, è solo conversione a lui. Di qui l'impossibilità di quelli che vengono chiamati atei devoti, vale a dire di coloro che aderiscono ad una chiesa cristiana senza volersi convertire a Gesù, fascinati solo dalla capacità di una chiesa di imporsi in società: senza Gesù, sono atei e basta. 

 Nel capitolo 11 del Vangelo di Matteo, da cui ho tratto il versetto citato all'inizio, la metánoia è citata al versetto 21: "Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsáida! Perché se a Tiro e Sidone fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite [il testo greco ha metenòesan, forma passata del verbo metanoèo, che significa convertirsi, con la stessa radice di metánoia [CEI 2008]. Corazìn e Betsáida erano città della Galilea di cultura e religione ebraica, regione dove Gesù iniziò la sua azione pubblica; Tiro e Sidone erano città fenicie, più a nord, di altra etnia cultura,religione,lingua.

  Gesù nel capitolo 11 del Vangelo di Matteo ci viene presentato come impaziente: un'impazienza analoga prende talvolta anche chi ai tempi nostri è impegnato nell'evangelizzazione. Perché non seguendo la via di Gesù si va a finire male e chi evangelizza lo sa bene. Si è mandati ad evangelizzare per diffondere la via di salvezza, che è Gesù stesso. Chi ha bisogno di essere salvato è in pericolo. Al versetto 23 del capitolo 11 del Vangelo secondo Matteo leggiamo infatti altre parole di Gesù stesso, con questo monito: "E tu Cafárnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se a Sodoma fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a te, oggi esisterebbe ancora!". Cafárnao era un'altra  città della Galilea del tempo di Gesù, nella cui sinagoga egli predicò il Vangelo; secondo quanto si legge nel capitolo 19 del libro della Genesi, Sodoma era una città situata a sud di Canaan che venne distrutta da un cataclisma mandato dal Cielo come punizione dei suoi vizi. Qui la critica evangelica non riguarda solo gli intellettuali, ma tutta la popolazione di quelle città della Galilea dei tempi di Gesù.

 Noi non siamo Gesù, ma lo abbiamo ancora con noi, se riusciamo a mantenere la nostra conversione a lui. Possiamo ancora metterci alla sua scuola e poi secondo il comando ricevuto, andare ad insegnare a tutti i popoli a osservare tutto ciò che ci ha comandato e, innanzi tutto, l'agápe, l'amicizia universale operosa di condivisione e soccorso. A volte questi insegnamenti sono accolti male anche tra gli stessi popoli già evangelizzati fin da tempi antichi, che dunque vengono a trovarsi più o meno nella situazione di Corazìn, Betsáida e Cafárnao dopo che Gesù aveva agito tra loro. Addirittura nella nostra Italia di oggi, la predicazione dell'agápe che viene fatta da un pastore con grande autorità come il Papa viene sospettata di mettere in pericolo la nostra sicurezza pubblica. Egli viene dunque trattato come un sobillatore, andando incontro alla medesima cattiva fama che portò Gesù davanti a Pilato. Da un punto di vista cristiano quelli che gli fanno quell'accusa sragionano, il nòus / nus non li assiste. Se non riescono a tornare come bambini nell'accogliere Gesù, dovrebbero almeno cercarsi un buon maestro, che li guidi verso il Maestro. Ma già lo hanno!? Com'è che non riescono più a dargli retta?

  Che dobbiamo pretendere dagli altri? Di tornare come bambini o di ragionare meglio, attivando il nòus / nus, e, ragionando meglio, cercando in particolare di non sragionare, di convertirsi a Gesù, mettendosi alla sua scuola? Lascio a voi queste conclusioni. Da padre di famiglia ho avuto a che fare con bambine piccole, e a volte sono stato sorpreso del loro senso della giustizia, ma anche con loro più grandi e allora sono stato per loro tra i primi maestri, quindi  didàskalos. L'esortazione finale del Risorto che troviamo al termine del Vangelo secondo Matteo,nel capitolo 28, versetto 19, è di farci insegnanti, nel testo greco didáskontes, tradotto da CEI 2008 con insegnando. Che cosa? Tutto ciò che ha comandato Gesù. Il Maestro.

72.18. Operatori di ingiustizia o di giustizia?

 

25 Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: "Signore, aprici!". Ma egli vi risponderà: "Non so di dove siete". 26 Allora comincerete a dire: "Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze". 27 Ma egli vi dichiarerà: "Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia [il testo greco ha  adikìas, che significa senza  dìke, senzagiustizia]!". 

[Dal Vangelo secondo Luca, capitolo 13, versetti dal 25 al 27 - CEI 2008]

 

  Questo brano evangelico  mi ha molto  colpito fin da quando lo udii per la prima volta riuscendo a capirlo, all’età delle scuole medie. Lo abbiamo proclamato nella Messa domenicale di oggi. Spesso lo si ascolta distrattamente. Sono parole attribuite a Gesù, quando insegnava per città e villaggi in cammino verso Gerusalemme. E’ scritto che: «Un tale gli chiese: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?"». Gesù gli rispose rivolto ad un uditorio più ampio, ma utilizzando la seconda persona plurale,  voi. «Sforzatevi di entrare per la porta stretta», e poi l’insegnamento che ho sopra trascritto. Sentendo leggere quel brano evangelico, non vi sentite chiamati in causa? Io sì, tutto le volte che lo sento o lo leggo. Il problema è lanostra  ingiustizia. Nell’ottica evangelica, giustizia è fare ciò che Gesù comanda:  l’agàpe  operosa e universale, estesa anche ai nemici, l’amicizia di condivisione e soccorso senza alcun limite fino all’estremo sacrificio di sé. Nell’antico mondo greco-romano Dìche,  la giustizia personificata, era una dea, quindi un principio supremo, che imponeva che a ciascuno fosse dato il suo. Un’altra dea, Nèmesi, si incaricava di punire gli ingiusti. Era quindi opinione comune che l’ingiustizia turbasse l’ordine dell’universo voluto dagli dei e che, alla fine, quell’ordine sarebbe stato da loro restaurato punendo i malvagi. Ma ciò che ora mi interessa sottolineare  è che ci sono ingiustizie operate dai singoli e altre operate da collettività. Lo sappiamo bene. La via più semplice per affrontarle, da lato degli ingiusti, è trovarvi giustificazioni. Per quelle collettive ci riesce molto più facile, perché raramente trovano unanèmesi da parte delle autorità pubbliche. Qualche volta è la storia che si incarica di realizzarla. Così, ciò che accadde agli italiani durante la Seconda guerra mondiale, che combatterono dal giugno  1940 all’aprile 1945, può essere visto come la nèmesi  del peccato di fascismo in cui incorsero. Ci pare però ingiusto vederla così, perché, insomma, soffrirono giusti e ingiusti, colpevoli e innocenti, sebbene il fascismo, con la sua ideologia di discriminazione sociale ed etnica e di predazione di altri popoli, avesse avuto un vastissimo consenso popolare, in particolare tra il 1930 e il 1938, anni in cui si ebbe la compromissione con esso della Chiesa cattolica, dopo il Concordato Lateranense del 1929, e quindi degli stessi cattolici italiani. Una parte degli italiani, però, resistette, ma non fu sufficiente a contrastare efficacemente i progetti di guerra del regime.  Senz’altro, comunque, quel male che venne con la guerra nella quale il fascismo storico cacciò l’Italia  può essere visto come una diretta conseguenza storica della decisione collettiva di massa per il fascismo mussoliniano. Ma non è solo a una cosa simile che mi pare ci si riferisca nell’insegnamento evangelico. Gesù infatti non disse semplicemente che essendo ingiusti poi si finisce male (come in Matteo 26,52: “tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno”), ma: "Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia”. E’ in questione, con l’ingiustizia che anche collettivamente pratichiamo,  il nostro  rapporto con lui, la porta  per la nostra salvezza:  “voi tutti”, vale a dire, visto dalla parte degli operatori di ingiustizia, “noi tutti”. Anche l’ingiustizia che si fa collettivamente conta. Non basta essere personalmente  una persona buona? Ma come lo si può essere partecipando a certe decisioni, e questo anche se lo si fa spinti dall’emotività di massa o dalla violenza generalizzata altrui? I primi cristiani, per ciò che ce ne è stato riferito, si dimostrarono persone coraggiose e ferme nell’affermare pubblicamente e collettivamente i principi di giustizia a cui avevano dato il loro assenso di fede. Tanto che, di questo ho preso consapevolezza leggendo recentemente un commento al brano evangelico che trascrivo di seguito:

 

36«Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!". 37 Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. 38 Ma egli disse loro: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39 Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho". 40 Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41 Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?". 42 Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43 egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
44 Poi disse: "Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". 45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture 46 e disse loro: "Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47 e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48 Di questo voi siete testimoni. 49 Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto".
50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52 Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53 e stavano sempre nel tempio lodando Dio.» [dal Vangelo secondo Luca, capitolo 24, versetti 36-53].

 

 i primi discepoli di Gesù,  dopo l’evento tragico della Crocifissione di Gesù, la Resurrezione e l’Ascensione, tornarono a Gerusalemme con grande gioia  e stavano sempre nel Tempio lodando Dio. E negli Atti degli Apostoli, capitolo 3, versetto 1, leggiamo anche:  «Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera delle tre del pomeriggio». I primi discepoli si cacciarono, in definitiva, proprio lì, nel Tempio di Gerusalemme, dove il pericolo era ancora molto alto. Non tutti in Gerusalemme , evidentemente, avevano condiviso il grido di “Crocifiggilo!” contro Gesù e  si andò  manifestando molto presto una aperta resistenza collettiva.

  Ma, insomma, mi vorreste chiedere, dove vuoi andare a parare con questi discorsi, in  che cosa tu e noi saremmo colpevoli di ingiustizia collettiva?

  Sul Corriere della Sera   di oggi (pag.28),  ho letto che, da una ricerca dell’istituto di ricerca IPSOS il 51% dei cattolici (la maggioranza!), praticanti o meno, è favorevole alla politica cosiddetta dei porti chiusi, che vieta alle navi che soccorrono i migranti in pericolo di naufragio  nel tratto di mare tra le nostre coste e quelle africane di attraccare in Italia. Ho anche letto nei giorni scorsi che si stima in 859 [fonte: Organizzazione Internazionale per le migrazioni. Dato citato in Avvenire del 23-8-19] il numero delle persone migranti affogate nel 2019 in quel tratto di mare, nel quale si vorrebbe che operassero solo le vedette della Guardia costiera dell’entità governativa della Libia occidentale (sostenuta dall’Italia e attualmente assediata dalle truppe della Libia orientale nel quadro di una sanguinosa guerra civile), che, raggiunti migranti in difficoltà in quel tratto di mare, li cattura e li interna in pessime condizioni di detenzione in strutture governative in Libia, impedendo, nel nostro esclusivo interesse, che raggiungano le nostre coste, così come non le raggiungono quelli che affogano. Si realizza, per noi, un importante risparmio economico, perché arriva molta meno gente.

 Come si concilia quell’orientamento di massa con la nostra fede in Gesù?
 Non sentiamo collettivamente, noi Italiani cittadini di una Repubblica democratica nella quale la voce delle masse conta soprattutto quando diventa maggioritaria,  non sentiamo, dico,  sulla coscienza, come ingiustizia contro Gesù,  quei morti, quei tanti morti affogati?
 La questione, vedete, è molto semplice ed è tutta qui. 

 Nei giorni scorsi è partita  dall’Italia una missione di soccorso di un’Organizzazione non governativa  italiana, Mediterranea. Ecco alcuni messaggi indirizzati all’equipaggio della nave umanitaria da vescovi italiani (fonte: Avvenire  del 23-8-19):

«Sentitemi uno di voi, con voi», ha scritto Corrado Lorefice [Arcivescovo di Palermo] che ha trasmesso il suo pensiero attraverso il capo missione Luca Casarini. «Mentre siamo sommersi da questo mare di indifferenza e di aggressività – si legge nel testo dell’arcivescovo di Palermo –, di odio e di livore, di individualismo e di arroganza, scriviamo pagine belle di vita, di incontri, di amicizia, di solidarietà, di amore, scritte con cuori rimasti umani, ispirati dall’umanità bella di Gesù». Perciò Lorefice dice «grazie per quello che siete, per il vostro coraggio, perché amate!». Nel suo ruolo di pastore Lorefice suggerisce di leggere durante la missione alcuni passi del Vangelo di Giovanni. E così sta avvenendo: «Come ho fatto io, così fate anche voi».

L’equipaggio, giunto alla settima missione, ha incrociato la Ocean Viking, poco prima che ottenesse lo sbarco a Malta. Durante la navigazione notturna anche il vescovo di Cefalù ha voluto esprimere vicinanza e amicizia: «L’umile e vero devoto popolo siciliano ha inventato il titolo mariano di Porto Salvo per invocare l’aiuto della Vergine Madre Maria verso tutti i naviganti. A lei – è l’invocazione di Giuseppe Marciante – rivolgo la nostra preghiera perché il cuore dei credenti italiani sia un porto aperto e sicuro per tutti i naufraghi».

Alle «carissime amiche e amici della nave Mare Jonio», si è rivolto il presidente di Pax Christi. «Salvare vite – ha scritto il vescovo Giovanni Ricchiuti [vescovo di Altamura] – è un valore in sé, grande, indiscutibile. Grazie per il vostro impegno a tenere accesa la speranza in un mondo più umano. Abbiamo bisogno di gesti che indichino la rotta della pace e dell’ umanità». Non si può guardare a Mediterranea «e alle persone che potrete salvare senza pensare ad altre navi cariche invece di "cose" che arricchiscono noi Occidente opulento: Coltan, oro, diamanti, petrolio. E come non pensare – insiste Ricchiuti – alle navi cariche di armi che, lo speriamo, la smettano di rifornire di bombe, spesso Made in Italy, diversi Paesi in guerra».

  Questi messaggi, in linea con quanto insegnato e raccomandato dal Papa, esprimono l’orientamento che i nostri pastori indicano come conforme alla nostra fede in Gesù. Da che parte stiamo? Chi seguiamo?

72.19. Azione cattolica e riforma sociale

  Il collegamento tra l'Azione Cattolica e l'azione sociale promossa dal Papa e dai vescovi è stato sempre centrale nell'attività associativa, fin dalla sua fondazione, decisa dal Papa Giuseppe Sarto - Pio 10° con l'enciclica Il fermo proposito  del 1905, e attuata l'anno seguente con la deliberazione e approvazione degli statuti della nuova organizzazione. Quest'ultima  proprio nel suo collegamento organico con il Papato differiva sostanzialmente dalle precedenti iniziative sociali del laicato italiano, ma con esse condivideva l'intento espressamente politico dell'agitazione delle masse per la riforma sociale, in un'epoca di acutissimo contrasto tra il Papato e il Regno d'Italia, dopo la soppressione, nel 1870 a seguito di conquista militare da parte dell'esercito italiano,  dello Stato Pontificio, il piccolo regno territoriale che il Papato  manteneva dall'antichità nell'Italia centrale, con capitale Roma. Questa azione sociale e politica si allineò progressivamente e  in gran parte con quella fascista dal 1930 al 1938, il periodo della compromissione dei cattolici italiani con il regime mussoliniano dopo iPatti Lateranensi  conclusi nel 1929 tra il Regno d'Italia e il Papato romano. L'anno di svolta fu il 1931, quello in cui l'Azione Cattolica fu attaccata da squadre di delinquenti politici fascisti e il Papato con l'enciclica Il Quarantennale - Quadragesimo anno, del Papa Achille Ratti - Pio 11°,  invitò i cattolici a collaborare con il regime. Certo, alcuni settori dell'Azione Cattolica, come quello degli universitari, mantennero una posizione critica nei confronti del regime, facendosi forza anche in base a quanto argomentato da quello stesso Papa sempre nel 1931, con l'enciclica  Non abbiamo bisogno, un  tentativo (ambiguo e sostanzialmente tiepido) di mantenere uno spazio di azione religiosa dell'organizzazione, pur tra (oggi) sconcertanti affermazioni come questa "Crediamo poi di avere contemporaneamente fatto buona opera al partito stesso ed al regime." Dal 1939, con il Papa Eugenio Pacelli - Pio 12°, l'orientamento del Papato mutò radicalmente e condusse l'Azione Cattolica ad avere un ruolo decisivo nella costruzione di una nuova democrazia repubblicana in Italia, con l'affermazione politica di tanti principi umanitari del pensiero sociale cristiano e della dottrina sociale cattolica. 

 Non deve stupire, quindi, che l'Azione Cattolica segua il Papa e i vescovi nella loro attuale aspra polemica, su base prettamente evangelica e senza intenti di egemonia di potere,  contro la politica dei  porti chiusi da chiunque propugnata, in linea con la critica, contenuta nell'enciclica citata Non abbiamo bisogno, che "non si è cattolici se non per il battesimo e per il nome — in contraddizione con le esigenze del nome e con gli stessi impegni battesimali — adottando e svolgendo un programma che fa sue dottrine e massime tanto contrarie ai diritti della Chiesa di Gesù Cristo e delle anime".

72.20. Predicazione

[1]Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote [2]e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. [3]E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo [4]e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». [5]Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! [6]Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». [7]Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. [8]Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, [9]dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda.

[10]Ora c'era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!». [11]E il Signore a lui: «Su, và sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, [12]e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista». [13]Rispose Anania: «Signore, riguardo a quest'uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. [14]Inoltre ha l'autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». [15]Ma il Signore disse: «Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; [16]e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». [17]Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». [18]E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, [19]poi prese cibo e le forze gli ritornarono. Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, [20]e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio.

 [Dagli Atti degli apostoli, capitolo 9, versetti 1-20]

 

  In genere la vita cristiana inizia ascoltando altri che raccontano di Gesù:  è la predicazione. Per chi vive in famiglie cristiane, i primi predicatori sono coloro che fanno da genitori. Crescendo, si ascoltano quelli che sono accreditati nelle comunità di riferimento e hanno ricevuto l’incarico di svolgere quel compito, preparandosi. Non ho mai incontrato finora qualcuno che sia riuscito a fare da sé, anche se non posso escludere che ve ne siano. Nemmeno Paolo di Tarso, stando a quanto si racconta nel brano degli  Atti degli apostoli  che ho sopra trascritto, ci riuscì. In Siria, sulla strada di Damasco, ebbe un’esperienza prodigiosa che possiamo definire  visione. Una luce, una voce dal cielo: "Io sono Gesù, che tu perséguiti! Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare".  La visione lo rese cieco. Nella città, Damasco, un discepolo di Gesù, Anania, ebbe anche lui una visione e gli fu detto: "Su, va' nella strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco, sta pregando e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire a imporgli le mani perché recuperasse la vista"  e "Va', perché egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d'Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome".  Paolo recuperò la vista dopo che Anania gli ebbe imposto le mani, un gesto che significava il dono dello Spirito Santo:"Saulo, fratello, mi ha mandato a te il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada che percorrevi, perché tu riacquisti la vista e sia colmato di Spirito Santo". 

  Fare da sé in materia di fede espone al pericolo di non incontrare veramente Gesù e di costruirsi un dio a  propria misura. Per quanto uno sia grande e sapiente, quella misura non è mai quella giusta, perché siamo  viventi limitati. Nelle Scritture si trova in molti brani l’esortazione a  contare i propri giorni. Se ad una persona però basta l’illusione di breve periodo, una specie di aiuto psicologico per superare brutti momenti della vita… Così la religione diventa una specie di analgesico. Un sogno piacevole come quello indotto da certe droghe. E’ una delle critiche più dure che le sono state fatte. Ma la fede che mi è stata insegnata non è fatta così e non serve a quello.

 La riflessione sui fatti rilevanti per la fede, alla luce di essa, ciò che trovate su questo blog, non è predicazione. E’, al più, un discorso colto per condividere l’esperienza di fede, come potete trovare anche in altre pubblicazioni. Tra ciò che qui condivido vi è anche l’esortazione ad esporsi alla predicazione, nella comunità di riferimento, per saperne di più ed essere indirizzati per la via giusta. Sento che alcuni vorrebbero farne a meno. Su Famiglia Cristiana in edicola leggo addirittura di una imponente opposizione dei fedeli contro il Papa su questioni importanti. Quelli lì, dopo una visione prodigiosa per via,  addirittura di Gesù stesso!, si sarebbero eletti in proprio predicatori, nonostante l’esortazione del Signore: “…entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”.  Ma lo avrebbero fatti da ciechi! E’ questo, appunto, che accade,  nella mia esperienza, a quella specie di sedicenti  sovraumani che seguono quella via. I risultati, poi, non mi sembrano veramente un granché. Ecco che ad esempio, dunque, nonostante magari un gran brandire di amuleti  religiosi, simboli ridotti a tali perché strumentalizzati, ci si manifesta  spietati, facendosi lecito di ignorare il comando di Gesù dell’amicizia universale operosa. La cosa poi, come insegna la storia, va in genere a finire male, perché, quando in una società si introduce il principio di spietatezza, al momento in cui fatalmente si è colpiti da rovesci della fortuna se ne sarà travolti, come accadde storicamente a molti rivoluzionari francesi di fine Settecento.

72.21. Ciò che è di Cesare

"È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? [...] Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" [dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 22, versetto 17 e 22]

 

 Alcuni sostengono che fede e politica debbono essere rigorosamente separate e accusano il Papa e i vescovi di fare politica, ad esempio: perché ora si immischiano contro la politica governativa dei porti chiusi? Non ricordano che fu detto rendete a Cesare quel che è di Cesare? Il tema è di grande attuale interesse perché il contrasto politico tra la Chiesa cattolica e la Repubblica italiana su quell'argomento indubbiamente non ha precedenti e ricorda quello che ci fu con i regimi comunisti nell'Europa orientale, fino alla loro caduta negli scorsi anni '90, o, ancor prima, con il Regno d'Italia dopo la conquista militare e la soppressione dello Stato Pontificio, nel 1870. Addirittura, a partire dal problema creatosi l'estate scorsa con i migranti soccorsi in mare dalla nave militare Diciotti si è fatto appello alla disobbedienza civile nei confronti di norme ed ordini governativi che vietassero quel tipo di soccorso (allo stato non vi sono norme che lo vietino, ma norme italiane danno facoltà al Ministro dell'Interno di vietare che gli stranieri soccorsi vengano sbarcati in Italia). Il recente messaggio di incoraggiamento e condivisione dell'arcivescovo di Palermo all'equipaggio di nave Mare Jonio, partita per una missione di soccorso organizzata dall'organizzazione non governativa Mediterranea contro l'attuale indirizzo politico governativo, in merito è indicativo di questo orientamento. Quest'ultimo è espressione di un antico principio di teologia politica cristiana, trattato per esteso negli Atti degli Apostoli, secondo il quale un ordine di qualsiasi autorità terrena  obbliga in coscienza solo se non contrasta con i comandi di Dio. Tra essi vi è quello di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Se ne sono date diverse interpretazioni, sapete. Alcuni lo intendono come un riparto di diritti di supremazia e di poteri nel quadro di una sorta di condominio tra l'autorità che domina le società umane e Dio. Dio, insomma, non dovrebbe né potrebbe impicciarsi nel campo dell'altra autorità. Altri sostengono che con quel comando si sia inteso vietare alle autorità istituite dalle società umane di contrastare quella di Dio e si sia resa lecita e anzi doverosa la critica e l'opposizione verso ordini contrastanti con la legge di Dio (dare a Dio quel che è di Dio). È così che storicamente l'intese la maggior parte dei cristiani, in particolare nei primi tre e mezzo secoli della nostra era, nei quali fu acutissimo il contrasto con le autorità istituite nell'antico impero umano, la cui ideologia politeistica, piuttosto tollerante in maniera religiosa, richiedeva appunto che i comandi dell'imperatore non potessero essere messi in discussione dai suoi sottoposti.  Egli pretendeva, appunto, in questo, di essere un dio tra i tanti, non certamente onnipotente, come non erano considerati tali gli altri dei della religione politeista dell'epoca, ma comunque un dio: un dio di settore insomma, con una sua area di competenza riservata e garantita. Un po' secondo l'interpretazione data al comando evangelico date a Cesare quel che è di Cesare secondo la quale esso significhi appunto questo, l'istituzione di un'area di competenza riservata all'autoritá civile. I cristiani dei primi tre secoli si fecero massacrare in massa nei modi più atroci per contrastare questa pretesa. Ora i cristiani dei nostri tempi sembrano invece trovarvi una certa ragionevolezza, in particolare nell'Italia di oggi. Chi ha ragione? Lascio a voi la scelta. Ragionateci sopra. Non ho alcuna autorità su di voi (il Papa e i vescovi invece l'hanno verso i fedeli cattolici). Propongo solo argomenti. Quale pensate sia il comando di Dio in merito ai rapporti con l'autorità civile e sul soccorso in mare?

72.22. Desacralizzazione

  La dottrina sociale dovrebbe rientrare anche nella nostra formazione formazione di base del fedele laico e invece ciò non accade nemmeno in quella successiva. Dovrebbe mettere il laico in condizioni di sviluppare un autonomo pensiero sociale non solo agendo come singolo, ma specialmente nelle collettività alle quali partecipa. 

  Di solito quella formazione viene conseguita dai laici di fede nel corso degli studi universitari nelle facoltà umanistiche. Ma, allora, spesso, più che una formazione è un'informazione, salvo che per quelli che approfondiscono in gruppi ecclesiali specializzati, che nel mio caso sono stati costituiti dalla FUCI, gli universitari cattolici, e dal MEIC, il movimento culturale che opera appunto in questo settore. Queste due organizzazioni furono fondate in Italia in due periodi radicalmente diversi: la prima in epoca di acutissimo conflitto tra il Regno d'Italia e il Papato per la questione della soppressione, nel 1870, dello Stato pontificio, conquistato militarmente dagli italiani per ordine del Governo regio (la precisazione è importante perché alcuni anni prima se ne era tentata la conquista per via rivoluzionaria da parte dei mazziniani); la seconda per venire incontro all'esortazione del Papato, con l'enciclica il Quarantennale - Quadragesimo anno, del 1931, di partecipare alla riforma sociale che il fascismo mussoliniano in quegli anni stava progettando ed attuando e, in quel contesto, tendeva alla formazione di una nuova classe dirigente. Va segnalato che la seconda all'inizio si presentava come il proseguimento della prima, per il periodo dopo la laurea: all'origine si chiamava infatti Movimento Laureati di Azione Cattolica.Costituita da laureati provenienti dalla FUCI e ispirata dalla guida spirituale e politica di Giovanni Battista Montini, che della FUCI fu a lungo assistente nazionale, mantenne il suo carattere di gruppo di critica sociale e di pedagogia e pratica democratica, non lasciandosi mai assimilare dal regime fascista, e anzi creando le basi culturali per la resistenza ad esso e per l'attivazione partecipazione alla costruzione di un nuovo regime democratico. Gran parte dei giovani cattolici che, nella Resistenza antifascista italiana e nella successiva fase costituente democratica, furono impegnati nei più importanti ruoii politici proveniva da FUCI e Movimenfo Laureati. 

 Una analoga opera di formazione politica democratica ispirata alla dottrina sociale non vi fu mai a livello popolare, mentre durante il fascismo mussoliniano ne era stata fatta una ispirata dal regime e assecondata in ambiti ecclesiali, nella stessa Azione Cattolica, che tra il 1931 e il 1938, l'anno della rottura ideologica del Papato con il regime, prese a fascistizzarsi. Il fascismo tese ad ottenere una sacralizzazione della sua politica autoritaria e assolutista, sfruttando la storica diffidenza del Papato verso la democrazia. In parte l'ottenne. Parte dell'ideologia sociale del fascismo (ad esempio in materia di rapporti di famiglia e di valutazione della politica democratica)  si legò, in Italia, alla tradizione della fede. Questo spiega il permanere tutt'ora di alcuni elementi di ideologia politica reazionaria tra i cattolici italiani riconducibili alla compromissione con il fascismo storico e la scarsissima capacità dei cattolici italiani di scandalizzarsi per certi cortocircuiti tra politica e religione, come nel recente sventolamento pubblico di corone del Rosario nel corso di comizi politici e addirittura in Parlamento.

 Ieri ho citato il detto evangelico del rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Questo principio è quello della desacralizzazione del potere politico, di ogni potere politico, compreso quello religioso. La questione della laicità della politica, che certamente di quel principio è un sviluppo, si pose solo molto più vicino a noi nel tempo, a partire dai moti rivoluzionari europei e nordamericani di fine Settecento, a seguito dei quali si cercò di attuare il più ampiamente possibile una legittimazione popolare alla decisione  politica e se ne dovettero fissare i limiti, le forme e le caratteristiche. Le monarchie europee contro le quali quei moti si diressero pretendevano di regnare per volontà di Dio, avevano quindi imposto una sacralizzazione del loro potere politico, e quindi non accettavano che il loro potere potesse essere messo in questione, e anzitutto criticato, dalle nascenti democrazie popolari di massa. In queste ultime i conservatori vedevano un fattore di disordine sociale. A quei tempi in Europa la religione cristiana era divenuta prevalentemente fattore di conservazione sociale. Tra i monarchi europei che pretendevano di regnare per volontà di Dio vi erano anche i Papi, per quanto riguardava il piccolo regno territoriale che erano riusciti storicamente ad assicurarsi nell'Italia centrale, con capitale a Roma, detto Stato della Chiesa e, più recentemente, Stato Pontificio. È per questo che il papa Pio 9^, regnante nel 1870 quando Roma fu conquistata dagli italiani e lo Stato Pontificio venne soppresso, considerò tale conquista un atto empio dal punto di vista religioso e scomunicò il Re d'Italia (!) e il Presidente del Consiglio dei ministri che l'avevano ordinata, ritirandosi nei palazzi Vaticani come in una (tutto sommato confortevole sebbene angusta tenendo conto del precedente spazio di manovra politica) prigione, vietando altresì ai cattolici di partecipare alla politica nazionale. Tale è la cosiddetta Questione romana. Per arrivare a una sconfessione, nel vero senso del termine, di questa posizione da parte del Papato, si dovette attendere il regno del Papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini, l'antico assistente nazionale della FUCI, che qualificò come provvidenziale la fine dello Stato Pontificio. La questione politica e patrimoniale, con un ingentissimo risarcimento e l'istituzione della Città del Varicano a Roma, fu invece risolta con il compromesso con il regime mussoliniano a seguito del quale il Papato concluse nel 1929, con il Regno d'Italia rappresentato dal Capo del Governo Benito Mussolini, quegli accordi denominati Patti Lateranensi, perché firmati nel complesso dei palazzi pontifici del Laterano, che poi vennero richiamati, e quindi mantenuti, dalla nuova costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Ho letto che l'art.7, che li menziona, fu scritto dal politico democristiano Giorgio La Pira e da Giovanni Battista Montini, che all'epoca lavorava nella Segreteria di Stato vaticana, qualcosa di intermedio tra un governo e un ministero degli esteri.

  Il principio di laicità, alla base del pensiero democratico contemporaneo, vieta di sottrarre alla critica qualsiasi istituzione politica (anche religiosa) o decisione politica (anche adottata da autorità religiose) sulla base di motivazioni religiose, sostenendo quindi che la legge di Dio ne vieti la critica e/o la riforma. Esso è sviluppo del principio di desacralizzazione della politica espresso nel rendere a Cesare quel che è di Cesare che però contiene anche il dare a Dio ciò che è di Dio (attenzione: qui non sono in questione la chiesa e le sue istituzioni, ancora da venite quando il detto evangelico fu pronunciato),  che significa che nessun politico può farsi  lecito di ordinare alcunché contro la legge di Dio, la quale,  dal punto di vista cristiano, consiste principalmente in quella  dell'agápe, dell'amicizia universale ed operosa di condivisione e soccorso, che è ciò che definiamo amare Dio e amare gli altri esseri umani, senza esciusione alcuna, facendosi loro prossimi al modo del Samaritano della parabola (quindi in particolare senza che possa far problema l'appartenenza  confessionale o nazionale di chi soccorre o di chi necessita del soccorso ).

 Ogni potere politico che presenti i suoi ordini come voluti da Dio, o ad esempio dalla Madonna e/o da altri santi, viola i principi di laicità e di desacralizzazione; se poi, ad esempio, vieta di soccorrere i sofferenti o pone impedimenti ai soccorsi contrasta ancor più gravemente con la legge di Dio. Alcuni hanno osato fare entrambe le cose e, allora, può essere loro religiosamente contestata la legittimazione a presentarsi come agenti divini (è la critica che i primi cristiani mossero agli imperatori romani che pretendevano onori divini e quindi di essere insindacabili). La loro politica deve essere desacralizzata innanzi tutto dalla stessa religione, quindi come dovere religioso del credente, in obbedienza al comando rendete a Cesare quel che è di Cesare.  Ma attenzione! Il principio di desacralizzazione richiede anche che la critica politica non si fermi a questo. Non basta dire che una certa decisione politica contrasta con legge di Dio, perché: rendete a Cesare quel che è di Cesare. Altrimenti si ricade nel peccato di sacralizzazione della politica. Da parte di chi critica un potere o una decisone politici occorre spiegare razionalmente perché una certa decisione è dannosa per la società, ad esempio evidenziando che, come storicamente è sempre accaduto, introdotto in un ordinamento il principio di spietatezza, gli stessi spietati ne saranno poi fatalmente travolti, a cominciare dai ceti che in società sono meno potenti, quelli popolari, la maggioranza di solito benché spesso alla mercé di minoranze privilegiate. L'idea di una realizzare una tendenziale uguaglianza negli aspetti sociali fondamentali, ad esempio nel rispetto della vita altrui, che comprende anche l'assicurare condizioni minime di benessere a tutti, inabili compresi, è tra quelle fondamentali delle democrazie avanzate contemporanee. Per ottenere che una decisione politica non risulti dannosa per la maggioranza, che storicamente è stata sempre costituita da chi stava peggio. Bisogna quindi prendere coscienza di questo: anche la critica politica è esercizio di un potere sociale che soggiace alla legge del rendere a Cesare quel che è di Cesare. Questo spiega perché, nell'ottica della fede, nessuna legge di Dio può essere sottomessa ad un giudizio politico per la sua validità, fosse anche quella di una vasta maggioranza espresso con metodo democratico, e il credente debba rimanerle fedele sempre, anche a costo della vita. C'è in questo un obbligo di resistenza a Cesare che storicamente è stato sempre attuato dai cristiani, anche nei confronti di regimi politici sedicenti cristianizzati. In quest'ultimo caso ciò in genere è stato il fritto di un approfondimento del processo interiore, personale ma anche collettivo, di conversione alla luce del Vangelo. Questo ad esempio è accaduto a riguardo del genocidio degli amerindi, a seguito della conquista europea del continente americano da parte degli europei dal Cinquecento,  compiuto brandendo il libro con il Vangelo come una sorta di bandiera di guerra  (non certamente il Vangelo). La storia dimostra che non sempre chi sventola o indossa simboli religiosi segue la legge di Dio, il Vangelo. Capirlo non sempre è facile: nel lavoro culturale ci si aiuta gli uni gli altri a capire meglio. Questo rientra anche nel lavori di formazione religiosa, in particolare del laico che partecipa a società democratiche, nelle quali le masse hanno voce e sono ascoltate.

 

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73

Capire e praticare la democrazia

 

 

73.1.   La democrazia: non solo regole, ma una forma di convivenza sociale per risoluzione pacifica dei conflitti.

      La democrazia è  un sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società  o generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro estensione. Una volta che si è radicata in un corpo sociale, ne consente anche l’evoluzione senza che esso venga disperso nel corso di conflitti violenti. Per questo la democrazia viene mantenuta sempre in una fisiologica instabilità, in modo da consentire le dinamiche sociali di potere, ma in una instabilità controllata, come accade nei reattori nucleari per la produzione di energia elettrica, nei quali le reazioni di fissione nucleare, capaci di produrre potenze distruttive, vengono moderate e contenute, ma comunque attivate.

  Gli esseri umani, in particolare nelle società contemporanee estremamente complesse in particolare per essere composte da vastissime moltitudini di individui, dipendono dalle loro società per la sopravvivenza. Un gruppo di esseri umani diventa società quando manifesta la capacità di azione collettiva. Le azioni individuali devono quindi essere coordinate, per produrre un’azione collettiva. Questo coordinamento è dato da dinamiche di potere che coinvolgono individui e gruppi di individui. Ad un certo punto un individuo o, più spesso, un gruppo di individui riesce ad imporsi e a dettare le linea collettiva: questa è una situazione di potere. Essa tende sempre a prolungarsi nel tempo e ad estendersi, finché non incontra una resistenza. In questo momento si produce una situazione di conflitto sociale che arcaicamente veniva risolta prevalentemente mediante la violenza collettiva e, progressivamente, producendosi delle culture dalle società umane, quindi evolvendo le società umane, anche con altre modalità che preservassero la società dall’essere sfasciata nel conflitto. In particolare questo avvenne, e ancora avviene, mediante la produzione del diritto. Il diritto è uno dei modi in cui si possono  limitare i poteri collettivi e privati in modo che non giungano a confitti distruttivi. E’ integralmente una produzione sociale, che si basa essenzialmente sull’esperienza storica e sociale delle conflittualità sociali. Oggi siamo abituati a pensare il diritto come un sistema di ordini di autorità pubbliche, quindi di leggi, ma esso non si genera solo in quel modo, anzi, per millenni, la legge non ne fu la fonte prevalente. Una volta accettata l’idea che alla società convenga limitare i conflitti sociali per preservare la sua integrità e quindi la sua efficacia per la sopravvivenza collettiva, essa costituisce un valore, e un valore molto importante, che è anche tra quelli fondamentali nelle concezioni democratiche. Come risolvere senza violenza i conflitti sociali? Mediante la pratica dell’equità, che implica una certa proporzionalità negli scambi e una certa ragionevolezza nella pretesa dell’esercizio di poteri pubblici, sugli altri. L’equità  e la ragionevolezza  sono altri valori tipici del diritto, ma anche molto rilevanti nelle concezioni democratiche. Sono espressione dell’idea di dignità  della persona che si trova inserita in una società, persona della quale i poteri sociali, privati o collettivi, non possono, appunto per ragione di equità, fare ciò che vogliono, a loro arbitrio. Le democrazie contemporanee si distinguono da quelle antiche, medievali e moderne (che si sono sviluppate dalla fine del Settecento alla metà del Novecento) per aver molto sviluppato l’idea di dignità  della persona umana, fino a fare un valore  fondamentale, attorno al quale ruotano tutti gli altri. Precisamente le concezioni contemporanee della democrazia  riconoscono  ad ogni persona umana una dignità  che non può essere lesa da alcun potere pubblico o privato, che quindi viene limitato. Questa concezione di dignità è uno sviluppo del pensiero sociale cristiano, dall’epoca in cui le masse europee iniziarono ad affermarsi politicamente. Essa è anche insegnata dalla dottrina sociale cattolica, sebbene la Chiesa cattolica sia stata storicamente uno dei più accaniti avversari della democrazia contemporanea, fino addirittura a scomunicarla nel 1901, con l’enciclica Le gravi controversie sulle relazioni economiche del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°. Solo a partire dal 1939, dopo aver preso consapevolezza dei disastri che la compromissione con i fascismi mondiali aveva provocato, la posizione iniziò a cambiare, fino a giungere nel 1991, con l’enciclica Il Centenario  del papa Karol Wojtyla, ad un riconoscimento dell’utilità dei processi democratici nel governo delle società civili, per indurne la pacifica evoluzione nel senso di sviluppare la dignità delle persone. La democrazia è in genere ancora negata nell’organizzazione ecclesiastica, da cui lo sciocco e superficiale detto “La Chiesa non è una democrazia”: chi ne fa uso mostra di non avere consapevolezza della realtà sociale della Chiesa e delle sue dinamiche di potere, a cui certamente converrebbero processi democratici. Può accadere che ne abbia consapevolezza, ma tema che con la democrazia venga mutato un sistema di potere che lo avvantaggia o, molto spesso, teme, una volta scelta la strada della democrazia, si perda il controllo del corpo sociale dei fedeli.  In effetti la democrazia consente l’evoluzione delle società. Del resto solo una concezione mitica della nostra Chiesa, e in particolare della sua gerarchia, può condurre a negare che essa sia mutata anche su aspetti essenziali. Ma l’evoluzione è stata storicamente molto travagliata e a prodotto atroci sofferenze e violenze. Le guerre di religione  sono cessate, nelle loro manifestazioni più eclatanti, con l’affermarsi dei processi democratici. Essi hanno portato a riconoscere la dignità delle persone anche nei confronti delle autorità religiose e, in particolare, a negare validità pubblica alla loro pretesa di incondizionata sottomissione. Questa pretesa non è però ancora sopita ed è legata al valore dell’obbedienza incondizionata all’autorità religiosa, che senz’altro non è evangelico e umilia la dignità delle persone. In quest’ottica, la vera libertà starebbe nella rinuncia alla propria libertà, quindi alla propria dignità. Si crede, in questo modo, di prevenire i conflitti sociali e di preservare l’unità del gregge, risolvendo i confitti sociali mediante la pretesa, appunto, di  sottomissione. La sottomissione non è certamente un valore democratico. La democrazia conosce, nelle dinamiche di potere, il valore dell’adesione, a seguito di dibattito pubblico secondo procedure democratiche, e quello della  resistenza, quando pace, equità, ragionevolezza e dignità sono minacciate da poteri che si manifestano dispotici, in quanto pretendano sottomissione arbitraria, e ciò anche se si tratti di poteri maggioritari. La resistenza è un dovere democratico anche contro la tirannia della maggioranza, come venne definita dai primi teorici dei processi democratici. La democrazia non tollera alcun potere arbitrario, che si pretenda illimitato e voglia sottomissione, perché contrario alla dignità delle persone. Non tutto in democrazia è nell’arbitrio delle maggioranze: non lo sono la pace, l’equità, la ragionevolezza, la dignità delle persone.

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73.2. Cambiare democraticamente la società.

La dottrina sociale indica ai laici l’obiettivo di cambiare la società in modo da consentirvi l’attecchimento della buona novella cristiana. Non si tratta di cristianizzare  la società: questo è un fine molto diverso. Le persone possono divenire persuase della buona novella cristiana e allora vengono accolte tra i cristiani, nella Chiesa. Se consideriamo invece le società cristiane, esse non hanno mai funzionato tanto bene. La cristianizzazione delle persone può presentare grandi vantaggi per le società, la cristianizzazione della società, vale a dire costruire l’organizzazione politica intorno a una qualche ideologia cristiana, porta ad escludere molti, e non solo i non cristiani, ma anche coloro che vogliono essere cristiani in modo diverso dal modello proposto dalla politica cristiana. La democrazia come ai tempi nostri la si intende è incompatibile con la cristianizzazione  politica  della società, non può darsi questo scopo se vuole mantenersi democrazia. Questo perché deve rispettare la dignità della persona, vale a dire il complesso dei diritti fondamentali che le sono connaturati e non dipendono da un riconoscimento politico. Tra essi, anche quello di professare una fede religiosa nel modo in cui se ne è persuasi. Questo diritto fondamentale è una delle condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. E’ il diritto alla libertà religiosa. La fede non può essere imposta. Avverto che questa convinzione è molto recente tra i cattolici e non condivisa in altre confessioni religiose. Uno dei principali e più fruttuosi metodi di evangelizzazione cristiana dal Quarto secolo fino al Ventesimo è stata la violenza politica, che storicamente raggiunse punte di spietata efferatezza ed ebbe anche connotati stragisti. E’ a questo che, ad esempio, si deve l’evangelizzazione dell’America Latina. Non ci si deve però scoraggiare: quella della pace sociale è un ideale molto recente, e non universale, acquisizione in nelle culture del mondo e, in passato, ognuno si è condotto secondo la cultura di riferimento. Così fanno gli umani e non possono fare diversamente, appunto perché sono umani, esseri limitati che dipendono dalle società che costruiscono.

  Cambiare la società significa influire sul suo governo, e quindi sulla sua politica. Significa anche misurarsi con le situazioni di conflitto che sempre travagliano le dinamiche sociali, in particolare quelle tra i gruppi che dominano e quelli che sono dominati, tra chi è ricco è chi non lo è (posizioni dipendenti da situazioni di dominio sociale), ma anche, ad esempio, tra chi parla una lingua maggioritaria e chi ne parla un’altra, da anziani e giovani, tra uomini e donne anche nella sottospecie delle relazioni coniugali (che esprimono posizioni sociali di dominio), tra chi vive in certi quartieri ben tenuti e chi in altri dove vivere è più penoso e via dicendo. Le situazioni di conflitto sociale dividono la società per strati, ceti, classi. L’apparenza di stabilità è ingannevole, come quella del suolo: al di sotto sono in azione forze potenti che ciclicamente si squilibrano con conseguenti sommovimenti.  Questa situazione può osservarsi in tutti i gruppi sociali, fin dai più piccoli, e anche nelle società dei bambini. Quando l’individuo inizia a interagire in società, fatalmente emergono situazioni di conflitto. Ma l’essere umano non può liberarsi a lungo dalla società perché ne dipende per la sopravvivenza. Solo nella collaborazione sociale è possibile procurarsi beni indispensabili. L’essere umano è un vivente che crea e governa società, è stato scritto nell’antichità: è un’affermazione che tutt’ora è valida. Ma come superare i conflitti? Questo il principale problema della politica. Ciò che ho scritto della società in generale, vale anche per la nostra Chiesa, nel suo aspetto di società umana. Dal punto di vista teologico vi è anche altro di molto importante, ma considerandola come società umana vi si notano tutte le dinamiche che si osservano più in generale nelle società intorno.

  La nostra Chiesa è anche  una società umana. Questo significa che anche in essa è possibile agire politicamente, perché è una società che, come tutte le altre, deve essere governata, e lo si deve fare in particolare per creare le condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. Si potrebbe però osservare che, per definizione, la Chiesa dovrebbe essere la migliore delle società sotto questo profilo, ma nell'esperienza pratica non è così. Una volta dirlo sarebbe costato caro, molto caro. Ora che però lo hanno insegnato anche i Papi è diverso. Un grande maestro in questo fu il papa Karol Wojtyla, che regnò dal 1978 al 2005 con il nome di Giovanni Paolo 2°, proclamato santo nel 2014, il Papa della mia giovinezza, al quale sono spiritualmente e affettivamente molto legato pur avendone chiari i limiti politici. Ci guidò, nel percorso di preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000, nel lavoro che definì di purificazione della memoria, che consiste nel considerare realisticamente ciò che i cristiani hanno fatto in passato per trarre esempio solo da ciò che, con il criterio del Vangelo, possiamo riconoscere come ben fatto. Non si tratta di condannare i morti. Ma di capire i limiti di come intesero essere cristiani e di cercare se sia possibile affrancarci, oggi, da quei limiti, per non ripetere un passato che non proprio non va. Si tratta, quindi, di un giudizio su di noi, innanzi tutto. Noi che, come sempre si è fatto fin dalla storia più antica, facciamo memoria degli avi per trarne orientamento.

  All’inizio del suo regno, nel 2013, l’attuale Papa, regnante con il nome di Francesco, ed era (ed è per certi versi) Jorge Mario Bergoglio, argentino,  ci ha esortato ad essere Chiesa in uscita, avendola trovata come barricata nei propri spazi liturgici con figure di doganieri  ai varchi per selezionare chi poteva entrare o non. E’ stata una dura critica a come si era stati Chiesa, in Italia, e in particolare a Roma. La leggiamo nell’esortazione La Gioia del Vangelo, del 2013, il suo primo messaggio a noi tutti. I Papi scrivono molto, anzi l’attuale Papa meno di altri, ma spesso le loro parole non ci raggiungono. Ci sono stati momenti nei quali l’imponente letteratura pontificia superava le nostre capacità di assimilazione, in un’Italia dove, stando alle statistiche, la maggior parte delle persone non legge nemmeno un libro all’anno. Bisogna dire però che papa Francesco ha integrato gli scritti con una catechesi verbale, e per gesti simbolici, molto efficace, per cui l’essenziale ci è divenuto sicuramente accessibile. Egli però viene, in tutti i sensi, da un altro mondo, lontano non solo in senso spaziale, ma anche culturale. Più lontano, in tutti i sensi, da quello da cui veniva san Wojtyla, tutto sommato vicino in senso geografico ma diviso da noi dalla barriera che fino agli anni ’90 divideva l’Europa tra sistemi politici di democrazia liberale e capitalista e sistemi politici ideologicamente di democrazia ed economia comunista ma degradatisi in autocrazie oligarchiche dispotiche, secondo la scuola sovietica ai tempi di Stalin. Il principale problema che riscontriamo con papa Francesco, come già con san Wojtyla, riguarda la concezione della democrazia, sulla quale i cattolici italiani progredirono molto, tanto che l’attuale Repubblica democratica è in gran parte opera loro. I due Papi, in particolare, appaiono disallineati con l’evoluzione ideologica che ha caratterizzato il processo di costruzione dell’Unione Europea. Ho spesso osservato che, del resto, per ciò che ne so (e mi ritengo solo una persona colta, ma non uno specialista delle scienze implicate in questa valutazione), non è stata ancora elaborata in ambito cattolico una teologia della democrazia. Il nostro potere ecclesiastico parla  e  intende  secondo la teologia e quindi non appare avere ancora gli strumenti sufficienti per intenderla bene.

  Per la gran parte dei cattolici italiani (ma residuano correnti clerico-fasciste di varia natura) quella della democrazia  è stata, più o meno dal ’39 e su esortazione pontificia del Papa Eugenio Pacelli – Pio 12° (1939-1958), la via privilegiata per incidere sui fatti sociali in modo da cambiare la società per favorire l’attecchimento della buona novella cristiana. Parlo naturalmente di un lavoro in società che è diverso da quello sulle persone, sulla loro formazione, sulla loro spiritualità. In particolare gran parte dei cattolici italiani ripudiarono il disegno perseguito sotto il fascismo storico, quello mussoliniano (1922-1945), di cristianizzare  forzatamente la società. E, con metodo democratico, riuscirono ad inserire nella Costituzione repubblicana i principi fondamentali della dottrina sociale cattolica. E procedettero nello stesso modo nel costruire l’Unione Europea, la cui bandiera è palesemente un simbolo mariano, con la corona di dodici stelle  in campo azzurro.  Va detto che a quella diffusa dai papi Leone 13° (enciclica Le novità,  del 1891) e Pio 11° (enciclica Il quarantennale, 1931), profondamente rielaborata dai loro successori,  storicamente si ispirarono anche despoti che si proposero di cristianizzare coercitivamente la società, del resto forti di apprezzamenti positivi del corporativismo mussoliniano contenuto nella seconda.

 Bisogna prendere atto che nell’Italia di oggi l’azione sociale per cambiare la società secondo le esortazioni della dottrina sociale può e deve  farsi solo con metodo democratico. Ogni altro metodo contrasta con l’affermazione di dignità inviolabile delle persone che, a ben vedere, è di diretta discendenza dal pensiero sociale cristiano.

  Tuttavia la democrazia si pratica poco nelle istituzioni ecclesiastiche, salvo che in alcuni limitati ambiti associativi  o di vita religiosa. Ad esempio n on si insegna e non si pratica, in genere, nelle parrocchie. La prima formazione religiosa, che per la maggior parte dei laici rimarrà l’unica per tutta la vita,  è fatta di solito di alcuni rudimenti di storia sacra, di alcune istruzioni etiche basate sui Comandamenti, e di un addestramento minimo su come partecipare alla Messa (in piedi, seduti, in ginocchio, come recitare le invocazioni e risposte che competono al popolo, come ricevere la Comunione). Non c’è da stupirsi che poi i ragazzi non manifestino interesse ad approfondire, visto che, crescendo, hanno bisogno di dritte  per inserirsi in società e quello che hanno imparato da piccoli al catechismo non serve. Servirebbe, invece, integrare fede  e democrazia, perché nell’Italia democratica di oggi, il saper agire in un contesto democratico fa una grande differenza. La formazione che si cerca di dare, anche raggiungendola mediante auto-formazione tra adulti,  in Azione Cattolica mira principalmente a dare quel tipo preparazione. E’ per questo che l’Azione Cattolica definisce se stessa come palestra di democrazia (nell’atto normativo diocesano per l’AC nella Diocesi di Roma).

 

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 73.3. Democrazia  e istituzioni.

 Spesso ho sentito presentare la democrazia come un insieme di regole di buona creanza civile imposte dall’alto. Lo stesso per la religione. Entrambe sono molto di più, ma anche di diverso.

  Viviamo in società che sono altamente istituzionalizzate. Questo significa che ci si muove, nelle relazioni sociali quotidiane, secondo rigide regole formali che, se violate, comportano vari tipi di sanzioni. Ci si trova inseriti in organizzazioni disegnate da quelle regole. Accade sul lavoro, nell’utilizzare servizi pubblici, ma anche, ad esempio, nella pratica della  nostra religione.

  La parrocchia, ad esempio,  è stata istituita anche come un ufficio burocratico dipendente gerarchicamente dal vescovo. E’ retta da un funzionario ecclesiastico che è il parroco, che la rappresenta giuridicamente e accentra ogni potere. In questo contesto, i fedeli sono utenti di un servizio ecclesiastico, gli altri preti e i diaconi, come anche i catechisti  e chiunque altro abbia affidate mansioni ecclesiastiche anche a titolo di volontari,  sono sostanzialmente degli  impiegati. In parrocchia  i fedeli ricevono un’istruzione religiosa e vari servizi liturgici. Sono anche organizzati spazi conviviali, specialmente per i più anziani, che si ritengono ormai usciti dal sistema della formazione. Non vi è possibilità di esercizio di una certa autonomia da parte dei fedeli, che, al più, sono chiamati a collaborare come impiegati o consulenti. Questa la realtà istituzionale  della parrocchia. Se però ne vogliamo parlare con i concetti della teologia, allora essa ci viene presentata come comunità, nella quale ognuno ha pari dignità e vi partecipa come in una famiglia allargata. Il parroco e i preti e diaconi che con lui collaborano sono pastori  che conducono il gregge  per il giusto cammino, in un contesto di relazioni di benevolenza e rispetto. Il gregge  ama  il buon pastore ed è da lui riamato. Questa realtà, di carattere spirituale, non corrisponde però a quella istituzionale, formale, giuridica. Entrambe non sono democratiche. La parrocchia, in entrambi quegli aspetti, non è un ambiente democratico, la democrazia non vi viene praticata, non vi viene insegnata, la si riserva per i rapporti civili, dove però dovrebbe essere lo strumento con il quale i laici  di fede dovrebbero influire sulla società per renderla aperta a ricevere la buona novella della fede. Dove si impara la democrazia? A scuola, viene da rispondere. In realtà, però, a scuola la si insegna sommariamente, come dicevo prima, come un sistema di regole di buona creanza imposte dall’alto. Ma ben presto si fa esperienza di una cosa fondamentale: in società le regole vivono diversamente da come sono scritte o anche solo tramandate per consuetudine. Questo perché le società, come gli esseri viventi cambiano. Quindi ognuno, nel concreto delle relazioni sociali quotidiane, è costantemente impegnato ad impersonare  quelle regole che trova in società e, innanzi tutto, a decidere se, e in che misura, valgono per lui e nei rapporti sociali in cui è coinvolto. In questo, ciascuno di noi esercita un potere sociale, anche se spesso non ne ha consapevolezza o ne sottovaluta l’importanza.

 Questo che ho osservato serve a rendere l’idea che ogni fatto sociale, come lo sono la democrazia e la religione, come anche qualsiasi altra forma di potere sociale, ad esempio quello in cui si dovrebbe essere solo sudditi di un’autocrazia, un potere che non vuole rendere conto che a se stesso, o quello rigidamente diviso per caste  o ceti corporativi, nel quale le regole cambiano a seconda del gruppo sociale in cui ci si trova inseriti o si è ammessi, vive  e quindi viene impersonato, e, in questo, viene anche cambiato, perché, per quanto ci si sforzi di ottenere uniformità, rimane il fatto che gli esseri umani sono viventi l’uno diverso dall’altro, è ciò anche nella coscienza e nella volontà.

  Il sistema politico e la religione non sono solo un sistema di regole, ma innanzi tutto sistemi di convivenza sociale sempre soggetti a mutamenti più o meno rapidi secondo le dinamiche sociali, quindi alle relazioni di potere in cui ciascuno, solo che viva in società, è coinvolto come attore e, insieme, oggetto.

  La Chiesa assume teologicamente di essere sempre la stessa dalle origini, e questo, secondo una concezione mitologica che non significa erronea ma non necessariamente corrispondente alle dinamiche sociali, perché comprende anche aspetti emotivi che sono connaturati negli umani, può anche essere accettato, tenendo conto degli elementi di continuità che indubbiamente emergono nella sua storia bimillenaria, innanzi tutto la riflessione sulle Scritture. Ma, da un punto di vista sociale, e anche giuridico, la nostra Chiesa è molto diversa da quella delle origini, perché è espressa da una società molto diversa, anzi, studiando la sua storia, ci si può convincere che nel tempo, sotto l'aspetto sociale, ci sono state molte Chiese, quindi molti modi in cui si è vissuta e impersonata la Chiesa, e certamente quelli dei bellicosi e irruenti vescovi dei primi secoli della storia della  nostra fede, che avevano l’anatema (oggi diremmo scomunica) facile,  non corrispondono al nostro  attuale modo di essere Chiesa. E, tuttavia, noi cattolici veneriamo i nostri santi, ma anche nella tradizione delle altre confessioni religiose c’è una analoga alta considerazione per certi personaggi del passato molto significativi nelle questioni di fede, perché vorremmo stabilire una continuità  ideale con le vite di chi ci ha preceduto e ci ha trasmesso  quello che definiamo deposito di fede, che non è fatto solo di scritti, concetti, pensieri, regole, ma soprattutto di modi di vivere la fede. E’  per questo che troviamo annoverati tra i nostri santi anche persone di fede del passato piuttosto criticabili sotto vari aspetti, ma delle quali apprezziamo ancora l’impegno fortissimo a vivere  la propria fede come il valore  fondamentale della loro vita. Quindi non le lasciamo seppellire dal passato, ma recuperiamo il loro messaggio di vita per trarne ispirazione oggi. Ed è anche per questo che ciclicamente rivediamo  il catalogo dei santi, che una volta proclamati tali sicuramente non possono essere come dire declassificati dal punto di vista delle procedure istituite nella nostra Chiesa, nel senso che di epoca in epoca ne risaltano di più alcuni e meno altri. Ad esempio, dell’elenco dei papi “Pii” dall’Ottocento al Novecento, le scelte politiche antirisorgimentali di un papa Pio 9°, il Papa del Sillabo (1964; l’elenco di proposizioni erronee contro il liberalismo che contribuì a rendere difficilissima l’assimilazione della democrazia tra i cattolici), o quelle religiose di un papa Pio 10°, che ordinò una durissima e spietata persecuzione antimodernista causando gravissime sofferenze e lacerazioni nella Chiesa e la perdita di grandi anime (lo stesso don Romolo Murri, che aveva teorizzato tra i primi l’ida di una democrazia cristiana  ne cadde vittima), che, con il senno del poi si  sono rivelate del tutto inutili, o l’apprezzamento positivo verso il corporativismo del fascismo mussoliniano e l’elogio della repressione antisocialista di un papa Pio 11°, ci creano ora qualche difficoltà e, di fatto, non seguiamo quei loro insegnamenti. Noi, oggi, non impersoneremmo più la fede in quel modo. La nostra religione, intensa nel suo aspetto di convivenza sociale, è molto diversa.

  E, tuttavia, parlando di democrazia, che è il sistema politico in cui i più sono nati e che solo i più anziani hanno contribuito a costruire con il loro voto per l’Assemblea Costituente nel 1946, e di religione, e uno della mia età ne ha vissuto ormai almeno cinque versioni, a partire da quella degli anni Sessanta del secolo scorso, nel trapasso dalla rigidità gerarchica della Chiesa del papa Pio 12° alla Chiesa del Concilio, a che punto siamo in termini di convivenza sociale?

 

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73.4.  Democrazia, desacralizzazione e secolarizzazione. Le società creano istituzioni allo scopo di durare. Così, nella vita quotidiana, ciascuno sa qual è il suo posto, chi comanda, che si deve fare in ogni occasione, come può relazionarsi con gli altri per avere ciò che gli necessità, quando rischia una sanzione. Una istituzione è un sistema di regole formali che riguarda l’esercizio del potere pubblico. Ingloba, quindi, un sistema di potere. Per alcune istituzioni sono previste regole per modificarle, altre, quasi nessuna in democrazia, vengono presentate come non modificabili e quindi sono sacralizzate. Il sacro è appunto ciò che in nessun caso può essere cambiato. Ogni potere storicamente ambì la sacralizzazione. Le religioni, anche la nostra, vennero strumentalizzate per produrla. Di fatto le società cambiano e con esse le loro istituzioni, vale a dire i loro sistemi di potere. Se questi ultimi mantengono la loro pretesa di sacralizzazione, ad un certo punto vengono rovesciati, se non riescono a reprimere i movimenti rivoluzionari. Nella preghiera del Magnifica (Vangelo di Luca, capitolo 1, versetti 49-53)che si recita ogni sera nei Vespri, c’è un versetto che accenna a questo:

Grandi cose ha fatto per me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome;
50 di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.

  In quelle parole vi è la descrizione di un processo propriamente rivoluzionario. Un monito severo verso ogni potere che pretenda di sacralizzarsi. Per quanto si finisca umiliati da un potere dispotico, si confida che esso  abbia fine e  in un diverso modo di convivenza. La nostra Chiesa ha prodotto una forte sacralizzazione del proprio potere pubblico, ma, fin dall’antichità, i biblisti hanno concluso che quel “Ha rovesciato i potenti dai troni”,  non le si applica. Tuttavia, nonostante la sacralizzazione delle sue istituzioni, elaborata in particolare all’inizio del Secondo Millennio, quando il Papato romano si costituì in una sorta di impero religioso, affrancandosi dal precedente vassallaggio politico agli imperatori civili, esse sono storicamente molto cambiate. In particolare vanno ricordate tre grandi stagioni di riforma, nell’11°, nel 16° e nel 20° secolo, quest’ultima con il Concilio Vaticano 2°, celebrato a Roma, in Vaticano, dal 1962 al 1965. La seconda fu catalizzata dalla Riforma protestante, che, in religione, costituì un moto propriamente rivoluzionario, quindi un rovesciamento.

  La democrazia è un tipo di convivenza sociale che non utilizza la sacralizzazione per avere continuità. Quando se ne cominciò a parlare, nel Settecento se ne temette l’instabilità. Nell’Ottocento la parola democrazia  venne anche utilizzato per intendere confusione sociale. Questo perché si voleva praticarla con un’estensione che non aveva mai avuto nel passato, in particolare nell’antichità greca, da cui ricevemmo le prime teorizzazioni e il termine stesso democrazia (che in italiano e nel  greco antico e contemporaneo suona uguale),  nell’esperienza repubblicana di Roma antica, dove si contava in base al censo, e in quella del Medioevo europeo, in cui era dominata dalle corporazioni dei mestieri. Nell’era contemporanea se ne predica l’universalità senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. E’ chiaro, da ciò, il  motivo per cui l’affermarsi dei processi democratici, in particolare in Europa, comportò il ripudio del propositi di cristianizzare, con le buone (la persuasione) o con le cattive (la coercizione mediante le istituzioni), la società. Quando si parla di secolarizzazione  delle nostre società contemporanee, si vuole appunto intendere questo, non certo che la gente non creda più all’azione di agenti soprannaturali. Quindi certamente la secolarizzazione della società, nel senso di desacralizzazione  dei suoi poteri pubblici, è elemento costitutivo della democrazia: non può esservi democrazia in un ambiente di istituzioni sacralizzate. Questo spiega i problemi che i democratici, anche i cristiano democratici, hanno sempre incontrato, e per certi versi ancora incontrano, nelle loro Chiese, ma in particolare nella Chiesa cattolica, data l’elevata sacralizzazione delle sue istituzioni e addirittura delle persone stesse che dirigono ai vertici quelle istituzioni. Nella Chiesa cattolica ancora si teme la dissoluzione procedendo nella desacralizzazione dei propri poteri pubblici, e questo anche se l’esperienza delle democrazie Occidentali contemporanee dovrebbe convincere del contrario.   Quindi nella dottrina sociale, il pensiero sociale diffuso dal Papato e dagli altri vescovi, non troviamo una teologia  della democrazia, ma solo una cauta ammissione dei processi democratici nel governo delle istituzioni civili in quanto più confacenti alla dignità delle persone umane, come oggi anche nella Chiesa la si intende. Di conseguenza, la formazione alla democrazia non viene ritenuta compresa nei programmi per l’istruzione religiosa di base, e nemmeno per quella di secondo livello, venendo certamente fatta, e questo è un bel passo in avanti, prevalentemente per i fedeli che hanno un’istruzione superiore, quindi agli universitari e post- universitari. L’Azione Cattolica fa certamente eccezione perché la pratica fin dai più piccoli: anche per loro vuole essere quindi palestra di democrazia.

  Poi, naturalmente, i nostri vescovi si lamentano che i laici di fede non contano più molto nella società civile, in particolare nei processi politici. Certo, ancora dalla scuola della dottrina sociale escono ancora grandi ingegni, persone alle quali tutti si rivolgono nei tempi di crisi come riserve della Repubblica, ed esse si riconoscono per avere nelle loro biografie periodi più o meno lunghi, più o meno intensi, di formazione alla democrazia nelle istituzioni culturali religiose (molte università religiose hanno corsi specifici), ma i più hanno avuto solo la formazione alla democrazia che è comune a tutti, vale a dire i pochi cenni alla democrazia come buona creanza  civile che si fanno nella scuola e poi nulla di nulla, anzi l’anti-formazione che si riceve nel marketing politico, quel modo di accattivarsi la simpatia dell’elettore che  è pubblicità commerciale e che si base essenzialmente nello sfruttare le possibilità di inganno cognitivo su base emotiva che la nostra mente offre, un’anti-formazione che umilia  dove invece la democrazia si propone di elevare.

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73.5. Democrazia: una forma di convivenza che consente il cambiamento sociale.

 Richiamo la definizione di democrazia che ho proposto all’inizio:

«La democrazia è  un sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società  o generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro estensione».

  Se la democrazia, prima che un sistema di regole formali, è una forma di convivenza, c’è molto spazio per l’ingegno e la creatività personali. Essa è stata anche interpretata in istituzioni, in organismi sociali costruiti per durare e quindi più rigidi, ma le istituzioni democratiche non coprono l’intero campo della democrazia come convivenza. E, per quanto molto dettagliate, le regole delle istituzioni democratiche non riescono mai a disciplinare ogni aspetta della convivenza democratica nelle istituzioni. Infine c’è la grande area sociale non ancora democratizzata  o non completamente democratizzata. Come si disse per la  nonviolenza,  anche per la democrazia ogni giorno può portare progressi per l’azione dei democratici, per cui si può concludere che «ieri eravamo meno democratici». Se scopo della democrazia come oggi la si intende è anche quella di aumentare la felicità e il benessere sociali, questo significa che la democrazia è una forza sociale di progresso. La mentalità democratica, come anche la nostra mentalità religiosa, comporta un certo grado di insoddisfazione nei confronti di ciò che è stato realizzato: una società democratica è necessariamente dinamica.

   L’anno scorso ho scritto:

 

«"Chi è il più grande tra voi diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto tra voi come colui che serve" (dal Vangelo secondo Luca, capitolo,22, versetti 26 e 27 - traduzione in italiano CEI 2008. CEI 1974, dove CEI 2008 ha "il più giovane" traduce con "il più piccolo" - il testo in greco antico ha "neòteros": letteralmente "il più nuovo").

   Credo che storicamente nessuna autorità, civile o religiosa, anche se ispirata ai principi di fede, sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica il comando evangelico che ho sopra citato. E questo anche nel caso di vere rivoluzioni, vale a dire di un completo rovesciamento di un ordinamento politico, con instaurazione di un nuovo ordine politico retto da regole opposte rispetto alle precedenti.

  Rivoluzione è un termine che il pensiero politico ha tratto dall'astronomia, dove significa il moto di un corpo intorno ad un altro corpo, che si considera come centro. Una rivoluzione è compiuta, dal punto di vista politico, quando viene istituito un nuovo ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai potenti di stare come colui che serve, vale a dire di agire di conseguenza, significa introdurre un principio di insoddisfazione permanente davanti a qualsiasi potere, quindi anche a quello che si presenti come rivoluzionario. Questa appunto l'origine dei gravi problemi politici che le nostre prime comunità di fede ebbero nei primi quattro secoli dell'era corrente e, in seguito, degli analoghi problemi che travagliarono i nostri riformatori che intesero promuovere un ritorno alla fedeltà a quel comando evangelico.»

 

  Il sistema democratico è anche, quindi, una convivenza sociale in cui è ammessa la libera critica di ogni potere, pubblico o privato, rispetto al quale si conviene che ciascuno abbia libertà di coscienza, e dunque di pensiero, e di manifestazione del pensiero, nella parola, negli scritti, nelle arti e in ogni altro modo in cui questa libertà possa essere esercitata. Questo significa che è aliena alla convivenza democratica la pretesa e la pratica della sottomissione. Una persone che vive democraticamente non si sottomette mai. La sua osservanza alle regole stabilite democraticamente, all’esito di una procedura regolare che abbia consentito anche la presa di coscienza e il dialogo su di esse, non è sottomissione, ma adesione ad un metodo e accettazione delle decisioni pubbliche che produce. Rimane però sempre spazio per la resistenza, che in democrazia è un diritto e un dovere, quando un potere collettivo, anche con metodi corretti dal punto di vista delle procedure, leda una posizione umana che si ritenga incoercibile e non vulnerabile, un diritto umano inviolabile in quanto connesso con la dignità della persona umana. Certamente questo pone sempre la convivenza sociale democratica in una situazione di fisiologica instabilità, nella quale ogni potere deve sapersi conquistare e saper mantenere innanzi tutto con la persuasione la propria legittimazione sociale e politica, a prescindere da quella giuridica, e in cui il corpo sociale organizzato per convivere democraticamente mantiene un permanente stato di tensione dialettica verso qualsiasi potere. In particolare la delega per la rappresentanza politica non consiste, in democrazia, in una investitura, come le incoronazioni  dei monarchi, data la quale quel potere non potrebbe più essere messo in questione per tutta la sua durata istituzionale.  E’ proprio quella fisiologica instabilità che consenta al sistema di convivenza democratica di adattarsi  ai mutamenti sociali e di resistere  ad ogni potere che tenda ad espandersi arbitrariamente. E, va detto, la legge sociale del potere pubblico è che esso tende ad espandersi fino a che incontri una resistenza valida.

  La gran parte delle relazioni sociali più significative della nostra vita si svolgono in spazi non o poco istituzionalizzati. La famiglia, un’associazione ricreativa o sportiva, hanno quel carattere. Vi sono però spazi sociali quotidiani piuttosto istituzionalizzati nei quali tuttavia vi è molto spazio per configurare liberamente una convivenza sociale, ad esempio nella scuola e nella parrocchia. Gli ambienti di lavoro sono spesso poco o per nulla democratizzati, specialmente quando l’organizzazione del lavoro è fatta da un datore di lavoro proprietario. Sui luoghi di lavoro la democratizzazione è rappresentata dall’azione sindacale che è in tensione dialettica con i potere del soggetto proprietario dell’impresa. La democratizzazione delle organizzazioni del lavoro  è una grande sfida e ha un significato altamente politico dove mette in questione la concezione della proprietà. I processi politici di democratizzazione delle società europee, dal Settecento, ebbero nella proprietà quale frutto del lavoro e quindi espressione della dignità sociale personali un punto di forza, e questo in particolare verso quei poteri politici connessi alla proprietà terriera tramandata di generazione in generazione in dinastie di nobili, accreditate da un potere supremo anch’esso dinastico e sacralizzato. Ma nel progresso delle concezioni democratiche sta venendo meno l’assolutizzazione della proprietà, espressione, proprio in quell’assolutizzazione, di un potere con caratteri di arbitrarietà sociale, a favore di una diversa concezione, che troviamo scritta nella nostra Costituzione repubblicana, che ne richiede una funzione sociale, vale a dire una finalizzazione anche al benessere e alla felicità collettivi.

   Ciò detto, il primo passo per un tirocinio democratico non è studiare un complesso di regole, come viene in genere proposto agli studenti nell’insegnamento di educazione civica e allora si prende in mano la Costituzione, di creare  forme di convivenza democratica nella propria quotidianità o di modificare  in senso democratico quelle alle quali si partecipa nella propria quotidianità. Il primo campo di applicazione è il piccolo gruppo  di prossimità, ad esempio la classe scolastica, o un gruppo parrocchiale, come è il nostro dell’AC parrocchiale.

  Si riscontrerà che elevare un gruppo alla democrazia richiede uno sforzo, una fatica, per la necessità di vincere resistenze determinate da abitudini consolidate, in particolare da stati di sottomissione nei quali alcuni si trovano rispetto ad altri. Ho notato che non di rado nei gruppi religiosi i capi tendono a debordare nel loro potere, che assume carattere autocratico e addirittura sacralizzato. Data questa condizione, i capi così impostisi hanno poi in genere la scomunica facile, come i bellicosi primi vescovi delle nostre comunità religiose, anche se  si tratta di un potere arbitrario, perché nella nostra Chiesa l’allontanamento del fedele è disciplinato rigidamente da una normativa penale, analoga a quella degli stati, è riservato a casi gravissimi,  e nessuno può arrogarselo. Una delle prime manifestazione democratiche è dunque quella  chi resiste a quella pretesa di allontanamento arbitrario, ad opera di colui che, avendo conseguito una qualche posizione di potere ed avendola estesa di fatto a danno altrui, indica sbrigativamente la porta al dissenziente. Se in passato si avesse avuto più coraggio in questa azione di resistenza attiva, ci saremmo potuti risparmiare molti problemi e, innanzi tutto, una certa disaffezione da parte delle persone più giovani alla vita religiosa. La democrazia non è fatta certamente per persone remissive verso le posizioni di potere, per persone con la tendenza ad essere docili,  richiede coraggio, e innanzi tutto quello di rimanere ad occupare gli spazi sociali contro ogni potere pubblico o privato che pretenda di escludere e, lì, di prendere la parola.  

 

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73.6. Democrazia come convivenza che libera da sottomissioni umilianti. 

  Di solito a scuola si studiano le istituzioni democratiche e le regole democratiche. Si accenna alla storia della nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza  politica popolare,  vale  a dire di massa, a un potere autocratico, quello del fascismo mussoliniano, che aveva sottomesso  le genti d’Italia. Si aggiunge che il risultato fu quello di una Liberazione politica e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà, dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra, che per gli italiani, a differenza degli stati che la combattevano contro gli stati del fascismo europeo, fu anche propriamente di Liberazione politica. Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da Regno che si era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in quanto condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un voto popolare ad un referendum  a cui parteciparono per la prima volta nella storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non fu solo di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità. Dalla fiducia nelle virtù della guerra, propagandata dal fascismo mussoliniano, all’anelito verso la pace determinato dalle gravi sofferenze belliche che avevano riguardato anche la popolazione civile, finita sottomessa al nazismo hitleriano, quindi ad un dispotismo straniero. Questa formazione alla pace, profondamente contrastante con quella, opposta, insegnata dall’ideologia fascista, si fece in particolare sull’esortazione del Papato, era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°, contenuta in una serie di radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore di encicliche, e che furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione popolare condotto dal clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali che coinvolsero in vario modo la gente di fede.

  E’ alla formazione di questa mentalità che dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che dovrebbe farsi ad ogni livello tra i laici, per renderli capaci di operare in una società democratica per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della buona novella cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei laici che collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove possibile, e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della convivenza democratica, quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino con caratteri autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità personale. Ciò è largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e, in particolare, nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si articolano.

  Spesso l’affanno per i servizi  che la parrocchia deve rendere alla comunità, in particolare quelli liturgici per gli eventi della vita e per il ciclo liturgico delle messe, come anche le attività di formazione di base e per il matrimonio, che finiscono per assorbire quasi interamente le energie del clero parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di gestione del patrimonio parrocchiale, in particolare di quello immobiliare, porta una certa burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia un po’ al modo di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il parroco decide tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta la parrocchia come ente ecclesiastico con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più rimangono consulenti. E le istituzioni minime di democrazia previste per questa attività di consulenza, l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio pastorale, il Consiglio  per gli affari economici  rimangono talvolta sulla carta, ma comunque contano poco. Non si sente, ad esempio, l’esigenza di esporre un bilancio  patrimoniale ed economico della gestione parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone, il suo indebitamento, e quali siano le sue esigenze.

  Nell’ultima grande riforma della Chiesa Cattolica, quella attuata con il Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa - comunità, ma di fatto direi che siamo appena agli inizi degli sviluppi conciliari per quanto riguarda questo aspetto. Non c’è da aspettarsi molto dalla gerarchia, perché la legge del potere sociale è che  chi ce l’ha non lo lascia fino a quando non è costretto a farlo per l’emergere di poteri resistenti che pretendano condivisione. La riforma in senso democratico, dunque, può anche essere pensata  dall’alto, ma, se non si fa dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o trapasso nei sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va dal noto all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno forza i poteri che si vorrebbe ristrutturare.

  Non basta quindi riconoscere, come ormai generalmente si riconosce, che il sistema di potere ecclesiastico cattolico è obsoleto, e oltretutto inefficiente e poco o per nulla trasparente: la critica deve essere accompagnata alla dimostrazione pratica che forme più democratiche di conduzione funzionano, e non disperdono il gregge, innanzi tutto perché c’è una mentalità che,  a prescindere dall’intervento di poteri autocratici, porta a considerare fondamentale il valore dell’unità. Ma c’è  tra noi laici? Possiamo dire che, le rare volte che abbiamo voce in qualche cosa, fosse anche solo l’organizzazione delle iniziative per la festa del santo patrono della parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto vuol dire avere particolarmente a cuore l’unità? La mia esperienza con il laicato non è questa: in realtà spesso le discussioni generano contrasti che rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di meglio che cercare di prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del parroco o addirittura di chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti ad andarsene. Qualche anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla Pasqua, che nella nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola accesi dissidi sul modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa, organizzò una serie di incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in frizione. Ciascuno disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva bisogno di unità, che la via che aveva scelto era la migliore e che quella della separazione  era la sola soluzione che consentisse una convivenza pacifica. Notai in ogni gruppo di lavoro in cui eravamo stati divisi la presenza di capi delle comunità: questo evidentemente impediva di andare avanti nel processo di assimilazione reciproca. In genere i capi di comunità assumono le consuetudini del clero, si clericalizzano, e quindi tengono molto a marcare le differenze e consolidare la sottomissione degli altri al propri potere. La via giusta credo sia, sulla base di quell’esperienza, non quella di riunirsi per discutere, ma per fare qualcosa insieme, nel contempo convenendo che, in quel fare, per la durata di quel fare, limitatamente a quel fare, si è sciolti da altri poteri che non sia quello collettivo dell’assemblea di coloro che si sono riuniti per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa costituiti per specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di estensione. Questo che ho descritto è uno spazio democratico di base. Il fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione, e quindi conoscenza. Si diffida di chi non si conosce. E la convivenza democratica si basa essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella basata sulla comune sottomissione sulla presenza di un’autorità autocratica comune alla quale tutti si sottomettono.

 Ogni piccolo gruppo parrocchiale, e più in generale ogni piccolo gruppo sociale, dovrebbe essere trasformato in uno spazio democratico di base per fare tirocinio di convivenza democratica e per convincersi che la democrazia funziona. Ho letto che questa esperienza è molto diffusa in una delle culle della democrazia, in Gran Bretagna, dove ogni esigenza collettiva genera un comitato. Abbiamo ricevuto la parola comitato dal latino, lingua in cui si componeva della parole che significavano andare con, espressione corrispondente a quella sinodo,  che ci viene dal greco  antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in uno stesso modo (ordine di idee in cui si dà dell’eretico  chi non la pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel rimanere insieme sulla via nonostante  non la si pensi nello stesso modo. Questo è al centro della convivenza democratica.

 

 

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73.7. Democrazia: cominciare dal piccolo e dal basso

  Di solito a scuola si studiano le istituzioni democratiche e le regole democratiche. Si accenna alla storia della nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza  politica popolare,  vale  a dire di massa, a un potere autocratico, quello del fascismo mussoliniano, che aveva sottomesso  le genti d’Italia. Si aggiunge che il risultato fu quello di una Liberazione politica e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà, dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra, che per gli italiani, a differenza degli stati che la combattevano contro gli stati del fascismo europeo, fu anche propriamente di Liberazione politica. Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da Regno che si era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in quanto condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un voto popolare ad un referendum  a cui parteciparono per la prima volta nella storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non fu solo di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità. Dalla fiducia nelle virtù della guerra, propagandata dal fascismo mussoliniano, all’anelito verso la pace determinato dalle gravi sofferenze belliche che avevano riguardato anche la popolazione civile, finita sottomessa al nazismo hitleriano, quindi ad un dispotismo straniero. Questa formazione alla pace, profondamente contrastante con quella, opposta, insegnata dall’ideologia fascista, si fece in particolare sull’esortazione del Papato, era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°, contenuta in una serie di radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore di encicliche, e che furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione popolare condotto dal clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali che coinvolsero in vario modo la gente di fede.

  E’ alla formazione di questa mentalità che dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che dovrebbe farsi ad ogni livello tra i laici, per renderli capaci di operare in una società democratica per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della buona novella cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei laici che collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove possibile, e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della convivenza democratica, quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino con caratteri autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità personale. Ciò è largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e, in particolare, nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si articolano.

  Spesso l’affanno per i servizi  che la parrocchia deve rendere alla comunità, in particolare quelli liturgici per gli eventi della vita e per il ciclo liturgico delle messe, come anche le attività di formazione di base e per il matrimonio, che finiscono per assorbire quasi interamente le energie del clero parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di gestione del patrimonio parrocchiale, in particolare di quello immobiliare, porta una certa burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia un po’ al modo di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il parroco decide tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta la parrocchia come ente ecclesiastico con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più rimangono consulenti. E le istituzioni minime di democrazia previste per questa attività di consulenza, l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio pastorale, il Consiglio  per gli affari economici  rimangono talvolta sulla carta, ma comunque contano poco. Non si sente, ad esempio, l’esigenza di esporre un bilancio  patrimoniale ed economico della gestione parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone, il suo indebitamento, e quali siano le sue esigenze.

  Nell’ultima grande riforma della Chiesa Cattolica, quella attuata con il Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa - comunità, ma di fatto direi che siamo appena agli inizi degli sviluppi conciliari per quanto riguarda questo aspetto. Non c’è da aspettarsi molto dalla gerarchia, perché la legge del potere sociale è che  chi ce l’ha non lo lascia fino a quando non è costretto a farlo per l’emergere di poteri resistenti che pretendano condivisione. La riforma in senso democratico, dunque, può anche essere pensata  dall’alto, ma, se non si fa dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o trapasso nei sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va dal noto all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno forza i poteri che si vorrebbe ristrutturare.

  Non basta quindi riconoscere, come ormai generalmente si riconosce, che il sistema di potere ecclesiastico cattolico è obsoleto, e oltretutto inefficiente e poco o per nulla trasparente: la critica deve essere accompagnata alla dimostrazione pratica che forme più democratiche di conduzione funzionano, e non disperdono il gregge, innanzi tutto perché c’è una mentalità che,  a prescindere dall’intervento di poteri autocratici, porta a considerare fondamentale il valore dell’unità. Ma c’è tra noi laici? Possiamo dire che, le rare volte che abbiamo voce in qualche cosa, fosse anche solo l’organizzazione delle iniziative per la festa del santo patrono della parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto vuol dire avere particolarmente a cuore l’unità? La mia esperienza con il laicato non è questa: in realtà spesso le discussioni generano contrasti che rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di meglio che cercare di prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del parroco o addirittura di chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti ad andarsene. Qualche anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla Pasqua, che nella nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola accesi dissidi sul modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa, organizzò una serie di incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in frizione. Ciascuno disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva bisogno di unità, che la via che aveva scelto era la migliore e che quella della separazione  era la sola soluzione che consentisse una convivenza pacifica. Notai in ogni gruppo di lavoro in cui eravamo stati divisi la presenza di capi delle comunità: questo evidentemente impediva di andare avanti nel processo di assimilazione reciproca. In genere i capi di comunità assumono le consuetudini del clero, si clericalizzano, e quindi tengono molto a marcare le differenze e consolidare la sottomissione degli altri al proprio potere. La via giusta credo sia, sulla base di quell’esperienza, non quella di riunirsi per discutere, ma per fare qualcosa insieme, nel contempo convenendo che, in quel fare, per la durata di quel fare, limitatamente a quel fare, si è sciolti da altri poteri che non sia quello collettivo dell’assemblea di coloro che si sono riuniti per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa costituiti per specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di estensione. Questo che ho descritto è uno spazio democratico di base. Il fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione, e quindi conoscenza. Si diffida di chi non si conosce. E la convivenza democratica si basa essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella basata sulla comune sottomissione sulla presenza di un’autorità autocratica comune alla quale tutti si sottomettono.

 Ogni piccolo gruppo parrocchiale, e più in generale ogni piccolo gruppo sociale, dovrebbe essere trasformato in uno spazio democratico di base per fare tirocinio di convivenza democratica e per convincersi che la democrazia funziona. Ho letto che questa esperienza è molto diffusa in una delle culle della democrazia, in Gran Bretagna, dove ogni esigenza collettiva genera un comitato. Abbiamo ricevuto la parola comitato dal latino, lingua in cui si componeva della parole che significavano andare con, espressione corrispondente a quella sinodo,  che ci viene dal greco  antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in uno stesso modo (ordine di idee in cui si dà dell’eretico  chi non la pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel rimanere insieme sulla via nonostante  non la si pensi nello stesso modo. Questo è al centro della convivenza democratica.

 

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In sintesi

(11-9-17)

 

  Nei paragrafi qui sopra c’è materiale utile per rendere un’idea su che cos’è e cosa fa l’Azione Cattolica. E’ solo una piccola parte di ciò che si è scritto su questo tema.

  Vorrei ora fornirne una sintesi della storia da cui nacque l’Azione Cattolica, sufficientemente estesa per venire incontro a chi ha deciso di accostarsi questa esperienza associativa, o a chi sente il bisogno di approfondire le ragioni per proseguirla.   

  Cominciamo con il dire questo: l’Azione Cattolica non è assimilabile ad alcuna delle altre aggregazioni ecclesiali correnti in Italia. Questo significa anche che fa un lavoro che nessun altro fa. Ma che dovrebbe fare?

  Per capirlo occorre avere consapevolezza della sua storia.

 Tutto iniziò a metà Ottocento, quando il Papato sentì la necessità di chiamare a raccolta il popolo a difesa della sua missione. I moti nazionalistici italiani minacciavano il suo piccolo stato nell’Italia centrale, con capitale Roma. Si voleva che fosse la capitale del nuovo stato unitario e indipendente che si andava costituendo in quegli anni, con sommosse popolari e guerre, sia  tra stati e che tra milizie popolari e stati. Il Papato riteneva di avere bisogno di quel suo stato per essere indipendente dalla politica degli stati del mondo intorno ed essere libero di svolgere la sua missione universale.

 I moti nazionalistici italiani erano suscitati da movimenti con ideologia liberale e democratica. Erano tali, in particolare, i gruppi che si ispiravano al pensiero di Giuseppe Mazzini (1805-1872). Essi non miravano solo all’unità nazionale e all’indipendenza, ma anche alla riforma sociale, in particolare all’affermazione di regimi democratici, da conseguire con il coinvolgimento del popolo non più solo come concessione delle dinastie sovrane, che all’epoca, dopo la caduta del regime di Napoleone Bonaparte nel 1815, dominavano nuovamente l’Europa. Il nazionalismo italiano di quell’epoca non era anti-cristiano: il motto di Mazzini era “Dio e popolo”. Divenne anticlericale per il rifiuto del Papato di consentire l’unità nazionale con capitale a Roma.

 Perché i nazionalisti ritenevano indispensabile Roma? Per il suo significato simbolico, derivante dalla sua storia antica, per la civiltà unificante che dalla sua cultura era scaturita. Si pensava che così si sarebbe potuta consolidare meglio un’unità politica ottenuta militarmente tra popoli da molti secoli divisi, combattendo e sopprimendo i vari stati che all’unificazione si opponevano. Il Papato non credeva nel liberalismo: pensava che avrebbe condotto il popolo lontano dalla fede. Non credeva nella democrazia, che non concepiva come un sistema di valori, ma come  politica basata sulla forza del numero, non su quella della ragione. Intendeva il liberalismo come dissoluzione dei valori e la democrazia come disordine tra il popolo che avrebbe finito per darsi nelle mani di demagoghi, di agitatori sociali senza valore e insofferenti dei veri valori (in linea con il giudizio che della democrazia avevano dato grandi filosofi greci dell’antichità). E soprattutto, come detto, riteneva l’indipendenza politica del Papato, da attuare con il possesso di un vero e proprio regno territoriale, come indispensabile per  sottrarsi all’arbitrio e alla volontà di potenza degli altri capi di stato, quindi a tutela della sua missione universale. Nei secoli precedenti il Papato, per garantire la sua indipendenza, si era appoggiato alle dinastie sovrane europee. Da metà Ottocento ebbe sempre più difficoltà a farlo. I nazionalisti italiani chiamavano a raccolta i popoli dell’Italia di allora, e così, ad un certo punto, lo fece anch’esso. Come i nazionalisti parlavano di  riforma   sociale, di cambiare in meglio la società civile, anche il Papato elaborò un suo progetto di riforma sociale, sulla base delle esperienze di solidarietà sociale che a quell’epoca, in tutta Europa e anche in Italia, si andavano costituendo a sostegno della parte meno ricca della società. Questo programma fu espresso solennemente in un’enciclica, un atto con forza di legge per la Chiesa cattolica, la prima di quelle dell’età moderna con oggetto la riforma  della società, che il papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13° (Papa dal 1873 al 1903), diffuse nel 1891 con il nome di Rerum Novarum - Le novità,  dalle sue prime parole. Fu il primo documento di una lunga serie che, nel complesso, si indica con il nome di dottrina sociale.  A quell’epoca il regno pontificio era stato soppresso, all’esito di una breve guerra nel 1870. Ma il Papato lo rivoleva indietro. Su questo era  intransigente. Spingeva su questa posizione  intransigente  anche il popolo che aveva chiamato a difesa delle sue ragioni. Ora ci sembra strano, ma, a quei tempi, le formazioni cattoliche subivano il rigore delle misure di polizia contro la sovversione politica. Il prete giornalista Davide Albertario, direttore del quotidiano milanese L’osservatore cattolico, fu arrestato nel 1898 e condannato a tre anni di reclusione, per aver criticato aspramente la sanguinosa repressione, da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris, dei moti popolari di quell'anno, motivati dalle difficoltà di vita della gente meno ricca e, in particolare, dall'aumento del prezzo del pane. La figura di Albertario sintetizza bene le posizioni politiche  dell’intransigentismo cattolico  di allora: opposizione dura al nuovo Regno d’Italia motivata con esigenze di riforma sociale nell'interesse anzitutto del popolo.

  E’ molto importante capire questo: mentre gli altri  sovrani degli stati che nella prima metà dell’Ottocento dominavano l’Italia opponevano alle pretese di unificazione nazionale la legittimità  storica e giuridica del loro dominio politico, in sostanza l’assetto politico che, dopo la caduta dell’imperatore francese Napoleone Bonaparte, era stata data all’Europa nel Congresso di Vienna (tenutosi a Vienna tra il 1814 e il 1815) dalle potenze vincitrici, il Papato volle giustificare davanti ai popoli le proprie pretese di un regno in Italia innanzi tutto  sia con esigenze di tutela dell’indipendenza della sua missione universale, ma anche con la critica della nuova civiltà che i nazionalisti liberali e democratici volevano attuare in Italia e la necessità di indipendenza politica per contrastarla, questa seconda  esigenza come parte della prima, della sua missione civilizzatrice. Sostenne che questa nuova civiltà non era per il bene del popolo, che avrebbe richiesto altri provvedimenti. Questa esigenza di riforma sociale, nel periodo dell’intransigentismo, durato fino al 1909, quando il Papato consentì ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche nazionali (era stato loro vietato dal 1864 con una serie di provvedimenti dell’autorità religiosa che vanno sotto il nome di  non expedit - non conviene[partecipare alle elezioni), era in fondo strumentale alle pretese del Papato riguardanti la restaurazione del suo regno con capitale a Roma, ma successivamente, in particolare in prospettiva delle elezioni politiche del 1913, le prime a suffragio universale maschile (prima vi erano state limitazioni relative al reddito e all'istruzione) e, ancor più durante la Prima Guerra Mondiale (1914-1918), divenne assolutamente prioritaria, finendo addirittura per essere inquadrata dal Papato nel dovere religioso di carità, a cominciare da un discorso tenuto agli universitari della FUCI - gli universitari cattolici -  il 18 dicembre 1927 dal papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°, di cui trascrivo il brano fondamentale per il tema che sto trattando:

I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore. È con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari. Atteggiamento questo tanto più raccomandabile a giovani universitari che devono consacrarsi alla propria preparazione, senza la quale la loro futura attività non può essere né illuminata, né benefica. Come nel loro presente periodo essi attendono allo studio delle future professioni e non le esercitano, così anche per ciò che riguarda il viver sociale; essi devono ora attenersi al loro programma di preparazione, perché, quando prenderanno il loro posto nella società, possano poi dare a questa anche il contributo della buona, cristiana politica.

  E’ per compiere questo lavoro di carità sociale  che il papa Giuseppe Sarto, regnante come Pio 10° dal 1903 al 1914, decise,  nel 1905 con l’enciclica Fermo proposito -  Il fermo proposito [“che fin dai primordi del Nostro Pontificato abbiamo concepito, di voler consacrare tutte le forze che la benignità del Signore si degna concederCi alla restaurazione di ogni cosa in Cristo”], di ridisegnare l’azione sociale dei cattolici con una nuova organizzazione, che è poi, in sostanza, la nostra Azione Cattolica, formalmente costituita l’anno seguente con l’approvazione dei suoi statuti. Essa sostituì una precedente organizzazione con scopi simili che i laici cattolici avevano costituito di propria iniziativa nel 1874 e che venne sciolta dal Papato nel 1904, a seguito di dissidi insanabili tra la componente intransigente e quella democratica, la quale intendeva iniziare a partecipare alla politica nazionale democratica del Regno con un proprio progetto politico di democrazia ispirata ai valori di fede, una  democrazia cristiana, come la definivano.

  Carità è la parola italiana con la quale, insieme al termine “amore”, si traduce quella del greco antico  agàpe, che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce n’è per tutti. Agàpe  ha un significato teologico molto importante, su base evangelica. Collegare l’azione sociale all’agàpe significò farne un valore di grande rilievo e, in  particolare, riempirla di tanti valori religiosi. E’ appunto questo che hanno fatto i laici cattolici di Azione Cattolica nell’accostare i problemi della democrazia. La  democrazia, come oggi la si intende, e non la si è sempre intesa in questo modo, è frutto anche del loro lavoro e comprende molti più valori che alle origini e, ad esempio quello della pace, che non è sempre stata un valore democratico. Le democrazie, storicamente,  non sono state sempre pacifiche. Oggi si dà per scontato che lo siano. E’ una conquista cultura che è stata  mediata nelle culture contemporanee anche con la collaborazione dei laici di Azione Cattolica.

  Man mano che la democrazia si riempiva di valori, in particolare di quelli che rientrano nel concetto di giustizia sociale e di tutela della persona umana, cominciarono a cadere le riserve che storicamente il Papato aveva avuto verso quel regime politico. Si è imparò molto dall’esperienza, in particolare da quella dei totalitarismi europei del secolo scorso. Il lavoro culturale del pensiero sociale cristiano, e in particolare cattolico, precedette le modifiche della dottrina, dell’insegnamento impartito con autorità dal magistero, innanzi tutto dal Papa. Anche in seguito fu così. La prima grande svolta verso una democrazia piena di valori umanitari si ebbe con una serie di importantissimi radiomessaggi natalizi, rilevanti quanto un’enciclica sociale, diffusi dal papa Eugenio Pacelli, Pio 12°, regnante dal 1939 al 1958, durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il  1941  e il 1944.

 In Italia  laici di fede in gran parte provenienti dall'Azione Cattolica si riunirono nel 1943 nella foresteria di Camaldoli dei monaci camaldolesi, in provincia di Arezzo, sull’Appennino Tosco - Romagnolo, per scrivere un progetto di nuova costituzione, denominato  Codice di Camaldoli. Tra il 1946 e il 1947  laici  dell'Azione Cattolica furono tra i protagonisti della scrittura della nuova Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, che disegnava una democrazia di popolo piena di valori, tra i quali quello della pace. Leggiamo infatti nell’art.11:

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

  L’idea della democrazia come strumento per l’affermazione dei valori, in primo luogo quella della persona, ebbe sempre più credito nella dottrina sociale, il complesso delle pronunce del magistero per organizzare la società secondo i valori indicati dalla fede, attraverso le norme contenute nei documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e molti altri documenti del Papato, fino ad arrivare, a cento anni dalla prima enciclica  sociale, all’enciclica  Centesimus annus - Il centenario, diffusa nel 1991 dal papa Karol  Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo 2°, in cui troviamo l’affermazione del valore di una democrazia piena di valori:

45. La cultura e la prassi del totalitarismo comportano anche la negazione della Chiesa. Lo Stato, oppure il partito, che ritiene di poter realizzare nella storia il bene assoluto e si erge al di sopra di tutti i valori, non può tollerare che sia affermato un criterio oggettivo del bene e del male oltre la volontà dei governanti, il quale, in determinate circostanze, può servire a giudicare il loro comportamento. Ciò spiega perché il totalitarismo cerca di distruggere la Chiesa o, almeno, di assoggettarla, facendola strumento del proprio apparato ideologico.92

Lo Stato totalitario, inoltre, tende ad assorbire in se stesso la Nazione, la società, la famiglia, le comunità religiose e le stesse persone. Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona, che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cf At 5,29), la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e di sovranità.

46. La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno.93 Essa, pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato.

[…]

un'autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. 

[…]

 Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia.

[…]

47. Dopo il crollo del totalitarismo comunista e di molti altri regimi totalitari e «di sicurezza nazionale», si assiste oggi al prevalere, non senza contrasti, dell'ideale democratico, unitamente ad una viva attenzione e preoccupazione per i diritti umani. Ma proprio per questo è necessario che i popoli che stanno riformando i loro ordinamenti diano alla democrazia un autentico e solido fondamento mediante l'esplicito riconoscimento di questi diritti. Tra i principali sono da ricordare: il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una famiglia ed a accogliere e educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità. Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona.

Anche nei Paesi dove vigono forme di governo democratico non sempre questi diritti sono del tutto rispettati.

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La Chiesa rispetta la legittima autonomia dell'ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l'una o l'altra soluzione istituzionale o costituzionale. Il contributo, che essa offre a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo incarnato.

  Nel 1969 l’Azione Cattolica, con il suo nuovo statuto elaborato sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet (1926-1980), fece dell’attuazione dei principi deliberati dai saggi del Concilio Vaticano 2° uno dei suoi principali campi di azione sociale e si propose come palestra di democrazia per l’attuazione sociale dei valori nel quadro di una democrazia piena di valori, per riempire sempre meglio la democrazia di valori e per salvaguardare il valore di quel tipo di democrazia.

  Fin dal suo sorgere, perché negarlo?, l’Azione Cattolica ebbe struttura organizzativa simile a quella di un partito politico. Del resto essa, storicamente, difese, più o meno al modo di un partito, posizioni politiche del Papato, in primo luogo, alle origini, quelle relative alla questione di Roma, la  questione romana, la quale fu chiusa, in modo che molti criticarono nel mondo cattolico, con i Patti Lateranensi, conclusi nel 1929 con il Regno d’Italia rappresentato in quella occasione del Capo del governo di allora Benito Mussolini, fondatore e capo del fascismo. L’Azione Cattolica, ad esempio, ogni anno distribuisce delle tessere. Oggi non sempre i partiti lo fanno. Ha un’organizzazione democratica, e non tutti i partiti politici l’hanno avuta e l’hanno. In Azione Cattolica si tengono elezioni per nominare le cariche associative. Si deliberano documenti in varie assemblee, come si fa nei parlamenti. E diversi laici di Azione Cattolica hanno rivestito importanti cariche istituzionali in Italia. Ricordo per tutti il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (1918-2012), che tenne sempre al bavero il distintivo dell’Azione Cattolica. Che cosa differenzia, però,  l’Azione Cattolica da un partito?

  L’obiettivo dell’Azione Cattolica è molto più vasto di quello di un partito, che serve per concorrere all’esercizio dell’autorità pubblica, nello Stato, nelle Regioni, nei Comuni e via dicendo. Lo scopo dell’Azione Cattolica  è quello stesso della dottrina sociale: la riforma sociale dell'intera società secondo valori,  per riempire la società e la democrazia di valori. L’Azione Cattolica è pensiero, innanzi tutto formazione, e appunto, azione, che significa azione sociale, in ogni ambito in cui la persona è inserita, a partire dalla famiglia e fin da molto piccoli.  Per trasformare secondo valori  ogni società, lì dove le persone si organizzano, e allora c'è chi comanda e chi segue, e quindi anche la possibilità di agire per il bene comune, la felicità di tutti, o approfittandosi a danno degli altri, facendoli soffrire.  Famiglia, scuola, lavoro, economia, politica istituzionale, solidarietà, arte, sport, cultura… sono tutti campi di  azione  sociale di un laico di Azione Cattolica per l’affermazione dei valori, per organizzare tutte le società in cui è inserito, collaborando con tutti democraticamente, secondo i valori. Ora il compito che ci è assegnato è molto più vasto di un tempo, non riguarda più la sola Italia o l’Europa, ma il mondo intero: è questa la prospettiva dell’enciclica  Laudato si’,  diffusa nel 2015 dal papa Jorge Mario Bergoglio, regnante come Francesco dal 2013.  Non è un lavoro che si può affrontare da soli. Serve essere in tanti per fare azione sociale, e innanzi tutto per capire realisticamente il proprio tempo. Ma occorre essere in tanti per persuadere tanta altra gente dei valori che occorre realizzare e, innanzi tutto, per mediare  i valori di fede in modo che possano essere condivisi da quante più persone possibile. Bisogna prepararsi  bene e fare  tirocinio  di azione, come in tutte le attività umane. L’azione sociale si impara, non è innata: anche a questo serve l’Azione Cattolica. Ma poi c’è da  agire  insieme, ciascuno secondo quello che sa fare. Io, ad esempio, agisco  anche scrivendo cose come questa che state leggendo. Confrontandosi però con gli altri, perché da soli spesso si smarrisce la strada. E’ come quando si va in montagna in cordata, ciascuno  legato  ad altri: se si cade, gli altri fanno  sicurezza. I più esperti indicano agli altri come fare per non rischiare. Spesso sanno come fare perché hanno sbagliato  e si sono corretti. La saggezza dei più anziani non di rado si basa proprio su questo. Così progredisce l’umanità. Senza questa  azione  collettiva i valori e la democrazia come valore sono a rischio. Di certi valori ci si deve persuadere di generazione in generazione, a cominciare dai più giovani, per parlar loro dei grandi valori e iniziarli al tirocinio dell'azione sociale ad essi ispirata.

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