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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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Il sito della parrocchia:

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domenica 3 settembre 2017

Scritti politici 2016-2017 - materiale per un tirocinio alla democrazia - PARTE 3

Scritti politici 2016-2017 - materiale per un tirocinio alla  democrazia - PARTE 3

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59. Festa della Repubblica


 Il 2 Giugno  è  una festa civile: la Festa della Repubblica. Si fa memoria di un evento storico accaduto il 2 giugno 1946: gli italiani, e per la prima volta anche le donne, votarono per scegliere se l’Italia dovesse essere un regno, sotto la dinastia Savoia, o una repubblica ed elessero i componenti di un’Assemblea Costituente, che dovevano scrivere una nuova costituzione dello stato, sostituendo lo Statuto entrato in vigore nel 1848. Le ultime elezioni libere si erano svolte nel 1924, ventidue anni prima, gli anni del regime fascista mussoliniano. L’Azione Cattolica aveva svolto un ruolo molto importante nella formazione politica delle masse, in particolare delle donne. Dal voto popolare uscì la scelta per la repubblica e per un regime istituzionale di democrazia popolare, in quanto prevalsero i partiti che si proponevano di realizzarlo.
 Ma non si festeggia solo un evento storico, accaduto ormai tanti anni fa. Le persone ancora viventi che vi parteciparono hanno oggi dai 92 anni in su (la maggiore età e quindi il diritto al voto erano fissati all’epoca a 21 anni). Si festeggia, in fondo come per i compleanni delle persone, che la repubblica democratica sia ancora in vita e vitale. Essa è affidata al popolo, che si rinnova di generazione in generazione: vanno tramandati principi e procedure, nel tempo in cui le generazioni più anziane coesistono con le più giovani, prima di sparire. I regimi politici sono parte della cultura di un popolo, del sistema di costumi, concezioni e regole che rendono possibile l’organizzazione della vita collettiva. Le culture cambiano, di generazione in generazione, e così i sistemi politici. Chi è al potere cerca di solito di resistere al cambiamento: è stato l’assillo di tutte le dinastie regnanti, ma anche di ogni altro gruppo egemone nei regimi  politici. Se si è convinti della bontà del regime politico democratico repubblicano, allora c’è da festeggiare constatando che è durato fino ad oggi. Non si è mantenuto sulla forza delle armi. Per questo la Repubblica non dovrebbe essere festeggiata con una parata militare, ma con una grande  evento gioioso di massa in cui ci sia spazio per la riflessione politica. Dovrebbe sfilare il popolo. La repubblica in Italia è sorta con il ritorno della pace e, fino ad oggi, non ha mai dovuto essere difesa con le armi. Questo perché ha scelto la via della pace e ha sviluppato politiche di pace, all'interno di grandi organizzazioni internazionali che avevano il medesimo obiettivo, in questo distinguendosi nettamente sia dalla politica del regime fascista, ma anche da quella dei governi del Regno d’Italia dall’Unità nazionale all’avvento del regime fascista, che si fa risalire al 1922. Attualmente l’Italia è impegnata con proprie forze militari in diversi fronti di guerra, ma non per ragioni di difesa. Il più sanguinoso è quello dell’Afghanistan, con 59 morti e oltre 600 feriti. La motivazione di questi impegni militari è il mantenimento della pace nel quadro dell’azione di organismi internazionale.
  Oggi repubblica e democrazia sembrano strettamente collegati e addirittura sinonimi, come se volessero dire la stessa cosa, ma non è così.
  Democrazia è quando il potere viene condiviso tra molti secondo regole che consentono la partecipazione collettiva, limitando  i poteri di ciascuno e stabilendo principi giuridici di giustizia sociale per contenere  gli arbitri dei potenti. Cominciò ad essere praticata e teorizzata nell’antica Atene, in Grecia, nel Sesto secolo dell’era antica.
  La repubblica, termine che deriva dal latino e che in quella lingua significava “cosa pubblica”, è invece un’invenzione culturale dei romani. All'inizio equivaleva a “stato” e significava la separazione giuridica, stabilita quindi da norme pubbliche formali, tra i poteri, gli interessi e i patrimoni della classe politica egemone e quelli destinati all’uso pubblico nell'interesse della collettività. Fu  un notevole progresso culturale. Nelle monarchie arcaiche, dei tempi molto antichi, che in genere si erano sviluppate come estensione del potere di un maschio adulto sulle persone della propria famiglia a lui soggette e sui suoi beni, tutto apparteneva al sovrano, persone e cose, non c’era distinzione tra le cose “sue” e quelle della collettività. Nell'antica civiltà romana continuò ad esserci uno stato, quindi una “repubblica” in quel senso, anche quando in essa si svilupparono degli imperi di tipo dinastico, nei quali quindi la successione al vertice poltico avveniva tra generazioni di un’unica famiglia.
  Qual è la distinzione fondamentale tra repubblica e monarchia? In una repubblica chi domina lo stato lo fa nell'interesse pubblico, non nel proprio interesse o in quello della sua famiglia. Pensa di aver ricevuto un mandato, un incarico, in tal senso. In una monarchia, invece, il sovrano pensa di avere personalmente, o come membro di una dinastia, il diritto di supremazia politica, come cosa che gli appartiene. Si è visto che all'origine di ogni monarchia vi è un atto di forza, di violenza. Stabilizzandosi, ogni monarchia cerca una giustificazione sacrale del proprio dominio, per collegarlo a una volontà divina e renderlo più stabile.
  In una monarchia dinastica, come era quella dei Savoia nel Regno d’Italia, il diritto politico del sovrano passa di genitore in figlio, secondo regole giuridiche, quindi formali. Ma, all'inizio di ogni dinastia monarchica, vi è sempre un capostipite che non ha giustificato in tal modo il suo potere: è il caso di Napoleone Bonaparte, quando dal 1804 divenne imperatore dei francesi,  cambiando la forma di stato da repubblica democratica a monarchia assoluta.
  Chi ci assicura che il figlio del monarca sia all'altezza, o migliore, del suo genitore? Nessuno. Spesso, anzi, è accaduto proprio il contrario. Questo è il limite delle monarchie dinastiche. E comunque il potere monarchico tende a degradarsi nel tempo, perché è legato alla persona, anche fisica, del monarca, che con l'invecchiamento degrada, e non di rado degenera al modo in cui accade ai poteri assoluti o con pochi limiti. Nelle repubbliche democratiche si cerca di mandare al potere supremo i migliori, e comunque se ne prevede la periodica sostituzione: non vi sono poteri a vita. Nell’Italia della repubblica democratica questo in genere è accaduto, se si considerano i Presidenti della Repubblica, che hanno preso il posto dei re.
 Storicamente ci furono repubbliche, nel senso di sistemi politici non dominati da un sovrano, dinastico o non, non democratiche. Non fu democratica, ad esempio, la Repubblica Sociale Italiana mussoliniana, che controllò l’Italia del Centro-Nord, con capitale a Salò sul lago di Garda, tra il 1943 e il 1945. Né lo fu lo stato repubblicano franchista, che dominò la Spagna tra il 1939 e il 1975 (paradossalmente in Spagna il ritorno della democrazia coincise con la restaurazione di una monarchia dinastica). Non fu, di fatto, democratica l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, durata dal 1917 al 1991, perché dominata da un’oligarchia di partito. Non furono democratiche, in parte della loro storia, diverse repubbliche Latino-Americane, quando caddero nel dominio di oligarchie dispotiche, in genere di origine militare, che si sottrassero al controllo politico attuato mediante libere periodiche elezioni politiche. La democrazia di popolo, come oggi la intendiamo e pratichiamo, è stata un’importante conquista culturale anche per le repubbliche.
 Vi sono state e vi sono monarchie che incorporano principi repubblicani e democratici. Sono così tutte le attuali monarchie europee, a seguito di un processo politico iniziato nel Settecento (ma in Inghilterra addirittura nel Duecento). Attraverso statuti, che significa sostanzialmente  costituzioni, si stabilirono dei limiti ai poteri delle dinastie regnanti e questo fece spazio alla politica democratica. Nello stesso tempo furono giuridicamente distinti patrimoni, poteri e interessi delle dinastie regnanti da quelli degli stati.
  Storicamente si è pensato che le monarchie producessero un ordine sociale migliore e più stabile. In realtà la storia non conferma questa opinione. E’ un’idea che deriva dalla sacralizzazione del potere monarchico e quindi da una cultura indotta per stabilizzarlo, sottraendolo al cambiamento sociale. La realtà  è che le monarchie hanno sempre teso ad assolutizzarsi, ad estendere il loro potere, e questo le ha poste in conflitto con gli altri poteri sociali compresenti: sono state quindi sempre impegnate,  in genere e fino ad epoca piuttosto recente, in congiure di palazzo violente e sanguinose. Le democrazie vennero diffamate dalle monarchie come poteri disordinati e arbitrari: nell'epoca moderna si sono manifestate tutto l’opposto, quando e finché sono rimaste tali. Questo perché le democrazie moderne sono non solo un sistema di limiti a poteri arbitrari, ma anche  di principi di giustizia sociale.
  In un sistema repubblicano nessuno deve arrogarsi il potere di appropriarsi della cosa pubblica e di identificare i propri interessi con quelli dello stato. Questo significa che si deve combattere la corruzione della politica, che consiste appunto in quello. In un sistema democratico nessun potere è senza limiti, sia in durata che in estensione, e si attivano procedure di controllo di come il potere pubblico viene esercitato. Tutto questo richiede una intensa e costante partecipazione popolare. L’idea che il popolo entri in ballo solo al momento delle elezioni politiche non è né repubblicana né democratica, ma da aspiranti oligarchi, futuri monarchi assoluti. In un sistema realmente democratico, chi vince alle elezioni, e governa, deve sopportare il costante controllo popolare. Lo dice la nostra Costituzione repubblicana  all’art.49, dove si riconosce il diritto dei cittadini di associarsi liberamente per concorrere a determinare la politica nazionale. Il primo indice della degenerazione di un potere democratico è quando chi comanda vuole mani libere fino alle elezioni successive.
  Il papato domina da sovrano assoluto la Città del Vaticano, l’entità indipendente che ha contrattato con il Mussolini, nel 1929 concludendo i Patti Lateranensi. E’ un simulacro di stato stabilito nel quartiere Borgo di Roma (nel Trattato che lo istituisce non viene mai definito stato).  Il regno papale sulla Città del Vaticano è un regime politico arcaico che non è indispensabile né per motivi religiosi, per difendere e propagare la fede, né per motivi politici, per garantire l’indipendenza del papato: infatti nessuno stato oggi è veramente sovrano, tutti devono soggiacere a limiti internazionali, compresa la Città del Vaticano e il suo monarca. Anche la nostra Chiesa, che è cosa distinta dalla Città del Vaticano anche se ha lo stesso re, è organizzata come una monarchia assoluta. Anche in questo caso non ve n’è una necessità teologica o politica.Primato  non significa necessariamente impero.  All'interno della nostra organizzazione religiosa si stanno sviluppando, dagli scorsi anni Sessanta, processi democratici. L’organizzazione monarchica assoluta, al modo di un impero, è un portato storico, in particolare dell’epoca feudale, dall’Ottavo secolo, in cui il papato acquistò una indipendenza politica via via sempre più estesa e intensa. Che ne dobbiamo fare? Non è necessario fare una rivoluzione per cambiare le cose, perché comunque stanno già cambiando. I connotati politici di quel potere si sono infatti molto affievoliti. Le altre monarchie ancora vigenti non sentono più la necessità di una loro sacralizzazione secondo la nostra fede: in Europa la stabilità del loro ruolo è garantita dalle norme costituzionali. Anche nel papato si comincia a ragionare in questo modo per quanto riguarda la politica ecclesiastica: la politica del papato si va anch'essa desacralizzando. I principi repubblicani e democratici mettono la gente al riparto dagli eccessi che nel passato i nostri sovrani religiosi hanno manifestato. Dal 1991 il papato ha accreditato la democrazia come regime politico preferibile, in quanto rispondente alla dignità degli esseri umani. Questo, nel lungo periodo naturalmente, produrrà delle conseguenze. Innanzi tutto possiamo fin da ora cogliere l’occasione per approfondire la riflessione personale e collettiva sulla democrazia e per farne pratica.  Teniamo conto che la Costituzione vigente è piena di principi che sono originati dalla nostra dottrina sociale e che, addirittura, uno dei principi fondamentali che regola il funzionamento dell’Unione Europea, quello di sussidiarietà, ha la stessa fonte. I principi repubblicani e democratici non ci possono più rimanere estranei. Gente nostra è stata protagonista nel loro sviluppo e nella loro affermazione. Anche da persone di fede, benché ancora sudditi di una monarchia religiosa assoluta, possiamo quindi fare festa oggi.

60. Il lavoro dell’istituzione


  Le collettività umane nascono e muoiono, così come gli esseri umani. Le istituzioni, queste invenzioni delle culture umane fatte di storie, tradizioni e norme, danno  loro continuità, consentendo loro di rigenerarsi: in questo modo si cerca di tramandare ai più giovani il patrimonio di  concezioni, conoscenze, costumi acquisito dalle generazioni più anziane. Ogni istituzione vale se fa questo lavoro senza impedire il progresso dell’umanità. Di solito chi comanda in una società cerca, in misura maggiore o minore, di strumentalizzare le sue istituzioni per rendere più stabile il proprio potere. E’ cosa che si produsse con effetti spettacolari nelle monarchie sacralizzate europee. Sacralizzare, vale a dire collegarle a una volontà soprannaturale, le istituzioni della politica ha consentito di proiettarle molto avanti nel futuro e di conservarne molto efficacemente l’ordine. Ma si è trattato pur sempre di una strumentalizzazione, perché rimane vero che ilregno  immaginato nella fede non è di questo mondo. Sono le istituzioni che dovrebbero rimanere  strumento, non la fede. Se avviene l’inverso, e nella nostra confessione è accaduto nei due millenni della sua storia, la fede ne risulta impoverita, quanto le istituzioni in tal modo sacralizzate vengono esaltate immaginificamente.
  Una parrocchia è anche un’istituzione, ha dimostrato di saper dare continuità alla socialità umana, e lavora nel campo dell’integrazione tra vita personale e sociale e la fede religiosa, ma non è sacralizzata, non strumentalizza la fede, la serve. Nel 2015 la nostra parrocchia era  sostanzialmente morta come corpo sociale, aveva esaurito un suo ciclo storico, ma continuava a rimanere come istituzione. Questo ha consentito di attivarne una rigenerazione sociale. Non è più tanto importante capire il perché della crisi, perché si tratta del passato e del resto le sue cause sono molto chiare: ora è importante partecipare alla rigenerazione. Possiamo riconoscere che, come istituzione, la parrocchia ha fatto ciò che ci si attendeva, quello per cui era stata costruita. Ora deve rigenerarsi come collettività.
  Quello che  è successo nella nostra parrocchia è accaduto molte volte, storicamente, ed anche su scala molto maggiore, nelle nostre collettività sociali. Si osserva una continuità nei secoli, che è in gran parte di istituzioni e di cultura, ma le società dei fedeli sono morte e si sono rigenerate molte volte. A volte si pensa, sbagliando, di poter riproporre il passato. Ma i morti non ritornano. La via reazionaria non è mai quella giusta.
 La nostra fede non c’è stata da sempre, ha avuto un inizio, dal punto di vista sociale. Prima c’erano altre religioni, molto antiche. Non bisogna mai pensare che gli antichi non fossero religiosi. Per convincersi del contrario basta osservare i ruderi dei grandi templi dell’antichità. Anche le religioni che c’erano prima della nostra avevano delle istituzioni. Quand'è che quelle fedi si sono dissolte? Quando sono mutate le istituzioni che le sorreggevano. In particolare quanto non servirono più per sacralizzare la politica. Questo dimostra che erano piuttosto strumentalizzate. Ma la gente comune vi faceva affidamento ed è proprio per questo che le si strumentalizzava: servivano a chi dominava le società di allora a rafforzare la propria egemonia politica.
 Perché la nostra fede è sopravvissuta alla desacralizzazione delle politica che si è prodotta in Europa e nelle parti del mondo che seguivano i costumi degli europei tra il Settecento e l’Ottocento? Fondamentalmente perché ha prodotto un sistema di valori che si è tradotto in un codice di diritti umani che è al fondo della nostra civiltà e che orienta anche la politica, indipendentemente da questo o quel gruppo egemone e da qualsiasi strumentalizzazione. Le istituzioni sociali, animate da quei valori, cooperano a mantenere la fede come un’opzione sensata nella società. Ma la desacralizzazione dei poteri politici impedisce di strumentalizzarla: è l’applicazione del principio della  laicità dei poteri pubblici e della politica.
  In un’istituzione come la parrocchia viene custodito anche il patrimonio culturale di quei valori, ma esso può sopravvivere senza apporto sociale fino ad un certo punto, non indefinitamente. Ecco perché è urgente impegnarsi nella rigenerazione sociale della parrocchia. Non si tratta più tanto di seguire un capo o delle regole: la parrocchia è istituzione ormai desacralizzata,        questo non basta. I valori che propone devono rivivere nella gente, in particolare nelle nuove generazioni. Riviverli, di vita in vita, significa anche attualizzarli, reinterpretarli: le generazioni si riproducono ma non sono mai la copia identica le une delle altre. In chiesa non si mette in scena sempre lo stesso spettacolo, come certe volte accade a teatro, e allora ci sono una serie infinite di repliche, anche per anni, che però, ad un certo punto, finiscono. Se uno  viene in chiesa da spettatore, solo da spettatore, ad un certo punto vedrà lo spettacolo liturgico-religioso tolto dal cartellone. E' accaduto. Tante chiese sono state riciclate come certi cinema sono diventati grandi magazzini,  quando molto a lungo sono stati disertati dal pubblico. Però, ciò che si mette in scena  in parrocchia è in realtà il valore dei valori, l’agàpe, che è incontrarsi gioiosamente facendo spazio a tutti: essa non morirà mai, è scritto. Riuscire a farlo dipende da come ciascuno e tutti collettivamente viviamo, oggi,  i valori della nostra fede.

61. Politica e conflitti sociali

Le società umane si manifestano sempre in tensione, tra individui, gruppi più o meno estesi, aspiranti al dominio. Uno degli scopi della politica è di impedire che i conflitti distruggano la società. A questo serve, in particolare, il diritto, lo si è capito fin dall’antichità: si vuole evitare che le persone corrano alle armi, era proprio questa l’espressione usata dagli antichi giuristi. Chi fa le leggi? Chi riesce a dominare la società in un certo tempo. Cambiando questa situazione, cambiano anche le leggi. C’entra qualcosa la giustizia? Bisogna intendersi, innanzi tutto, su che cosa essa sia.
   Nel Sesto secolo, in Grecia, l’imperatore romano  Giustiniano, in una monarchia imperiale ormai sacralizzata secondo la nostra fede, comandò di creare una grande raccolta di leggi e opere giuridiche e vi fece inserire anche un manuale di diritto. Quest’ultimo si apriva con una definizione di giustizia: la costante e perpetua volontà di  dare a ciascuno il suo, non fare male agli altri, vivere onestamente. Ci basta? Su piccola scala, nei rapporti tra privati, sì,  ma quando si parla di fatti sociali, della dimensione pubblica,  non basta più, bisogna ragionarci sopra ancora, ma fondamentalmente le idee di base rimangono quelle.
  Se in una società aumentano molto le diseguaglianze sarà necessaria una violenza sempre maggiore per mantenerla pacifica, vale a dire per impedire che insorgano conflitti che ne mettano in pericolo l’integrità. Se non si è disposti a organizzare e sviluppare la violenza che è necessaria, occorre cambiarla rendendola meno diseguale. Non è cosa molto lontana da noi. E’ il problema sociale che ci assilla proprio di questi tempi, anche in Italia.
  Rendere meno diseguale la società ha a che fare con la giustizia? Alcuni dicono che ognuno ha ciò che si meritaHa meritato  nel senso che non ha rubato ciò che ha, lo ha guadagnato in modo legale. Perché dovrebbe privarsene per darne una parte agli altri? E’ l’argomento che si utilizza di solito per chiedere una riduzione delletasse. In democrazia le tasse servono appunto anche a rendere la società meno diseguale: in passato venivano considerate come uno strumento di giustizia sociale, ai tempi nostri vengono al contrario considerate come un arbitrio ingiusto. Perché poi si dovrebbe tassare maggiormente chi  è più ricco, come stabilisce la nostra Costituzione all’art.53? Non sarebbe più giusto stabilire una percentuale di tassazione uguale per tutti, per i grandi ricchi come per i meno ricchi? E perché tassare ciò che si lascia in eredità?
  In realtà si può argomentare che nessuno ha poi veramente meritato tutto ciò che gli è capitato di ottenere  in società. L’ha ottenuto perché ne ha avuto l’opportunità sociale. La ricchezza, nella complesse civiltà contemporanee, è sempre un fatto sociale, a cui tutti collaborano, e dipende dalle regole che ci sono in un certo momento, fatte da chi la società riesce a dominare, la parte che spetta ai singoli. Ciascuno, naturalmente, collabora in maniera diversa, ma tutti  collaborano. Sono le regole sociali che danno un valore alla collaborazione di ciascuno, a distribuire le parti. E, allora, se tutti  collaborano, non è giusto  che alcuni siano esclusi dal benessere che quella  ricchezza   sociale  dà.Dare a ciascuno il suo. Ricordate? E’ uno dei criteri di giustizia stabiliti dagli antichi. Perché, poi, se la ricchezza è un prodotto sociale, ma in definitiva viene privatizzata a beneficio di troppo pochi, alla fine le masse di chi sta peggio, organizzandosi, possono anche decidere di farla finita con regole sociali che le umiliano e le escludono e lottare per averne di diverse. Per mantenere soggette le masse allora occorrerà una violenza sempre più estesa e intensa, ma essa richiederà anche molta gente che vi collabori, molta polizia e sempre più violenta, e ad un certo punto, peggiorando molto le cose, perché l'ingiustizia tende a moltiplicarsi, ad espandersi, generando sempre maggiore sofferenza sociale, essa non basterà più. E comunque, a quel punto, la politica avrà fallito in uno dei suoi scopi principali: evitare che la gente corra alle armi.
   Se uno eredita un patrimonio, come ha meritato? Chi glielo ha lasciato ha avuto l’opportunità sociale  di metterlo insieme e la società, alla sua morte, non ha veramente alcun diritto? E, soprattutto, la regola per cui il patrimonio passa agli eredi è una costruzione sociale, conferisce agli eredi una opportunità sociale veramente privilegiata. Grandi patrimoni significano anche maggior potere sociale. un tempo anche gli stati passavano di genitore in figlio, tra generazioni di monarchi di una dinastia, ma ora si sono posti dei limiti sociali, le regole sono cambiate, e anche nelle monarchie ancora regnanti  il potere che passa da una generazione all'altra è molto meno, la società ha preteso il suo. Sono i processi democratici che lo hanno reso possibile: essi infatti sono anche un sistema di limiti ai poteri che si esercitano in società. Si è visto che i poteri condivisi stabilizzano meglio la società, funzionano meglio nel creare opportunità sociali di benessere, richiedono meno violenza per essere mantenuti. Nella stessa linea è razionale stabilire dei limiti anche alle successioni ereditarie tra privati (lo si è fatto nel grande e non lo si dovrebbe fare nel piccolo?), restituendo alla società ciò che in definitiva da essa proviene, una parte dei patrimoni lasciati da chi muore: lo si fa non arbitrariamente, ma secondo regole precise, che stabiliscono delletasse.
 E’ onesto  questo modo di pensare, o è voler rapinare  i patrimoni privati? La dottrina sociale ci dice che è onesto, perché  i beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. Ma ci si può arrivare anche a prescindere da argomentazioni religiose. La ricchezza è un fatto sociale e la società quindi deve avere il suo.
  Si parla di pace,  ma da ciò che ho scritto è evidente che ci può essere una pace giusta e una ingiusta. La pace giusta è di solito condivisa da più persone di quella ingiusta, che di solito è imposta con la violenza e genera risentimento e voglia di rivalsa. La pace giusta deve essere difesa dall’arbitrio dei gruppi più potenti, ma è più stabile perché è condivisa da molti;  quella ingiusta è sempre precaria, perché esposta alla reazione dei più. La pace giusta è quella che dà alla società il suo.
 Si sostiene che la politica ha un valore religioso, ma naturalmente ci si riferisce, oggi, alla politica volta ad una pace giusta. Non è sempre stato così, ne dobbiamo essere consapevoli. Tutto sommato ci è andata bene, per il tempo e il posto in cui siamo nati e viviamo. Ad altri storicamente, e anche nei nostri stessi tempi, è andata molto peggio. Ma che accade quando l’ordine giusto è minacciato? Bisogna difenderlo con coraggio. I conflitti insorgono: occorre affrontarli. Spesso in religione si è tentato solo di sopirli o di negarli, quando addirittura non si è parteggiato per un ordine ingiusto ma conveniente per l'organizzazione religiosa. Questa è la religione che è stata definita come un anestetico per chi sta peggio. Oggi è diverso, certo. C'è unadottrina sociale  che insegna autorevolmente i principi della pace giusta. 
  Come affrontare i conflitti sociali avendo come obiettivo una pace giusta, che comprende anche riconoscere agli altri, anche nei conflitti, il bene fondamentale, quello della vita, per cui non si ammette con leggerezza di farli fuori a fini di pace sociale?
  Nel secolo scorso c’è chi ha escogitato una via veramente nuova: lateoria e la pratica della nonviolenza, che  è metodo di lotta sociale basato sull’idea di non fare del male agli altri (un altro dei principi di giustizia formulati dagli antichi).

62. La giustizia come metro dei sistemi sociali


  Ci sono diversi metodi per misurare gli effetti dei sistemi sociali.
 Si possono valutare, ad esempio, secondo i morti che producono.
 Se una potenza regionale cambia politica, si potranno contare i morti in più che ci saranno, specialmente se diventa meno sensibile al valore della giustizia. Se lo fa una potenza globale le conseguenze saranno molto maggiori. Ma accade anche su scala molto più piccola ed anche molto piccola. Si  è osservato, ad esempio, che una classe scolastica in cui prende piede il bullismo tra ragazzi può fare morti e che quindi questa non è più una cosa da ragazzi, ma veramente molto seria. In Italia da poco ci hanno fatto addirittura una legge sopra, per combattere il bullismo informatico, quello praticato mediante i  telefonini, in danno dei minori.
  Un metro abbastanza efficiente per valutare i fatti sociali, in particolare le organizzazioni, è quello della giustizia. Anche in questo caso può essere impiegato su piccola scala, ad esempio nel caso di una parrocchia.
  La giustizia è un valore sociale e ha a che fare con l’etica, vale a dire con i criteri che in società si scelgono per definire il bene e il male e per orientare al bene. Ma vi possono essere etiche ingiuste, come avviene nei regimi politici totalitari, classisti o in quelli schiavisti. La giustizia è un valore meno malleabile dell’etica. Finché gli altri esistono, sorge un problema etico, che consiste nel decidere come comportarsi con loro, che può essere risolto in modo giusto  o ingiusto. Un’etica  ingiusta suona come paradossale. Se però consideriamo che una delle esigenze della giustizia è il   non fare male agli altri, come ritenevano gli antichi giuristi, allora un’etica come quella proposta dal fascismo storico, che si proponeva la guerra, risulta  ingiusta, perché fa male agli altri. Se l’ambiente naturale, che serve a tutti per vivere, è minacciato dalle attività umane e una grande potenza decide di ignorarlo perché fare diversamente comporterebbe una riduzione del suo benessere sociale, questo è ingiusto  perché fa male agli altri, propone un'etica ingiusta come quella che dice la "mia nazione viene prima di tutto". Ragionare in questo modo, in un mondo interconnesso su scala globale come il nostro, rende impossibile la sopravvivenza di tutti. E quelli che sopravvivono, perché riescono con la forza a mettere sotto i piedi gli altri, si ritrovano in ambiente degradato, che fa male anche a loro. 
    In una parrocchia bisognerebbe praticare la giustizia, perché quest'ultima è anche un valore religioso. Uno dei principi della giustizia è dare a ciascuno il suo. Se comprate l’Osservatore romano, il quotidiano edito dal papato, nell’intestazione trovate scritto, in latino, proprio quel principio, “unicuique suum”, a ciascuno il suo. Ma se troppa gente non trova più in una parrocchia quello che avrebbe dirittodi trovare, vale a dire  il suo  in questo senso, allora significa che qualche cosa non va. Non è giusto. Una parrocchia dovrebbe essere un sistema sociale inclusivo fondato sulla giustizia. A lungo abbiamo avuto problemi in questo campo, da noi alle Valli, e dall'ottobre 2015, con l'arrivo di un nuovo pastore, si sta cercando di cambiare. Lediversità che c’erano ancora negli anni ’80 sono state ritenute ad un certo punto come cattive e si è cercato di ridurle, costruendo una certa etica piuttosto esigente. L’etica non dovrebbe esserlo? Dipende da che cosa esige. L’altro giorno, qui a Roma,  al raduno di un movimento religioso che ha molto successo in società, si è proposto il modello delle  diversità riconciliate. Ci si riconcilia quando si dialoga e si trova un modo di convivenza, che è anzitutto  coesistenza.  L'etica dell'uniformità, mediante riduzione della diversità, e quella dellariconciliazione delle diversità possono essere entrambe esigenti, vale a dire molto impegnative, ma, innanzi tutto sono diverse e hanno effetti sociali  diversi. Ma non solo sono diverse, sono anche incompatibili,alternative,  o l'una o l'altra. Bisogna scegliere. E non basta essere in buona fede, quasi sempre lo si  è in religione, perché la scelta siagiusta; occorre anche tenere conto realisticamente degli effetti sociali che vengono prodotti, come dovrebbero fare i politici di governo quando scelgono una certa politica e allora dovrebbero tener conto dei morti in più che faranno.
  Ogni etica sociale è collegata ad un assetto politico, perché è chi comanda in società che fa le regole. Questo accade nel grande come nel piccolo. Se si vuole che la riconciliazione prenda piede in una società, occorre aumentare il livello di giustizia conformandovi l’etica.
  Nelle scritture sacre vi sono delle storie di tremenda violenza. La violenza è un fatto umano. Ad un certo punto i profeti immaginarono che dall’Alto si sarebbero  stroncate  le guerre, ma questo non è mai diventato realtà, se non per breve tempo. Se uno immagina di essere,oggi, alle porte di Gerico e che il Cielo gli ordini di urlarle e di cantarle contro, contro la città pagana e  infedele, perché poi le sue mura crolleranno e si potrà, e anzi si dovrà, sterminare (nel senso di rendere uniforme o escludere) tutto ciò che di vivente c’è dentro, e ci costruisce un’etica sopra sviluppando una politica corrispondente, poi avrà più o meno ciò che ha immaginato, più  o meno, intanto però avrà una situazione di conflitto insanabile, in cui lui urla contro gli altri, che rimangono a guardarlo dietro le mura. Il fascismo volle la guerra, l’ebbe, ma non andò come immaginava dovesse andare. Così va la storia umana. Si miete ciò che si è seminato, ma non sempre si raccoglie ciò che si immaginava di ricavare.
  Adesso si sta cercando di rendere la parrocchia un ambiente molto più accogliente per gli altri, cambiando atteggiamento verso di loro. E’ una scelta etica, naturalmente, che è in linea con le regole dettate da chi comanda ora nelle nostre collettività religiose e che ci spinge a una diversità riconciliata. Ma è cosa che ha a che fare con la giustizia, perché accogliendo, quindi  includendo, dà a ciascuno il suo, una parte del bene che si può trarre dalla vita religiosa e che non è giusto riservare ad una piccola minoranza: non è per questo che pensiamo di essere stati mandati  al mondo intorno. Ma durerà poco,  forse quanto il tempo assegnato al nuovo pastore che ci è stato mandato, nove anni, dei quali è trascorso già un anno e mezzo, se a questa esigenza di giustizia non corrisponderà una nuova organizzazione sociale, per metterla al riparo della volubilità umana. E’ a questo che servono le istituzioni, anche una come la parrocchia: a dare continuità alle società umane consentendo loro di rigenerarsi  periodicamente. Da qui l’esigenza di attivare processi democratici, gli unici a poter produrre questo risultato includendo. Le carenze in questo campo hanno consentito che, all’inizio degli anni ’80, tutto cambiasse piuttosto rapidamente quando cambiò il pastore. All’epoca c’era molta partecipazione in parrocchia, i più anziani ne parlano e nelle interviste raccolte  nel libro di Bonomo sul quartiere risulta molto chiaramente, ma non c’era una tradizione democratica che consentisse di fare resistenza, quando sarebbe stata necessario farla, per dialogare in condizione di pari dignità e impedire i problemi che poi si produssero. Si determinò un conflitto latente che venne risolto non apertamente, ma con il ritiro dei dissenzienti, e che quindi venne deciso secondo il principio d’autorità, obbedendo. L’obbedienza: la più subdola delle tentazioni, nelle cose sociali. L’obbedienza, in religione, è dovuta solo al Cielo. Per tutto il resto vale la libertà di figli.

63. Non rassegnarsi

 Un tempo la religione venne accusata di spingere alla rassegnazione, alla rinuncia all’impegno sociale per il cambiamento. L’accusa era vera: la religione è stata anche questo. Una fede così non merita di essere mantenuta, giustamente la si è combattuta. Non fa bene la gente. E’ facilmente strumentalizzabile da oligarchie che riescano a conquistare il dominio della società: quando pochi fanno prepotenza ai più e non accettano di essere messi i questione. Tutto ciò che fa male, abitudini, concezioni, movimenti, partiti, religioni, ma anche modi di consumare, di agire sul mercato, di sfruttare l’ambiente va combattuto per cambiarlo. Non sono convinto che ogni religione faccia bene alla società. Si dice che ne è necessaria l’incessante riforma, se si vuole che orienti al bene. Non basta la buona fede, la convinzione sincera di mirare al bene. Occorre valutarne realisticamente gli effetti. In ciò che fa male va cambiata: nella nostra lo si  è fatto molte volte, niente è più esattamente come era alle origini e ciò ha fatto bene alla nostra religione. Recentemente, intorno all’anno 2000 e in occasione del Grande Giubileo di fine millennio, questo processo ha preso il nome di purificazione della memoria, a cui siamo stati spinti da san Karol Wojtyla, ed è sostanzialmente un processo di riforma: significa valutare criticamente il male che s’è fatto in religione, ma non per condannare coloro che lo fecero e che non ci sono più, ma per non farcene incauti discepoli.
  La storia della nostra fede deve convincerci che la religione può anche non spingere alla rassegnazione. Viviamo una fase storica in cui essa ci spinge all’impegno sociale e cerca di convincerci che c’è da fare e che la nostra azione sociale può cambiare il mondo. In passato questa fu la convinzione di minoranza di gente di fede, ora lo si vorrebbe sentire comune. Insomma, questo non  è il tempo del dopolavoro  religioso, che è quando si va in chiesa terminato tutto ciò di altro in cui si è coinvolti e allora si vuole solo avere un po’ di tregua da tutti gli affanni, stare con gli amici più cari per passare qualche ora lieta immaginando un mondo diverso.
 E’ proprio tutto ciò che facciamo nel mondo, a partire dallo studio e dal lavoro, ma anche come agenti nel mercato, che si vorrebbe fosse coinvolto nel nostro impegno sociale: siamo spinti a non dimenticare il mondo, ma a conoscerlo molto meglio, per fare resistenza al male e creare il bene sociale, quello che nella dottrina, sull’insegnamento di una tradizione molto antica, viene definito bene comune. Si veniva accusati di somministrare droghe sociali a gente in catene, per far dimenticare la loro condizione; si agisce invece proprio nel senso opposto. Si è spinti all’azione solidale, per venire incontro ai sofferenti e sollevarli. E’ l’esempio che ci viene dato dai tanti religiosi impegnati nelle parti più disperate del mondo. Ma è un lavoro di tutti e, in particolare, di noi che viviamo inseriti nella società che (ancora) domina il mondo, l’Occidente che fa ciò che vuole, con le buone o con le cattive. E che ora è spinto emotivamente ad usare le cattive, la forza delle armi, anche in Europa.
  Ma per fare ciò che oggi si vorrebbe da noi, in particolare da noi laici, occorre un impegno molto più intenso e costante di quello della religione  dopolavoro. Come orientarsi in società se non facciamo uno sforzo per capirla realisticamente, a partire dal quartiere in cui viviamo. Non si resiste da soli, occorre organizzare una forza sociale, perché è dalla società che viene il male che ci minaccia.
   La  religione può divenire rapidamente inutile  quando si decide che capire  non è più importante e ci si barrica in una serra religiosa, rassegnandosi al male che c’è  fuori e illudendosi, così facendo, di immunizzarsene. Prendere in mano un libro, ad esempio un libro di storia, e provare a rendersi conto  di ciò che sta succedendo, e in particolare dell’origine dei mali sociali e dei risultati dei tentativi che in passato si sono fatti per rimediare,  è molto più impegnativo che rispondere SI’ o NO  a certe offerte commerciali  che talvolta ci vengono da chi oggi comanda in società e ha interesse prevalentemente ad indurci a tracciare un segno sul suo simbolo in una scheda elettorale, proponendoci uno scambio  tra consenso e favori sociali alla categoria. Richiede uno studio,  che per essere efficace deve essere collettivo, per considerare le cose da diversi punti di vista ed averne quindi una visione più affidabile e innanzi tutto realistica, e la disponibilità a mettersi in gioco  partecipando, innanzi tutto riconoscendo che, di fronte ai mali sociali, siamo sempre in debito di partecipazione verso gli altri. Che abbiamo fatto, ad esempio, per  la parrocchia nell’ultimo anno?

64. Dignità

  L’idea che l’essere umano abbia un particolare valore tra i viventi, per cui gli debba essere riconosciuta una  dignità, è molto importante nella cultura democratica contemporanea e ha origine religiosa secondo la nostra fede. La si esprime anche dicendo che l’essere umano è una  persona.  Su di essa nel secolo scorso, negli anni bui dei totalitarismi fascisti europei, è stata costruita una ideologia politica che è stata sviluppata in modo originale dai cristiano-democratici europei e che, nella Nuova Europa sorta dopo i rivolgimenti politici e costituzionali prodottisi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, è chiaramente avvertibile in alcune nuove costituzioni, quindi nelle leggi fondamentali, di alcuni stati, tra le  quali quella italiana, e in quella dell’Unione Europea. Ai tempi nostri questo personalismo  contrasta nettamente con l’impostazione competitiva, secondo le leggi di mercato, dell’economia capitalista globale alla quale si è consentita mano libera nel mondo, secondo la quale ognuno e ogni cosa hanno un prezzo, non c’è alcun valore a prescindere dal mercato in cui si vende e si compra, e tutti lottano egoisticamente per spuntare i prezzi migliori secondo il proprio interesse, chi vende i prezzi più alti e chi compra i prezzi più bassi e alla fine pesce grosso mangia pesce piccolo. In passato, quando si sviluppò, tra le due Guerre mondiali del secolo scorso, contrastava anche con ogni ideologia di tipo totalitarista, sia politica che religiosa, secondo la quale si pensasse che una qualche autorità fosse autorizzata a fare dell’essere umano ciò che voleva assegnandogli valore. Per questo motivo essa  inizialmente fu vista con sospetto nella nostra confessione religiosa, organizzata come una specie di impero religioso assoluto, e ancora oggi ciclicamente si levano al suo interno voci contrarie nei nostri ambienti religiosi. Proprio recentemente si è sviluppata una polemica del genere sul quotidiano Avvenire.
   Il movimento democratico moderno partì dall’idea che gli esseri umani fossero creati  uguali: essa fu espressa nella Dichiarazione di indipendenza  dei rivoluzionari nord americani, nel 1776, dalla quale nacquero gli Stati Uniti d’America, che si apre con questa frase:
Riteniamo verità evidenti che tutti gli esseri umani sono stati creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi inalienabili Diritti, e tra questi quello alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità”.
  Tutta la storia successiva di quel movimento è consistita  in uno sviluppo  di quell’idea e, in particolare, in una lunga serie di lotte sociali  con tutte le strutture ideologiche e politiche che vi si opponevano. Dal punto di vista degli esseri umani che volevano conquistare la dignità di  persone, questo processo sociale appare come una liberazione, connotato quindi da principi di libertà.  Quest’ultima è stata una difficile conquista nella nostra confessione religiosa.
  L’altro giorno su una rivista che ricevo ho trovato notizia di un saggio di prossima pubblicazione del prof. Alberto Monticone, storico esponente del laicato di fede italiano, dal titolo Essere laici. Quale spiritualità laicale?. Secondo Monticone questo spiritualità è  una devozione-programma  che si affida alla libertà interiore, alla  libertà spirituale, alla libertà di coscienza e di intelligenza delle persone.
  C’è chi prega  “Fa di me ciò che vuoi, sono tua proprietà”: io mai e poi mai lo farò. Non è vero che siamo stati chiamati amici, non servi o peggio schiavi? E che seguiamo una verità che  ci farà liberi? Sono cose che vanno prese sul serio.
   L’idea che ogni essere umano sia  persona  e che abbia una propria dignità  inviolabile  è un principio rivoluzionario, nel vero senso della parola, capace di cambiare il mondo. Viene messa alla prova ogni giorno, nella nostra vita quotidiana: non sempre si è all’altezza dei grandi principi proclamati. Arriva gente dall’Africa sui barconi: che ne facciamo? “Rimandiamoli a casa loro”, dicono alcuni.   Se però riconosciamo ai nuovi arrivati la dignità di persona, questa  è anche casa loro. Quella dignità dissolve infatti la condizione di straniero. Possiamo rimandarli a casa loro, una casa  che in realtà non hanno più altrimenti non sarebbero mai partiti, solo non riconoscendo loro la dignità di persona. Ma lo stesso problema si ripropone ogni volta che, profittando di condizioni sociali che ci sono favorevoli, facciamo degli altri ciò che vogliamo, ad esempio ci serviamo del loro lavoro pagandolo secondo certe condizioni di mercato loro avverse, vale a dire troppo poco. “Il lavoratore ha diritto  ad una retribuzione proporzionata  alla quantità e qualità del  suo lavoro e in ogni caso sufficiente  ad assicurare a sé e alla famiglia  una esistenza libera e dignitosa è scritto nell’art.36 della nostra Costituzione. E’ chiaro che l’economia italiana  non funziona secondo questo principio: chi crede ancora nella nostra Costituzione lotterà per cambiare l’economia, chi non vi crede brigherà per cambiare la Costituzione. Dico brigherà perché cose come quelle vanno fatte senza troppo clamore, sotto traccia, sotto-sotto, pezzetto per pezzetto, perché contrastano con gli interessi dei più: li si deve far trovare davanti al fatto compiuto e far loro capire che la resistenza è inutile e impossibile, che ogni procedura democratica può essere aggirata, perché il mercato è il mercato ed esso è l’unico vero dio e le sue leggi sono le uniche veramente inviolabili, non possono essere sottoposte a referendum popolare e anche se si sono raccolte le firme necessarie per indirlo bisognerà sempre ricominciare da capo, e comunque sarà sempre tutto inutile. Le lotte sociali democratiche esigono invece di essere fatte apertamente e con cognizione di causa, dopo avere capito bene le questioni che si pongono, perché devono coinvolgere quei più, le masse. Pagare con giustizia il lavoro è anche un principio religioso: violarlo rientra nei peccati più gravi, quelli di cui si insegna che  gridano. Il grido degli oppressi sale al Cielo e viene ascoltato, è scritto. Ma, come è stato detto durante la nostra Resistenza storica, dal gruppo di Barbareschi e Olivelli,  non ci sono liberatori, ma persone che si liberano.
   Fede e politica a volte sono viste come cose distinte. Ma è attraverso la politica che si trasforma la società e questo ha anche un valore religioso, perché è nella società che ci vive e manifesta la dignità di persone che la fede invoca. Occorre quindi anche costruire una specifica spiritualità, come sostiene il prof. Monticone. E’ cosa di cui si dovrebbero occupare i laici in una parrocchia, con l’aiuto dei preti. Innanzi tutto cercando di  capire: non è scontato che si abbia una visione realistica della società  e dei suoi moti sociali. E poi cercando di cambiare, a partire dalle realtà di prossimità. Quando ci si tiene sui massimi sistemi le cose, paradossalmente, si fanno più  facili. Se si volesse, ad esempio rivoluzionare  l’urbanistica della nostra via Val Padana, per renderla conforme alla dignità di persona di chi abita nel quartiere, le cose si farebbero più difficili. Perché l’ovale davanti dello slargo avanti alla chiesa parrocchiale deve essere sequestrato dalle autovettura private, usandolo come parcheggio?  Non potrebbe farsene una piazza costruendo una continuità urbanistica con il vicino giardino al centro del viale? Però una ventina di persone dovrebbero parcheggiare un po’ più lontano da casa. Provate  a proporre una cosa simile e le avrete accanitamente contro. Non c’è nessuna conquista sociale senza una lotta. Questo  è vero, ad esempio, per i principi di civiltà proclamati nell’enciclica Laudato si’. Ma se anche quelli che parcheggiano nell’ovale si convincessero che loro stessi e le loro famiglie vivrebbero meglio? Convincere  è una parte importante di ogni programma realmente democratico. Si contrappone al fascinare, al modo dell’industria commerciale, che è invece la strategia generalmente seguita da chi comanda oggi in politica, e consiste nel procedere per comunicati commerciali  che cercano di far leva sulla pancia  della gente, invece che sulla testa. Come quando si sostiene, spregiando i principi di quell’enciclica, “la mia nazione prima di tutto” e i più vengono indotti a credere che da questo ne avranno un vantaggio perché saranno abbandonati solo gli altri, salvo poi a dovere prendere atto che loro stessi e i loro figli  stanno facendo la stessa fine. Accade nell’Italia di oggi. Abbiamo occhi preoccupati solo per chi arriva sui barconi e non per i nostri figli che, anche loro, stanno partendo verso settentrione, e c’è chi non li sopporta più e vorrebbe rimandarli a casa loro.

65.Non siamo formiche

  Da ragazzo mi piaceva osservare le formiche. Costruiscono delle società complesse. Hanno precisi ruoli sociali a cui corrispondono caratteristiche fisiche e fisiologiche. La maggior parte sono operaie  e fanno la spola tra l’ambiente e il formicaio portando qualcosa. Ci sono quelle che fanno la guardia al formicaio e hanno testa e tenaglie più grosse. Dentro il formicaio ce n’è una che produce le uova. I maschi durano pochissimo, giusto il tempo per fare quello che devono. Le femmine vanno a rinchiudersi nel fondo di un formicaio e trascorrono tutta la vita producendo uova, assistite dalle altre formiche. Femmine e maschi nascono con le ali. Quando una femmina inizia a fare uova e diventa regina  nel formicaio se le strappa, non le servono più. La maggior parte delle formiche non sono né maschi né femmine: non serve loro esserlo per fare ciò che devono. Dicono che le formiche usino poco gli occhi: è la chimica che le guida nel mondo circostante. Le formiche sono sempre in attività, dentro e fuori il formicaio, non oziano mai. Tengono nei formicai degli altri insetti, gli afidi, dai quali ricavano una sostanza nutriente, e questo richiama un po’ le nostre abitudini di allevatori. Le formiche nascono e muoiono e sono sempre in giro a fare qualcosa. A volte ci danno fastidio e le combattiamo. Dentro casa ci riesce di averne ragione, fuori è molto più difficile, come ben sa chi ci ha provato. La strategia è quella di trovare e bloccare tutte le uscite di un formicaio. All’aperto è lavoro quasi impossibile. Poi, in una certa stagione, nascono le regine, volano via e fondano nuovi formicai.
  Ad un certo punto, dopo aver guardato per un po’ le formiche, mi chiedevo: ma a che serve tutto questo?  Il mondo animale è organizzato un po’ tutto come il formicaio. Gli animali superiori conoscono il gioco e l’ozio. I carnivori sono quelli che sembrano avere più tempo libero. Mangiano cose, gli altri animali, che nutrono velocemente. Da un certo punto di vista sembra che tutto sia organizzato in modo che tutti mangino tutti. C’è questa catena alimentare che fa risparmiare energia. Tutti cercano di non farsi mangiare, con diverse strategie, o che, comunque, di loro ne sopravviva sempre a sufficienza perché la specie continui. Questo continuo cercarsi per mangiarsi rende la natura piuttosto violenta, su piccola e su grande scala. Anche le formiche lo sono. Alcune specie fanno schiavi. Tutte attaccano e smembrano altri insetti. La visione idilliaca che abbiamo della natura è un po’ irrealistica. E quando guardo i gigli del campo  e gli uccelli del cielo,  secondo l’esortazione evangelica, non sono mica poi tanto tranquillizzato, appunto per tutta questa violenza che vedo nella natura e che coinvolge anche loro. Le società umane sono organizzate in modo da porvi in qualche modo rimedio e questo le distingue nettamente da tutte le altre società dei viventi. Questo però ha un costo in termini ambientali. Le nostre società sono molto meno violente, ma consumano molta più energia e, soprattutto, molto più ambiente. Dove vivono di solito gli altri primati, vale a dire i viventi che dal punto di vista biologico ci sono più simili?  Non hanno tutte le nostre pretese.  Ma le nostre non sono solo velleità. Sperimentiamo la  gioia del vivere che negli altri viventi, tutti impegnati a mangiarsi tra loro e a non farsi mangiare, non è particolarmente evidente. Chi ci indica la strada del ritorno verso la natura ci vuole ricacciare in quello che, da un punto di vista umano, è un inferno in terra.
Questo sforzo di ridurre la violenza della vita sociale è una invenzione specificamente umana. In natura nessun vivente ci ha mai pensato e ci pensa. Ci si mangia a vicenda senza tanti problemi, senza remore morali: la morale della natura è appunto quella di mangiarsi gli uni gli altri. I carnivori diventano vegetariani solo per estrema necessità, se non c’è nient’altro di meglio da mangiare, e i vegetariani rimangono sempre tali, per ciò che so. Del resto di vegetali c’è n’è tanti in giro. Ognuno rimane ciò che è e non si preoccupa della sofferenza degli altri che ammazza. Gli umani vorrebbero essere diversi.
  Tutta la nostra ingegneria sociale è volta a questo: a ridurre la violenza tra gli umani. E le guerre? Ci sono sempre, ma si cerca di regolarle, di contenerle. C’è anche un diritto di guerra. Anche i guerrieri più accaniti della storia dell’umanità, i mongoli, ad un certo punto crearono una società globalizzata,  veramente molto estesa, pacificata. Nel Duecento ci capitò dentro Marco Polo e ne rimase meravigliato.
  C’è però un settore della nostra organizzazione sociale che si vuole regolato dalla legge della giungla, quella per la quale  tutti mangiano tutti e cercano di non farsi mangiare: è l’economia. Dicono che questo ordine sia razionale, fa risparmiare energia. Ma dà gioia? Non la dà. Ci spinge a farci come le formiche. Provate a vedere la cosa sotto questo punto di vista: non è che in tante cose, nelle nostre vite, ci siamo fatti formiche? E non parlo delle virtù proposte dall’apologo della  formica e della cicala. Dico proprio formiche, con quella vita che ho descritto sopra. Tutti incastrati in un’organizzazione sociale, nei propri ruoli strumentali alla produzione, in cui la vista, che ci dà tanta gioia, conta poco e molto di più la chimica.
  La gioia  è fondamentale nella vita religiosa. La religione attira ancora perché dà gioia, e la gioia dà senso alla vita. Questa importanza che dà alla gioia della vita la pone in rotta di collisione con l’economia basata sulla legge della giungla. Era scuro in volto il nostro Francesco quando ha incontrato il potente signore d’oltre oceano che gli ha detto che guiderà il suo popolo secondo la legge della giungla. Dicono che quest’ultimo non sia un appassionato lettore di libri. Francesco gliene ha regalati alcuni. Parlano della necessità di non seguire la legge delle giungla nelle faccende umane, se non si vuole la catastrofe ambientale e sociale. L’americano  ha detto “li leggeremo”, ma non credo che sia un plurale di maestà, come quelli che una volta usavano i sovrani. Ha poco tempo uno come lui, dominatore del mondo. Beh, spero che chi li leggerà gliene faccia un sunto affidabile che poi lo invogli alla lettura personale. 
 Sotto certi aspetti una parrocchia potrebbe essere vista come un formicaio: tante persone operose che vanno e vengono in un posto con tante stanze, e ciascuna ha il suo da fare. Ma non è governata secondo la crudele legge della natura. Risuonano canti e campane e non è come accade agli uccelli, che cantano per sfidarsi e marcare il loro spazio, anche se a noi sembrano tanto carini: è la gioia della vita che si vorrebbe evocare e suscitare. Un prete che fu tra noi diversi anni fa, osservava sconsolato che la gente usciva dalla Messa ingrugnata, scura in volto. Voleva migliorare la situazione, ma, come ho detto, alla fine vidi anche lui scuro in volto è se ne andò. Tutto il lavoro religioso, a ben pensarci, è volto a diffondere quella che il nostro Francesco ha chiamato la gioia del Vangelo, scrivendoci sopra anche un’esortazione, che non sarebbe male tenere a mente.

66. Magistero costituzionale


  Qualche giorno fa a Genova e sabato scorso a Roma, in visita al Presidente della Repubblica, papa Francesco ha sviluppato un magistero costituzionale, ricordandoci alcuni dei valori più importanti della nostra Costituzione, in particolare quello del lavoro come fondamento della dignità sociale e della laicità delle istituzioni pubbliche, e l’importanza di collaborare alla costruzione della democrazia politica rafforzando i legami tra la gente e le istituzioni, perché da questa tenace tessitura e da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia. Riporto di seguito il testo dell’intervento del Papa. Lo storico Alberto Melloni ha segnalato la grande rilevanza di quel magistero per la vita pubblica italiana e ha ricordaro  come in altre occasioni critiche per l’Italia vi siano stati interventi simili. Aggiungo che, a mia memoria, mai i papi hanno sviluppato un magistero centrato sui valori democratici repubblicani. E, quanto alla laicità, si sono sempre mostrati piuttosto diffidenti e sospettosi, in quanto essa è un limite interno anche al loro potere religioso, non solo a quello che esercitano di fatto nella società civile: mai hanno parlato, a mia memoria, di laicità addirittura amichevole. Di solito subivano la laicità, cercando di delimitarla puntigliosamente, specialmente all’interno dell’organizzazione religiosa e si capiva bene che avrebbero preferito gente più docile, mentre secondo il principio di laicità ci si propone di non esserlo.
VISITA UFFICIALE DEL SANTO PADRE AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
 SERGIO MATTARELLA
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Palazzo del Quirinale
Sabato, 10 giugno 2017
[da http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170610_visita-quirinale.html]

Signor Presidente,
La ringrazio per le cordiali espressioni di benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome dell’intero popolo italiano. Questa mia visita si inserisce nel quadro delle relazioni tra la Santa Sede e l’Italia e vuole ricambiare quella da Lei compiuta in Vaticano il 18 aprile 2015, poco tempo dopo la Sua elezione alla più alta carica dello Stato.
Guardo all’Italia con speranza. Una speranza che è radicata nella memoria grata verso i padri e i nonni, che sono anche i miei, perché le mie radici sono in questo Paese. Memoria grata verso le generazioni che ci hanno preceduto e che, con l’aiuto di Dio, hanno portato avanti i valori fondamentali: la dignità della persona, la famiglia, il lavoro… E questi valori li hanno posti anche al centro della Costituzione repubblicana, che ha offerto e offre uno stabile quadro di riferimento per la vita democratica del popolo. Una speranza, dunque, fondata sulla memoria, una memoria grata.
Viviamo tuttavia un tempo nel quale l’Italia e l’insieme dell’Europa sono chiamate a confrontarsi con problemi e rischi di varia natura, quali il terrorismo internazionale, che trova alimento nel fondamentalismo; il fenomeno migratorio, accresciuto dalle guerre e dai gravi e persistenti squilibri sociali ed economici di molte aree del mondo; e la difficoltà delle giovani generazioni di accedere a un lavoro stabile e dignitoso, ciò che contribuisce ad aumentare la sfiducia nel futuro e non favorisce la nascita di nuove famiglie e di figli.
Mi rallegra però rilevare che l’Italia, mediante l’operosa generosità dei suoi cittadini e l’impegno delle sue istituzioni e facendo appello alle sue abbondanti risorse spirituali, si adopera per trasformare queste sfide in occasioni di crescita e in nuove opportunità.
Ne sono prova, tra l’altro, l’accoglienza ai numerosi profughi che sbarcano sulle sue coste, l’opera di primo soccorso garantita dalle sue navi nel Mediterraneo e l’impegno di schiere di volontari, tra i quali si distinguono associazioni ed enti ecclesiali e la capillare rete delle parrocchie. Ne è prova anche l’oneroso impegno dell’Italia in ambito internazionale a favore della pace, del mantenimento della sicurezza e della cooperazione tra gli Stati.
Vorrei anche ricordare la fortezza animata dalla fede con la quale le popolazioni del Centro Italia colpite dal terremoto hanno vissuto quella drammatica esperienza, con tanti esempi di proficua collaborazione tra la comunità ecclesiale e quella civile.
Il modo col quale lo Stato e il popolo italiano stanno affrontando la crisi migratoria, insieme allo sforzo compiuto per assistere doverosamente le popolazioni colpite dal sisma, sono espressione di sentimenti e di atteggiamenti che trovano la loro fonte più genuina nella fede cristiana, che ha plasmato il carattere degli italiani e che nei momenti drammatici risplende maggiormente.
Per quanto riguarda il vasto e complesso fenomeno migratorio, è chiaro che poche Nazioni non possono farsene carico interamente, assicurando un’ordinata integrazione dei nuovi arrivati nel proprio tessuto sociale. Per tale ragione, è indispensabile e urgente che si sviluppi un’ampia e incisiva cooperazione internazionale.
Tra le questioni che oggi maggiormente interpellano chi ha a cuore il bene comune, e in modo particolare i pubblici poteri, gli imprenditori e i sindacati dei lavoratori, vi è quella del lavoro. Ho avuto modo di toccarla non teoricamente, ma a diretto contatto con la gente, lavoratori e disoccupati, nelle mie visite in Italia, anche in quella recentissima a Genova. Ribadisco l’appello a generare e accompagnare processi che diano luogo a nuove opportunità di lavoro dignitoso. Il disagio giovanile, le sacche di povertà, la difficoltà che i giovani incontrano nel formare una famiglia e nel mettere al mondo figli trovano un denominatore comune nell’insufficienza dell’offerta di lavoro, a volte talmente precario o poco retribuito da non consentire una seria progettualità.
È necessaria un’alleanza di sinergie e di iniziative perché le risorse finanziarie siano poste al servizio di questo obiettivo di grande respiro e valore sociale e non siano invece distolte e disperse in investimenti prevalentemente speculativi, che denotano la mancanza di un disegno di lungo periodo, l’insufficiente considerazione del vero ruolo di chi fa impresa e, in ultima analisi, debolezza e istinto di fuga davanti alle sfide del nostro tempo.
Il lavoro stabile, insieme a una politica fattivamente impegnata in favore della famiglia, primo e principale luogo in cui si forma la persona-in-relazione, sono le condizioni dell’autentico sviluppo sostenibile e di una crescita armoniosa della società. Sono due pilastri che danno sostegno alla casa comune e che la irrobustiscono per affrontare il futuro con spirito non rassegnato e timoroso, ma creativo e fiducioso. Le nuove generazioni hanno il diritto di poter camminare verso mete importanti e alla portata del loro destino, in modo che, spinti da nobili ideali, trovino la forza e il coraggio di compiere a loro volta i sacrifici necessari per giungere al traguardo, per costruire un avvenire degno dell’uomo, nelle relazioni, nel lavoro, nella famiglia e nella società.
A tale scopo, da tutti coloro che hanno responsabilità in campo politico e amministrativo ci si attende un paziente e umile lavoro per il bene comune, che cerchi di rafforzare i legami tra la gente e le istituzioni, perché da questa tenace tessitura e da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia e si avviano a soluzione questioni che, a causa della loro complessità, nessuno può pretendere di risolvere da solo.
La Chiesa in Italia è una realtà vitale, fortemente unita all’anima del Paese, al sentire della sua popolazione. Ne vive le gioie e i dolori, e cerca, secondo le sue possibilità, di alleviarne le sofferenze, di rafforzare il legame sociale, di aiutare tutti a costruire il bene comune. Anche in questo, la Chiesa si ispira all’insegnamento della Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, che auspica la collaborazione tra comunità ecclesiale e comunità politica in quanto sono, entrambe, a servizio delle stesse persone umane. Un insegnamento che è stato consacrato, nella revisione del Concordato del 1984, nell’articolo primo dell’Accordo, dove è formulato l’impegno di Stato e Chiesa «alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese».
Questo impegno, col richiamo al principio della distinzione fissato nell’art. 7 della Costituzione, esprime e ha promosso al tempo stesso una peculiare forma di laicità, non ostile e conflittuale, ma amichevole e collaborativa, seppure nella rigorosa distinzione delle competenze proprie delle istituzioni politiche da un lato e di quelle religiose dall’altro. Una laicità che il mio predecessore Benedetto XVI definì “positiva”. E non si può fare a meno di osservare come, grazie ad essa, sia eccellente lo stato dei rapporti nella collaborazione tra Chiesa e Stato in Italia, con vantaggio per i singoli e l’intera comunità nazionale.
L’Italia ha poi il singolare onere ed onore di avere, nel proprio ambito, la sede del governo universale della Chiesa Cattolica. È evidente che, nonostante le garanzie offerte con il Trattato del 1929, la missione del Successore di Pietro non sarebbe facilitata senza la cordiale e generosa disponibilità e collaborazione dello Stato italiano. Se ne è potuta avere una ulteriore dimostrazione nel corso del recente Giubileo straordinario, che ha visto tanti fedeli venire a Roma, presso le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, nello spirito della riconciliazione e della misericordia. Nonostante l’insicurezza dei tempi che stiamo vivendo, le celebrazioni giubilari hanno potuto svolgersi in maniera tranquilla e con grande vantaggio spirituale. Del grande impegno assicurato dall’Italia al riguardo la Santa Sede è pienamente consapevole e sentitamente grata.
Signor Presidente,
sono certo che, se l’Italia saprà avvalersi di tutte le sue risorse spirituali e materiali in spirito di collaborazione tra le sue diverse componenti civili, troverà la via giusta per un ordinato sviluppo e per governare nel modo più appropriato i fenomeni e le problematiche che le stanno di fronte.
La Santa Sede, la Chiesa Cattolica e le sue istituzioni assicurano, nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità, la loro fattiva collaborazione in vista del bene comune. Nella Chiesa Cattolica e nei principi del Cristianesimo, di cui è plasmata la sua ricca e millenaria storia, l’Italia troverà sempre il migliore alleato per la crescita della società, per la sua concordia e per il suo vero progresso.
Che Dio benedica e protegga l’Italia!


Parole a braccio del Papa rivolte ai bambini nei Giardini del Quirinale
Cari ragazzi e ragazze, grazie tante di essere qui. Grazie tante per il vostro canto e anche per il vostro coraggio. Andate avanti con coraggio, sempre su, sempre su! E’ un’arte salire sempre. E’ vero che nella vita ci sono difficoltà - voi avete sofferto tanto con questo terremoto - ci sono cadute, ma mi viene in mente quella bella canzone che cantano gli alpini: “Nell’arte di salire il successo non sta nel non cadere ma nel non rimanere caduto”. Sempre su, sempre quella parola “alzati”, e su! Che il Signore vi benedica!

67. Religione e democrazia da poco sono tra loro contemporanee

  Religione e democrazia possono essere viste come forme di organizzazioni sociali fondate su determinati valori. L’attrito tra di esse è determinato dal fatto che solo di recente sono divenute contemporanee, da poco più di due secoli. Prima è nata la religione e poi la democrazia come noi la intendiamo. Per di più quest’ultima ha subito rapidi cambiamenti, cercando includere sempre più persone. Anticamente era basata sull’idea di cittadinanza, vale a dire sulla particolare dignità riconosciuta a certe persone nel contesto civile e ciò significava escludere  chi cittadino non veniva riconosciuto, vale a dire gli stranieri, gli schiavi, e, in genere, le donne. L’idea di democrazia contemporanea propone una democrazia universale, che include tutti. In questa universalità si è avvicinata ad alcune concezioni religiose.
  In religione si pensa spesso che l’antichità sia una conferma di autenticità, valore ed efficacia. Questo è paradossale, perché sappiamo che il progresso è andato in genere dal passato al futuro, non all’indietro. Così appunto la pensano i democratici, che hanno alle spalle sistemi politici non democratici dai quali la democrazia è emersa combattendo.
  Le religioni appaiono in genere strutturate per sistemi politici del passato. E’ il caso della nostra confessione religiosa, organizzata come un impero feudale. Le democrazie vorrebbero religioni più adatte ai loro ideali. E’ cosa che si tentò di fare durante i processi democratici che si produssero nella Francia di fine Settecento, ma non funzionò. Attraverso le religioni ci colleghiamo agli avi e vorremmo che i nostri posteri pensassero a noi come noi pensiamo a chi ci ha preceduto. E’ esperienza comune aver appreso gran parte di ciò che si sa e che è utile in società dai genitori, ma è anche l’identità sociale che è legata a loro. Parliamo di patria  e richiamiamo l’idea di un padre. L’archetipo, il modello più antico, di società civile è la tribù, piuttosto vicina alle esperienze sociali che osserviamo in altri primati, i viventi che dal punto di vista biologico ci somigliano di più. Nelle società tribali sono sorte le più antiche religioni.  L’idea che le potenze soprannaturali alle quali si rivolgono le religioni fossero compassionevoli verso l’umanità è uno sviluppo tutto sommato piuttosto recente. Le religioni più antiche si affannavano a accattivarsi il favore di potenze capricciose e crudeli. Nelle religioni compassionevoli troviamo l’origine delle idee di base delle democrazie. Ecco il collegamento ancora vitale.
  Accordare religioni compassionevoli e democrazia ha creato problemi per la politica che c’era in mezzo. Infatti la politica si era sacralizzata  secondo quelle religioni, vale a dire che proponeva il proprio potere come assoluto, quindi insindacabile, come le potenze soprannaturali alle quali le religioni si rivolgevano. E la politica sacralizzata non era democratica: dominavano dinastie di sovrani. In democrazia si vorrebbe che  tutti  divenissero sovrani. E’ questo quello che si propone proclamando che  la democrazia appartiene al popolo.
  Agli inizi del Novecento l’idea che democrazia e religione potessero andare d’accordo fu considerata eretica in Italia. Ma non era considerata tale, ad esempio, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America. Non c’è una incompatibilità assoluta, ma tutto dipende da che politica tenta la mediazione.
  Sabato scorso, visitando il Quirinale, il Papa ha parlato di collaborazione e amicizia tra religione e repubblica democratica. Occorre costruire relazioni virtuose, ha detto. Quella è la via che va seguita anche in realtà sociali come le parrcchie, sperimentando una democrazia che abbia nella religione una risorsa, non un problema.

68. Dialogo come metodo e mentalità

 E’ da un bel po’ che non partecipo ad assemblee di istituzioni di partecipazione della Diocesi, quelle in cui i laici dovrebbero dare una mano come consulenti. Devo dire che quelle esperienze non furono esaltanti. Ci si convergeva da estranei e si stringevano alleanze per le nomine. Non c’era molto altro. Mi parevano dominate dai gruppi. Del resto le parrocchie tendono a diventare piccoli mondi isolati e nel lavoro collettivo gli isolati contano poco o nulla.
  Ci sono istituzioni da cui partono direttive d’azione e i gruppi maggiori vogliono avervi voce, mandare gente propria. Per farlo bisogna accordarsi con gli altri, se non si ha la forza sufficiente. Il tempo quindi viene impiegato in queste trattative. Lo si fa in cenacoli riservati, mentre sul palco parla qualche esperto. Ai tempi nostri di solito gli esperti spiegano come vanno le cose, e ognuno più o meno lo sa già, ma non danno soluzioni. Sembra che la cultura non se ne senta più responsabile, lo osservò Zygmunt Bauman, ma anche lui fu piuttosto sintetico nelle proposte operative, anche se ne fece.
 Il problema è che, quando ci si incontra per quelle faccende, si è e si rimane estranei, perché il tempo è poco e, per di più, non si è veramente interessati agli altri. In religione, da noi, si preferisce passare il tempo tra gli amici propri. Non conoscendosi, riesce difficile sviluppare il dialogo, che è un modo di mettere in relazione i punti di vista e le storie  delle persone. Presuppone una mentalità, quella di essere interessati agli altri. Spesso si è impegnati, invece, a fare proselitismo, che significa aggregare gli altri al proprio gruppo, assimilandoli. Nel dialogo gli altri rimangono tali, ma è possibile farsene degli amici. Il lavoro collettivo è più produttivo se collaborano amici, se si collabora da amici. Allora non prevale la logica dello scambio, per cui si è disposti  a dare esattamente quanto si riceve o si prevede di ricevere.
   Si potrebbe pensare che, in religione, con tutto il parlare di amore che si fa, sia più facile intendersi, ma non è così. In religione, in genere, ci si odia ferocemente. Del resto la lunga storia della nostra fede ce lo conferma. La pace  è diventata un valore realistico,  da perseguire anche nella vita reale, molto di recente nelle nostre concezioni religiose. A che cosa è dovuto tutto questo odio? In parte viene naturale, è il nostro istinto di antiche belve che si fa sentire. In questo ci manifestiamo simili agli altri viventi, come lo siamo nella biologia e nella fisiologia. In parte è dovuto proprio alla religione, quando si pensa di avere un filo diretto con il Cielo e si sacralizzano  le proprie concezioni, vale a dire che non si accetta che vengano poste in discussione. L’idea che, in società, vi siano valori  non negoziabili è espressione di questo modo di pensare. Se non si negozia si va allo scontro frontale. In una mentalità di dialogo non vi sono valori non negoziabili, perché è ammessa la discussione su tutto. Ma il dialogo è possibile quando ci si accorda su questo principio: che tutti siano uguali in dignità. L’altro va rispettato in questa dignità che ci si riconosce reciprocamente. Questo poi comporta dei limiti sia nella dialettica, sia nelle relazioni concrete, in ciò che si fa agli altri. Nel pensiero di Ghandi [Mohandas Karamchand Gandhi, mahatma,  grande anima,  capo spirituale e politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948], i primi rientrano nell’idea di nonmenzogna, gli altri nella  nonviolenza.
  In religione ci si propone, in linea di principio, una grande apertura verso gli altri. Vorremmo fare dell’intera umanità un’unica famiglia. Bello. Poi però qualche volta si parte male, pensando di inaugurare una sorta di casting, di selezione per scegliere chi può partecipare ai nostri eventi religiosi. E’ questo che succede quando si sbotta che non si vuole “abbassare l’asticella” (l’ho sentito dire da un esponente in un nostro gruppo) o “fare un compromesso al ribasso” (l’ho sentito dire da un’esponente di un gruppo che a quell’altro si oppone). Poiché queste espressioni, simili nel  contenuto, sono venute da gente di opposti schieramenti ecclesiastici, credo che si tratti di una mentalità piuttosto diffusa. Chi l’ha detto che la religione deve essere, per la gente comune, una gara di salto in alto? E che cos’è poi questo snobistico disprezzo per gli altri, come se ci fosse un basso in cui far rimanere confinati quelli che non saltano abbastanza in alto? Uno come Ignazio di Loyola [vissuto nel Cinquecento; è il fondatore dei Gesuiti] consigliava invece di abbassarsi il più possibile e di far mostra di ritenere gli altri sempre migliori di sé stessi, tacendo di ciò di cui di loro non si poteva parlar bene. Il nostro padre Francesco ci dà ogni giorno degli esempi di questo modo di fare con gli altri. Non sarebbe male prendere lezione da lui, che, in definitiva, è quello che è. Invece vedo che alcuni storcono il naso e, a mezza voce, dicono di rimpiangere quelli di prima. Ma non è che questi ultimi poi la pensassero diversamente. Perché: gli umili saranno innalzati. È scritto. E’  umile chi vuole alzare l’asticella  e rifiutare di trattare con gli altri  se sono troppo in basso?
  Tutti questi problemi che ho descritto fatalmente si ripropongono anche in realtà di prossimità come i consigli pastorali parrocchiali. E questo anche se ci si dovrebbe conoscere molto meglio, perché si hanno più occasioni per frequentarsi. Ma questo non accade anche nei condomini? Eppure sappiamo che le assemblee di condominio non sono, di solito, esattamente un modello di dialogo e di rispetto della dignità degli altri. La prossimità aiuta, ma occorre un cambio di mentalità.
  C’è una difficoltà a sviluppare un dialogo costruttivo e deriva in particolare dai confusi concetti teologici che noi laici spesso abbiamo in testa. La teologia è una cosa seria. Raramente però un laico ha la possibilità di una sufficiente formazione teologica, ma, in definitiva, non gli è nemmeno necessaria. Uno come Giuseppe Dossetti la riteneva addirittura controproducente. Viviamo in un mondo plasmato dall’ingegneria (delle costruzioni, meccanica, idraulica, elettronica, telematica, biologica ecc.), ma non abbiamo bisogno di prendere una laurea in ingegneria per viverci. In religione è indispensabile una buona spiritualità, che si acquisisce con la pratica liturgica, la frequenza al magistero e la meditazione personale sulle Scrittura. Dovremmo concentrarci su questa faccenda dell’amore, che è agàpe, il lieto convito a cui tutti devono trovare posto. Questa  è una buona base per una convivenza religiosa.
 Dal pensiero religioso ho sintetizzato alcune regole  che mi porto sempre dietro:
Fuggi il male
Segui con fermezza il bene
Ama gli altri come fratelli
Sii premuroso nello stimare gli altri
Sii impegnato e non pigro
Allegro nella speranza
Paziente nelle tribolazioni
Perseverante nella preghiera
Sii pronto ad aiutare i tuoi fratelli quando hanno bisogno
Fai di tutto per essere ospitale
Chiedi a Dio di benedire quelli che ti perseguitano; di perdonarli non di castigarli;
Sii felice con chi e’ nella gioia, piangi con chi piange;
Vai d’accordo con gli altri
Evita le discussioni sulle parole e le chiacchiere inutili
Non inseguire desideri di grandezza, volgiti piuttosto verso le cose umili
Non ti stimare sapiente da te stesso
Non rendere a nessuno male per male
Preoccupati di fare il bene dinanzi a tutti
Se possibile, per quanto dipende da te, vivi in pace con tutti
Non vendicarti
Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene
Sii paziente e generoso
Non essere invidioso
Non vantarti
Non gonfiarti di orgoglio
Non cercare il tuo interesse
Non cedere alla collera
Dimentica i torti
Non godere dell’ingiustizia
La verità sia la tua gioia
Tutto scusa
Di tutti abbi fiducia
Tutto sopporta
Non perdere mai la speranza.
 Con Google potrete trovare da dove le ho prese: è anche questo un esercizio spirituale.
 Vedete che non ci sono i comandamenti “Non abbassare l’asticella”,“Non fare compromessi al ribasso”.
   Spesso si ha l’idea che sia in atto un conflitto all’ultimo sangue tra ortodossi, quelli della propria parte, ed eretici, quelli dell’altra. Si preferirebbe che questi ultimi sparissero. Abbiamo la scomunica facile, noi laici, e questo anche se  i nostri capi religiosi fanno diversamente. Ora si vorrebbe scomunicare i corrotti, ho letto, ma non si è presa la cosa tanto alla leggera, pubblicando presto presto la bolla, il decreto che la commina: ci si è fatta una commissione sopra, che sta studiando la cosa. Noi, per faccende infinitamente meno importanti, andiamo invece per le spicce. Ma chi siamo noi per scomunicare? No, lo dico sul serio, non come fa il nostro padre Francesco, che, se volesse, potrebbe scomunicare chi crede debba esserlo! Chi siamo noi per alzare le asticelle, far saltare i compromessi, indicare agli altri la porta in uscita e via dicendo?
 In un consiglio pastorale parrocchiale ci si dovrebbe riconoscere amici, volerlo veramente essere, cercare di esserlo, sforzarsi in questo. Ricordiamo ciò che ci ha diviso solo per proporci di non dividerci più. Dobbiamo fare memoria  delle esperienze di divisione per imparare l'unità tra noi. Questa è memoria purificata, secondo l'insegnamento di san Karol Wojtyla.  La nostra miserella teologia da incolti teniamola da parte e piantiamola con l’ecclesialese di cui ci riempiamo la bocca per non dire nulla.
  In parrocchia abbiamo un problema: includere.  Chi? Tutta la gente del quartiere che si riconosce nella nostra fede. Ma perché non pensare addirittura più in grande? Perché non pensare addirittura a chi non si è mai riconosciuto o non si riconosce più nella nostra fede? Questo è il nostro dovere, ce lo dicono chiaramente i nostri maestri. Ma se non riusciamo a includere nemmeno tutti quelli che vivono la nostra fede, come possiamo pensare di andare oltre? Cominciamo a fare pratica di inclusione e di dialogo, il resto verrà, e non sarà nemmeno tutta opera nostra, perché il Cielo, in definitiva, c’è.

69. Interpretare il mondo contemporaneo

  Il mondo in cui viviamo può essere letto e capito, come un libro. I buoni lettori hanno quindi più risorse per viverci dentro perché a questo sono abituati. Ma a leggere si impara, non è  un’abilità innata. Chi insegna a leggere il mondo, oggi? Questo è appunto il nostro problema principale.
  Le religioni sono state storicamente chiavi di lettura dei mondi sociali. Insegnavano alla gente a leggerli e quindi a viverci meglio. Con la modernità, diciamo negli ultimi cinquecento anni, lo hanno fatto sempre peggio. Questa è stata una vera tragedia perché, in questo modo, i mondi sociali sono cominciati a divenire incomprensibili a molti. Le esperienze religiose hanno iniziato a distaccarsi dalla realtà e a rifugiarsi nell'immaginazione. Da esperienze sociali hanno preso a trasformarsi in esperienze psicologiche, interiori. E’ l’idea della religione come medicina dell’anima. Ogni religione, e in particolare quelle maggiori, quelle storiche, molto antiche, ha avuto un suo modo per trasformarsi così. Nella nostra è stata la sua antica organizzazione feudale a spingere verso quel modello: la politica diventava democratica e minacciava la stabilità del potere religioso, così si è assecondata l’interiorizzazione per bloccare quell’evoluzione sociale. Si è puntato sullo star bene piuttosto che sul vivere bene. Una volta che il risultato che ci si attende è prevalentemente interiore si può dar libero sfogo al sogno. Si costruiscono mondi immaginifici al modo in cui lo si fa nei videogiochi. Ci si pensa onnipotenti come le potenze celesti. Il confronto con la realtà non c’è più. Quello della religione diventa un mondo separato in cui si entra sognando. Si possono fare belle esperienze, dicono, ma è quello che succede anche assumendo stupefacenti. La religione così intesa è veramente una droga sociale, assimilabile ad esempio all’LSD, lo stupefacente dei sogni formidabili, che si diffuse tra gli occidentali a partire dagli anni Sessanta. Questa è una religione psichedelica,  vale a dire che induce stati di coscienza alterati e che introduce in un mondo fantastico, in cui si sta bene. Ma questo, come sempre accade con le droghe, non è veramente  vivere. Si vive solo nel mondo vero, reale. Altrimenti si sogna.
  Il mondo così come veramente è non teme la religione psichedelica. Teme invece la nostra religione se si presenta come interpretazione realistica della società, se insegna a leggere il mondo. E’ appunto quello che sta accadendo tra noi, ora. Un’enciclica come la Laudato si’, del 2015, ne è un esempio molto chiaro. Questo tipo di religione non spinge verso mondi psichedelici, ma verso la realtà sociale così com’è, per cambiarla e vivere meglio.
  Un tempo i nostri capi religiosi vollero farsi imperatori e prìncipi al modo di quelli civili. Ora, invece, è all’organizzazione delle Nazioni Unite che si ispirano. Nella nostra organizzazione religiosa c’è tutto il mondo: è per questo che può capirlo realisticamente. Vedete che il nostro padre Francesco ci è venuto dall’altro capo della Terra? Basta entrare in una delle tante università religiose di Roma per incontrarsi con gente di tutto il mondo. Anche i docenti vengono da ogni parte dell’umanità.
  Di fronte ai grandi fenomeni sociali che hanno modificato il nostro vivere sociale molti si trovano impauriti e non capiscono. Perché non posso chiudere le porte della mia nazione come chiudo con le mandate le porte di casa mia, la sera? E, magari, se provassero a immaginare da dove sono venuti i loro avi, scoprirebbero che sono venuti da molto, molto lontano. L’umanità ha sempre girato molto: tutti sono stati spinti dalle circostanze a uscire da casa propria. Noi tutti che abitiamo oggi l’Europa siamo originari dell’Africa, ci dicono gli antropologi confortati dai genetisti. Il sanscrito, l’antica lingua dell’India, ha radici comuni con l’italiano: come è accaduto?
  Si pensa, ad esempio, che più gente arriva da noi, meno lavoro c’è, perché i nuovi arrivati rubano  il lavoro a quelli che c’erano prima. Ma non è così che funziona. Ce lo confermano le scienze sociali. Più gente lavora, più lavoro c’è. E i sistemi sociali più potenti della Terra sono oggi anche i più popolosi. La carenza di lavoro non dipende dalla gente che arriva, ma dallo sfruttamento ingiusto del lavoro. E’ cosa che non potrebbe essere realizzata senza la nostra collaborazione, di noi consumatori. Il lavoro non c’è perché noi consumiamo male. E la stessa cosa che accade con il voto. Com’è, è scritto in un libro che sto leggendo, che la grande maggioranza della popolazione vota secondo gli intessi dell’1% più ricco che detiene quote molto rilevanti della ricchezza sociale, tra il 30 e quasi il 50% di quella totale, a seconda delle nazioni? Consumare meglio aiuterebbe a vivere meglio, perché ci sarebbe più lavoro, ed essendovi più lavoro, più gente lavorerebbe e allora ci sarebbe ancora più lavoro. Queste argomentazioni le potete leggere nell’enciclica Laudato si’.
  Così, venire in parrocchia non significa rifugiarsi  in un mondo di sogno, come quando si entra in un posto come Disneyland. Significa non accontentarsi dei mondi psichedelici  in cui l’economia che sfrutta e ruba lavoro e anche le fedi di tipo psichedelico  vorrebbero rinchiuderci per dominarci meglio. Significa capire che non basta stare meglio, ma che occorre vivere meglio, e che per farlo bisogna imparare a leggere il mondo così com’è, per cambiare quello che non va. Capire>criticare>cambiare: questo è il percorso della liberazione sociale. Alla critica sociale non siamo più tanto abituati in religione. I nostri capi l’hanno temuta, ora però ci spingono verso quell’impegno. Che è una via di laicità perché comporta di desacralizzare  ogni oggetto sociale di conoscenza: non c’è alcun mondo sociale che può invocare l’esenzione alla critica. Perché, come si dice, la società deve sempre essere riformata, che significa cambiata per migliorarla. Questo vale anche per la stessa parrocchia. A volte si concepiscono le organizzazioni sociali come stampelle per le psicologie individuali e allora le si sacralizza, cercando di sottrarle ad ogni critica. Ma la società funziona solo se viene costantemente riformata, altrimenti delude. Non riesce a mantenere le sue promesse e allora, per resistere al cambiamento, spinge verso mondi psichedelici. Le religioni del miracolo  e delle esperienze psichiche aumentate sono un po’ questo. D’altra parte è così facile lasciarsi andare! Ma dove è scritto   che si debba fare così? Non è per esperienze psichedeliche che siamo stati mandati  fino ai più lontani confini.

70. Giustizia sociale come conversione. Papa Francesco: lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”.   Note sul discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017


Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato.
Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.
Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie; non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione.
Lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro.
Convertirsi: cioè fare un passo in meglio.


  Il 28-6-17 il nostro Padre Francesco, incontrando a Roma i sindacalisti della CISL, ha parlato di economia e società, di giustizia sociale, di sindacalismo buono e corrotto, della necessità di un sindacalismo buono per cambiare in meglio la società attraverso lotte sociali, della necessità di lottare anche per chi i diritti civili non li ha ancora, in primo luogo per i giovani senza lavoro, del legame tra lavoro e democrazia e di un capitalismo che induce in peccato, e in uno dei più grossi, perché disconosce la natura sociale dell’economia e dell’impresa.
   Vedremo come i giornali riporteranno le sue parole oggi. Ieri quelli  che pubblicano su internet e quelli televisivi sono stati un po’ superficiali, si sono concentrati sulla sua critica alle pensioni d’oro, che sono quelle troppo alte, che perpetuano una ingiusta diseguaglianza sociale. Ognuno di noi, naturalmente, ha pensato a quelle degli altri e tutti, in definitiva, a quelle dei parlamentari. Ma, tutto sommato, questo tema non era al centro delle argomentazioni di quel discorso.
  Persona e lavoro devono sempre andare insieme, ha sostenuto Francesco all’inizio, nel senso che il lavoro non deve diventare disumano e che ogni persona deve avere un lavoro. Il lavoro è importante perché l’individuo  si faccia  persona. Nel lavoro  si coopera con gli altri, ci si apre alla società. Ma il lavoro non è tutto. Anche il riposo è importante. Ricordiamocelo ora che cominciamo a vedere esercizi commerciali aperti giorno e notte, senza giorni di festa, senza mai interruzioni. Il nostro Padre Francesco ha parlato addirittura disana cultura dell’ozio.  Ma oltre al riposo c’è lo studio: lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi, ha detto Ma non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi, e anche questo è un diritto. Ci sono le pensioni, per quelli che sono malati o troppo vecchi per lavorare. Ma devono essere pensioni  giuste. Altrimenti si perpetuano le diseguaglianze sociali, diventano perenni. E’ a questo punto che ha criticato le pensioni d’oro, che creano scandalo in un tempo in cui c’è tanta gente che la pensione non l’ha o ce l’ha insufficiente. Le pensioni troppo alte, come quelle troppo povere, sono un’offesa al lavoro,  proprio perché perpetuano le diseguaglianze del lavoro. Il lavoro, quindi, nella concezione del nostro Padre Francesco, dovrebbe avere la funzione anche di ridurre le diseguaglianze sociali, in particolare elevando quelli che stanno peggio. E ha anche ricordato che, a volte, per i malati, che tendono ad essere scartati dal mondo del lavoro, lavorare è parte della terapia: si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.
  Non è ragionevole, sostiene il nostro Padre Francesco, che in una società gli anziani siano costretti a lavorare troppo a lungo, mentre i giovani rimangono disoccupati. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità, ha detto. Il lavoro dei giovani non fa bene solo ai giovani stessi, ma a tutta la società. Occorrerebbe, quindi, ha proposto, un nuovo patto sociale che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare.
  Il lavoro rientra nei fatti economici e in quelli dell’impresa. E’ il mercato che deve dominare tutto? No!, sostiene il nostro Padre Francesco. Economia di mercato, no! Economia sociale  di mercato, invece. Il capitalismo del nostro tempo  ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa,  è per questo che disprezza il sindacato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti.  E’ per questo che occorre un lotta per affermarla: questo è il compito del sindacato. La sua azione, se fa bene il suo lavoro, migliora la società. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari. Non si tratta di scontri tra interessi privati, dei datori di lavoro e dei lavoratori, ma di una questione di  giustizia sociale. Lo si capisce pensano da dove viene la parola sindacato. Dice Francesco: Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”: in questo svolge una funzione profetica. Dice Francesco: “[il sindacato] deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia”. In definitiva occorre lottare. Se la società non apprezza il sindacato, forse è perché non lo vede lottare abbastanza, in particolare nei luoghi dei “diritti del non ancora”, nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro; non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Nelle nostre società capitalistiche avanzate, ammonisce Francesco,  il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia.
  Dimenticare o negare la natura sociale dell’economia e del lavoro è un peccato, e uno dei più grossi, sostiene il nostro Padre Francesco. Allora, non è solo questione di lottare, ma anche di convertirsi. Significa fare un passo in meglio.
Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi: è sbagliato pensare solo al proprio interesse privato, non è il mercato che deve decidere tutto, lì dove i più grossi e potenti prevalgono sui più deboli. E’ attraverso le lotte sindacali che la situazione viene riequilibrata, perché insieme si ha più forza. Se l'economia, con la legge del più forte, minaccia la dignità del lavoro, con la forza del numero e della solidarietà occorre cambiare l'economia. Ma occorre lottare anche per chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.
  I primi commentatori hanno notato che l’apprezzamento di Francesco per il lavoro del sindacato va controcorrente. I sindacati si sono fatti più deboli, hanno meno presa sui lavoratori, anche perché il lavoro si è fatto più precario, meno garantito, addirittura svalutato, e chi ce l’ha teme di perderlo, di essere preso di mira in quanto lavoratore sindacalizzato. Ma è proprio l’eclisse del sindacato uno dei fattori che ha svalutato  il lavoro.
 Le idee esposte dal nostro Padre Francesco ieri sono dagli anni ’70 parte del magistero sociale, della dottrina sociale della Chiesa. Le ritroviamo, ad esempio, in un’esposizione estesa e sistematica nell’enciclica Lavorando [l’essere umano deve procurarsi il pane quotidiano …] , di san Karol Wojtyla, diffusa nel settembre 1981.
[testo sul Web: 
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091981_laborem-exercens.html ]
 Come scrisse il Wojtyla nel finale di quel documento, l'enciclica avrebbe dovuto essere diffusa il 15 maggio 1981, ma il 13 maggio ci fu l’attentato in piazza San Pietro e poté essere riveduta dal Papa solo dopo la sua degenza ospedaliera. Andare contro l’economia egemone può essere molto rischioso.
 Di nuovo, nelle parole di Francesco di ieri, c’è sicuramente la considerazione del dovere di lottare, come sindacato, da lavoratori sindacalizzati, anche per chi il lavoro non ce l’ha, per gli esclusi. Ma come dev’essere questa lotta? La lotta è necessaria e doverosa quando le giuste pretese di una parte sociale vengono rigettate dall’altra. Non ci si può rassegnare all’ingiustizia. La parte forte rifiuta di ascoltare, di sentire ragioni. Ha dimenticato la natura sociale dell’economia. La legge del mercato è a favore dei più forti? Nelle società democratiche ci sono strumenti legali per non accettare questa posizione. I deboli possono farsi forti facendo massa e agendo in modo solidale. Le libertà civili servono anche a questo, a non finire schiavi del mercato. C’è la libertà di parola, di manifestazione, c'è la politica democratica, c’è lo sciopero. In Italia lo sciopero è un diritto sociale riconosciuto dalla Costituzione. E in Costituzione c’è anche la natura sociale dell’economia e della proprietà privata. L’impresa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; in base alle leggi, deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art.41 Costituzione). La proprietà privata deve essere resa accessibile a tutti e deve esserne assicurata la funzione sociale (art.42 Costituzione). Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata  alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art.36 Costituzione). L’organizzazione sindacale è libera (art.39 Costituzione) e lo sciopero  è un diritto (art.39 Costituzione), anche se la legge può regolarne l’esercizio. Queste sono leggi fondamentali della Repubblica.
  L’evoluzione sociale recente richiederebbe modifiche costituzionali per rinforzare la natura sociale dell’economia e del lavoro, ma in genere le proposte vanno in direzione opposta. Si è di solito d’accordo nel notare che il lavoro si è svalutato  e ha perso garanzie. Si giustifica questo con le leggi del mercato: queste leggi però sono incostituzionali e, in particolare dall’inizio dell’attuale fase recessiva, nel 2008, hanno fatto e stanno facendo disastri sociali. In Costituzione non ci sono principi per essere consumatori responsabili. Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, in un’Italia tanto più povera di oggi, non ci si pensava. I consumatori, in genere inconsapevolmente, sono complici dell’ingiustizia sociale.
  Il lavoro che c’è da fare, da fedeli che vogliano rendere ragione delle loro convinzioni religiose, è quello di ragionare sui temi richiamati dal nostro Padre Francesco ieri. Condividiamo la sua posizione? Se sì, perché? Se no, perché? Si tratta di temi sociali e politici sui quali non siamo obbligati a pensarla come un papa. La nostra posizione su di essi ha comunque un significato religioso. Farsi complici di ingiustizie sociali è peccato: questo è magistero etico, sul quale il Papa insegna da papa, autorevolmente. Del resto possiamo facilmente evocare fondamenti biblici: nelle note dell’enciclica Lavorando  che ho citato prima ve ne sono diversi. Dunque, riparare alle ingiustizie sociale richiede propriamente una  conversione. Specialmente quando si pensa che siano ingiusti l’esclusione, l’emarginazione, l’essere senza diritti, in particolare senza lavoro.

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI DELEGATI DELLA
CONFEDERAZIONE ITALIANA SINDACATI LAVORATORI (CISL)
Aula Paolo VI
Mercoledì, 28 giugno 2017
dal Web: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170628_delegati-cisl.html

Cari fratelli e sorelle,
vi do il benvenuto in occasione del vostro Congresso, e ringrazio la Segretaria Generale per la sua presentazione.
Avete scelto un motto molto bello per questo Congresso: “Per la persona, per il lavoro”. Persona e lavoro sono due parole che possono e devono stare insieme. Perché se pensiamo e diciamo il lavoro senza la persona, il lavoro finisce per diventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone dimentica e smarrisce sé stesso. Ma se pensiamo la persona senza lavoro, diciamo qualcosa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in pienezza quando diventa lavoratore, lavoratrice; perché l’individuo si fa persona quando si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro. La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione che l’umanità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di persone cooperano semplicemente lavorando: educando i nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando pratiche in un ufficio... Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né sempre intenzionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta avanti il mondo.
Certo, la persona non è solo lavoro… Dobbiamo pensare anche alla sana cultura dell’ozio, di saper riposare. Questo non è pigrizia, è un bisogno umano. Quando domando a un uomo, a una donna che ha due, tre bambini: “Ma, mi dica, lei gioca con i suoi figli? Ha questo ‘ozio’?” – “Eh, sa, quando io vado al lavoro, loro ancora dormono, e quando torno, sono già a letto”. Questo è disumano. Per questo, insieme con il lavoro deve andare anche l’altra cultura. Perché la persona non è solo lavoro, perché non sempre lavoriamo, e non sempre dobbiamo lavorare. Da bambini non si lavora, e non si deve lavorare. Non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi. Ci sono molte persone che ancora non lavorano, o che non lavorano più. Tutto questo è vero e conosciuto, ma va ricordato anche oggi, quando ci sono nel mondo ancora troppi bambini e ragazzi che lavorano e non studiano, mentre lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi. E quando non sempre e non a tutti è riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni. O quando un lavoratore si ammala e viene scartato anche dal mondo del lavoro in nome dell’efficienza – e invece se una persona malata riesce, nei suoi limiti, ancora a lavorare, il lavoro svolge anche una funzione terapeutica: a volte si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.
E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità. È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta.
Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento sindacale deve affrontare e vincere se vuole continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene comune.
La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindacato è espressione del profilo profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. Come dimostra anche la grande tradizione della CISL, il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. Ma nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è la profezia.
Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono delle sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.
Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa. Questo è uno dei peccati più grossi. Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro. Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni in giù, che non hanno lavoro. Qui. In Italia. E voi dovete lottare lì! Sono periferie esistenziali. Non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Non lasciatevi bloccare da questo. So che vi state impegnando già da tempo nelle direzioni giuste, specialmente con i migranti, con i giovani e con le donne. E questo che dico potrebbe sembrare superato, ma nel mondo del lavoro la donna è ancora di seconda classe. Voi potreste dire: “No, ma c’è quell’imprenditrice, quell’altra…”. Sì, ma la donna guadagna di meno, è più facilmente sfruttata… Fate qualcosa. Vi incoraggio a continuare e, se possibile, a fare di più. Abitare le periferie può diventare una strategia di azione, una priorità del sindacato di oggi e di domani. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari. Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.
Vi ringrazio per questo incontro, vi benedico, benedico il vostro lavoro e auguro ogni bene per il vostro Congresso e il vostro lavoro quotidiano. E quando noi nella Chiesa facciamo una missione, in una parrocchia, per esempio, il vescovo dice: “Facciamo la missione perché tutta la parrocchia si converta, cioè faccia un passo in meglio”. Anche voi “convertitevi”: fate un passo in meglio nel vostro lavoro, che sia migliore. Grazie!
E adesso, vi chiedo di pregare per me, perché anch’io devo convertirmi, nel mio lavoro: ogni giorno devo fare meglio per aiutare e fare la mia vocazione. Pregate per me e vorrei darvi la benedizione del Signore.
[Benedizione]

71. Le culture, veri miracoli dell’umanità

 Le culture umane sono un vero miracolo, un evento prodigioso.
 Cultura significa complesso di costumi, conoscenze, tecnologie, concezioni sul mondo, metodi di relazioni sociali e comprende anche le religioni. Le culture sono in continuo mutamento, per adattarsi alle condizioni delle società umane che le esprimono. Ci consentono di superare i nostri limiti individuali e di specie.
  Come persone abbiamo angusti limiti cognitivi, possiamo intrattenere vere relazioni con più o meno duecento nostri simili, che corrispondono all’incirca a una famiglia allargata di una volta. Del resto è questo l’ambito sociale dei viventi che ci sono più simili. La nostra mente, che governa le relazioni sociali, si è formata circa duecentomila anni fa, è uno strumento biologico molto, veramente molto più antico di ogni nostra civiltà. Le più antiche vengono situate intorno ai diecimila anni fa. La storia  viene fatta iniziare intorno ai cinquemila anni fa, con la pratica della scrittura. Quindi i limiti che abbiamo come individui corrispondono a quelli che abbiamo come specie.
 Come riusciamo a  far funzionare società che globalmente comprendono circa otto miliardi di individui? E’ appunto questo il miracolo ed è prodotto dalle culture. Tra i fenomeni culturali le religioni sono tra più potenti strumenti di integrazione sociale. Mediante la spiritualità consentono di collegare la persona alle società più vaste, che rimarrebbero inconoscibili al singolo per i suoi limiti cognitivi. E anche di collegare passato e futuro, dando una direzione all’evoluzione sociale. E, infine, di pensare una paternità/maternità condivisa, sia come genitori sia come figli, e quindi ad una famiglia umana.
  Ci si può occupare di un’altra persona come fanno un padre o una madre, biologici o adottivi? E’ occupazione che richiede di spendersi totalmente per l’altro. Anche i genitori non lo fanno per l’intera loro vita con la stessa intensità. In questi giorni è stata ricordata la figura di un maestro straordinario, Lorenzo Milani, il quale, in definitiva, si occupò, esercitando anche una vera e propria paternità spirituale e civile, di poche decine di ragazzi. Come estendere quell’intensità ad otto miliardi di persone? E’ appunto l’opportunità che ci è data dalla cultura di una società.
  Ecco perché, nella formazione religiosa e nelle relazioni che si hanno in religione, è importantissimo quel lavoro che si definisce mediazione culturale.

72.Partire da lontano per capire i vicini

Ma che ci serve ragionare su fatti di duecentomila anni faper lavorare in parrocchia? Ma anche solo diecimila anni indietro non sono troppi? Non basta guardare ciò che si ha intorno?
 Non basta.
 Non è così che si ragiona in religione.
 C’è una parte delle Scritture che mi ha sempre terrorizzato. E’ dove si legge di com’era prima che arrivassero gli esseri umani. Si comincia veramente da molto lontano. Da un universo informe che man mano diventa più simile a quello che ci  è familiare. Ci sono state ere in cui non c’eravamo! Poi  comincia a girare gente simile a noi, ma le civiltà vengono dopo. Tornare indietro non si può. E’ scritto che degli angeli sbarrano la strada, con spade fiammeggianti. Il tempo, il nostro tempo, ha una direzione, un orientamento, va avanti. C’è un prima, c’è sempre un dopo diverso dal prima,  e noi che brulichiamo in mezzo, un po’ come gli altri viventi. Brulicare? Per gli esseri umani si capisce che non si tratta solo di questo. Ad un certo punto è scritto delle nazioni. Ce n’è un lungo elenco, veramente difficile da ricordare. La gente  si disperde  per tutta la terra, ma ormai ha un’organizzazione politica. La storia sacra comincia più o meno quattromila anni fa tra l’attuale Iraq e l’attuale Egitto, nel corso di una lunga migrazione, da Meridione a Settentrione e poi da Oriente a Occidente e di nuovo verso Meridione.. Più o meno nello stesso periodo si pensa che i Latini siano scesi in Italia. Facevano parte di popoli  che gli studiosi chiamano  indoeuropei  e che erano migranti.  Parlavano lingue che avevano caratteristiche comuni. Nell’Enciclopedia Treccani se ne elencano dodici rami: Indiano (sanscrito e altre lingue), Iranico, Tocario, Armeno, Albanese, Greco, Italico, Celtico, Germanico, Baltico, Slavo, Hittito. C’è anche una certa parentela tra i parlanti quelle lingue? Le indagini genetiche cominciano a darci risposte. Ci consentono di ricostruire lunghissime migrazioni di popoli dal luogo originario, in Africa,  a oriente della Valle del Rift, dalle parti tra la Tanzania, l’Uganda e l’Etiopia. Ma al centro della storia sacra ci sono i semiti, che parlavano lingue di una diversa famiglia. Gli Hittiti compaiono in Gen 15,20. Vengono riferiti loro discorsi in Gen 23.  Ma non  è sicuro che si tratti degli Hittiti che parlavano indoeuropeo. La loro civiltà infatti si diffuse più tardi. Tra tutte queste civiltà antiche, ognuna con la sua cultura, non è facile raccapezzarsi. Perché, poi è diventato più semplice? Assolutamente no. Quando la storia,  quindi le culture umane, fanno la comparsa nelle Scritture, tutto si complica. Di quella storia bisogna però raggiungere una memoria affidabile  e quelle culture vanno capite, a partire dalle loro lingue. Le Scritture sono fatte per essere lette e capite, ma non sono una lettura facile: vengono da varie culture, molto antiche, e molte generazioni ci hanno lavorato sopra per trasmetterne una memoria affidabile. Ma lo hanno fatto secondo le proprie culture, quindi, studiando, si può riconoscere la mano e il pensiero di chi ha collaborato nella tradizione.
  Che cosa sono quattromila anni, sui circa duecentomila della nostra specie? Non tutto ciò che è importante per noi è compreso negli ultimi quattromila anni. La nostra mente, ad esempio. E’ più o meno quella di duecentomila anni fa. Così come il nostro corpo. Le culture, invece, si sono evolute sempre più rapidamente, in particolare negli ultimi due secoli, ma in modo veramente frenetico negli ultimi cinquant’anni. Questo crea dei problemi. E’ come se il tempo accelerasse. E indietro non si può tornare. Ricordate, ci sono quegli angeli  a chiudere la strada.
  Oggi siamo preoccupati delle migrazioni umane. Perché? Possiamo considerare gli esseri umani dei migranti nati. E’ invece la rapidissima evoluzione delle culture che costituisce un bel problema. Ne va infatti della nostra vita. Per consentire la sopravvivenza di un’umanità di circa otto miliardi di persone occorre integrarle così rapidamente come evolvono. Capire  per trasformare  per sopravvivere: ecco che cosa c’è da fare, ma molto più velocemente di prima.
 E la religioni? Fanno parte di quelle culture che evolvono, si sono evolute anch’esse, alcune molto rapidamente, in particolare la nostra, che è stata quella praticata dai dominatori del mondo, gli europei. Ci sono segni che il loro, il nostro, dominio stia tramontando. Si sta affacciando nel mondo, tra  i dominatori, la cultura cinese, che è in cerca di una neo-religione; oggi è ancora piuttosto europeizzata. Forse, nell’era della fine, anche l’evoluzione della religione degli europei si farà più lenta. Ma per ora condivide quella, velocissima, delle culture che li caratterizzano.
 Ma c’è qualcosa che  rimane?
 E’ appunto questo il problema della mediazione culturale. Non si tratta, come sostengono i reazionari, di  adattare  la religione ai gusti  dei contemporanei. Si tratta di riconoscere nella religione ciò che è espressione di culture sorpassate dall’evoluzione sociale e ciò che non lo è, ma appartiene alla struttura originaria  della fede. Quando cambia quest’ultima si passa ad un’altra religione. Il resto può evolvere senza problemi. E se non si riesce a farlo, la religione diventa cultura inutile e passa tra le cose che vengono superate.  Nessuno oggi, nell’Europa di oggi, si sente, in genere, obbligato a sterminare i vinti, come troviamo prescritto in alcuni passi delle Scritture, molto antichi. Così, ai tempi nostri, in Europa, riteniamo barbaro punire con la morte gli eretici o i blasfemi. Nelle Scritture lo troviamo invece prescritto, anche qui in passi antichi. Ma molto a lungo in Europa la si è pensata così, fino a circa tre secoli fa: è stato l’emergere delle democrazie moderne ad aver cambiato, tra gli europei, quelle concezioni. Sterminare i vinti e massacrare eretici e blasfemi non rientrano, evidentemente, nella struttura originaria della nostra fede. Ci siamo convinti che si poteva farne a meno. Ci ha convinti un lavoro di mediazione culturale.
  Una cultura si può anche immaginare. L’immaginazione dà una certa libertà. I rivoluzionari in genere immaginano,  poi progettano  e infine agiscono. Ma fino a che punto è utile immaginare  in religione? Le Scritture sono piene di sogni  e di sognanti.  Ma che succede a quelli che immaginando  finiscono per vivere in un sogno? Ci sono quelli che, ad esempio, sognano  di riportare indietro la storia e di far rivivere culture del passato, recente o meno recente. Che succede poi, nel confronto con la realtà?
  Ad altri piace immaginarsi  un passato, liberamente interpretato, da calare nel presente. Allora non è neanche il passato che si vuole fare tornare, ma è un neo-passato  che si vuole costruire.
 Si tratta di esperienze realmente vissute in religione, tante volte.
 Non c’è mediazione culturale se non si resta ancorati alla realtà. Abusando dell’immaginazione si pensa di sopprimere uno dei poli da mediare.
 Nell’immaginazione le cose sembrano facili, perché, nel sogno, si superano i limiti della realtà sociale in cui si opera. Ma quando poi ci si sbatte contro? Non si è fatto lo sforzo di capirla e i sogni funzionano solo nel tempo dei sogni, che è limitato. Si costruiscono così Disneyland  religiose, belle per esperienze forti  limitate. Allora c’è il mondo del sogno, quello della religione, e quello reale: si va dall’uno all’altro, ma lo stacco  c’è, si avverte, le regole per vivere nei due mondi sono diverse. La cultura però è una sola, quella reale, l’altra è solo sogno. La religione in questo modo diventa psichedelica perché introduce in realtà di sogno, che realtà però non sono e presto svaniscono. Non è questo che, oggi, mi pare  ci venga  chiesto come fedeli.
  Tornare indietro non si può! Ci sono quegli angeli, di cui ho scritto sopra, che lo impediscono. Non si può essere reazionari in religione. E dove c’è, nei fondamenti della nostra religione, l’autorizzazione a vivere realtà psichedeliche? Non è vero che siamo stati mandati per il mondo a incontrare  tutte le genti? Anche alle Valli è così. Conosciamo la gente tra la quale viviamo, qui nel nostro quartiere? Capiamo la loro cultura? E’ questo il nostro problema, che è poi il problema di sempre dell’umanità, da quando c’è la storia  e ci sono le culture. I nostri limiti cognitivi di specie ci rendono difficile incontrare moltitudini: ma la spiritualità  è un mezzo potente per riuscirci. Nella comune spiritualità riusciamo a incontrare  gente che nella nostra vita non riusciremo mai a conoscere. La spiritualità religiosa, allora, non è necessariamente evasione dalla realtà, ma può essere  un mezzo molto efficace per immergervisi e capirla veramente. Accostando grandi maestri di spiritualità si ha la sensazione di uscire dalla cecità, di vedere finalmente le cose come sono. Come è scritto: “Si aprirono i loro occhi”.
 Restare ancorati alla realtà non è sempre facile, perché è in genere è faticoso, richiede un impegno costante, un’etica,  e può anche essere doloroso. La realtà infatti in genere è meno bella di come vorremmo, delude i nostri sogni. Di una parte del male che in essa c’è siamo corresponsabili; questo la rende, oltre che dolorosa, disonorevole. Si rivive l'esperienza della narrazione biblica della cacciata dal Paradiso terrestre. Tra cinquant'anni, probabilmente, gli storici tratteranno gli europei di oggi, per come si sono condotti con i migranti, come i peggiori criminali sociali del passato. Però noi, adesso, ci consoliamo con un’altra narrazione, in cui noi siamo poveri e buoni, e per questo incolpevoli, e gli altri sono gli aggressori. Eroici, siamo: è stato detto. Davvero ci crediamo? Qualche eroe c’è veramente. Ed è ogni persona che riesce a salvare una vita a rischio della sua. E’ benedetto chi fa così. Ha un posto nel Regno, è scritto. In religione si pensa che non ci sia segno di benevolenza   più grande. Incontrare  veramente la gente, capire  veramente le culture umane, spinge in genere a quel cambiamento profondo di mentalità che definiamo  conversione e che può essere espresso anche con le antiche parole metànoia  (greco antico, la lingua delle Scritture originate dalle nostre prime collettività di fede) o teshuvah (ebraico, la lingua delle Scritture più antiche). E’ questo che poi spinge a salvare le vite degli altri.

73. Come si è popolo in religione?

 Che cos’è un popolo?
 E’ una questione molto importante, perché, in religione, riteniamo di essere un popolo.
 La risposta che si dà rileva anche in sede locale, in una realtà come la parrocchia.
 Nel pensiero giuridico il popolo è gente soggetta ad un’autorità politica riconosciuta ed effettiva in un determinato territorio. Per circa mille anni, dall’Undicesimo secolo e fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965) la nostra gerarchia del clero ha voluto essere quell’autorità, in religione. Nel primo millennio, dal Quarto secolo della nostra era, quell’autorità è stata invece impersonata da monarchi civili, a partire dagli imperatori romani con potere politico sacralizzato  secondo la nostra fede. La conquista dell’autorità propriamente politica da parte del papato romano si ha tra l’Ottavo e l’Undicesimo secolo. Alla fine del processo, il papato romano si presenta e vuole farsi accreditare dagli altri monarchi civili come suprema autorità politico-religiosa. Questo storicamente ha generato conflitti politico-religiosi per tutto il Secondo millennio e, tutto sommato, anche ai nostri giorni. Un conflitto di questo tipo è quello che si nota tra l’autorità del Papa attualmente regnante e il presidente statunitense Donald Trump, che diffondono magisteri antitetici. In epoca contemporanea scontri del genere ci sono stati con il liberalismo, il nazionalismo italiano di impronta cavouriana-mazziniana, il cristianesimo-democratico e, particolarmente acceso e irriducibile, con il socialismo e ancor più con il comunismo di tipo marxista leninista, in particolare con quello, di tipo neo-religioso, diffuso dal regime sovietico.
 In sostanza, per circa mille anni, il papato romano si è fatto insegnare l’autorità politica dalla cultura dei propri tempi. Questo è accaduto anche quando iniziarono a svilupparsi processi democratici, dal Settecento. L’apprendimento della democrazia è stato però particolarmente faticoso, travagliato, controverso ed è ancora in corso.
 Le democrazie contemporanee teorizzano la sovranità  del popolo. Si tratta di una rivoluzione culturale di grande rilevanza nella storia dell’umanità. Il popolo è definito dalla soggezione ad un’autorità politica, ma quest’ultima la si vuole nelle mani del popolo.
 La riflessione sul popolo e sul suo ruolo nelle dinamiche religiose è stata al centro del dibattito svoltosi tra i saggi riuniti a Roma nel Concilio Vaticano 2°. Non è stata detta una parola definitiva. Si è lavorato anche su dogmi, sulle concezioni ritenute fondamentali per definire la fede. Il risultato è stato un compromesso: è stata mantenuta l’antica struttura feudale del potere del clero, affiancando i laici, vale a dire il resto del popolo come consulenti e forza operativa nella vita civile. Questo ha generato notevoli tensioni che si sono manifestate in particolare nel decennio seguente quel consesso, negli anni ’70, nella fase attuativa. Nel lungo pontificato di Karol Wojtyla si sospese d’autorità il dibattito, per quanto quel Papa avesse chiara consapevolezza della latenza del problema, in particolare della necessità di ridefinire il ruolo del papato. L’accettazione della democrazia politica nell’organizzazione delle società civili, venuta nel 1991 con l’enciclica Il Centenario, di quel Papa, conseguì a un decennio di sperimentazione in Polonia di un’azione politico-religiosa in cui i laici erano stati fondamentali, realizzando il passaggio da un regime di totalitarismo di tipo sovietico marxista leninista ad una democrazia di tipo Occidentale, realizzata a partire dal 1990, con la presidenza di stato del cattolico Lech Walesa, strettamente legato al Wojtyla. Tuttavia il modello di integrazione che aveva funzionato nella Polonia degli anni ’80 non lo ha fatto più bene in regime democratico: si ebbe l’affermazione di un nazionalismo sacralizzato, con sostanziale strumentalizzazione politica della fede. La società polacca, nel complesso, appare ampiamente laicizzata, molto distante dagli ideali religiosi nella vita pratica, al mondo delle altre società civili dell’Europa settentrionale.
  Negli sviluppi dell’attuazione dei principi del Concilio Vaticano 2°, si è riconosciuto:
-che clero e laici fanno parte di un medesimo popolo;
-che entrambi hanno diritto ad avere voce.
  Tuttavia, in genere, la voce del popolo  è silenziata da quelle dei centri di potere del clero. Tutto il potere politico-religioso è in fondo rimasto al clero. Negli istituti di partecipazione, i vari  consigli che si sono fondati, il ruolo dei laici, in genere, non va oltre quello di docenti  e di consulenti.
 Ai tempi nostri le democrazie occidentali manifestano una crisi generalizzata. E’ stato osservato che il potere politico si è trasferito ad entità diverse da quelle costituzionali. Niente di soprannaturale, anche se spesso soggetti come il mercato vengono presentati con caratteristiche di quel tipo. La globalizzazione, l’unificazione totale dei modi di produrre e di commerciare, ha richiesto accordi sovranazionali i quali hanno definito un’autorità politica globale che è la risultante delle potenze economiche che controllano i mercati e i flussi finanziari.  La creatura, originata da accordi tra stati, è sfuggita al controllo di questi ultimi. Il nostro stile di vita in Occidente, ma in genere anche nelle altre parti del mondo, dipende dal mantenimento di quell’assetto politico, che però impedisce di realizzare giustizia sociale perché consente una sorta di extraterritorialità  del capitale: significa che chi ha risorse da investire può rapidamente sganciarsi da ogni situazione di crisi sociale e industriale, mettendosi al riparo, con i propri soldi, altrove.   Da questo deriva la crisi dello stato del benessere, quello che correggeva le diseguaglianze con prestazioni pubbliche di benessere, come sanità e previdenza sociale. Ha sempre meno risorse.
  La crisi delle democrazia occidentali non favorisce certo l’acculturazione alla democrazia in religione. Si comincia a pensare di poterne fare a meno. In religione di praticano poco i processi democratici e, soprattutto, non si è sviluppata, o non a sufficienza, una spiritualità  adeguata. Coesistono, principalmente, spiritualità del passato. Quando si passa alla pratica, a cercare di impersonare quella spiritualità sorgono problemi.
 Ad esempio: il Papa regnante vive in un albergo, in un bell’albergo in Vaticano, ma pur sempre in un albergo. Questo urta molti. La spiritualità del Papa-Re è ancora molto diffusa. Ma è in genere il modello dell’episcopato monarchico che non soddisfa più. La linea infatti è data, in genere,  dalla Conferenze episcopali, organismi che risentono di processi democratici.
  In un documento come l’enciclica Laudato si’ il laicato è stato molto di più di un’accolita di consulenti. Lo ha riconosciuto espressamente il suo autore. Dal laicato sono emersi i principi di azione sociale, che poi si sono innestati in una nuova spiritualità nella quale si avverte l’impostazione del Papa regnante. Il compito del  popolo  di fede, oggi, non solo quindi del laicato, è di continuare in quella direzione, sperimentando il nuovo prima di teorizzarlo e teorizzandolo mentre lo si sperimenta.

74. Popolo sognato

  La teologia, in genere, non ha un’immagine realistica del popolo, ed essa è la parte più importante della formazione dei nostri capi religiosi. Eppure, teorizzando, dà molta importanza al popolo in tema di verità: in sostanza esso avrebbe un intuito innato per individuarla, anche se poi c’è sempre necessità di qualcun altro che gliela spieghi.
 Nella  Costituzione La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) si legge: «L'universalità dei fedeli, che hanno l'unzione ricevuta dal Santo (cf. 1 Gv. 2, 20 e 27), non può ingannarsi nel credere, e manifesta questa sua singolare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" (S. Agostino, De Praed. Sanct. 14, 27) esprime l'unanime suo consenso in cose riguardanti la fede e i costumi». Se ne è anche scritto come di infallibilità del Popolo di Dio (ad esempio nella Dichiarazione circa la Dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori d'oggi, diffusa nel 1973 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede).
  Mille anni di crudele polizia ideologica religiosa (modello di tutte le altre inquisizioni politiche) potrebbero però convincerci del contrario: questi sono fatti. Se è necessario trucidare la gente per mantenere la disciplina dottrinale, non è proprio evidente che verità  e popolo vadano naturalmente d’accordo. Ma che cos’è la verità? E’ una domanda che risuona anche nelle Scritture. Di fatto sembra che non sia mai stato facile stabilirlo. Se ne è discusso molto per tutti i due millenni della storia della nostra fede. Spesso non ci si è intesi e allora ci si è anche combattuti. Accade anche ora, ma i limiti all'accanimento contro gli altri imposti nei sistemi democratici impediscono esiti tragici.
 C’è un verità che riguarda anche il  popolo. Qui bisogna scegliere: averne una visione affidabile, corrispondente alla sua realtà, o immaginarsela per progettare qualcosa di diverso. Da chi è fatto il popolo che rileva per la fede? Oggi, in genere, si pensa che sia l’intera umanità, su tutta la Terra. Se ne vorrebbe fare una sola famiglia. In passato se ne ebbero altre concezioni, più limitate. E’ un po’ quello che accade ai tempi nostri con i migranti indesiderati, quelli che vengono dalle nostre parti senza permesso. E’ gente di cui dobbiamo occuparci? Una risposta, che è quella che è venuta l’altro giorno da uno dei capi politici italiani, e prima di lui da altri come lui, è che Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. Aiutiamoli a casa loro”. Che significa: respingerli. Di parere diverso è il nostro Padre Francesco, che ci esorta invece ad accoglierli. Entrambi ritengono che si debba aiutarli, ma, è chiaro, una cosa è darsi da fare subito, su gente che si ha vicina, su persone concrete, con necessità immediate, altra  programmare di farlo da lontano. Da vicino le persone sono veramente persone.  Da lontano le persone diventano gente  e poi  popolo, e popolo di cui, per la lontananza, si tende ad avere una visione confusa, come appunto accade quando si guardano le cose da lontano. E, aggiungo, quando ci si comincia a fare sconti sui doveri morali è poi tutta una china che va verso quella direzione e, in fondo, ripete la tragica situazione che troviamo all’inizio della storia  sacra con quel “Dov’è tuo fratello?”.
   Nella nostra confessione la verità  è stata legata storicamente all’autorità, non al popolo. Si è pensato che la verità,  scesa del Cielo, fosse proclamata in modo affidabile, ma anche obbligatorio, dall’autorità religiosa costituita, che a metà Ottocento è stata poi definita inderogabilmente nel papato, dal punto di vista dogmatico e giuridico. Vale a dire che si ritiene fondamentale, per la fede,  credere che il papato possa dire in merito una parola definitiva. E questo nonostante la catena infinita di errori  che il papato imperiale, come ogni altra autorità politica, ha commesso storicamente in ogni campo dello scibile umano, a volta correggendosi e a volte no. Insomma si confida che in materia di fede, quando  usa certe formule solenni  e impegna la propria autorità sacrale, il papato non sbagli.  La decisione di quella svolta dogmatica  venne in tempi turbolenti, nel corso di un travagliato Concilio Vaticano 1°,  quando, in fondo, la fiducia dei nostri capi religiosi nella capacità del popolo di intuire la verità era veramente ai minimi. Infatti sembrava che stesse per crollare un mondo. E’ un po’, in fondo, anche la situazione dei tempi nostri.
  In genere l’autorità religiosa si è ritagliata  il proprio popolo   a misura delle definizioni di verità di volta in volta escogitate. Il suo popolo era  quello che subiva il fascino della verità proclamata d’autorità e come gregge  seguiva il suo pastore e la sua voce, senza porre problemi.  Ma questo modo di procedere non ha funzionato più tanto bene quando si è trattato di interloquire in processi democratici. Questo si è reso necessario più o meno dall’Ottocento, in Europa, con la metamorfosi, e talvolta il  crollo, delle monarchie europee con cui il papato si era federato, con  concordati  o accordi simili. Questo in particolare in rapporto con   i movimenti nazionalistici italiani prima e con il Regno d’Italia poi.
  Innanzi tutto, con la fondazione dell’Azione Cattolica, all’inizio del Novecento (ciò che c’era prima nel laicato italiano era piuttosto diverso), si è tentato di costituire un corpo politico coerente agli ordini del papato. Poi, dal secondo dopoguerra, si è accettata una collaborazione politica dei laici con sempre maggiore autonomia, nelle istituzioni pubbliche civili, fino alla formale accettazione della democrazia politica nel 1991. In questa fase sono tornati utili il lavoro sistematico di formazione del laicato fatto nei decenni precedenti e il ripianare i contrasti con la componente cattolico-democratico del laicato, con la mediazione di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro. Negli anni a seguire, quindi negli anni ’90, si è provato a riprendere il controllo diretto del popolo che politicamente serviva, senza la mediazione dei cattolico-democratici, ma non è andata bene e ora non si sa più che fare. La lunga sfiducia manifestata sotto il regno religioso di Karol Wojtyla verso il laicato adulto italiano, vale a dire relativamente autonomo, quello che Fulvio De Giorgi ha paragonato in un suo fortunato libro al brutto anatroccolo, con il tentativo di silenziare il libero dibattito sulla maggior parte delle questioni per sospetto di deviazione in senso liberale o marxista,  e ciò  più o meno fino all’inizio del regno del nostro Padre Francesco, ha privato, in fondo, la gerarchia di un vero e proprio popolo. Del resto non se ne è curata a sufficienza la formazione, non si è assecondata una tradizione democratica, timorosi di perderne il controllo.
  Ora spesso si avverte, da come ne parlano, che i nostri capi religiosi non conoscono a sufficienza il loro popolo, impegnati come sono in prevalenza, per la gran parte della loro giornata che è di ventiquattro ore come quella di tutti noi, nell’amministrazione  del clero e dei religiosi degli istituti di vita consacrata,   e dei beni e aziende che al clero e agli istituti di vita consacrata fanno riferimento. Francesco vorrebbe che avessero l’odore del gregge, vale a dire che avessero maggiore dimestichezza con la gente, ma anche questa è una metafora che presenta qualche rischio. Quando si parla di pastori  ci si riferisce ai capi, che dovrebbero essere come il Buon Pastore, un pastore veramente particolare, che non sfrutta economicamente il gregge. Ma pensare poi al popolo come a un vero e proprio gregge, con la spiritualità, diciamo, della pecora, non aiuta. Le persone non sono pecore, non vanno dove si dice loro di andare: bisogna convincerle e spesso vogliono partecipare alle scelte.  Noi laici non siamo e non vogliamo essere pecore e, dico chiaramente quello che gran parte di noi pensa e non si azzarda in genere a dire, non riteniamo la docilità al modo di pecore una virtù. Tra pastore  e gregge non ci può essere dialogo. Tra persone sì. Ma la partecipazione e il dialogo, che è innanzi tutto confronto  tra diverse argomentazioni, richiedono un tirocinio che in religione in genere non si fa o si fa troppo poco.  In Azione cattolica, ad esempio, si fa.
  Il  gregge  ideale venne talvolta individuato nel mondo contadino. Accadde nell’Ottocento. Le popolazioni cittadine erano invece esposte, si riteneva, alle subdole insidie delle nuove ideologie che si venivano affermando. I pastori  dovevano proteggere gli uni e gli altri, contadini e cittadini, con atteggiamento intransigente, senza possibilità di mediazioni di qualsiasi genere. Si riteneva che non si dovesse, non si potesse,  ma in definitiva non si volle fare diversamente. Ruppero con  il nuovo stato nazionale italiano. Questa fu fondamentalmente la posizione del papato dal 1870 alla fondazione dell’Azione Cattolica nel 1906. Fu la privazione della democrazia per i fedeli cattolici: una tragedia culturale e politica durata circa cinquant'anni, e anni cruciali per la vita politica italiana. Ma il mondo contadino serviva a poco, al dunque, perché era una forza sociale subalterna e finché fosse rimasta tale, sebbene, almeno fino agli inizi del Novecento molto numerosa, molto più di oggi. Questo richiese la collaborazione delle classi colte e un lavoro di formazione sistematico tra la gente, a partire dai più piccoli: fu affidato all’Azione Cattolica. In Italia, si era iniziato spontaneamente a svolgerlo, da parte dei laici, nella seconda metà dell’Ottocento, ma erano sorti, verso la fine del secolo, gravi dissidi tra correnti  intransigenti  politicamente contrarie all’integrazione nel nuovo stato nazionale italiano e correnti democratiche. L’enciclica  Le novità, del 1891, dalla quale si fa iniziare la dottrina sociale contemporanea, venne dopo almeno due decenni di iniziative sociali di laici e preti.  Esse si manifestavano periodicamente in un’istituzione nazionale che era l’Opera dei Congressi, sede di incontro per coloro che in quelle azioni sociali erano impegnati. Non riuscendo a controllare la situazione, il papato ripartì da capo con l’Azione Cattolica, ad inizio Novecento, dopo aver posto termine d’autorità a ciò che c’era prima. Fino al 1958, quando terminò il regno religioso di Eugenio Pacelli, la struttura era centrata su un potere religioso-politico sacralizzato e centralizzato, il papato romano, regnante religioso alla cui maestà la gente si  accostava al modo in cui faceva con  i regnanti civili, con lo stesso timoroso e sottomesso ossequio, e su masse politicamente e sistematicamente formate a seguire gli indirizzi politici del papato nelle questioni civili (per sostenere i diritti della Chiesa). Una soluzione che ebbe notevole successo e che consentì un ruolo determinante dei cattolici nella fase politica successiva alla caduta del fascismo. Dal ‘58 si attivarono processi democratici e si ebbe una progressiva desacralizzazione del potere politico del papato, sostituita dal  fascino personale del regnante. Si cominciò con il Papa-buono, Angelo Roncalli, e poi con la spettacolare e lunga esperienza di Karol Wojtyla. In questa fase la relazione mediatica tra regnante e masse fu molto importante e la gente fu spinta a diventare popolo del Papa: un papismo ingenuo, non sacralizzato, in cui la personalità e la vita del regnante erano molto importanti e conosciute fin nei minimi dettagli (cosa inimmaginabile riferita ai papi  sacrali  regnanti fino al 1958). Dagli anni ’80 il lavoro di formazione del laicato progressivamente si fece meno efficace e i processi democratici annichilirono. Si riteneva, in definitiva, che fosse sufficiente l’immedesimazione  emotiva del popolo con il regnante, che, nei grandi eventi di massa, appariva così efficace. Questo ha creato un vuoto, una distanza, tra pastori  e  gregge, per cui ci si conosce poco. Per la gente comune c’è stata, dunque, e  a lungo, prevalentemente la spiritualità-spettacolo, di massa, senza vera partecipazione, ma solo presenza; per una stretta cerchia di consulenti c’è stata la possibilità di avvicinare i capi religiosi ma senza alcuna vera condivisione di responsabilità. Della partecipazione, in fondo, si diffidava e non si sapeva nemmeno come gestirla: per questo divenne carente anche la formazione.  Dal 2005, in Italia,  si è tentato di rimediare: è del marzo di quell’anno la Lettera ai fedeli laici  - “Fare di Cristo il cuore del mondo”   dellaCommissione Episcopale per il laicato  della  Conferenza Episcopale Italiana, nella quale si legge:
“A volte, può essere che il laico nella Chiesa si senta ancora poco valorizzato, poco ascoltato o compreso. Oppure, all’opposto, può sembrare che anche la ripetuta convocazione dei fedeli laici da parte dei pastori non trovi pronta e adeguata risposta, per disattenzione o per una certa sfiducia o un larvato disimpegno. Dobbiamo superare questa situazione. Una cosa è certa: il Signore ci chiama; chiama ognuno di noi per nome.
[…]
È indispensabile uscire da quello strano ed errato atteggiamento interiore che faceva sentire il laico più “cliente” che compartecipe della vita e della missione della Chiesa.
[…]
 Se lo Spirito Santo è il protagonista ultimo della vita personale, così come lo è della vita della Chiesa, non si può ritenere che ci sia un’isola spirituale, cioè la comunità ecclesiale in cui affidarsi alla guida dei pastori, e uno spazio operativo, cioè il mondo, dove si è soli con la propria autodeterminazione. La responsabilità laicale comincia nel partecipare attivamente là dove si assumono i grandi orientamenti delle scelte cristiane sotto la guida di pastori; la fedeltà a Cristo e alla Chiesa continua là dove si vive immersi nel mondo e nella relativa autonomia dei suoi ambiti. Parte integrante di questa sintesi di vita del laico è la capacità di raccordare sapientemente il suo essere e servire nella Chiesa, con il compito di animare cristianamente la realtà del mondo.
 […]
In questo momento storico, in cui si va plasmando la complessa fisionomia di una nuova civiltà planetaria; mentre la comunità cristiana italiana si prepara a celebrare nel 2006 a Verona il suo quarto Convegno ecclesiale nazionale, che ruoterà intorno a tali problemi, c’è bisogno di una nuova primavera del laicato, che possa letteralmente rianimare, in forme significative e comunicabili, tutti gli ambiti di vita in cui un fedele laico può essere apostolo: nell’evangelizzazione e santificazione, nell’animazione cristiana della società, nell’opera caritativa; nell’azione pastorale della Chiesa, così come nella famiglia e nella vita pubblica; in forme individuali e associate; delineando un nuovo stile di vita, segnato dalla conversione dell’intelligenza e degli affetti, in cui l’intera rete delle relazioni con se stesso, con gli altri e con il creato sia abitata dal soffio dello Spirito. Ma per fare ciò bisogna ovviamente pregare, riflettere, estrarre dal nostro tesoro «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52): essere cioè veri cristiani.”
   Da allora però non si è fatta molta strada.
    Venuto meno un regnante religioso  con la personalità e l’indole adatte agli eventi spirituali spettacolari, ci si è avveduti che la gente è preda del populismo, che è quando ci si fa massa dietro a colui che conferma la gente nelle sue paure o nelle sue tentazioni.  Ma anche l’immagine del popolo che danno i populisti  è poco aderente alla realtà. Il populismo, come certi fatti religiosi, è solo incantamento e, in genere, ha le gambe corte, come si dice delle bugie, e disillude presto. Rimangono le persone con i loro problemi di vita e accostarle costa fatica, ma alla fine produce, crea relazioni più significative. Nel contesto dell’individualismo dei nostri giorni, in cui sembra che ognuno viva per sé, o al massimo in famiglia, possiamo figurarci un popolo  disperso.  Le scorciatoie mediatiche per radunarlo si sono dimostrate piuttosto inefficaci: al massimo fanno convergere una folla, che rapidamente si disperde, nel giro di qualche ora o al più di qualche giorno. Eppure, come si sostiene fin dall’antichità, gli esseri umani sono viventi sociali. E’ sufficiente creare delle opportunità e si stabiliranno nuove relazioni. Ma bisogna accettare le persone per quelle che sono,  vale a dire esseri umani, non pecoregregge.  Sì, in effetti noi laici abbiamo avuto l’impressione di essere stati poco valorizzati,  ma anche più di questo: sappiamo di contare poco o nulla. Si parla di noi laici, nei convegni che fanno sulle nostre vite i nostri capi religiosi, ma ci è abbastanza chiaro che di noi, di quelle nostre vite, non sanno molto e, in più, decidono sulla base di molti partiti presi di dubbio fondamento. Così, si coesiste ignorando tutto ciò, facendo finta che tutto vada come deve. Quindi poi esistono due mondi, affiancati non integrati: quello delle vite dei laici e quello del clero e dei religiosi. Ci si accosta perché si ha bisogno gli uni degli altri, ma c’è poco più di questo. Potrebbe essere diverso? Potrebbe. Perché no? Ma certe cose occorre inventarsele, e prima ancora sperimentarle. Non sarà dall’ambigua teologia pastorale corrente, piena di distinguo e di riserve, per cui con una mano sembra che si dia ma con l’altra sicuramente si riprende, che verranno le soluzioni. Se il principio rimarrà “tutto il potere al clero”, non si andrà molto avanti. Il gregge  rimarrà tale e tanti saluti a tutto…

75. Grandi orizzonti

  Quando fu eletto papa Karol Wojtyla, nell’ottobre del 1978, ci trovammo in mezzo alla grande storia. Questo mentre il laicato italiano era prevalentemente occupato in faccende di rilevanza molto minore, nazionale. I  movimenti  della destra religiosa, quelli che volevano riportare le nostre collettività di fede ai tempi del papa Eugenio Pacelli, a prima del Concilio Vaticano 2°, battagliavano con i cattolico-democratici accusandoli dell’apparente dispersione della gente di fede, in particolare della crisi del nostro associazionismo. Si proseguì così per gran parte degli anni ’80, finché il mondo cambiò e sulle nostre collettività di fede scese una lunga era glaciale, in cui tutto fu silenziato, sospeso. Tutto fu sostituito dalla stupefatta adesione al magistero religioso e politico del Wojtyla, attorno al quale si costruì la leggenda che fosse l’artefice principale del crollo dell’impero sovietico. Come resistergli?
   Di quella storia fui testimone: ho l’età per esserlo e mi interessava molto.
   Il lungo regno religioso del Wojtyla fu caratterizzato da un attivismo politico internazionale intensissimo, al modo dei Papi della prima metà del secondo Millennio. Egli, profondo conoscitore della situazione politica dell’Europa orientale caduta sotto il dominio del sistema sovietico, aveva intuito la metamorfosi incipiente dei comunismi dell’Europa orientale, analoga e parallela a quella che si stava producendo anche in quelli dell’Europa occidentale. All’inizio degli anni ’80 ci credevano in pochi.  Egli si illudeva che ciò avrebbe aperto opportunità alla vita di fede: come ora sappiamo, in questo si sbagliava.
  Per capire il senso dei suoi orizzonti si possono leggere le sue encicliche politiche, la “Il Redentore dell’uomo”, la  “Lavorando” e la “Il Centenario”, quest’ultima per commemorare il secolo dalla prima enciclica  della dottrina sociale contemporanea, la “Le novità”, del 1891.  Erano grandi orizzonti, anche se centrati prevalentemente sull’Europa. Wojtyla previde che nel giro di pochi anni l’Europa si sarebbe unificata, sarebbe stata rimossa quella che Winston Churchill chiamò “cortina di ferro”, il confine corazzato e non oltrepassabile  che divideva le nazioni europee dominate dal capitalismo di tipo Occidentale da quelle dominate dall’economica collettivistica sul modello sovietico.
  Il Wojtyla non mancò certo di criticare il consumismo occidentale e lo sfruttamento dei lavoratori in ambiente capitalista. Ma, come osservano i suoi biografi [chi voglia approfondire può leggere  di Andrea Riccardi, Giovanni Paolo II, la biografia], egli fondamentalmente apparteneva al mondo comunista; il suo assillo principale era di ricongiungere quel mondo, il suo mondo, all’altra parte dell’Europa, che era dominata dal capitalismo, ciò che non poteva farsi senza abbattere l’economia comunista e i sistemi politici comunisti:   era per questo che, presentandosi  per la prima volta dopo la sua elezione ai fedeli in piazza San Pietro (tra i quali c’ero anch’io), ci disse di venire da un paese lontano,  “lontano, ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana.” Scrive Riccardi nel libro che ho citato (pag. 159):
“A Cracovia si soffriva la forzata lontananza dal cuore dell’Europa, proprio nella città che era divenuta  un punto di rifugio  della cultura polacca  nel  clima asburgico  e nel contatto con quella austro-tedesca. Un papa di Cracovia non è distante dal resto dell’Europa. Ma il papa viene da lontano non per la distanza geografica o culturale, ma perché appartiene al mondo comunista.
[…]
  L’utopia europea di Giovanni Paolo II si radica nella sua cultura che guarda all’Europa da quella particolare  giuntura  tra mondi che è la Polonia. Nell’enciclica Slavorum Apostoli [=Apostoli degli slavi; ci si riferisce ai santi Cirillo e Metodio], Giovanni Paolo II si definisce «il primo papa chiamato alla sede di San Pietro dalla Polonia e, dunque, dal mezzo delle nazioni slave». Il papa parla spesso di un’Europa che respira con «due polmoni», alludendo alla tradizione  occidentale e orientale (a questa espressione - disse a padre Duprey - lo aveva familiarizzato un suo professore di seminario). L’immagine dei «due polmoni» è del russo Viaceslav Ivanov, vicino a Solov’ev, esule a Roma, professore di letteratura russa al Pontificio Istituto Orientale. Ivanov, accostatosi al cattolicesimo senza abiurare l’ortodossia, morì a Roma nel 1949. E’ significativo che Giovanni Paolo II abbia ricevuto nel maggio 1983 i partecipanti  a un convegno su questo intellettuale russo.  In quell’occasione  ricorda le parole di Ivanov in una lettera del 1930, in cui affermava  di aver sofferto per la divisione «dall’altra metà di questo tesoro vivente di santità e grazia, e di respirare, per così dire, come un tisico con un solo polmone». Un cattolico, per il papa, «deve avere due polmoni, cioè quello orientale e occidentale.”
  Questo suo problema principale, riunire le due parti d’Europa portando l’oriente  verso l’occidente, portò Wojtyla a non comprendere l’evoluzione del socialismo dell’Europa occidentale, in particolare di quello italiano, e a diffidare di quello dell’America Latina. Trattò le questioni relative, per ciò che riguardava le collettività di fede, tagliando corto, senza accettare nessuna mediazione, costruendo un’angusta gabbia ideologica in cui volle rinchiudere la ricerca teologica, in particolare con l’imposizione normativa del  suo Catechismo della Chiesa cattolica,  del 1992-1997. A ciò si accompagnò una politica di severa polizia ideologica verso i dissenzienti tra il clero e i religiosi.
  L’azione politica del papa Wojtyla ebbe risvolti spettacolari in Polonia, con l’azione del partito-sindacato Solidarnosc,  che in fondo trovò il suo programma nelle encicliche Il Redentore dell’uomo  e  Lavorando. Le urgenze degli eventi polacchi portarono il Wojtyla piuttosto vicino all’amministrazione del presidente statunitense Ronald Reagan, espressa dalla destra politica. Ma vi furono contatti, e forse intese, anche con il comunista Michail Gorbacev, presidente dell’Unione Sovietica e ultimo segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica, negli anni ’80 impegnato in una profonda riforma del sistema sovietico, caratterizzata dai due principi della glasnost, che significa trasparenza, e della perestroika, che significa rinnovamento, ricostruzione. Il Gorbacev decise di non far intervenire le forze militari del Patto di Varsavia, l’alleanza tra gli stati comunisti dell’Europa orientale dominati dai sovietici, per bloccare gli sviluppi politici che si stavano rapidamente manifestando, e questo consentì la caduta dei regimi comunisti dell’Europa orientale e la riunificazione dell’Europa, in particolare della Germania, della quale fu protagonista il democristiano Helmut Kohl. La Germania riunificata fu il principale motore della costruzione dell’Unione Europea, che comprende anche stati che furono sotto il dominio dei sovietici e del comunismo di ispirazione marxista-leninista-staliniana, e ne è rimasta lo stato guida, con la democristiana Angela Merkel. Il disegno politico del Wojtyla si è così compiuto, anche se ciò che si sta manifestando negli stati dell’Europa orientale appare molto diverso dai suoi auspici religiosi.
  Mentre il Wojtyla era impegnato in questo grande disegno politico, che comprendeva anche la progettazione di un futuro democratico per gli stati usciti dai sistemi politici comunisti, secondo gli indirizzi dell’enciclica Il Centenario, le collettività di fede italiane svolsero ruoli marginali e prevalentemente centrati sui rivolgimenti italiani. I reazionari cercarono di accaparrarsi il favore del Papa, con un certo successo. Gli altri si chiusero in difesa, in particolare nella nuova Azione Cattolica uscita dall’attuazione del Concilio Vaticano 2° e intorno ad alcuni capi religiosi preminenti, come l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Dagli anni ’90 si ebbe la dispersione culturale e personale di tutto un mondo, quello del cattolicesimo-democratico, che era stato protagonista della travagliata marcia del cattolicesimo italiano verso la democrazia, da metà Ottocento fino all’inizio degli anni ’80. E questo proprio durante il regno di uno dei papi  più politici  di sempre.
  Dall’inizio del regno del nostro Padre Francesco, ci vengono esortazioni  a riprendere quel processo di acculturazione  e sviluppo verso la democrazia. L’altro ieri, in un’intervista, ha criticato le visioni distorte  di America, Russia, Cina e Corea del Nord. Questo implica un apprezzamento per la visione europea, non compresa tra quelle altre, negative. Ha detto che se non rafforziamo l’unità europea non conteremo nulla. Questo lo pensano in molti. In questa visione si va contro i nostri populismi  nazionali, marcatamente anti-europeisti. Anche Francesco viene di lontano, ma questa volta  veramente  di lontano. Sia in senso geografico che culturale. Sotto quest’ultimo profilo, nelle sue parole si sente l’eco delle molte voci che il Wojtyla volle silenziare d’autorità. Che fare, dunque?
 Mi piacerebbe che, questa volta, ai grandi orizzonti  del Papa ne corrispondessero anche di nostri.  Un lavoro che richiede di osservare, capire, progettare collettivamente e che può farsi anche a partire da realtà di prossimità come la parrocchia.
  Ai tempi del Wojtyla i fatti europei degli anni ‘80 ci colsero di sorpresa e, tutto sommato, non ci videro come protagonisti. Lo furono, invece, gli Stati Uniti d’America, ma non come azione di massa, come era avvenuto a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70 con la stagione dei diritti civili,  ma prevalentemente come politica presidenziale, supportata da vari centri d’azione amministrativa e militare, ciò che si ripercosse con tutta evidenza, e negativamente,  su ciò che si produsse, su come l’evoluzione dal comunismo al capitalismo si realizzò in Europa Orientale e anche in Russia.
  Ora che invece l’Europa Unita, fra tante visioni distorte delle altre potenze mondiali, può diventare potenza umanitaria, il germe di un mondo nuovo, in fondo secondo gli auspici del nostro Padre Francesco, potremmo diventare molto più attivi, noi laici di fede, innanzi tutto cominciando a familiarizzarci con società e politica, in modo, innanzi tutto, da non ricadere nel desolante populismo subalterno, quello che rischia di farci diventare docile massa di manovra per ambiziosi spregiudicati, quello che vuole confermarci in tutte le nostre paure e tentazioni, rendendo ragionevole il diventare infami, abbandonando al proprio destino chi sta peggio, ripetendoci che non c’è altra via d’uscita e che non dobbiamo vergognarcene, perché o noi o loro. Non si tratta più, come ai tempi del Wojtyla, del  riunificare l’Europa per l’Europa stessa,  ma di potenziare il processo di unità europea per creare un agente di massa sufficiente per iniziare a riformare il mondo intero.

76. Noi  e il mondo

  Nel 1982 fu pubblicata un’edizione in quattro volumi degli scritti di Enrico Bartoletti, segretario generale della Conferenza Episcopale italiana negli anni ’70, cruciali per l’attuazione dei principi enunciati durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Andai alla presentazione dell’opera, e un amico mi prestò  una copia di quei  libri. Confesso che sono rimasti sempre con me. In questo momento ho tra le mani il quarto volume, intitolato La Chiesa nel mondo.
   L’ultimo Concilio produsse un grandioso mutamento di prospettiva nelle nostre relazioni religiose con  il  mondo, vale a dire con tutto ciò che c’è fuori degli spazi liturgici. Come sempre accade in queste cose, prima  venne la sperimentazione, la pratica, e poi ci si ragionò sopra in teologia.
 A che cosa serve lo stare insieme, in religione?
 A rendere presenti realtà soprannaturali, ci insegnano i teologi. Non accade solo nella liturgia, non è faccenda solo da preti. Il nostro lavoro di fedeli in società non è indifferente, non serve solo ad acquisire meriti  personali: si è segno  di realtà soprannaturali e loro strumento. Ci sono un metodo  e una  via che conducono ad esse e tutti i fedeli ne fanno parte e ne sono, quindi corresponsabili.
  Per certi versi, nei secoli precedenti le società religiose secondo la nostra fede venivano viste come un mondo a parte. Un sopra-mondo  nel quale era molto visibile il clero, organizzato al modo di un impero religioso con una propria gerarchia molto ben definita. Di questa organizzazione era membri a pieno titolo i membri degli istituti di vita consacrata, monaci e monache, frati e suore, con loro speciali ordinamenti. Poi c’erano tutto gli altri, semplicemente soggetti al potere altrui, ma solo per una parte delle loro vite, perché per il resto erano sudditi dei sovrani civili.  La presenza di tutti questi altri non caratterizzava l’insieme: ci fosse o non ci fosse, in fondo, era indifferente. Potevano esserci o non esserci, ma quel sopra-mondo andava avanti lo stesso. Si cercava di coinvolgerli come sudditi religiosi, perché la missione  consisteva, in definitiva, in questo. O anche  in questo? Il bene principale era considerato infatti mantenere integra l’organizzazione gerarchica, il suo spazio di libertà nei confronti dei sovrani civili, l’integrità dei suoi beni, la maggiore esenzione possibili dagli altri poteri, sotto i profili politico, fiscale, giurisdizionale. Questo, naturalmente,  per portare tutti al Cielo. La sola via  per ottenere quella salvezza  era quella di farsi sudditi religiosi. Ancora ai tempi nostri vi è traccia di questa concezione, quando si dice la Chiesa fa, la Chiesa dice,   e si intende riferirsi al papa e ai vescovi, e qualche volta anche ai preti e ai religiosi. In questa concezione sono molto importanti i diritti  dell’organizzazione religiosa, intesi come il complesso di libertà, proprietà  ed esenzioni riconosciute dalle autorità civili. Si viene a patti con i sovrani civili, attraverso  concordati,  o altri accordi simili tra autorità religiose e civili, si stabilisce una sorta di condominio  sui sudditi, e, una volta raggiunte queste intese, non si sta a sindacare, dal punto di vista religioso, le politica dei sovrani civili ai quali in questo modo ci si è federati. Decidono la guerra? In questo caso i diritti  che si rivendicano sono solo:  l’esenzione  di preti e religiosi dal combattimento e la libertà  di assistere spiritualmente i combattenti  e, in genere, i morenti, compresi i condannati dalle corti militari secondo il diritto di guerra (negli opposti eserciti belligeranti, nel caso di conflitti tra nazioni che seguissero la nostra fede). Lorenzo Milani, negli anni ’60, in una polemica con i cappellani  militari, i preti inquadrati militarmente nel nostro esercito, fece notare che ai preti e ai religiosi il Concordato  stipulato nel 1929 con il Regno d’Italia, e rimasto in vigore in epoca repubblicana, riconosceva il diritto all’obiezione di coscienza  che invece costava il carcere ai nostri fedeli che lo invocavano. Questo rende bene l’idea della situazione dell’epoca.
  Di solito, quando si racconta degli eventi del Concilio Vaticano 2°, e nella prassi parrocchiale lo si fa piuttosto di rado, si inizia con il dire che fu richiesto un maggiore impegno dei laici. Questo essenzialmente perché dei laici oggi si ha bisogno per integrare il lavoro dei preti, che sono sempre meno. Così però finisce che i laici appaiono come arruolati  nei ranghi parrocchiali o di altri settori dell’organizzazione religiosa come una specie di preti onorari, o di  vice preti, al modo in cui accadeva nel West, in Nord-America, in cui lo sceriffo  per certe emergenze poteva nominare dei vice.
  In realtà l’impegno nuovo dei laici progettato dai saggi dell’ultimo Concilio conseguì ad una nuova idea della missione religiosa, che troviamo in particolare in due documenti molto importanti approvati e diffusi dal Concilio Vaticano 2°, le Costituzioni Luce per le genti  e La gioia e la speranza. Si ritenne che per la fede non potesse essere indifferente come andava il mondo, anche dopo aver sistemato le questioni dei  diritti  dell’organizzazione religiosa.
 Occorre infatti:  consociare le forze, risanare le istituzioni e le condizioni del mondo,  se ve ne siano che  provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano le virtù (Cost. Luce per le genti, n.36). Ed è qui che entrano in campo i laici in una nuova posizione, con una nuova  dignità. Servono per questo lavoro di trasformazione del mondo secondo i principi di fede, che, nel gergo teologico,  viene espresso  con “trattare le cose temporali [vale a dire del mondo] ordinandole secondo i principi di fede”  (Cost. Luce per le genti  n. 31).  Devono essere competenti, certo, per questo devono essere  formati adeguatamente,  certo,  ma il loro compito non si esaurisce nell’essere  consulenti. Devono anche lavorare nella società, in spirito di dialogo fraterno con le altre sue componenti (Cost. La gioia e la speranza  n. 92) per il conseguimento del  bene comune  (Cost. La gioia e la speranza  n. 73).
 Perché:
 Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. (Cost. La gioia e la speranza  n. 1).
e:
 Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità  a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito (Cost. La Gioia e la speranza  n.3)
pertanto:
 Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. (Cost. La Gioia e la speranza  n.4)
  Quindi non “ci sono anche i laici, troviamo loro da fare”, ma “c’è un lavoro in società da fare in cui i laici sono indispensabili”.  Il nuovo ruolo dei laici avrebbe richiesto anche modifiche organizzative, che però non si riuscì, in gran parte, non dico a realizzare, ma proprio a progettare. Come è evidente dalla lettura della Costituzione Luce per le genti, le nostre collettività religiose sono rimaste ancora organizzate come un impero religioso feudale, secondo l’impostazione data loro tra l’Undicesimo e il Sedicesimo secolo,  e questo  pur nel contesto di una diversa teologia.
 Secondo le statistiche del 2014, i  battezzati nella nostra confessione religiosa sarebbero un miliardo e trecento milioni, circa il 17% della popolazione mondiale.  dei quali circa un milione sono preti, diaconi, monaci e monache, suore e frati, in questa quota compresi il papa e i vescovi. E’ una popolazione mondiale più o meno uguale a quella dell’attuale Repubblica popolare cinese. I due sistemi politici, quello nostro eligioso e quello cinese presentano qualche somiglianza, anche se il secondo è molto più complesso. Fondamentalmente in entrambi il potere scende dall’alto. Non vi è ammessa la democrazia come la si intende in Europa. Nel primo, però, è tollerata nei sudditi una maggiore libertà ideologica, salvo che per i funzionari del clero e dei religiosi. Quando si viaggia su quei numeri, quella della democrazia è una vera sfida. Come tenere tutto insieme? Senza poi poter contare su di un apparato poliziesco come quelli degli stati.
 Certe volte si ha l’impressione che i nostri capi religiosi, tutti appartenenti al clero, vadano per la loro strada, come nei secoli passati. Parlano di noi, ma senza di noi. Noi parliamo loro della società e di noi, ma quelli sentono solo quello che vogliono sentire. Poi legiferano, ma noi obbediamo quello a cui ci sentiamo di obbedire. Noi e loro, poi, facciamo come se tutto andasse come deve. Perché, se si dovesse cambiare veramente, nulla sarebbe più come prima, nelle loro vite e nelle nostre vite, e per noi laici sarebbe molto più impegnativo di adesso. Così, in genere, ripieghiamo nel ruolo di sudditi, che fu del passato. Così però la religione diventa insignificante e inutile, un po’ la ciliegina sulla torta  delle nostre vite per il giorno della festa, come lamentano i nostri critici. Continuiamo a fare massa per garantire i diritti  della nostra organizzazione religiosa, le sue libertà, le sue proprietà  e le sue  esenzioni, e anche un ingente e automatico flusso di finanziamenti pubblici che, solo, consente di tenere in vita l’organizzazione religiosa. Ma, fatto questo, non ci sentiamo veramente impegnati a molto di più.  E i principi di condivisione delle  gioie, speranza, dolori, tristezze e angosce? Il lavoro di trasformare il mondo  secondo i principi di fede? Ci passiamo un po’ sopra, non è così? Ecco che poi, ad esempio, sentiamo proclamare nella nostra politica il proposito “aiutiamoli a casa loro”, che significa in definitiva  respingere, e non ci sentiamo interpellati religiosamente, in questo non nostro rifiuto dell’impegno etico di condividere  sofferenze altrui.
  Va bene, questa è l’analisi. Che si fa?
  Proviamo a sperimentare dei cambiamenti. Quello che appare tanto difficile nel piccolo regno vaticano, nel quale la Curia appare come prigioniera del proprio ruolo storico e delle alte muraglie dietro cui è arroccata, può essere più facile in una realtà di prossimità come una parrocchia. Impariamo a praticarvi la democrazia, che non è solo metodo di conta per decidere chi ha vinto, ma anche e soprattutto sistema di valori. Impariamo a rendere conto  pubblicamente di ciò che facciamo. Se si progetta, poi si facciano bilanci dei risultati. Si discutano apertamente le modifiche da fare. In ogni cosa, anche a partire dai più giovani, si attivi la corresponsabilità. Contrastiamo la clericalizzazione dei laici. Rendiamo pubblici i conti della gestione e l’inventario.

77. Che portiamo al mondo?

   Ho menzionato un libro di scritti di Enrico Bartoletti che avevo tra le mani, intitolato La Chiesa nel mondo, l’ultimo di un’opera in quattro volumi, del 1982.  Bartoletti morì nel 1976, da segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, l’istituzione che riunisce i vescovi italiani. Lo era diventato nel 1972. Si era agli inizi della fase di attuazione del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), al quale Bartoletti aveva partecipato. Chi ha studiato il suo lavoro concorda che il suo ruolo fu molto importante. Egli lo definì come quello di traghettare la Chiesa Italiana sulla sponda del Concilio. Fu scelto come segretario generale perché aveva iniziato a farlo con sapienza e efficacia già durante il Concilio, a Lucca, dove faceva il vescovo e poi  anche dopo, in particolare nel progettare il rinnovamento della catechesi. La raccolta di scritti a cui faccio riferimento inizia con un intervento del gennaio 1962 al Movimento dei Laureati Cattolici, un’organizzazione di Azione Cattolica che oggi, con maggiore autonomia organizzativa, si chiama MEIC - Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale. Il Concilio era stato indetto pochi giorni prima. Dalla lettura si capiscono le attese che si ebbero verso il Concilio. Il discorso comincia appunto con il riferirsi ad un  carico di speranze e di attese. Ma Bartoletti chiarì anche che non si trattava di un inizio di una nuova stagione, ma della presa d’atto di un inizio  che c’era già stato, già si  viveva. Era un fatto buono? Bartoletti riteneva di sì. Occorreva però ripensare il modo di stare insieme e, innanzi tutto, le ragioni e il senso dello stare insieme, in religione: quindi serviva una adeguata teologia.
   Che cos’è la teologia? E’  ragionare sulla nostra fede collettiva, sulla religione e sulla liturgia, sullo stare insieme nella fede. Spesso si ha presente prevalentemente quella che si occupa di esporre le verità individuate e ritenute come fondamentali e come tali anche proclamate dall’autorità religiosa: la teologia dogmatica. Questo perché i catechismi, specialmente quelli per la formazione degli adulti, vi fanno molto riferimento. Ma la dogmatica  non è tutto. Si tratta anche di capire il senso religioso di ciò che si fa. E’ per questo che praticamente ogni attività umana ha una sua teologia. C’è, ad esempio, una teologia del lavoro, ma anche, ne ha parlato il nostro Padre Francesco qualche giorno fa in un intervento che ho trascritto su questo blog, una specie di teologia dell’ozio. Se ragioniamo sul senso dello stare insieme in religione i due aspetti sono presenti entrambi: la dogmatica  e la riflessione religiosa sul lavoro che si fa. Che relazioni ci sono tra di loro, qual è la più importante? Nasce prima la seconda:  i dogmi, infatti, le concezioni ritenute fondamentali e caratterizzanti della fede, ne sono sviluppi. Nella nostra confessione vengono proclamati d’autorità dai concilio e dai papi. Individuato un dogma, si cerca di farlo entrare nella  tradizione e di trovargli anche precedenti in quella passata. Quindi l’altra teologia vi è soggetta. Ma ci sono anche sviluppi nei dogmi, successivi alla loro proclamazione, per approfondirne la comprensione. Ci lavorano la teologia dogmatica e l’altra teologia. E’ quello che è accaduto proprio nel Concilio Vaticano 2° su diversi temi, in particolare sulle ragioni,  il senso e il modo di essere delle nostre collettività di fede. Tra le leggi  date dal Concilio vi è infatti una grandiosa Costituzione dogmatica sulla Chiesa, denominata Luce per le genti dalle prime parole del suo testo: “Cristo è luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini della luce del Cristo che risplende nel volto della Chiesa”. Questa è dogmatica. Poi c’è la riflessione sul senso religioso del lavoro che si fa collettivamente: ad essa è dedicata un’altra grandiosa Costituzione, quella denominata La gioia e la speranza, che inizia così: Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.  L’intera mia vita di fede, così come quella dei miei coetanei credenti,  è stata  centrata su quei documenti. La prima vera acculturazione a quei testi la ebbi con la lettura degli scritti di Bartoletti, raccolti dal suo segretario Pietro Gianneschi, che oggi è parroco nella parrocchia di San Vito, nella diocesi di Lucca. E’ lui che mi prestò   i volumi di cui ho scritto ieri e oggi.
 Disse Bartoletti ai Laureati Cattolici, in quell’intervento del 1962:
[…] il Concilio sarà altresì, una nuova Pentecoste; più volte il Santo Padre ha parlato di ringiovanimento della Chiesa, di purificazione interiorecioè, e conseguentemente di rinnovamento delle sue strumentazioni apostoliche, in faccia alla realtà nuova del mondo moderno da evangelizzare ed assumere.
  E li esortò a prepararsi al Concilio:
[…]Prepararsi  a comprendere la vastità dell’impegno della Chiesa intera, che si mette a confronto con la realtà del mondo, così vasta e sconcertante.
  Prepararsi a percepire i due termini di confronto, nella loro piena accezione, e nella loro dimensione esistenziale.
  Prepararsi, soprattutto, a realizzare quell’incontro, salvifico tra la Chiesa e il mondo che non può avvenire senza di noi o fuori di noi, essendo tutti, in maniera diversa, compresenti all’una e all’altra realtà, sì da costituire naturale elemento di congiunzione e strumento di penetrazione.
 Prepararsi; in modo da dare ciascuno modestamente il proprio contributo, oltreché di preghiera, anche di studio e di esperienza cristiana, presentando difficoltà e insuccessi, offrendo disponibilità e collaborazione.
 Quindi c’era nelle sue parole l’idea di un Concilio che non fosse solo un congresso di dignitari religiosi, ma che coinvolgesse tutte le persone di fede perché dessero anche un  contributo di studio e di esperienza cristiana. Perché, in fondo, che cosa si porta innanzi tutto al mondo, da persone di fede, nell’incontro? Portiamo noi stessi in quanto  partecipi di un’unità soprannaturale, di cui ci sforziamo di farci  tramite verso gli altri, verso il mondo, perché “Per analogia con Gesù Cristo - lui solo dà una giusta nozione della Chiesa che è il suo corpo  e la sua manifestazione terrestre - il divino è in esse sempre legato all’umano. Fino alla fine dei tempi la Chiesa rimane mistero di Dio e opera dell’uomo, un unico ministero di luce e d’ombre [Hans Kung, Il Concilio e il ritorno all’unità, 1961, citato da Bartoletti nel discorso ai Laureati Cattolici del 1962].
 Proseguì Bartoletti:
 […] è possibile fissare un momento storico della vita della Chiesa; per questo è doveroso, per noi cristiani, confrontarla col mondo e vedere i suoi rapporti con esso.
  E’ chiaro, la Chiesa non è il mondo e non è del mondo; ma pure vive nel mondo - Chiesa peregrinante - e vi è immersa secondo il piano stesso di Dio, come in cosa che le appartiene, appartenendo a Cristo, che la riconduce a sé.
  Ché, anzi, il mondo è nella Chiesa attraverso di noi, che del mondo portiamo la cultura e la mentalità, i problemi e le istanze, il male da redimere, il bene da soprannaturalizzare [=rendere manifesto il senso religioso del bene che c’è],
  Chiesa di uomini e Chiesa anche di peccatori, che cerchiamo in lei redenzione e salvezza.
  Per questo il cammino della Chiesa è tanto difficile nei secoli: essa deve stabilire il suo incontro col mondo, senza restare “mondanizzata”[livellata ad un gruppo sociale tra i tanti  e come tanti], portare la nostra debolezza, senza per questo rimanerne indebolita; attraversare la nostra opacità, senza per questo perdere la sua lucentezza.
  Sta di fatto che il volto della Chiesa, adeguatamente considerato in un momento della sua storia, è la risultante di questa duplice componente: il dono permanente di Dio e la risposta degli uomini.
  La realtà e la vita della Chiesa, oggi, scaturisce da una sorgente che è in Dio e nell’atto costitutivo di Cristo; ma è anche frutto della sua storia precedente, come dei rapporti che essa assume col mondo attuale, in una convergenza della libera cooperazione dei suoi membri all’azione liberissima e sempre nuova dello Spirito Santo.
   Sono passati cinquantadue anni dalla fine del Concilio Vaticano 2°. E allora? Che ne è stato delle attese e speranze che ne accompagnarono l’annuncio?
  Si è, in fondo, ancora appena agli inizi del lavoro che si era progettato. Ma non solo. Quello che si stava realizzando ha spaventato. Ad un certo punto si è sospesa d’autorità l’evoluzione. Ciò accadde durante il lungo regno religioso di san Karol Wojtyla. Così, l’organizzazione delle nostre collettività religiose non è molto cambiata da com’era negli anni Cinquanta: vi si sono solo affiancate  altre componenti che fanno prevalentemente vita propria. La teologia si è molto rinnovata e ha visto anche la comparsa di una generazione di teologhe. Ma la formazione religiosa delle masse è ancora piuttosto carente: e, in fondo, sembra che a volte si preferisca che rimangano quello che sono, masse appunto, che vanno dove si dice loro e fanno ciò che si richiede loro, secondo quello che è scritto nel foglietto  che viene distribuito nei grandi eventi  che i nostri capi religiosi periodicamente organizzano. Nelle parrocchie la situazione non è poi molto diversa da quella di sessant’anni fa e, in fondo, sono proprio i laici ad essere riottosi al cambiamento. I preti, i quali una volta erano tanto partecipi della vita sociale della nazione, spesso si sono spiritualizzati, non riescono a spiegare bene il senso religioso della vita civile,  e se vengono da altre nazioni conoscono poco i fedeli. Si sono scoraggiate le sperimentazioni, timorosi di perderne il controllo. L’altro giorno a Roma è morto Giovanni Franzoni, che fu benedettino, abate della comunità monastica di San Paolo fuori le mura e che partecipò con il rango di vescovo al Concilio Vaticano 2°, il più giovane tra i saggi che vi presero parte. Le sue sperimentazioni religiose furono duramente represse, perse tutto come maestro e capo religioso, salvo l’affetto della sua comunità di base  e di molti altri che lo stimavano.  Una storia che lo accomuna a molti altri brillanti  sperimentatori  sulla via tracciata dai saggi del Concilio, come ad esempio il teologo Kung citato da Bartoletti.
  I documenti del Concilio sono poco conosciuti. Si  è spesso insegnato a diffidarne pregiudizialmente, propinandoli con un'avvertenza simile a quella che si legge sui pacchetti di sigarette: "può nuocere grandemente alla salute dello spirito". Lo avverto tutta la volta che provo a parlarne. Si è spinti ad accontentarsi di  compendi  di dogmatica. Ma è proprio dalla formazione e dalla sperimentazione che bisognerebbe ripartire. Un maggior impegno dei laici richiede, in particolare,  lo sviluppo di procedure democratiche anche nelle collettività religiose: consiglio, nella formazione, di partire da una specie di teologia della democrazia. Ci può essere? Certo, perché possiamo trovare il senso religioso di ogni nostro bene.

78.  Costruire democraticamente le basi della convivenza in religione


  Mi ha sempre stupito il malanimo con cui si sta insieme in religione. Ci si guarda in cagnesco e ci si sopporta a stento. Si sta prevalentemente con quelli della propria fazione. Praticamente in tutti gli ambienti che ho osservato è così. Fioriscono i pettegolezzi. E’ un male antico: se ne parla già nelle Scritture che risalgono alle prime nostre collettività di fede. Tra laici va peggio perché, in genere, si sa troppo poco di tutto. Viene a mancare una base comune. E’, questo della nostra incultura religiosa, un problema veramente generale, che periodicamente viene stigmatizzato. C’è proprio una letteratura che riporta gli strafalcioni e le baggianate che circolano. Tra i sapienti non è che le relazioni personali siano migliori: ci si detesta, però, sapendo bene perché, avendo chiare e distinte le ragioni per cui lo si fa. Ha quindi ragione il nostro parroco, quando sostiene che il vero problema è proprio quello di cominciare a volersi bene. E’ paradossale che sia così difficile in una fede in cui si parla tanto di agàpe, di benevolenza conviviale.
  Ciascuno entra in religione con la sua verità. Non ha poi tanta voglia di ascoltare quelle degli altri. Ma c’è poi la  verità? Come dubitarne? Sarebbe sorprendente che fosse diverso, dopo la serie infinita di conflitti su questioni di verità. Ai tempi nostri si è però più prudenti e si pone l’accento sulla ricerca  della verità, di generazione in generazione. Possiamo confidare, quindi, che la verità ci sia, ma non è nelle nostre mani, non la possediamo, non possiamo farne ciò che vogliamo, ne possiamo solo diventare discepoli. Infatti la  verità è di origine soprannaturale: così si pensa in religione. Ne abbiamo varie formulazioni, definizioni, che abbiamo tramandato nei due millenni della nostra storia, e praticamente ogni generazione di teologi ci ha messo mano, soprattutto nell’interpretazione e nelle rifiniture. Scrivono anche che ci sia una gerarchia delle verità, quindi un loro ordine per cui non hanno lo stesso grado di resistenza alle obiezioni e alle integrazioni. Ad esempio ne tratta un documento del Concilio Vaticano 2°, il Decreto sull’ecumenismo Ristabilire l’unità:  “[…]nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà. Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino cheesiste un ordine o «gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda cognizione e più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo.  Ma parlare di  verità  complica un po’ le cose. Può sembrare che mettere una qualche  verità  un po’ più giù in classifica sia relativizzarla. Oh, ecco il relativismo! Se però, per farci un’idea, parliamo di  definizioni, l’ansia diminuisce. Ho letto che anni fa san Karol Wojtyla parlò di epilessia a proposito di certi episodi evangelici che raccontavano di gente con la bava alla bocca, scossa da convulsioni  e via dicendo. Aggiunse che, in quelle condizioni, si poteva essere più esposti all’azione dei demòni, questo naturalmente per spiegare il contesto scritturistico, in cui si parlava di gente invasa da quegli esseri soprannaturali. Parlava un papa, ma questa cosa dell’epilessia che renderebbe più vulnerabili ai demòni non mi convince tanto. Non ne parlerei neanche come di una  verità. Del resto il santo non era un medico, ma un filosofo e teologo. Non mi faccio problemi a dissentire su quel tema. Do per certo, invece, che il Maestro si dedicasse a risanare gli ammalati e che collegasse questa sua azione benefica al suo insegnamento religioso.
  Ma in parrocchia non dobbiamo rifare un Concilio. Si è già provveduto. Né, preti a parte, siamo teologi. Abbiamo di solito un’immagine un po’ approssimativa delle  verità  della fede. Le conosciamo, non dico attraverso compendi, ma spesso attraverso sintesi di riassunti di compendi, per di più lette chissà quando. Infatti non di rado ce ne usciamo con opinioni discutibili, sulle quali però in genere, per amor proprio innanzi tutto, non accettiamo discussioni. E lacarità  umiltà consigliate sopra, dove sono? Siccome sappiamo poco di tutto, allora cerchiamo di tirare i preti dalla nostra parte; loro naturalmente resistono, e allora critichiamo anche loro. Fosse poi solo per le questioni che ammettono più opinioni! Ma sulla carità, come si fa a dissentire? Qui  siamo veramente molto in alto nella  gerarchia delle verità. Un papa ci dice: siate caritatevoli, soccorrete i fratelli in pericolo. Dico un papa. Fa il suo mestiere. E lo fa in linea con le Scritture e la Tradizione, il Magistero di sempre. Dov’è il tuo fratello? Ma a noi, a volte, pare eretico quando dice così. Quand’è però che i papi hanno mai detto qualcosa di diverso? E’ eretico rispetto all’opinione comune che consiglia di ributtare a mare  i sofferenti. Ecco che allora abbiamo rifatto in quattro e quattr’otto un Concilio, inaugurato una nuova dottrina, quella che approva chi sbotta “E che, sono il guardiano di mio fratello?”.
  In parrocchia dovremmo morderci la lingua tutte le volte che, da laici!, ci viene di scomunicare qualcun altro, di lanciargli conto l’antica invettiva  “Anàtema!”,  vale a dire “Maledetto!”,  come i saggi (si fa per dire) degli antichi Concili, che avevano la scomunica facile, ma comunque erano sapienti. Il passo successivo è infatti quello di indicare la porta in uscita a chi disapproviamo in quel modo.
 La gran parte del lavoro che da laici facciamo in parrocchia non mette in questione definizioni cruciali per la fede e questo, in particolare, quando programmiamo il lavoro da fare in società, ad esempio nel quartiere. Al fondo di quelle che appaiono controversie su verità in genere possiamo facilmente individuare ragioni politiche. E’ per questo che, in definitiva, ci si divide in religione. Ma la politica ha vie di risoluzione che sono diverse da quelle della teologia, che si occupa di definizioni relative a verità di vario livello. La base è accordarsi, con una specie di costituzione,  sul mantenimento di un ambiente di agàpe. In democrazia si esprime la stessa cosa dicendo che occorre rispettare la dignità e la libertà degli altri. Ogni potere abbia un limite, in estensione e durata. Nessuno deve cadere completamente in mani altrui. Nessuno deve essere costretto a svelarsi completamente, se non nel Sacramento della Confessione. Sia sempre consentito il dialogo e di seguire vie diverse se non pongano in pericolo l’agàpe. Ogni giudizio sia sempre collegiale, ammettendo più voci.  Non si disprezzi mai chi è con carità e umiltà alla ricerca del vero e si sforza sinceramente di capire. Si sappia distinguere l’errore dall’errante, perché quest’ultimo è persona umana che mai e poi mai può essere privata, per qualsiasi motivo, della sua dignità.
  Naturalmente in questo lavoro la presidenza dell’apostolo è molto importante. Deve sapere mantenere un ambiente pluralistico. Ma con il tempo, con il consolidarsi di tradizioni democratiche, bisogna anche suscitare una resistenza collettiva alle degenerazioni che possono esserci, come in ogni collettività umana, quindi produrre una vera e propria tradizione in quel senso. E’ una conquista culturale. A volte si è troppo clero-dipendenti. E’ problema che si manifesta anche su scala maggiore. Cambia un papa e cambia il mondo religioso. Allora c’è la tentazione di colpire il pastore per disperdere il gregge. Ma, in fondo, è proprio il gregge che deve uscire da quella sua condizioni di gregge, per farsi collettività umana. A questo appunto servono i processi democratici, su grande e piccola scala.

79. Sperimentare nuove forme di democrazia

  La democrazia come oggi la intendiamo, vale a dire come ordinamento  per l’universale partecipazione al potere politico sulla base di un sistema di valori umani, è esperienza piuttosto recente, risale infatti a circa due secoli fa,  a partire dall’Europa. Se ne sono avuto diverse concezioni, tutte molto diverse da quelle più antiche, ad esempio da quelle dell’antica Atene, dell’antica Roma o dei Comuni medioevali. Dalla fine della Seconda guerra mondiale si collegano democrazia e pace, nel senso che si ritiene che un ordine internazionale possa essere fondato solo su basi democratiche. Quest’idea è ancora più recente di quelle su cui si fonda la concezione moderna della democrazia: all’inizio non c’era e, anzi, le potenze democratiche si erano dimostrate storicamente piuttosto bellicose. Essa origina sostanzialmente dal pensiero cattolico. La troviamo nel primo documento nel quale il papato romano aprì alle concezioni democratiche, dandone anche una prima ideologia sua propria, il radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Eugenio Pacelli, in cui si legge, nel paragrafo intitolato Il problema della democrazia:
“[…] sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono [=richiedono] un sistema di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società?
  Fu il punto di arrivo di una lunga evoluzione, mediata dall’azione politica dei cattolico-democratici, in particolare nella fase di ripensamento della politica europea prodottasi durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945). All’inizio del secolo, invece, il papato, con le encicliche Le gravi controversie sulle questioni sociali (del 1901)  e Fin dal principio (1902) aveva condannato il pensiero e la politica democratici, considerando come eresia l’idea che potessero accordarsi con l’azione sociale ispirata dalla fede, vietando addirittura  ai sacerdoti di impegnarsi i movimenti  democratici-cristiani  e ai seminaristi di acculturarsi alla democrazia.
  Dal Settecento i processi democratici prendevano come loro soggetto attivo di riferimento  il popolo. C’era la convinzione che i sovrani degli antichi regimi non facessero gli interessi del popolo, non esprimessero la volontà del popolo. Si pensò di cambiare la situazione mediante nuove istituzioni che prevedessero una partecipazione del popolo, essenzialmente mediante elezioni di rappresentanti in organi più ristretti ai quali poi era attribuito di stabilire leggi  uguali per tutti. Questo sistema richiedeva maggiori spazi di libertà per la gente, che si voleva elevare dalla condizione di suddita a quella di cittadina. Nei primi ambienti democratici contemporanei, tuttavia, questa partecipazione aveva dei limiti piuttosto ristretti, a paragone con gli spazi che oggi sono consentiti. I periodi rivoluzionari avevano coinvolto le masse, ma al dunque, quando si trattò poi di prendere decisioni politiche nella gestione ordinaria delle nazioni, tutto andò diversamente. I sistemi elettorali posero in genere gravi limiti alla partecipazione delle classi più povere e incolte. Queste ultime erano però quelle che più risentivano dei disordini internazionali, in particolare delle guerre. La politica era fatta tuttavia dalla classi dominanti che non temevano le guerre, pensando di ricavarne profitti. Sembrava che un ordine pacifico internazionale fosse utopia da filosofi: l’aveva teorizzato, ad esempio, il filosofo illuminista Immanuel Kant (1724-1804), in un suo libretto intitolato La pace perpetua. Fatalmente ogni popolo sembrava finire per questionare con gli altri, in controversie non risolvibili che con la guerra, non essendovi un’autorità superiore universalmente riconosciuta. Ma chi era il popolo? Se ne ebbe a lungo un’immagine vaga e intellettualistica. Lo si concepì come un organismo che abitava la storia, un po’ come gli individui che lo componevano. Non se ne percepiva il pluralismo interno: fu lo sviluppo del pensiero sociologico, a partire da metà Ottocento, a metterlo in luce.
 Il pensiero cattolico, che non aveva il problema di definire il popolo come nuovo sovrano sociale in quanto riconosceva la sovranità, il potere supremo, ad un ordine soprannaturale del quale il papato era il rappresentante nel mondo, riuscì a rendersi conto di quel pluralismo, innanzi tutto perché iniziò a viverlo, nelle tante iniziative sociali che si svilupparono dalla metà dell’Ottocento, sugli esempi che venivano da altre parti d’Europa e, in particolare, per iniziativa del socialismo. Troviamo descritta questa realtà nella prima enciclica sociale  dell’era contemporanea, la  Le  novità  del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, del 1891. Quest’ultima era volta essenzialmente a far prendere al papato il controllo di quel vasto e vivace movimento per indirizzarlo politicamente secondo gli interessi del papato in quel momento. E’ proprio per questo che inizialmente se ne vietarono gli sviluppi democratici-cristiani: la politica, in particolare la gestione delle relazioni con il Regno d’Italia da poco fondato, competevano al papato. In questa concezione i movimenti  presenti nella società erano apprezzati in particolare nel loro effetto di critica sociale  contro l’ordine liberale-borghese dominante.  A cavallo tra Ottocento e Novecento il papato aveva in corso con il  Regno d’Italia la cosiddetta  questione romana, vale a dire la rivendicazione del papato della restituzione del suo piccolo regno nel Centro d’Italia, comprendente anche Roma. La cosa non era più fattibile e alla fine il papato, nel 1929, contrattò con il Mussolini, che in quegli anni egemonizzava politicamente il Regno d’Italia, risarcimenti, altre restituzioni e un piccolo regno di quartiere a Roma, e considerò la faccenda conclusa onorevolmente così. Durante il fascismo il potenziale di critica sociale del movimento cattolico fu silenziato. In particolare ciò riguardò la nuova Azione Cattolica, fondata nel 1903 con una struttura di partito popolare che rapidamente realizzò una vastissima azione di educazione sociale delle masse, comprese quelle femminili. A differenza dei movimenti che l’avevano storicamente preceduta, radunati nell’Opera dei Congressi sciolta d’autorità del papato nel 1904, l’Azione Cattolica non aveva l’obiettivo della critica sociale. Venne concepita come strumento sociale e politico sotto lo stretto controllo del papato, in un’epoca in cui si cominciò a pensare a sanare la frattura con il Regno d’Italia. Sotto il fascismo italiano la critica sociale in Azione Cattolica fu ammessa, in genere, solo nelle organizzazioni intellettuali,  come la FUCI, gli universitari cattolici, e i Laureati Cattolici. E tuttavia, l’esperienza del fascismi storici europei e gli sviluppi che avevano preso gli eventi bellici dal 1943, con la prospettiva imminente di un nuovo ordine europeo, fecero recuperare al papato l’idea di una critica sociale mediante una società con ordinamento pluralistico, per ripristinare un ordine pacifico tra le nazioni. Si ritenne infatti che questa critica sociale in ambiente pluralistico sarebbe valso a contenere l’aggressività dei poteri politici dominanti. Questa intuizione si rivelò fondata. La nostra nuova Europa, che ha realizzato il periodo di pace internazionale più a lungo vissuto sul continente storicamente, si fondò proprio su questo, sull’idea di popoli  animati da formazioni sociali che consentissero l’emergere degli interessi anche degli strati più umili della popolazione, quelli che in genere venivano ignorati o al più strumentalizzati e che erano contrari allo sviluppo delle guerre. Questo è il sistema politico centrato sul principio di sussidiarietà, che è quando il potere politico non cerca di comprimere o strumentalizzare le realtà sociali più piccole, ma anzi le aiuta e le promuove, consentendone l’azione sociale, intervenendo solo quando la società non riesce a esprimere ciò che serve per il bene comune. Bisogna dire che, però, quando, a partire dagli anni ’70, la critica sociale interessò la stessa organizzazione religiosa, essa fu di nuovo scoraggiata. In un ambiente politico come quello italiano in cui tanta importanza aveva assunto l’azione sociale di quelle  formazioni sociali animate dalla nostra fede questo aprì la strada al populismo, che oggi è appunto il principale problema della politica italiana. Il populista conferma la gente nelle sue paure e nelle sue tentazioni, la spinge all’azzardo morale, a farsi ragione da sé a spese degli altri, confermando che questa è l’unica soluzione.  Lo fa per montare sulle spalle della gente e spingersi in alto, al potere. La gente però rimane in basso, perché non è più capace di critica sociale e decide senza ragionare, ma emotivamente, divenendo succube del populista. Una volta al potere il populista continuerà sulla stessa via, potendo però contare su una disponibilità di mezzi molto superiore. E’ per questa via che in Italia si sviluppò il fascismo storico, che, nella sua forma matura, si presentò come un populismo e richiedeva anzitutto  conformismo.
   I sociologi ci avvertono che ai tempi nostri il potere politico è cambiato. Non è più accentrato negli stati o in istituzioni pubbliche sovranazionali. E’ in primo luogo un fatto dell’economia, la quale, favorita da un complesso sistema di accordi internazionali, ha preso il controllo delle società globalizzate. Si è riprodotta una divisione tra classi sociali analoga a quella osservata nell’Ottocento: dall’economia globalizzata riceviamo tutti i beni materiali della vita e una buona parte di quelli immateriali, ma essa ci domina in un sistema di scambi diseguali, che finisce per favorire un’esigua minoranza. Da qui diseguaglianze sociali molto accentuate, e sempre più accentuate. L’economia ci spinge al conformismo, minacciando che in caso facessimo diversamente non arriverebbe più ciò che ci serve per vivere. Spinge a fare ognuno per sé e in questo modo, avendo di fronte non società ma individui socializzati, ci domina meglio, confermandoci in tutte le nostre paure e tentazioni: ed è una forma di populismo dai mille volti. Siccome ci siamo convinti che ognuno debba fare per sé per salvarsi, non abbiamo argomenti per rimproverare i padroni dell’economia quando, in tempi di crisi, tolgono le tende e fuggono con il loro tesoro, lasciando tra noi solo macerie materiali e umane.
  Questo nuovo sistema è intrinsecamente disordinato, caotico, preda degli appetiti egoistici dei gruppi economici maggiori, in grado di condizionare ormai intere nazioni. E allora da questo disordine è riemerso il pericolo di una guerra guerreggiata molto estesa, non più solo dei conflitti limitati che furono caratteristici dell’epoca della  guerra fredda  (1945-1991) tra statunitensi e sovietici. Anche l’Europa ne risulta coinvolta.
 La soluzione è riprendere a contrastare i populismi di ogni tipo attraverso la critica sociale condotta in formazioni sociali pluralistiche, secondo l’intuizione del pensiero sociale cristiano. E’ molto importante l’educazione alla politica, fin da molto piccoli, con forme di tirocinio. Si tratta di rinsaldare quel sistema di limiti e valori che costituisce l’essenza della democrazia avanzata contemporanea. Far uscire la gente dallo stato di massa, soggetta acriticamente all’influsso di ogni specie di populismo. E’ una nuova democrazia  che occorre progettare e realizzare, o meglio una democrazia adeguata ai nostri tempi, che vanno anzitutto ben compresi.

80. Capire la democrazia

 Il pensiero sociale ispirato ai valori della nostra fede è arrivato a collegare pace e democrazia: si ritiene che il mantenimento della pace possa avvenire solo in un ordinamento democratico. Eppure questo nesso tra pace e democrazia è divenuto evidente solo in Europa a partire dalla caduta dei fascismi storici, dal 1945. Prima, e altrove anche successivamente, le democrazie non si sono mostrate particolarmente pacifiche e pacificanti. Un esempio di democrazia abbastanza bellicosa sono gli Stati Uniti d’America, la prima delle democrazie contemporanee, instaurata nei 1789, con l’entrata in vigore della Costituzione approvata nel 1787.
  Democrazia significa governo del popolo, ma che cos’è il popolo e come fa a governare? Di fatto il potere rimane nelle mani di una minoranza, per quanto legittimata da elezioni.  E che cosa ci assicura che il popolo  e i suoi rappresentanti prenderanno decisioni giuste? Le masse possono trasformarsi in belve, sotto l’influsso di chi riesce a dominarle. Lo avevano capito anche gli antichi greci, che furono i primi teorizzatori della politica. Infatti diffidavano della democrazia. Alcuni di loro avrebbero preferito dare il potere a dei sapienti.
 Erano democrazie i Comuni medievali, diffusisi in Europa nel Secondo millennio della nostra era e fino al Trecento, ed erano molto bellicosi.
  C’è qualcosa che è cambiato nell’Europa (Occidentale) del Secondo dopoguerra, per cui le democrazie sono divenute pacifiche? E’ successo proprio questo: è cambiato qualcosa nella concezione e nella pratica della democrazia. Ed è stata molto importante l’influenza delle ideologie e delle politiche sviluppate dai cattolici. La crisi delle democrazie europee è coeva dell’eclisse del pensiero e pratica della democrazia tra i cattolici: sono fatti avvenuti nella stessa epoca e certamente collegati.
  Parlo di pensiero cattolico, perché riconosco una specificità reale, che è nei fatti, non si tratta di mettere un’etichetta su cosa che si è formata in altro ambiente.
 All’origine delle democrazie contemporanee, dal Settecento, vi è l’idea di popolo e di legge: il popolo si dà le sue leggi, è quindi sovrano, e le impone a tutti. Attraverso delle procedure  il popolo  detta le   sue leggi: secondo questa concezione è in questo che consiste la democrazia. Si sostituisce agli antichi sovrani dinastici, quel complesso di autorità monarchiche (regna uno solo) o al più oligarchiche (il potere è del re e di un  senato  che con lui collabora) di prima, il popolo, vale a dire i suoi eletti. La legge del popolo limita tutti, si impone su tutti senza distinzione: è uguale  per tutti. Si  è uguali  perché tutti soggetti alla legge del popolo. Ma si è anche liberi, perché non si è più soggetti all’arbitrio altrui ma alla legge a cui tutti sono soggetti, che definisce i diritti e i doveri di tutti. Per tenere in piedi il sistema occorre anche imporsi doveri sociali, perché altrimenti non si sarebbe popolo, ma solo massa che si muove qua e là, a seconda delle emozioni che spazzano la gente come tempesta e la spingono. Ma anche questi doveri sono stabiliti dalla legge del popolo. Di fatto le leggi vengono scritte a fatte approvare da chi riesce a dominare le masse e così ad accaparrarsene i  consensi e il voto. In questo modo il potere del popolo, la democrazia, si può fare dispotica quanto il potere delle antiche monarchie. Il popolo può essere un sovrano dispotico. Si dice  popolo, ma sono gli strati sociali dominanti che legiferano: le guerre sono catastrofi per le masse di quelli che stanno peggio, perché da questi ultimi sono combattute nei posti più pericolosi e i vantaggi che dalle guerre si ricavano rapinando le ricchezze altrui  sono ripartiti in modo diseguale; tuttavia i conflitti vengono decisi da chi riesce a fare le leggi, da quegli strati dominanti che delle guerre possono beneficiare. Quindi le democrazie, secondo questo modello, non  sono in genere pacifiche.
  Il pensiero sociale cattolico, che poi si tradusse in una dottrina  sociale, non parte dall’idea di popolo sovrano. Nessuno può farsi sovrano, né uno solo, né pochi, né la maggioranza. Perché l’unico sovrano è in Cielo. L’atto di costituirsi sovrano  è in fondo sempre un arbitrio. Nasconde una prepotenza nei confronti degli altri esseri umani e del Cielo. Per cui, in definitiva, il lavoro politico del credente è sempre un rovesciare i potenti dai troni. La dottrina sociale non vede  il popolo, ma, più realisticamente,  un insieme di  formazioni sociali nelle quali ognuno ricava il senso della propria vita. Questo brulicare di formazioni, delle quali il papato aveva fatto esperienza nella seconda metà dell’Ottocento, descrivendola poi nella prima enciclica  sociale, la  Le novità, del 1891, costituisce un sistema di limiti sia verso l’alto, che verso gli individui, che intorno. A nessuna  sovranità deve essere permesso di abrogarlo. Ma anzi i poteri pubblici devono sorreggerlo, aiutarlo nel suo espandersi e, innanzi tutto, lasciare le formazioni sociali libere di operare per il bene universale, di tutti. Il principio di sussidiarietà. Perché appunto è questo, il bene universale, che distingue quelle esperienze sociali da altre tese a realizzare interessi privati, particolari, come le società che gestiscono imprese: ci si aiuta come fratelli nell’interesse di tutti,
Se uno cade, è sostenuto dall'altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi (Eccl 4,9-10). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prov 18,19). [enciclica Le novità, n.37],
per un fine  “universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione.” [enciclica Le novità, n.37]. E’ un fine  virtuoso  proprio perché ha di mira il bene comune, universale.
  E’ una visione di una società che cresce liberamente  dal basso, che non viene egemonizzata all’alto, da un qualche sovrano, sia pure esso  il popolo. E’ questo pluralismo incomprimibile, che i cattolico-democratici sono riusciti a inserire nella nostra Costituzione all’art.2, il limite più efficace a quella degenerazione del potere che porta alle guerre. In questa visione l’autorità opera secondo il principio di  sussidiarietà, che le vieta di inglobare tutta la società civile e di normarla dispoticamente a prescindere da essa. In una società brulicante di formazioni sociali virtuose e costantemente attive è difficile che gli interessi delle masse degli strati sociali inferiori possano venire completamente oscurati da chi detiene il potere, e che si decida di far guerra contro l’interesse dei più. L’interesse per la pace che è dei più contrasta efficacemente gli interessi bellicosi dei pochi. La politica delle masse non si manifesta saltuariamente di elezione in elezione, lasciando poi fare ai pochi che riescono a raggiungere il potere, ma è lavoro di continua generazione della società integrando gli individui che sempre richiede nuovi spazi e occasioni di bene ed è dunque azione continua in società. E’ limite che così si manifesta continuamente in società e che obietta a chi, giunto in alto, invita gli altri a farlo governare senza creare ostacoli, fino alle prossime elezioni.  Questo pluralismo è l’antidoto più efficace ad ogni potere che tenda a degenerare e a farsi assoluto, secondo la tentazione che è di ogni potere, anche in ambiente democratico, se non lo si contiene con limiti efficaci. Ma come evitare che il pluralismo sfasci la società? Occorre diffondere e sostenere un sistema di valori, primo tra tutti quello dell’agàpe, secondo il quale si ritiene che si debba far posto a tutti come in un lieto convito. Agàpe viene tradotto in italiano con  carità ed è per questo che nel pensiero sociale cattolico si sostiene che la politica  è una manifestazione di carità molto importante. Questa ideologia, di matrice sicuramente cattolica, il capolavoro dottrinale del papato romano dalla fine dell’Ottocento nonostante l’indole generalmente reazionaria dei singoli papi, è alla base dell’ordinamento politico della nostra nuova Europa. Ecco perché è così importante che i cattolici riprendano a ragionare e a fare di tirocinio di democrazia.

81. Comprendere gli esseri umani

  Siamo stati abituati ad ascoltare molti pregiudizi sulla nostra fede, come quello che non comprenderebbe a fondo gli esseri umani. Invece è proprio il contrario ed è un vero miracolo: una dottrina proclamata da una schiatta di veterani reazionari da sempre, per scelta estranei alla vita dei più, che coglie così bene nel segno. Vi si può vedere addirittura un segno soprannaturale. Ne rimango sempre stupefatto. Va bene, non hanno inventato nulla, hanno imparato dalla vita, ma non è da tutti farlo. C’è qualcosa di più della semplice osservazione, come potrebbe fare un antropologo che gira per le varie società umana, prende appunti, fa domande, vede come fanno quelli in mezzo ai quali è capitato e poi ci ragiona su. Come lo possiamo chiamare? Compassione, empatia, simpatia, misericordia… Non è mai uno sguardo distaccato quello religioso perché prende le mosse da una conversione. Quando lo spirito, che è in noi e che non è solo la nostra mente, ci porta a desistere dai nostri istinti di antiche belve e ad accostarci agli altri in modo nuovo. E’ un comandamento nuovo  che si segue  e che avvince, ma non come le altre regole a cui si  è soggetti e che pesa obbedire: è un giogo leggero, anche se ne può andare di mezzo la vita. Perché chi perde la propria vita seguendo il comandamento nuovo la salverà, come è scritto. 
  E’ un papa reazionario, Achille Ratti, ad avere collegato politica e carità, in un discorso agli universitari della FUCI tenuto il 18 dicembre 1927:
I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore. È con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari. Atteggiamento questo tanto più raccomandabile a giovani universitari che devono consacrarsi alla propria preparazione, senza la quale la loro futura attività non può essere né illuminata, né benefica. Come nel loro presente periodo essi attendono allo studio delle future professioni e non le esercitano, così anche per ciò che riguarda il viver sociale; essi devono ora attenersi al loro programma di preparazione, perché, quando prenderanno il loro posto nella società, possano poi dare a questa anche il contributo della buona, cristiana politica. 
  Abbiamo riflettuto bene su ciò che comporta? E’ la base di una vera e propria rivoluzione. Tradurre l’agàpe  in realtà sociale: niente di meno! Fare posto a tutti, perché si sa che la vita non è vita umana se si rinuncia ad anche uno solo degli altri intorno a noi.
  Parliamo di popolo  e ci sentiamo spaesati. Ma chi è questo popolo, riusciamo a figurarcelo? Se però parliamo di mondi sociali,  di un insieme di relazioni che creano il senso della vita e che si cercano e si conoscono continuamente tra loro e danno senso alla vita proprio nel cercarsi e incontrarsi, allora è diverso, perché vi è rappresentata la nostra vita. Siamo noi. Si parte dalle famiglie, al loro meglio naturalmente, quando non sono ancora sfigurate dalle convenzioni sociali e nascono da un cercarsi e un conoscersi, per incontrarsi, e allora sono innanzi tutto luoghi dell’anima, mondi vitali, come scriveva mio zio Achille. Perché non dovrebbe essere in tutto così? Questa l’utopia religiosa. Utopia però sarebbe un posto che non c’è, in un tempo che non viene mai. Ma tra gli esseri umani questo c’è già, lo si vive. Ma intorno c’è anche una realtà sociale che fa resistenza. Perché? La realtà dell’agàpe  ci è stata rivelata, ci si è imposta ad un certo punto, da un certo momento. Ci distoglie dalle nostre antiche e crudeli consuetudini naturali, pe cui pesce grosso mangia pesce piccolo. Non sono d’accordo con chi dice che le fedi religiose sono più o meno tutte uguali. Ma è vero che più o meno in tutte quelle che mi sono note si coglie questa aspirazione verso l’agàpe.  Ma poterla chiamare per nome? Nella nostra fede lo facciamo. Non  è questa una grande responsabilità?  Perla preziosa, tesoro nascosto, la definiamo con tanti paragoni. Si è spinti a lasciare tutto per conseguirla. E più si avanza negli anni, se si riesce anche ad avanzare in saggezza, questo diventa sempre più evidente.
  Non siamo macchine animate, pensanti: c’è in noi una realtà spirituale, che non è fantasia, ma, appunto, realtà, che ciascuno sperimenta. E’ attraverso lo spirito che entriamo in relazione con gli altri e costruiamo l’agàpe  in senso anche religioso.  I problemi sociali nascono più o meno tutti quando quella realtà viene negata, con vari argomenti e per varie ragioni. Ma fondamentalmente accade quando si vuole poter fare degli altri ciò che si vuole, farne docili strumenti della propria volontà. Qui viene però l’irriducibile obiezione religiosa che ha anche un valore politico. I papi storicamente immaginarono di essere plenipotenziari religiosi, vicari, in quel senso. Ma non riuscì loro granché bene. Furono storicamente sovrani mediocri, alcuni migliori degli altri, ma in genere mediocri. Penso che si possa trasferirli dai loro troni agli altari solo con una buona dose di immaginazione. Furono sovrani come tanti altri del loro tempo e anche prima e dopo di loro. Gli esseri umani posti sul trono in genere deludono, e ci si può fare poco, salvo prevedere procedure per la loro sostituzione senza esiti drammatici.  A questo appunto serve la democrazia, a porre un limite a qualsiasi potere. Ma i  papi, nell’indicare una sovranità celeste, nel relativizzare ogni altra sovranità, anche quella che si pretendeva fosse del popolo, funzionarono. Nessuno deve essere completamente in mani altrui. E ciò che non è agàpe  vale poco. Pervicacemente i papi da fine Ottocento proclamarono questa dottrina, che, nell’opera ostinata del cattolicesimo democratico, sovvertì, alla caduta dei fascismi storici, la bellicosa Europa di prima, creando un’Europa di pace, la nostra nuova Europa, fondata sul principio di sussidiarietà.
 Eccolo definito da un papa:
80. È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle. 
81. Perciò è necessario che l'autorità suprema dello stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta ; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell'attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso. 
82. Questa poi deve essere la prima mira, questo lo sforzo dello Stato e dei migliori cittadini; mettere fine alle competizioni delle due classi opposte, risvegliare e promuovere una cordiale cooperazione delle varie professioni dei cittadini. 
[Dall’enciclica Il quarantennale, del 1931, diffusa dal papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°]
  Che cosa potrebbe esserci di più distante dal fascismo italiano totalitario, che imperava nel 1931? Eppure solo due anni prima, nel 1929, il papato aveva concluso un compromesso proprio con il capo del fascismo che venne immortalato mentre, nel palazzo del Laterano, firmava i documenti dei Patti Lateranensi.
  E’ per questo che noi cattolici non abbiamo mai avuto veramente cuore di separarci dai nostri papi, pur come essi sono, con i loro limiti umani, che tanto più vengono in evidenza negli esseri umani, ed anche nei sovrani religiosi,  quanto più  si giunge in alto. Sì, ci sono state anche altre grandi anime che si sono spese in quella stessa direzione. Ma in fondo è proprio la  dottrina sociale, il lavoro organizzato dai nostri papi, ad aver prodotto, con una svolta cultura importantissima, con riflessi politici, giuridici, istituzionali, sociali, la straordinaria realtà sociale della nostra nuova Europa, un fatto unico nella storia dell’umanità, mai visto prima. Non  è un caso, credo, che l’Unione Europa sia attualmente guidata dalla Germania governata da democristiani. Ora è in crisi, certo, ognuno è tentato di fare per sé, il miracolo sembra dissolversi. Si preferirebbe lasciare i sofferenti al loro destino, non si pensa si avere bisogno, non ci si sente diminuiti se mancano all’appello. Non è forse perché la capacità politica dei cattolico-democratici è venuta progressivamente meno e, allora, la politica è vista come lotta di tutti contro tutti per far prevalere gli interessi dei più forti, gli altri abbiano le briciole, stiano indietro e spilucchino ciò che cade dalle tavole dei ricchi? Uno spirito religioso si sente rimordere dentro. Ma se uno vuole farsi macchina sociale, antica belva, perché, nel suo spirito, non vede altra soluzione e, inoltre, i populisti gli confermano che effettivamente non c’è altra soluzione che essere, farsi, cattivi? Ed ecco che anche oggi, però, ci giunge la voce di un papa, il quale, pur con tutti i suoi limiti che egli nemmeno nega, tanto che non manca mai di chiederci di pregare per lui, ci richiama l’anima e lo spirito, l’agàpe e l’insegnamento del nostro antico Maestro, la giusta via. Dal male nasce solo il male: oggi tocca ad altri, domani toccherà a noi, come accade in natura quando le bestie invecchiano e allora vengono lasciate indietro e muoiono, sopraffatte da bestie più feroci di loro o semplicemente dalla natura, senza più nessuno a dare aiuto.
 Democrazia, carità, pace, persona e mondi vitali: tutto il nostro pensiero sociale ruota intorno a questo. Quando c’era il conflitto tra socialismo e capitalismo se ne parlava come di una terza via, una specie di  via di mezzo, ma non è così: è veramente un’altra via. Lì dove i mondi vitali, invece di confliggere, come vorrebbe la crudele legge della natura, si cercano, si incontrano, e nell’incontro, nella relazione, non nel conflitto, crescono e si arricchiscono.

82. Fare politica in spirito di carità

 Quando il papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°,  nel 1927 diceva agli universitari cattolici della FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana, queste parole:
I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.
non pensava alla politica democratica, a quella che oggi dobbiamo praticare in Italia.
   In Italia si era all’epoca del fascismo storico trionfante e da tempo si stava trattando per superare la questione romana, le pretese rivendicate dal papato sulla città di Roma e sull’Italia dopo la conquista militare del suo piccolo regno nell’Italia centrale, nel 1870, da parte del Regno d’Italia. A breve sarebbero stati compiuti due atti formali che avrebbero spinto i cattolici italiani alla collaborazione con le istituzioni del regime fascista italiano, in particolare nel sistema delle Corporazioni che organizzava, inquadrandole nel sistema statale, le forze del lavoro. Si tratta dei Patti Lateranensi, conclusi nel 1929 dal rappresentante del papa Ratti e dal capo del governo Benito Mussolini, in rappresentanza del Regno d’Italia, e dell’enciclica Il quarantennale, del 1931, in occasione dei quarant’anni dalla prima enciclica sociale contemporanea, la  Le novità, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci.
  Tuttavia presto gli universitari cattolici e gli aderenti al movimento di Azione cattolica denominato Laureati Cattolici, sorto tra i fucini laureati, i rami intellettuali  dell’Azione Cattolica, colsero l’opportunità del collegamento tra politica e carità, che rendeva lecito dal punto di vista dottrinale conciliare  quelle due dimensioni, per progettare un futuro dell’Italia diverso da quello prospettato dal fascismo e, in particolare, una politica democratica. Bisogna ricordare che quest’idea era stata  scomunicata all’inizio del secolo, dallo stesso papa della Le  novità, il Pecci, con l’enciclica Le gravi [controversie]  sociali, del 1901. Lo stesso magistero papale virò verso questa concezione democratica a partire dal 1944, quando, constatando la rovina dell’Italia causata dalla guerra mondiale in cui dal 1940 il Mussolini aveva portato la nazione al seguito del despota nazista Adolf Hitler, il papa Eugenio Pacelli, nel radiomessaggio natalizio del 1944, incoraggiò i cattolici sulla via della democrazia. La piena accettazione delle democrazia come regime politico maggiormente conforme allo spirito di carità si ebbe però molto più tardi, con l’enciclica Il centenario, diffusa nel 1991 dal papa Karol Wojtyla in occasione dei cento anni dall’enciclica Le novità. Tra il 1891 e il 1991 si è avuto un completo ribaltamento del magistero papale sulla democrazia, condannata addirittura come eretica all’inizio e alla fine proposta come regime politico più conforme alla dignità umana. Con il Wojtyla si ebbe invece una ripresa della polemica con il socialismo, che era molto forte nell’enciclica Le novità. Ma quanto a questo la situazione storica era molto diversa: nel 1891 il socialismo era in forte espansione, in particolare tra gli operai europei, mentre nel 1991 era in crisi terminale.
  Che significa questo nesso tra politica e carità, che secondo il magistero ci deve essere? Dipende da che cosa si intende per politica e per carità. Politica significa governo della società. Carità, in senso religioso secondo la nostra fede, è  far posto agli altri in un benevolo convito dove ce n’è per tutti. In spirito di carità religiosa non è lecito fare esclusioni: tutti  significa tutti. Prefigura un nuovo ordine mondiale. C’è appunto questo in due documenti normativi molto importanti in religione, le Costituzioni Luce per le genti  e  La gioia e la speranza  diffusi dal Concilio Vaticano 2°, tenutosi a Roma tra il 1962 e il 1965. Tra quei due poli c’è la democrazia, che significa  governo del popolo, ma anche  per il popolo e  mediante il popolo. E’ appunto questa la definizione che ne diede il presidente statunitense Abramo Lincoln in un celebre discorso tenuto a Gettysburg  nel 1863, durante fine la Guerra civile tra gli stati del nord e quelli del sud, inaugurando un cimitero militare:
[…]we here highly resolve that these dead shall not have died in vain—that this nation, under God, shall have a new birth of freedom—and that government of the people, by the people, for the people, shall not perish from the earth.
 Siamo fortemente determinati a far sì che questi morti  non siano morti invano, che questa nazione, al cospetto di Dio, abbia una rinascita di libertà, e che il governo del popolo, mediante il popolo e per il popolo non scompaia dalla terra.
  Nella concezione fascista  il popolo  era il popolo italiano, intesa come gente che era nata da italiani da generazioni e che per questo aveva un po’ la stessa faccia. Si pensava ad una razza  fascista, una variante umana italica, che in realtà non è mai esistita. L’altro giorno un politico, parlando di sostenere le famiglie italiane, ha detto che bisogna farlo perché la nostra razza  non scompaia: non se ne è reso conto, perché è una persona che politicamente vuole collocarsi in ambito democratico, ma ha sviluppato un’idea fascista. C’è questa concezione al fondo della decisione di attribuire la cittadinanza italiana a persone che abbiano nonni italiani, anche se non hanno altro legame con l’Italia, e addirittura di farle votare alle nostre elezioni politiche. L’altro giorno si è saputo che il ministro australiano Matt Canavan si è dovuto dimettere perché ha scoperto di avere anche  la cittadinanza italiana e in Australia non si può essere ministri avendo la doppia cittadinanza. Nel 2007 sua madre, nata da italiani, chiese e ottenne la cittadinanza italiana, così sembra che si diventato cittadino italiano, a sua insaputa, anche il figlio, appunto Matt Canavan, all’epoca venticinquenne. Ma è davvero andata così? Davvero non c’è stato necessità di altro? Sulla stampa sono state riportate queste dichiarazioni del ministro dimissionario: “Non sono nato in Italia, non ci sono mai stato e per quanto ne sappia non ho neanche mai messo piede nel consolato o nell’ambasciata italiana.  Sapevo che mia madre fosse diventata cittadina italiana, ma non avevo idea di esserlo anch’io, né avevo mai chiesto di diventarlo”.  Ecco dunque un signore australiano che è diventato italiano senza aver altro legame con l’Italia che i suoi nonni, per diritto di sangue. E da noi ci sono tantissimi ragazzi che  sono nati in Italia, parlano italiano, hanno studiato in Italia, pensano in italiano, agiscono come italiani,  amano l’Italia e gli italiani, vorrebbero con tutte le loro forze essere cittadini italiani e non possono diventarlo perché sono nati da stranieri. Per  condanna di sangue  sono esclusi, l’Italia non è loro, né per loro, né mediante loro. Non potranno votare da noi e se vanno in visita alla Camera dei deputati con la loro classe scolastica, come è accaduto, vengono cortesemente accompagnati alla porta. Il Canavan vi sarebbe invece ammesso, caso mai gli capitasse di passare per l’Italia, perché è anche  cittadino italiano. Avrebbe probabilmente bisogno dell’interprete per farsi capire bene, perché l’italiano che sa risale all’infanzia, se mai la madre gli ha parlato nella nostra lingua.
 “Noi il popolo degli Stati Uniti”, con si apre la Costituzione degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel 1789, uno degli atti fondamentali della prima rivoluzione democratica moderna, quella statunitense, insieme alla Dichiarazione di Indipendenza nel 1776. Quel noi  non comprendeva la popolazione schiava, composta di genti africane deportate in America, che viveva negli Stati Uniti, una parte rilevante della popolazione residente. Ma neanche tutto il resto del mondo. Ma, con tutto ciò, era un atto lungimirante, che poteva prefigurare una rivoluzione molto più vasta, globale: in qualche modo i rivoluzionari statunitensi avevano parlato a nome dell’intera umanità, non solo di un  popolo,  ma di tutti  i popoli della Terra, quando avevano proclamato, nella loro Dichiarazione di indipendenza:
Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idoneo al raggiungimento della sua sicurezza e felicità.
  Non si può rivendicare il  diritto alla democrazia  senza riconoscerlo a tutti. Ne siamo consapevoli?
 Settant’anni di democrazia avanzata hanno inciso meno profondamente nella cultura popolare dei vent’anni del fascismo storico. Perché? La vera ragione è molto dura da accettare, specialmente per noi cattolici. E’ che fascismo e dottrina sociale si erano profondamente integrati e questo ha determinato una vera e propria tradizione, di genitori in figli, che è giunta anche tra noi. E qualche volta, quando si parla del buon cattolico, non ci si rende conto di tratteggiare la figura del fascista cattolico, approvata dal magistero ai tempi della compromissione con il regime fascista storico, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta. Lo si fa il più delle volte senza rendersene conto, ripetendo atteggiamenti che si sono imparati da piccoli, dai nostri genitori, i quali a loro volta li hanno imparati dai loro. Questa ideologia di  conciliazione  tra fede e fascismo si  è radicata fortemente nelle nostre genti di fede al tempo in cui l’Azione Cattolica, la potente agenzia culturale e politica  (oltre che naturalmente religiosa) creata dal papato nel 1906, si fascistizzò, ad eccezione dei suoi rami intellettuali, della FUCI  e dei Laureati Cattolici. Abbiamo, così, in qualche modo, succhiato il clerico-fascismo  con il latte delle nostre madri. Sarebbe possibile realizzare una tradizione democratica nella fede  altrettanto forte? Perché no? Tutto però dipende da che cosa, e soprattutto da chi, consideriamo per popolo.

83. Noi popolo

A chi pensiamo quando parliamo di "popolo"? È importante saperlo in un sistema politico come quello italiano che dà la "sovranità" al popolo.
  In diritto si parla di popolo riferendosi alla gente che sta sotto un potere pubblico, che si impone senza bisogno di consenso. Vi hanno mai chiesto se volevate essere italiani? Eppure, vivendo in Italia, siete soggetti alle leggi italiane. Siete popolo. Ma se siete anche "cittadini" rimanete parte del popolo italiano anche andando all'estero. In Italia c'è anche gente che fa parte del popolo, perché vive e lavora stabilmente da noi, è soggetta alle leggi italiane, ma non ha la "cittadinanza". Avere la cittadinanza significa poter partecipare, quando si hanno diciotto anni, alle procedure democratiche delle istituzioni pubbliche, quelle che esercitano i poteri pubblici. Un sistema politico è tanto più democratico, secondo la concezione che ai tempi nostri si ha della democrazia, quanto più la cittadinanza è estesa al popolo, quanto più si riduce il numero di quelli che sono popolo ma non cittadini. Nell'antica Atene, dove vennero ideate le "parole" della democrazia, non era così: i cittadini erano una minoranza, vale a dire tutti quelli che, non avendo l'obbligo di lavorare, avevano tempo di discutere dei problemi dello stato. A quell'epoca lavorano quasi solo gli schiavi. Il lavoro era un lavoro schiavo. La democrazia italiana di oggi dovrebbe essere invece  "fondata sul lavoro". È scritto nell'art.1 della nostra Costituzione. Che significa? Significa impegnarsi a non escludere i lavoratori dalle procedure democratiche. Questo però richiede che il lavoro non sia lavoro schiavo. È quindi un "impegno" perché si è visto storicamente che l'economia, lasciata a sé stessa genera lavoro schiavo.
 Di popolo però si può parlare anche in altro senso. Come di gente che, non solo è soggetta ad uno stesso potere pubblico, ma che è legata anche da altro, ad esempio da una lingua e da altre tradizioni culturali, modi di vita, modi di pensare, anche idee religiose. Era così che lo intendeva il rivoluzionario italiano dell'Ottocento Giuseppe Mazzini, al quale sono intitolate tante vie e piazze in Italia. Il suo motto fu "Dio e popolo".  Fino al 1861, quando fu proclamata l'unità nazionale sotto il Regno d'Italia, e sotto la monarchia dinastica dei Savoia, non ci fu "un" popolo italiano inteso come soggetto ad un unico potere pubblico, ma più popoli italiani, sotto diverse autorità pubbliche, ed anche ad un'autorità straniera, quella dell'Impero di Austria e Ungheria. Mazzini però ed altri intellettuali e rivoluzionari della sua epoca, pensavano che ci fosse una unità di cultura, intesa come storia,stili di vita, modi di pensare che faceva degli italiani un solo popolo anche se al momento erano sotto varie autorità pubbliche. Questo, nella sua visione, esigeva l'unità nazionale. Era, per lui, anche un problema di dignità. Come si canta nel nostro inno nazionale, scritto e musicato da rivoluzionari mazziniani, gli italiani erano "calpesti e derisi" proprio perché non erano "popolo", perché erano divisi. 

84. Serve un governo del popolo?

La democrazia ê governo del popolo. Ma serve? Le imprese, ad esempio, non sono dirette con criteri democratici, eppure sono prese spesso a modello quando si pensa come gestire al meglio gli affari pubblici. 
Se consideriamo realisticamente noi stessi, capiamo che sappiamo fare bene poche cose. Questo anche se in un certo campo arriviamo ad essere degli esperti. Come possiamo "governare"? Gli altri però sono nelle nostre stesse condizioni. Che cambia mettendosi insieme? Sono obiezioni alla democrazia che furono poste fin da quando su questi temi si cominciò a ragionare sistematicamente, nell'antica Grecia di circa 2500 anni fa.
 Si pensò, allora, che fosse meglio che lo stato fosse retto da competenti: si pensò ai filosofi, che nell'antichità si intendevano un po' di tutto. Ma, al dunque, fu sempre la forza a prevalere. All'origine di ogni potere politico c'era sempre un atto di violenza. Poi il potere tendeva a perpetuarsi e a trasmettersi in una piccola cerchia. In particolare si cercava di tramandarlo in famiglia, di genitore in figlio, quindi di renderlo potere dinastico. Del resto il governo monarchico era una tradizione molto antica. Ancora oggi l'idea di fare unità politica intorno ad una persona convince. Ma non regge ad una critica razionale. Perché i singoli rimangono sempre persone limitate: in genere, finiscono con il deludere. E, di solito, non vanno al potere dei sapienti. La storia rende chiaro, poi, che la capacità di governo non si trasmette di genitore in figlio e non si accompagna automaticamente alla sfrontatezza e alla violenza di quelli che con la forza ambiscono a conquistare il potere. Per impratichirsi nel governo occorre tempo, ma il protrarsi di un governo tende a produrre una degenerazione, in particolare una commistione di interessi privati e pubblici. Più si resta al potere, più si diventa dipendenti dal potere e non lo si vuole lasciare. Si ricorre ad ogni mezzo per non esserne esclusi. Le monarchie dinastiche europee dal Medioevo cercarono di accreditarsi come volute dal Cielo, ma anche prima c'era stato un impiego della religione a sostegno del potere pubblico. A volta si divinizzavano i sovrani, ma in un ambiente di religione politeistica questo aveva conseguenze meno serie: il sovrano era solo un dio tra molti altri, e nemmeno il più potente. La gente si accostava al sovrano-dio con lo stesso spirito con cui lo faceva con gli altri cercando di ingraziarsene i capricciosi favori. Se però l'autorità celeste è una sola e per di più è per definizione sommo bene, l'effetto di consolidamento del potere è molto maggiore, e i sudditi non devono solo obbedire, ma anche amare il sovrano. In questo quadro la democrazia viene considerata un'empietà. È in fondo questo il vero motivo per il quale si vorrebbe che la Chiesa non fosse democratica, ed effettivamente non lo è. Poi però si deve constatare che questi sovrani voluti dal Cielo, civili o religiosi che siano, non sono granché. Ancora oggi ci sono monarchie politiche dinastiche, sebbene contino poco nel governo dello stato, affidato a istituzioni democratiche. A parte dare spettacolo, con fastose cerimonie pubbliche di tanto in tanto, i monarchi di oggi fanno ben poco e, individualmente, non si distinguono molto dai loro sudditi. Non sono sapienti, ma non sono nemmeno competenti in qualche cosa, salvo l'etichetta di corte. Hanno il problema di come passare il molto tempo libero che hanno e spesso hanno sviluppato le abitudini di vita dei grandi ricchi tra i quali si sono formati. 
 Ma il "popolo" è meglio di loro? Se lo consideriamo solo come insieme di gente che è soggetto ad un potere pubblico, sicuramente no. Perché questa è una posizione puramente passiva. Diventa migliore quando si manifesta capace di critica sociale, a cominciare dall'autocritica. La critica induce a migliorarsi, ma è cosa che si impara. Uno come Giuseppe Mazzini (1805-1872) pensava, e infatti lo scrisse, che gli italiani fossero democratici per indole, per natura capaci quindi di migliorarsi mediante critica e autocritica. Così ribatteva a chi lo metteva in guardia che in realtà non era così. Gli obiettavano che era meglio procedere per gradi: conquistare l'unità nazionale sotto la monarchia Savoia, che dal 1948 si era fatta "costituzionale", concedendo uno Statuto e accettando di condividere il potere con istituzioni democratiche, poi educare la gente alla democrazia, quindi  farne "popolo" di cittadini da popolo di sudditi che era, poi, infine, proclamare la repubblica. Mazzini premeva invece per avere subito la repubblica per far fare precocemente tirocinio di democrazia alla gente. Pensava infatti che le dinastie regnanti dell'epoca, al di là dei periodici conflitti per ragioni di espansione territoriale, al dunque si sarebbero coalizzate contro i loro popoli, per mantenere il loro dominio dinastico su di essi. E in questo non sbagliava.
 Se il popolo si impegna nel governo democratico, divenendo capace di critica e autocritica sociale e accettando i limiti democratici ad ogni potere, in durata ed estensione, può essere un governante migliore di quando il potere finisce stabilmente nelle mani di pochi o di uno solo, perché più gente significa più risorse umane, più competenza, poter vedere le cose da più punti di vista e quindi meglio,ma soprattutto cercare di non trascurare nessuno. Per riuscirci il popolo deve proporsi di non essere un despota. Infatti nella nostra Costituzione, nello stesso articolo, il primo dei "principi fondamentali", in cui si attribuisce al popolo la "sovranità", vale a dire il poter più alto, si pone ad esso il limite della legge. Quello del popolo, se vuole essere democratico, non deve mai essere un potere "assoluto", vale a dire illimitato. I "populisti", quelli che cercano di ingraziarsi emotivamente il popolo per montargli sulle spalle e dominarlo, lo propongono invece come illimitato, contrapponendo democrazia e popolo. Ma la legge della storia è questa: il popolo che vuole farsi despota, cade in mano ai despoti. Quelli che si lasciano fascinare dalle parole d'ordine dei populisti di oggi, come "meno tasse!" e "aiutiamoli a casa loro!", costruiscono il nido del despota.

85. Diventare popolo?

  L'unità nazionale si fece tra il 1848 e il 1870 e ai moti e alle vere e proprie guerre per realizzarla parteciparono molti cattolici. Vi si opponevano le monarchie che dominavano all'epoca gli Stati italiani, tra le quali l'Impero di Austria e Ungheria e il Regno pontificio, ad eccezione di quella dei Savoia del Regno di Sardegna, con capitale Torino. Dall'altra parte del fronte c'erano altri italiani, oltre che i militari e funzionari  austro-ungarici, e questi nemici erano, in massima parte, cattolici. Giuseppe Mazzini, l'apostolo dell'unità nazionale, aveva scelto come motto quello di "Dio e popolo", e voleva costruire il nuovo stato unitario come una repubblica animata da valori umanitari. La scritta "Dio e popolo" era al centro del tricolore che fu adottato come bandiera della Repubblica romana, nel 1849, quando per alcuni mesi ebbe successo una rivoluzione democratica a Roma. In quell'occasione Mazzini partecipò con Aurelio Saffi e Carlo Armellini all'organo provvisorio  di governo del nuovo stato. Il papato non riuscì a fornire una teologia che indirizzasse tutti i cattolici, in questa tumultuosa fase politica, per costruire una pace democratica nei tempi nuovi, che la storia spingeva verso il superamento della frammentazione istituzionale italiana. I moti per l'unificazione nazionale non erano irreligiosi, ma divennero anticlericali per la strenua opposizione del papato. Quest'ultimo, addirittura, dopo la proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861, vietò ai cattolici la partecipazione alla vita democratica del nuovo stato nazionale. E, in un drammatico concilio tenutosi nel 1870, l'anno della conquista militare del Regno pontificio da parte delle truppe del Regno d'Italia, rafforzò il divieto proclamandosi infallibile nella materia di fede: e la conquista di Roma, con la perdita della sovranità politica del papato, la poneva in questione, perché riguardava anche la missione del papato. Fatto sta che, come osservò lo scrittore e politico Massimo D'Azeglio, fatta l'Italia bisognava fare gli italiani. In questo il papato si pose di traverso, realizzando una vera e propria tragedia nazionale, privando il nuovo stato dell'apporto dei cattolici, che proprio in quegli anni, dall'unità nazionale in poi, avevano cominciato ad esprimere numerosissime e vivaci iniziative sociali, in particolare a beneficio degli strati meno ricchi del popolo. In un certo senso, quello del "fare gli italiani" è un problema ancora attuale, sebbene in un senso diverso da come veniva inteso a metà dell'Ottocento. Non si tratta infatti di aderire ad un modello politico ideale di italiano, quindi di adeguare la realtà ad una teoria, ma di riscoprire le ragioni di essere popolo, e,innanzi tutto, di scegliere come esserlo e con chi.
  Come ho accennato negli interventi precedenti ci sono infatti vari modi di essere popolo. Un popolo democratico è qualcosa di più di gente soggetta ad un potere pubblico su un certo territorio. In democrazia il popolo esprime la cittadinanza, vale a dire una partecipazione al governo. Si parla in proposito di "sovranità", intesa come potere supremo, ma bisognerebbe trovare un'altra espressione per definire il potere democratico. Infatti, in democrazia, nessun potere, nemmeno quello del popolo, è veramente "sovrano", vale a dire illimitato. Nelle democrazie contemporanee il potere supremo, la "sovranità", è limitato da un sistema di  principi umanitari che valgono anche se non espressi in leggi formali e addirittura contro le leggi formali, fondando il diritto personale e comunitario di resistenza. È su queste basi che, tra il 1945 e il 1946, poterono celebrarsi processi giudiziari in sede internazionale contro alcuni del più alti capi del governo tedesco dei tempi in cui la Germania era stata governata da un regime nazional-socialista, vale a dire dal fascismo di Adolf Hitler. Questa idea, che nessun popolo possa finire completamente in mani altrui, fossero anche quelle di capi legittimati dallo stesso popolo, fa parte della dottrina sociale della Chiesa ed è molto antica, risalendo al pensiero medievale, come filosofia istituzionale. Ma i suoi fondamenti sono ancora più antichi e li troviamo nei Vangeli. Nelle varie encicliche sociali del papa Karol Wojtyla ne possiamo leggere  un'ampia e sistematica esposizione. La "costituzione" dell'Unione Europea si basa su di essa. Non appena i cattolici, dopo la Seconda guerra mondiale,  furono liberati dai vincoli clericali che ostacolavano la loro piena partecipazione alle democrazie europee, essi idearono un nuovo mondo, e parteciparono in ruoli determinanti alla sua realizzazione. Poteva accadere prima, fin dall'Ottocento? Le risorse culturali c'erano. Mancava la democrazia. Il nesso tra valori e democrazia è fortissimo. Certi valori richiedono un ambiente politico democratico per affermarsi. Mazzini se ne rendeva conto e contestava vivacemente quelli che pensavano che democrazia significasse solo anarchia. Oggi però il populismo corrente contesta appunto alla democrazia la mancanza di valori e propone di fare a meno di essa.  A ognuno dovrebbe essere consentito di esprimere preferenze via internet, poi si fa il conto: ma questa non è democrazia, è un sondaggio. Che cosa manca? Manca l'impegno personale. Che cosa si mette di sé, infatti, in questa procedura? Si è disposti a rischiare la propria vita o, comunque, ciò che di più importante si è o si fa? E mancano anche il dialogo e l'intesa con gli altri: il farsi partito, il modo in cui si dà ordine e prospettiva all'impegno politico collettivo. È per questa via che il Mazzini indusse moti popolari molto potenti, basati su un coinvolgimento etico e personale fortissimo, che furono determinanti nel realizzare l'unità nazionale. Questa è politica che cambia le cose. Il populismo invece è solo un inganno, per strumentalizzare il voto popolare e saltare sulle spalle di un popolo. Non cambia veramente nulla per il popolo, se non l'identità di chi è riuscito a dominarlo, domandolo. Per questa via la democrazia perde senso, rimane solo vuota procedura.



86. La società costruita

  Nell'organizzazione della società non c'è nulla di naturale: è integralmente una costruzione umana. È per questo che cambia continuamente e, in genere, abbastanza rapidamente. Il bene e il male che c'è dipendono da questo assetto della società. Senza un ordine la società non potrebbe esistere, non ci sarebbe più. Esso deriva dalle relazioni tra i gruppi sociali, e, al livello minore, tra le persone. Le consuetudini sociali sono le più antiche leggi umane. È come quando tante persone percorrono una certa via in un bosco e allora a terra si crea un sentiero visibile, che viene percorso quando si vuole arrivare da una certa parte. Quando sulle consuetudini si crea un accordo esplicito, nasce la legge come la intendiamo. Ma una legge può anche essere imposta dal gruppo sociale che riesce a imporsi sugli altri. Nasce un'autorità pubblica. Queste leggi, imposte da un'autorità, sono più resistenti al cambiamento, perché sono legate alla forza del gruppo sociale che le ha rese obbligatorie e che si occupa di punire chi non le segue. Si crea così una tradizione normativa. Per dare più forza a queste leggi le si può collegare ad un'autorità celeste e allora la violazione diventa anche un atto empio. Le violazioni più gravi lo sono ancora, ad esempio il furto o l'omicidio. In religione si sta in questi giorni discutendo se rendere tale anche il delitto di corruzione politica. Ma le leggi umane rimangono integralmente una costruzione sociale che dipende dal rapporto di forza tra i gruppi della società.
  Quando emergono nuovi gruppi sociali, cambiano le norme. È accaduto con l'affermarsi dei ceti popolari, degli strati più umili della società, nel corso del Novecento. Erano, e sono, quelli che stanno peggio. Chi stava meglio in società era una piccola minoranza. Sembrava che il Cielo volesse così. Reagire a questo stato di cose sembrò in origine un atto empio. È per questo che in religione spesso si ostacolò il processo di cambiamento sociale in senso più giusto. In particolare questa fu, a lungo, la posizione del papato. Nell'enciclica Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone 13*, si insegnava che la diseguaglianza tra i gruppi sociali non poteva essere superata, quindi che era "naturale", ma che i più ricchi e i padroni dell'economia non dovevano infierire su chi stava peggio. Poi la dottrina sociale cambiò molto e nell'enciclica Lavorando, diffusa nel 1981 dal papa Karol Wojtyla, regnante in religione come Giovanni Paolo 2*, per molti versi si insegnano idee opposte. Anche la Chiesa come gruppo sociale cambia? È certamente così. Nelle sue dinamiche sociali ha seguito quelle delle altre società. I suoi capi hanno esercitato l'autorità recependo il modo di comandare delle altre autorità. I papi, in particolare, concepirono sé stessi come imperatori, ma dagli anni Sessanta vorrebbero essere qualcosa di diverso.
 Il male che c'è in una società, quello collettivo e quello personale dipende in gran parte da come è stata costruita l'organizzazione sociale. I più interessati al cambiamento sono quelli che stanno peggio, che di solito sono la maggioranza. Senza correttivi, tendono infatti a prevalere minoranze di privilegiati che per varie ragioni hanno raggiunto posizioni di forza. In ambente democratico, in cui prevalgono le maggioranze, queste ultime dovrebbero poter riuscire a cambiare le cose, ma storicamente non è stato così facile. Questo perché la cultura, che spiega come vanno le cose, è in genere controllata da chi sta meglio e quindi dà molte buone ragioni per lasciare tutto com'è. il primo passo per suscitare un movimento popolare di riforma è di far prendere alla gente coscienza del fatto che certe sofferenze non sono ineluttabili, ma la conseguenza di un certo ordine sociale, che come è stato costruito può essere cambiato, e anche abbattuto se veramente malvagio.

87. Pensare come popolo

  Per fare politica, quindi per governare la società, bisogna pensare in termini collettivi, sia che lo si voglia fare con metodi democratici sia che lo si voglia fare in altro modo. Questo, il pensare sociale, ci viene oggi più difficile. Siamo stati diseducati a farlo, la società è stata intenzionalmente disarticolata. È un processo che si è sviluppato in tutto il mondo Occidentale a partire dagli scorsi anni '80 e che ha avuto nel capo del governo inglese Margaret Thatcher, in carica dal 1979 al 1990, l'ideologa più lucida, coerente e determinata. Sosteneva che la società non esiste e che esistono solo gli individui. In questa concezione ognuno vale per sé stesso o, come si dice ora in Italia, "uno vale uno". Questo modo di pensare impedisce alle masse di quelli che in società stanno peggio di cambiare le cose a loro favore democraticamente. Esse hanno di fronte i privilegiati che controllano il corso degli eventi politici da posizioni di forza raggiunte storicamente, di solito attraverso il controllo dell'economia, e possono prevalere solo con il numero, facendosi popolo da insieme caotico di individui che sono. Una persona da sola non conta nulla e la prima strategia di chi controlla il potere da un punto di forza è quella di disarticolare le opposizioni, di scoraggiarle, disperderle e dissolverle, in modo che tornino masse di individui scollegati. Perché, per fare politica, non basta pensare in molti in uno stesso modo e avere interessi comuni, ma occorre essere legati da un patto d'unità d'azione a cui essere strenuamente fedeli. E bisogna avere un progetto non solo per sé stessi e per il proprio gruppo, ma anche per tutti gli altri, compresi quelli che ci si oppongono. Infatti la società c'è ed è la rete di relazioni che ci consente di sopravvivere in tanti in un mondo che si è fatto molto complesso e che esprime stili di vita con molta sofisticata tecnologia dentro. In un progetto totalitario l'obiettivo principale sarà il dominio della società, in modo da rendere stabile il proprio potere. In un'ottica democratica si cercherà invece di organizzare la politica in modo che nella società la maggior parte possibile della gente, nonostante le sue diversità,  possa beneficiare delle attività collettive e, innanzi tutto, far valere i propri problemi di vita. Si cercherà quindi di individuare, in ogni momento storico, quale sia il "bene comune", che comprende anche la pace sociale e internazionale, in modo che non sia messa in pericolo la vita della gente. In una  visione non democratica, quando un gruppo riesce a conquistare il potere prevalendo sugli altri, si avrà invece di mira essenzialmente il benessere del ceto dominante, mentre quello degli altri verrà considerato quel tanto che basta ad ottenerne il consenso sociale che serve a disarticolare ogni opposizione. È appunto a questo che servono le politiche "populiste", che ebbero nel fascismo mussoliniano un esempio importante. Ma storicamente è una linea che era stata seguita anche dai monarchi dinastici dell'epoca dell'assolutismo regio, fin da tempi molto antichi. Nell'antica Roma, dopo la decadenza delle istituzioni repubblicane, nel primo secolo dell'era antica, il favore delle masse veniva conquistato con sistematiche elargizioni e spettacoli pubblici, "pane e circo" si diceva. In questo modo, di fronte al potere populista non democratico, le masse rimangono plebe informe, tumultuante per avere di più, ciascuno in lotta con gli altri. Farsi popolo richiede un'etica diversa e, innanzi tutto, un'etica, un senso del dovere per il quale si diviene insensibili alle lusinghe populiste e capaci di resistere alla violenza esercitata dal potere non democratico quando il populismo non funziona. Nelle drammatiche violenze di questi giorni in Venezuela assistiamo alla degenerazione di una democrazia verso l'autocrazia violenta dopo il fallimento di politiche populiste. 
  L'idea che in politica si debba seguire il "bene comune" è centrale nella dottrina sociale della Chiesa. Questo significa che l'egoismo sociale è riprovato. Questo condanna molte delle parole d'ordine populiste di oggi come l'idea che si debbano "rottamare" persone, o l' "aiutiamoli a casa loro" e, infine, il "meno tasse". Il pensiero sociale sviluppato in religione dagli anni Sessanta, dall'ultimo Concilio ecumenico, in cui gli affari sociali ebbero grande considerazione, ritiene che nessuno debba essere rottamato, che ognuno debba essere aiutato nel momento e dove si trova in difficoltà e che in società si debbano trovare le risorse necessarie per il benessere di tutti, a prescindere dalla distribuzione delle risorse che si ottiene nei rapporti di forza del mercato, il che richiede un adeguato livello di imposizione fiscale e, soprattutto, imposte che non gravino su tutti in modo eguale, ma di più sui ceti privilegiati. Infatti il privilegio, nella maggior parte dei casi, deriva da posizioni di forza sociale ingiustificate dal punto di vista razionale e di equità,  per cui alcuni vogliono di più e facendo forza sugli altri, ma anche sfruttando le opportunità offerte dal sistema sociale, riescono ad ottenere ciò che vogliono. Nel gergo, si dice che occorre quindi una "politica dei redditi", espressione che oggi suona strana, perché si ritiene sacro, e quindi intangibile, ciò che ciascuno riesce a conquistare in società, ma che è un fattore essenziale della democrazia, che rapidamente degenera nel caso dell'aggravarsi di generalizzate diseguaglianze ingiustificate. Lo strumento fiscale serve anche a temperarle.   Il populismo corrente non ha un progetto di politica dei redditi e, in merito, ha presentato come un grosso successo l'aver tagliato un po' le pensioni di alcuni vecchi parlamentari di lungo corso, disponendo che fossero ricalcolate secondo i diversi criteri vigenti per i parlamentari attuali: un risparmio tutto sommato irrisorio,che non tocca gli squilibri molto più rilevanti che ci sono in società, in un tempo in cui è enormemente aumentato, in particolare nel settore privato, il rapporto tra stipendi dei più alti dirigenti e quelli di base e in cui i risultati dei dirigenti vengono valutati tanto più positivamente, con aumenti di stipendi e premi, quanto più si riesce a risparmiare sui costi del lavoro, quindi sul numero e gli stipendi degli addetti. Una misura che, tra l'altro, come è stato osservato giustamente nel dibattito parlamentare, apre la via al ricalcolo di tutte le pensioni dei più anziani, che sono state determinate con criteri molto più favorevoli di quelli stabiliti per chi oggi ancora lavora.

88. La felicità di tutti

  Le scienze sociali e della mente ci avvertono che gli esseri umani sono viventi in relazione. Questo è anche il più profondo insegnamento della nostra fede. Quindi la nostra felicità dipende dai nostri rapporti con chi ci sta intorno e la condanna più dura è quella alla solitudine, se la vita, in quel momento, non è riempita dal soprannaturale, dal rapporto con il fondamento che vive. Non è avendo di più che si è più felici: spesso lo dimentichiamo. Ma, oggi più che in tempi passati, è la nostra stessa sopravvivenza che dipende dagli altri, e, ai tempi nostri, anche da gente che vive dall'altra parte del mondo. Sulle cose di nostro uso comune c'è quasi sempre un'etichetta o una scritta in una parte nascosta che dice dove sono state fatte. Gran parte di esse sono state prodotte in Oriente. Una guerra da quelle parti, dall'altra parte del globo, potrebbe privarci delle cose che ci servono quotidianamente o potremmo essere costretti a pagarle molto di più. Le vite di tutti sono interconnesse. Che succederebbe se tutto procedesse caoticamente, senza alcun ordine, solo secondo i rapporti di forza bruta? La società da cui dipendiamo per la sopravvivenza non potrebbe esistere. E infatti un'ordine c'è, disciplinato da una fitta rete di accordi internazionali, che fa sì che merci dall'altra parte del mondo possano arrivare fino a noi. Questi trattati sono stati costruiti dalla politica. Dunque, se vogliamo "fare politica" dobbiamo occuparcene, almeno a grandi linee e il destino di popoli lontani non ci può essere indifferente. E per loro è lo stesso.
  Spesso la politica è presentata come una via per avere di più, e invece dovrebbe servire a vivere meglio. Per questo è necessariamente legata ad un'etica. Se è  lotta di tutti contro tutti, per accaparrarsi un di più di risorse scarse, diventa inefficace e produce solo caos, in cui si vive peggio e addirittura si rischia di soccombere. È per questo che il mercato, in cui tutti competono con tutti, deve avere correttivi politici e non può fornire l'etica di una società, ma solo quella di un suo settore. Ma, in realtà, è proprio vero che  il mercato è quella specie di giungla come ci viene presentato, in cui i grossi cercano di mangiare i piccoli e, comunque, di fare fuori i più deboli? No, non è così. Tanto che è proprio in una società di mercanti che è nata, nell'antica Grecia, la più antica democrazia. Il mercato è un'istituzione che consente l'incontro e gli scambi, in sicurezza e anche a livello internazionale, tra genti che appartengono a sistemi politici diversi. E l'etica del capitalismo, in cui la produzione e gli scambi lasciano molto spazio all'autonomia privata, è appunto un'etica, vale a dire un sistema di limiti che ciascuno riconosce al proprio arbitrio e ai propri appetiti. Altrimenti diviene impossibile il commercio e rimane solo la rapina, per cui i forti profittano dei più deboli e li spogliano dei loro beni. Diverrebbe così impossibile lo stesso capitalismo se le vite e i beni fossero costantemente minacciati e nessuno potesse fidarsi degli altri. Questa condizione di insicurezza farebbe regredire la nostra civiltà a livelli primordiali, che non consentirebbero la sopravvivenza di otto miliardi e oltre di persone sul nostro pianeta. L'idea che si debbano "rottamare" i meno idonei sorse dalla seconda metà dell'Ottocento, sulla suggestione della scoperta dell'evoluzione  naturale delle specie animali secondo la lotta per la sopravvivenza, con la seguente selezione degli organismi più adatti alle condizioni ambientali. Si pensò che ciò che si era prodotto in milioni di anni nel mutamento delle specie viventi potesse essere applicato alla rapidissima evoluzione sociale degli umani. È il "darwinismo sociale", dal cognome dello scienziato Charles Darwin che nell'Ottocento studiò l'evoluzione delle specie. Ecco poi l'idea che la guerra sia un'igiene del mondo, diffusa nel secolo scorso dai futuristi e ripresa dal fascismo mussoliniano. Salvo poi constatare che la guerra è solo un immenso spreco di umanità, in cui spesso sono proprio i migliori a soccombere sul campo di battaglia. Era cosa nota da secoli, ma certe conquiste culturali vanno rinnovate di generazione in generazione.
  Si sostiene che i meno idonei in società dovrebbero essere rottamati per dare una specie di giustificazione alla propria crudeltà, a tutte le sofferenze che si producono e si ignorano negli altri. Si vorrebbe accreditare l'idea che questo sia "naturale", per scaricarsi la coscienza. Si ragiona in questo modo quando si dice che dovremmo selezionare i migranti per bisogno, tenendoci solo quelli che ci servono. Non si tiene conto che oggi tocca a loro e domani, affermato quel bestiale principio, potrebbe toccare a noi. E, del resto, già sta accadendo ai nostri figli che sono andati all'estero, perché da noi non abbiamo saputo costruire le condizioni per un loro impiego.
  La società costituisce ormai, a livello mondiale, un tutto integrato e inscindibile, da cui dipendono la nostra felicità e la nostra sopravvivenza. Non possiamo ragionevolmente pensare di poter sopravvivere in un nostro piccolo mondo separato, in cui ci sono solo quelli che ci vanno a genio. Dobbiamo pensare alla felicità di tutti e dobbiamo farlo razionalmente, programmando e costruendo relazioni. È questa anche la realtà dell'agàpe religiosa, che significa benevolenza per far posto a tutti, nessuno escluso. È questo che è al fondo della dottrina sociale, che contrasta duramente con la crudele ideologia dei rottamatori sociali. Nella visione del pensiero sociale animato dalla nostra fede la politica è agàpe. E, più o meno dagli anni Trenta del secolo scorso, si ritiene anche che sia un compito di tutti, non solo di quelli che si trovano al comando. Questo ora rende possibile costruire una teologia della democrazia, vale a dire rendere esplicito il senso religioso della democrazia come oggi là si intende, piena di valori umanitari, non solo procedura in cui vince la maggioranza. Una democrazia di tutti: questo è l'obiettivo che ci viene indicato dal nostro pensiero sociale ed esso è in grado di rivoluzionare il mondo in cui viviamo, nel quale c'è ancora tanta sofferenza. A questo si contrappongono i populismi correnti che sono profondamente antidemocratici e mirano a disarticolare le masse, rendendole schiave delle loro paure e delle loro tentazioni, per poi dominarle salendo loro sulle spalle e mantenendole schiave, come tutti i populismi hanno sempre fatto. Il paziente e pertinace lavoro di formazione sociale che in religione si va facendo sulle masse dal secolo scorso è teso invece a suscitare una realtà di popolo impegnato nell'agàpe, per trasformare la società avendo di mira la vera felicità. Laddove i populisti gridano "Avete ragione di avere paura!", la dottrina sociale esorta e incoraggia, invece, con un "Non abbiate paura!".


89. La politica e i valori
 
La politica democratica, in una democrazia popolare quali sono le democrazie dei nostri tempi, è quella che consente e richiede la partecipazione di tutti al governo della società. Questo richiede che sia piena di valori. Non si tratta infatti solo di dominare, ma anche, attraverso l'esercizio dell'autorità, e questo è appunto il governo, migliorare la vita di tutti. Ma come farlo senza stabilire dei principi che orientino in questo lavoro? Se invece la politica è solo dominio, allora non ha bisogno di tener conto di tutti, le basta creare le condizioni sufficienti per conquistare e mantenere il potere. In questo caso si comanda nell'interesse proprio e del proprio ceto, vale a dire di quelli che, dominando la società, vogliono avere o mantenere una posizione favorevole. Chi governa in questa prospettiva è tendenzialmente un conservatore, perché, conquistato il dominio sulla società, non ha alcun vantaggio a cambiare. In politica l'orientamento conservatore è di solito definito "di destra", perché, nel Parlamento nazionale, fin da quando ne esiste uno, dalle prime elezioni politiche tenutesi nel Regno d'Italia dopo la sua fondazione, avvenuta nel 1861, i conservatori si collocavano nei banchi di destra. Questo accadeva già nella Camera dei Deputati del Regno di Sardegna, trasformatosi nel 1861 in Regno d'Italia, dopo l'annessione di gran parte dei territori italiani. Non è detto però che un conservatore sia contrario al progresso, e quindi anche a cambiamenti piuttosto intensi. Storicamente, anzi, abbiamo assistito a movimenti politici conservatori che proponevano politiche volte al progresso, sia tecnologico che sociale. La tendenza conservatrice, quindi, riguarda essenzialmente solo l'assetto sociale, in particolare nel contrastare l'emersione politica di altri gruppi sociali che rivendicano vantaggi analoghi a quelli dei ceti dominanti. Quando a voler emergere sono i ceti popolari posti in società in posizione generalmente subalterna, allora questa tendenza politica è definita di sinistra, perché storicamente i parlamentari che l'hanno impersonata si collocavano nei banchi di sinistra del Parlamento. In Italia questa tendenza politica è stata storicamente manifestata dai mazzinianesimo, vale a dire dai seguaci del politico rivoluzionario repubblicano Giuseppe Mazzini (1805-1872), dal socialismo, nei diversi partiti che storicamente lo espressero, a partire dal 1892, con la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani, ma anche dal cattolicesimo democratico sulla base dei principi di giustizia sociale insegnati nella dottrina sociale a partire dall'enciclica Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione con il nome di Leone 13^.
  I processi democratici furono animati e diretti inizialmente, da metà Settecento, dai ceti che controllavano le nuove tecnologie di produzione e di commercio, detti "borghesi", nei confronti della nobiltà federata con i sovrani dinastici assoluti, la cui ricchezza era essenzialmente basata sulla proprietà terriera. Successivamente furono progressivamente sempre più influenzati da forze politiche di sinistra, nell'emergere alla politica delle classi popolari, dovuto principalmente all'azione delle forze socialiste, ma anche, e questo molto sensibilmente dagli anni '40 del Novecento, di quelle del cattolicesimo democratico ispirato alla dottrina sociale. Questo allargamento della base sociale dei processi democratici ha anche prodotto una notevole estensione dei valori democratici, al centro dei quali, per l'azione determinante di esponenti cattolici e socialisti nella progettazione della nuova Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, vennero a situarsi quelli della persona umana e del lavoro. Essi, in questa concezione politica, sono strettamente collegati attraverso l'idea di " dignità", che riassume un sistema di limiti etici a ciò che si può fare agli e degli altri. Il lavoro deve essere rispettoso della dignità della persona e, così, diviene essenziale per rafforzare e manifestare la dignità della persona. Si tratta di dignità che si vuole di tutti, quindi nella sua massima estensione. Per capire la differenza tra politiche di destra e di sinistra è molto importante studiare come si pongono su quei temi.
  Storicamente si manifestarono, in particolare in Italia con il fascismo storico, politiche populiste. Nel populismo le minoranze dominanti, in genere in quanto controllano l'economia, prendono atto della forza delle masse e concludono con esse un patto di dominio e protezione: le masse accettano di rimanere ordinatamente sottomesse e in cambio hanno prestazioni sociali, in genere in danno di un qualche nemico temuto dalla gente. In questo quadro le risorse per le politiche sociali non derivano da un riequilibrio delle diseguaglianze sociali, ma da strategie di potenza consentite dalla forza delle masse. Il fascismo mussoliniano le cercò mediante le guerre coloniali e, da ultimo, con la guerra imperialista al seguito della Germania dominata dal fascismo di Adolf Hitler. Queste politiche populiste vengono inquadrate solitamente in quelle di destra, perché si oppongono agli ideali e ai progetti di quelle di sinistra.
 Ai tempi nostri la politica è generalmente orientata in senso populista. È quindi conservatrice, ma tenta di avere un vasto consenso sociale prospettando prestazioni sociali. È piuttosto vaga quanto all'individuazione delle fonti delle risorse necessarie, che non si ritiene debbano conseguire a un riequilibrio delle diseguaglianze sociali. La prima prestazione sociale promessa è, in Italia, il contrasto all'immigrazione dalle nazioni povere dell'Africa e dall'Asia, ma anche quella di negare i diritti di cittadinanza alla gente straniera che già di fatto fa parte del nostro popolo, avendo acquisito cultura e stili di vita di carattere europeo. Ha quindi carattere xenofobo, parola che significa avversione verso lo straniero. Ragionandoci sopra si capisce che gli impegni xenofobi  non potranno essere mantenuti e, quindi, sono più o meno a costo zero: richiedono solo periodiche manifestazioni di rigore verso la gente che vorrebbe vivere tra noi, per convincere i cittadini che sia possibile risolvere il problema delle migrazioni mediante respingimenti di massa. Si tratta di misure contrastanti con la dignità della persona e del lavoro e, in questo, riconoscibili come non appartenenti ad ideologie di sinistra. Il populista di oggi mira a far votare per lui, poi si vedrà. Propone un cambiamento di chi comanda, ma non dell'assetto sociale. Quindi è un conservatore, perché non ha un progetto alternativo di società, anche se, nei discorsi che fa, appare un rivoluzionario. Spesso è molto bellicoso con chi nella società sta peggio e non pensa possa votare per lui, o perché non ne ha diritto o perché gli è irriducibilmente avverso. Il più importante capo politico populista del mondo è oggi il presidente statunitense Donald Trump. Tutti gli altri populisti del mondo gli fanno in genere eco. Fa eccezione l'odierno Venezuela, che ha sviluppato un populismo di altro segno, sul modello staliniano. Il principale esponente che nel mondo si oppone ideologicamente al populismo del tipo trumpiano è papa Francesco. La dottrina sociale, con la sua etica molto esigente, è infatti all'antitesi del populismo.

90. Cambiare le persone al comando o le politiche?
 
Questa serie di riflessioni estive possono servire a dare un orientamento su come affrontare i problemi politici nell'Italia di oggi, come siamo esortati a fare dai nostri vescovi. Hanno quindi una particolare attenzione agli insegnamenti di quel vasto corpo di documenti del magistero che contiene la dottrina sociale religiosa. La politica, quindi il governo della società, può essere una manifestazione dell'agàpe della fede, termine del greco antico che traduciamo in italiano con "carità" o "amore", ma che ha in realtà un senso sociale molto più intenso, facendo riferimento ad un lieto convito in cui c'è posto per tutti e in cui non manca nulla a nessuno.
  Di questi tempi ci viene proposto di cambiare classe politica, quindi le persone che comandano in politica, in Parlamento, nel Governo, negli altri posti dai quali si dà la linea all'azione sociale. L'idea è che cambiando le persone cambierà anche la politica è che, si sottintende, cambierà in meglio. Tuttavia può essere osservato che nel 2013 c'è già stato uno spettacolare cambio di classe politica: quelli di prima si sono ritirati e al comando c'è veramente gente nuova. Basta considerare le biografie degli attuali ministri, ma anche quelle dei parlamentari. Il mutamento è stato particolarmente accentuato nelle amministrazioni comunali di alcune grandi città, come Roma. Tuttavia, nonostante la "rottamazione" di tanta parte dei politici del passato, le politiche attuate non hanno presentato che mutamenti di dettaglio, piccole rifiniture. In passato le alternative non furono solo tra classi politiche, ma tra progetti politici ed erano veramente più impegnative, coinvolgendo addirittura lo schieramento internazionale dell'Italia rispetto ai due grandi blocchi all'epoca dominanti, quello dei capitalismi, guidato dagli Stati Uniti d'America, e quello dei comunismi, guidato dall'Unione Sovietica. In mezzo c'era un coordinamento di nazioni "non allineate" promosso dalla Jugoslavia.
 Il confronto, e anche lo scontro, tra disegni politici molto divergenti si risolse, in Italia, in ambito democratico, non nel caos, ma, nel dialogo culturale e sociale, in particolare nel Parlamento, con un conseguente risultato dialettico, per cui le due linee finirono per integrarsi, riconoscendo e inglobando gli elementi positivi ciascuna dell'altra. Questo è appunto il metodo raccomandato nella dottrina sociale della Chiesa, nella quale si prende realisticamente atto delle divisioni sociali, ma si invita a superarle nel dialogo, accentuando ciò che è il fondamento comune della convivenza civile. Un sistema di valori condivisi sorresse questa dinamica di dialogo:  si trattava dei valori costituzionali, con al centro quelli della persona umana e del lavoro. È appunto lo smarrimento di questo orientamento verso i valori che crea tanti problemi nella politica di oggi e impedisce di proseguire nella progettazione e attuazione di un mondo nuovo, vale a dire il lavoro iniziato dalle forze politiche dalle quali originò, nel 1948, dopo il lavoro dell'Assemblea Costituente, la nostra Repubblica democratica.
  Non basta cambiare le persone, occorre cambiare il progetto politico, se si vuole veramente cambiare una società in cui c'è troppa sofferenza. E innanzi tutto occorre averne uno. Ma, appunto, questo è un problema, oggi, perché i candidati a posti di comando non si azzardano ad essere troppo espliciti, rimanendo sulle generali, a livello degli slogan, che hanno la consistenza degli annunci pubblicitari. In effetti i candidati sono spesso consigliati dagli stessi specialisti in psicologia della decisione che strutturano gli annunci pubblicitari commerciali. Cercano di indurci a preferirli alle elezioni con le stesse tecniche.I loro appelli cercano di attivare la nostra mente più antica, quella che viene guidata dalle emozioni, che si basa sulla prima impressione è che ci serve a fare velocemente le scelte quotidiane ripetitive, dove è superfluo esercitare la nostra facoltà critica, ragionarci tanto sopra.  È stato dimostrato che, raggiunto quel livello, poi la coscienza critica che dovesse attivarsi successivamente, secondo la parte della nostra mente più evoluta, farà fatica a imporsi. Si rimane ancorato alla prima impressione, al primo giudizio emotivo, superficiale. Ma quando si tratta di fare scelte che implicano il futuro nazionale, è giusto fare così? Non si dovrebbe perdere un po' più di tempo per attivare la razionalità delle persone? Se però si punta solo a convincere gli elettori a tracciare un segno sulla scheda, non serve. Non è nemmeno necessario perdere tempo a ragionare ordinatamente e informandosi da fonti affidabili sui mali sociali e sulle soluzioni, come ad esempio si fa nell'enciclica Laudato si' del 2015. Non occorre avere un progetto di cambiamento. Ci si penserà quando si sarà al potere. Ma, allora, potrebbe essere troppo tardi. Fatalmente, non essendo preparati, si farà come quelli di prima, si seguirà la tradizione. Ecco dunque che gente nuova fa le cose di sempre.
 Per cambiare veramente occorre un nuovo progetto di società, altrimenti è scontato che si continuerà a fare come prima. Un criterio molto importante per valutare le proposte politiche e chi si presenta come candidato è quindi quello di individuare il progetto di società che c'è dietro, al di là degli slogan, delle parole d'ordine. Spesso i politici di oggi fanno appello alla fiducia verso di loro, dovremmo fidarci. Uno slogan di una pubblicità commerciale di alcuni anni fa diceva "La fiducia è una cosa seria, che si dà alle cose serie". È proprio vero. Nella politica decidiamo a chi affidare le vite nostre e dei nostri cari. Dovremo scegliere persone serie. È una persona seria il nostro Padre Francesco che ha scritto una lunga enciclica per spiegarci i mali d'oggi è le possibili soluzioni, acquisendo il parere di molti esperti; non mi pare che si dimostrino tali quelli che vanno per slogan tipo "rottamiamoli", "aiutiamoli a casa loro", e "meno tasse".

91. Partecipare al governo democratico

  Nella Costituzione è scritto che la sovranità appartiene al popolo, con il limite delle leggi che la regolano, ma in genere ciascuno pensa si contare poco, come singolo, nel governo della società. E in effetti è così, infatti la democrazia si esprime in azioni collettive e quindi i cittadini non contano come individui ma nella misura in cui sanno farsi popolo, quindi ad esprimere una forza collettiva. 
 Ma come?, noi "siamo" già "popolo", siamo italiani, viviamo in Italia dove la gran parte di noi è nata, parliamo italiano, vestiamo secondo la moda corrente in Italia, e via dicendo e precisando, in che senso dovremmo "farci" popolo? Questo è appunto il grande problema, e anche l'impegno, principale delle democrazie popolari, in cui il popolo non soltanto "è", ma anche "decide". Per essere "popolo che decide", per influire collettivamente sul governo della società, occorre fare unità nella gente al di là di quella che è manifestata da una certa somiglianza di elementi culturali, che, in fondo, è minimamente "decisa" dalla gente è in  massima parte subìta, per cui uno nasce e si ritrova in un certo ambiente sociale e si uniforma ad esso, facendo come gli altri. È per questo che ai rivoluzionari italiani del Risorgimento si presentò l'esigenza, dopo essere riusciti a "fare" l'Italia, unificando le genti stanziate in Italia sotto un'unica autorità politica, sotto un sovrano italiano, la dinastia dei Savoia, di "fare" gli italiani. Infatti dal 1848 la monarchia Savoia era del tipo "costituzionale", vale a dire che riconosceva limiti al potere del monarca e ammetteva la partecipazione democratica dei sudditi al governo dello stato, in particolare mediante l'azione politica di un Parlamento in cui la Camera dei deputati era eletta dai cittadini maschi e con certi requisiti di istruzione o di reddito. Quindi non bastava più, per essere popolo, essere sudditi di un unico re, occorreva un popolo con capacità politica. Ci si accorse che l'Italia era ancora "fatta" di popoli diversi, che addirittura parlavano lingue diverse e comunque avevano culture diverse: integrarli non si presentava facile. È un lavoro che fu in gran parte portato a termine solo negli anni Sessanta del secolo scorso, con quel potente strumento di integrazione culturale costituito dalle reti televisive pubbliche della Rai e con la realizzazione della scolarizzazione pubblica di massa, in particolare con la riforma della scuola media inferiore, che risale sempre agli scorsi anni Sessanta. La formazione è indispensabile per dare al popolo la capacità politica. Fin dall'Ottocento lo si era capito e ne aveva scritto, ad esempio, il rivoluzionario repubblicano Carlo Cattaneo (1801-1869), uno dei capi della rivolta milanese del 1848 contro gli occupanti austro-ungarici. Per fare politica non è sufficiente conoscere i problemi propri e di quelli che vivono nelle immediate nostre vicinanza, bisogna capire la storia in cui si vive, ed avere una prospettiva molto più ampia.
 Uno strumento molto potente per conquistare una capacità politica sono le encicliche sociali dei nostri  papi, in particolare a partire dalla La pace in terra, diffusa nel 1963, dal Papa Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23^. Esse sono strettamente connesse con l'attualità, non si tengono sulle generali, e hanno una visione veramente globale. Non sono sempre facili da leggere, richiedono quasi sempre degli approfondimenti, ed è bene tenere a portata di mano, affrontandone lo studio, il libro di storia di terza media o un Smart-phone che possa consultare Wikipedia e l'enciclopedia Treccani in lìne.
  Per farsi popolo democratico occorre elevarsi sopra il proprio particolare. Altrimenti si rimane solo fazione politica, in lotta con le altre per avere di più delle risorse nazionali. Oggi la politica democratica è diffamata dalle fazioni politiche con l'accusa di corruzione e di inconcludenza; ma la gran parte dei problemi della politica democratica sono causati dallo spirito di fazione, per l'incapacità di elevarsi al di sopra dei propri interessi particolari. Al centro degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa vi è invece l'esortazione a farlo. Questo perché, se non si riesce a farlo, la società vive nel disordine della lotta di tutti contro tutti, e allora prevale il più forte, finché rimane tale, ad imitazione della crudele legge della natura. Ciò contrasta con la dignità degli esseri umani come persone, per natura soggetti di diritti universali, inviolabili e inalienabili ( così si legge nell'enciclica La pace in terra, sopra citata, n.5). C'è un limite alle pretese politiche di fazione ed esso deriva da ciò che costituisce come persona l'essere umana: in religione lo si ritiene di origine soprannaturale. Quindi un buon inizio di politica democratica è quando non si tiene conto solo di ciò che è bene per la propria fazione, ma anche delle esigenze umane delle persone che la pensano diversamente da noi e sono diverse da noi. Le divisioni della società, se non risolte tenendo conto del bene di tutti, distruggono la società. Questa è stata un'importantissima conquista culturale nel nostro pensiero religioso e ha portato, con l'azione determinante di gente della nostra fede, alla realizzazione della nostra nuova Europa, che ha consentito una lunghissima era di pace e di prosperità, senza precedenti nella storia dell'umanità.

92. Vivere la politica democratica
 
 Parlo con la gente intorno a me e sento che è delusa della politica democratica. Mi pare anche che ne abbia perso dimestichezza. La vive al modo di sudditi e allora rivendica miglioramenti per sé, senza preoccuparsi degli altri e della società intorno.  Non sente la politica come propria. Le riescono difficili i temi che tratta e non intravede soluzioni. Anzi, peggio, sospetta che ogni soluzione che viene proposta nasconda un imbroglio, in particolare che chi comanda in politica non le dica tutta la verità. Sospetta anche che i "politici" non siano capaci di vero altruismo e che quando parlano di "sacrifici" da fare escludano sempre sé stessi e i propri favoriti. Si è quindi di fronte, per quello che mi appare, ad una spettacolare "crisi di legittimazione" della politica, analoga a quella che iniziò a manifestarsi negli anni '80 del Novecento, e alla quale si tentò con scarso successo di porre rimedio.
  Delegittimata dalla sfiducia della gente, la politica, allora, cerca di stare a galla con metodi antidemocratici, in particolare con strategie populiste. Nel populismo l'adesione della gente non viene ottenuta consapevolmente, ma suscitando reazioni collettive di tipo emotivo, confermando le persone nelle loro paure e nelle loro tentazioni, deprimendone il senso critico, presentando la situazione in cui si trovano come senza altra via di uscita che quella di abbandonare una parte dei sofferenti o di riuscire ad accaparrarsi risorse pubbliche a preferenza di altri, e infine garantendo ai propri seguaci che questo lavoro "sporco" sarà fatto senza che essi debbano insozzarsene le mani e le coscienze. Basta tracciare un segno nel posto giusto sulla scheda elettorale. Poi la gente dovrà lasciare mano libera agli eletti fino alle elezioni successive, non creare problemi, non impicciarsi, non essere mai forza critica, non manifestarsi più come popolo, perché, in fondo, in democrazia il popolo si potrebbe esprimere solo in occasione delle elezioni, o, al massimo, partecipando a periodici sondaggi, di cui la politica sarebbe libera di tener conto o meno. Questa però non è democrazia, come oggi la si intende. E non lo è perché è troppo povera di valori e di responsabilità critica collettiva e personale. Non consente alle persone di farsi un'idea realistica del loro tempo e punta a far sovrastimare la gravità di certi problemi, quelli che appunto servono a suscitare adesione emotiva, irrazionale e poco informata. I casi tipici sono quelli dell'immigrazione e dell' "Unione Europea". Sembra che tutti i nostri guai originino da lì e invece sono provocati dall'assetto irrazionale della nostra economia, che la politica non sa e non vuole cambiare, perché manca di un progetto. Così si limita ad esortare a cambiare le persone, con argomenti populisti: ma si è poi visto che i populisti al potere non riescono a cambiare granché, perché, come ho detto, non lo sanno fare e,soprattutto, nemmeno vogliono farlo. 
  La politica democratica è innanzi tutto un sistema di valori: se lo si dimentica si finirà prima o poi nelle mani dei populisti, o peggio. E poi è un sistema di limiti: bisogna sospettare di chi pretende di avere mani libere. Il primo limite è quello dei valori: bisogna delegittimare chi ci spinge all'azzardo morale, ad esempio a respingere i migranti sofferenti abbandonandoli, contro il nostro dovere, in inferni sociali. L'altro limite è quello della critica sociale, che in democrazia deve essere costante, non di elezione in elezione. Tenta di sottrarsene chi si esime dall'obbligo politico di presentare progetti compiuti di riforme sociali ai cittadini, che possano essere compresi e criticati, ma si limita a slogan come "rottamiamoli", meno tasse", "aiutiamoli a casa loro", "fuori dell'Europa".
  L'epoca che stiamo vivendo non è la peggiore che la nazione abbia passato. Ve ne fu una molto più grave durante la Seconda guerra mondiale, nella quale ci aveva trascinato il populismo mussoliniano. A quei tempi si fu veramente smarriti. È allora che, in Italia, ci si convertì alla democrazia, come popolo; quella democrazia della quale oggi in genere si diffida. Fu la nostra Chiesa a prendere un'iniziativa, nella linea dei precedenti interventi sociali, ma iniziando essa stessa dal riconoscimento delle colpe collettive, mutando sensibilmente i precedenti orientamenti verso la politica democratica. Fu un lavoro collettivo, che vide in prima fila l'Azione Cattolica, dalla quale scaturì molta della classe di governo della Repubblica democratica. Fu manifestato al mondo nei radiomessaggi natalizi del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12^, tra il 1941 e il 1944, ancora con il regime fascista egemone, documenti che vi invito a cercare mediante Google digitando a "radiomessaggio Natale” e l'anno, ad esempio “1941”. Ebbero il valore di vere e proprie encicliche. Sono tutti pubblicati su www.vatican.va. Si era nel mezzo del disastroso conflitto mondiale: furono rivolti ai "desolati senza speranza" e contenevano un invito alla conversione ad un nuovo ordine sociale internazionale che rivoluzionasse i sistemi totalitari, ma anche quelli dominati dal capitalismo dalla faccia feroce, e che fosse finalmente rispettoso della dignità umana. Un progetto compiuto di società, pieno di valori, che, con il contributo determinante dei cattolici-democratici, fu realizzato democraticamente nella nostra nuova Europa, a tutt'oggi diretta, in fondo, da una leader cristiano-democratica. Quando gli italiani, tra il 1946 e il 1948, e per la prima volta anche le donne, si trovarono a decidere tra monarchia e repubblica e poi tra democrazia popolare, democrazia liberale o democrazia sovietica, tra allineamento con nazioni occidentali o con l'Unione sovietica, scelsero tra quel progetto e altri progetti di società molto articolati, non su slogan populisti come quelli che erano stati proposti per un ventennio dal fascismo mussoliniano.


93. Fare la propria parte
 
È indifferente, per un cittadino italiano, vivere in Italia o altrove? Non dico dal punto di vista del clima, dell'ambiente naturale, degli stili di vita e anche degli amici che si frequentano. Mi riferisco ai propri doveri sociali. Sarebbe lo stesso vivere all'estero? Se il mondo va come va e non c'è nulla da fare per cambiare come va,  in fondo è lo stesso. Se poi una persona considera solo sé stessa, come individuo, è molto evidente la sproporzione tra le forze del singolo e le forze sociali che determinano la storia. Eppure queste ultime sono appunto "sociali", vale a dire umane, e la storia, fenomeni naturali a parte, è integralmente una costruzione umana. Come è stata fatta, può dunque essere cambiata. Procede per rapporti di forza, salvo in ciò in cui gli umani riescono ad affrancarsi dalla legge della natura, che è appunto quella della forza, e la legano a dei valori. Partecipare al governo della società, come si fa in politica, consente di affermarvi la propria volontà. Questo, fino a due secoli fa, era prerogativa dei sovrani. La democrazia è un sistema    di istituzioni per consentire un'ampia collaborazione in quel lavoro, tendenzialmente della maggior parte degli adulti di un popolo. Il cittadino ha diritto di farlo nel sistema politico che lo riconosce come tale. Questo però lo costituisce in una posizione di responsabilità, perché se può indurre un cambiamento e nella misura in cui può farlo. ha anche il dovere di farlo per il meglio. Perché deve? Perché in società si è tutti dipendenti da tutti per la propria sopravvivenza e quindi nessuno ha interesse ha far andare peggio le cose, o addirittura a distruggere la società da cui dipende, In democrazia nessuno può ragionevolmente chiamarsi fuori, esonerarsi dalla responsabilità. Nella misura in cui uno è venuto meno al proprio  dovere politico è responsabile della rovina della società, vale a dire di un bene molto importante. Ha promosso i valori? Si è adoperato a concorrere a limitare l'arbitrio altrui? Ha cercato di informarsi bene della situazione, o è stato troppo superficiale? Nei limiti della propria competenza, e aiutandosi con la competenza altrui, ha fatto proposte realistiche, buone per tutti, e ha cercato di affermarle in società? Ha studiato bene le proposte altrui, e valutandole criticamente, ha individuato quelle che meglio corrispondono ai valori mettendosi di traverso per ostacolare le altre?
  Se uno interagisce in società solo per fare i propri interessi e quelli della propria fazione, non vuole e non fa il bene di tutti. Questo comporterà la rovina e la distruzione della società e dei valori e la ripresa della legge della giungla. È così che agiscono le mafie, che sono tra le maggiori cause dei problemi sociali italiani, in particolare cause di spreco immane di risorse sociali. Nei contesti sociali in cui le mafie sono riuscite a dettare legge, la società dei valori scompare e in certi casi vengono vanificati i diritti politici dei cittadini e non si riescono più ad organizzare le elezioni locali. Le mafie, allora, impongono un duro servaggio.
 Ciascuno è parte del sistema democratico di valori e di limiti, con il voto e con tutte le altre attività sociali con le quali si può attivare il controllo democratico, ad esempio nella cultura, nelle manifestazioni pubbliche, nello sciopero, ma anche nelle azioni che fa come consumatore, lavoratore e datore di lavoro, fino ad arrivare all'esercizio del diritto di resistenza, vale a dire a svolgere quel tipo di opposizione sociale all'arbitrio  altrui dalla quale è nata la nostra Repubblica democratica. 
 La storia ci insegna che, dalle origini e fino all'ultima campagna per referendum costituzionale e ad oggi,  quando abbiamo davanti elezioni politiche cruciali per la nostra democrazia come poche altre, le masse coinvolte nei processi democratici hanno contato, e molto, contribuendo a mantenere sostanzialmente integro, di generazione in generazione,  il sistema dei valori che è alla base della nostra ideologia democratica, con al centro quelli della persona, del lavoro, della dignità dell'una  e dell'altro. Le scelte politiche che si prospettano di qui a poco non sono banali, e non riguardano solo l'identità anagrafica dei politici di comando, ma coinvolgono pesantemente quei valori, dei quali occorre innanzi tutto acquisire piena consapevolezza. Siamo ancora all'altezza di quei valori? Ad esempio, la persona, il lavoro. la pace, sono ancora per noi valori e valori importanti?
  L'impegno che il nostro dovere ci richiede va ben oltre il tracciare un segno su una scheda elettorale. Siamo di fronte a scelte che indubbiamente richiederanno un cambiamento dei nostri stili di vita, se vogliamo salvare la società dalla quale dipende la nostra sopravvivenza. Ne ha scritto il nostro Padre Francesco nell'enciclica Laudato si'", Altrimenti, che succederà? Altrimenti la società che ci ha finora garantito un lungo periodo di pace e un discreto benessere, per cui ad esempio i problemi dell'alimentazione insufficiente e dell'abbandono nella malattia,  nell'età anziana e nell'infanzia non sono generalizzati, cambierà e saranno molto di più i "sommersi", il cui numero è già ora in aumento; le relazioni umane incattiviranno; non ci si farà più scrupolo ad abbandonare i sofferenti e ci si dovrà augurare di riuscire ad avere sempre forze e le alleanze sociali sufficienti a rimanere tra i "salvati". Come pensiamo debba essere il nostro prossimo futuro sociale? Nelle pubblicità politiche correnti in questi giorni non viene precisato. Si fanno promesse, certo, in particolare promesse di cambiamento di ciò che va male,  ma non si spiega come si pensa di mantenerle. Chi le fa dunque, non avendo precisi progetti di cambiamento, se prevarrà si ritroverà probabilmente a fare come in passato, seguendo una tradizione amministrativa. Cambieranno i capi, ma non le politiche. È questo che in genere accade con i populisti. Le cose, quindi, non miglioreranno.   Migliorare richiederebbe infatti cambiamenti, perché c'è tanta gente che in una società ricca sta sempre peggio e questo è paradossale, irragionevole, segnala qualcosa che va corretto, ma in genere i cambiamenti vengono prospettati proprio in danno di chi in società sta già peggio, a cui si chiede di accettare "sacrifici",perché è lì che si vuole "risparmiare"; questo in una società tra le più ricche del mondo Occidentale, il quale a sua volta è, per ora, la parte più ricca del mondo intero. Il trattamento del lavoro è molto peggiorato negli ultimi vent'anni e questo colpisce la dignità delle persone il cui lavoro si è trovato ad essere svalutato. Ma disumanizza l'intera società. È facile osservare che questo è iniziato da quando, all'inizio degli anni '80 del secolo scorso, la forza delle organizzazioni che tradizionalmente avevano promosso l'affermarsi della dignità dei lavoratori si è indebolita. Fu l'epoca in cui il populismo all'epoca corrente nel mondo Occidentale cominciò a presentare la tutela del lavoro come un ostacolo all'arricchimento individuale. Gli slogan erano "Meno società! Meno tasse!".  A distanza di trent'anni possiamo studiare gli effetti sociali di questa politica, che sono andati, mi pare,  in danno dei più e a vantaggio di minoranze di privilegiati. Le diseguaglianze sociali sono enormemente aumentate, ma questo non ha aumentato il benessere collettivo né quello individuale dei ceti non favoriti, che comprendono la gran parte dei lavoratori e di chi lavoratore non può più esserlo, per disoccupazione sopravvenuta, malattia o vecchiaia,  o non è mai stato. Del  resto era irrealistico pensare che, scatenando la lotta di tutti contro tutti, abrogando le regole che impedivano che la competizione sociale incrudelisse, togliendo ai poteri pubblici sempre più risorse a beneficio di organizzazioni private, potesse andare diversamente. Ma certamente è ancora possibile che vada addirittura peggio. Basta unirsi al coro intonato dai populisti che oggi  gridano "Meno società! Meno tasse!" e seguirli, facendo come dicono.
 Questi che ho indicato sono i temi politici veramente cruciali di oggi. Ma in genere nel ragionare di politica si perde molto tempo sul tema dell' "aiutiamoli a casa loro", il quale, benché tutto sommato marginale rispetto a quegli altri nel senso che non mette in pericolo la sopravvivenza della società, pone in questione il valore della dignità della persona umana, sulla quale i populisti ci spingono ad incrudelire con il pretesto che si debba salvarci la vita senza tener conto di quelle degli altri. O noi, o loro. Non ci sarebbe alternativa. Attenti, però! Oggi tocca a disperati africani, ma presto potrebbe toccare anche ai nostri figli e a noi stessi se, in politica, abbandoniamo la fedeltà ai valori. Siamo proprio sicuri di poterci sempre salvare con le nostre sole forze di fronte ad ogni rovescio della vita? Basta poco, molto poco, ai più per passare nella parte dei sommersi. Basta ad esempio trovarsi nella fascia d'età degli ultrasettantentenni, quando presto si diventa sempre più fragili.

94. La dottrina sociale: una grande opportunità
 
 La dottrina sociale, vale a dire gli insegnamenti su come realizzare società conformi al l'etica religiosa, è stata sostanzialmente accentrata dai papi  nell'era moderna, a partire dal regno del papa Giovanni Maria Mastai Ferretti, in religione Pio 9^ (papa dal 1846 al 1878), cioè da quando il papato decise di organizzare una forza di popolo per sostenere le proprie politiche, in particolare nell'Italia dei moti nazionalistici e, successivamente, negli sviluppi del nuovo regno unitario, istituito nel 1861.  I papi furono, in genere, mediocri capi politici (fatta eccezione per San Karol Wojtyla con riguardo ai moti politici democratici nella Polonia degli anni 80), ma eccezionali maestri di politica. I radiomessaggi, le encicliche, le esortazioni e le lettere apostoliche in materia sociale diffuse dal papato a partire dal 1941, in particolare,  costituiscono, nel complesso, uno dei più completi manuali di democrazia correnti, l'unico con quella estensione e attenzione alla concreta prassi della storia, e inoltre continuamente aggiornato, fino all'enciclica Laudato si', diffusa nel 2015 dal papa attualmente regnante Jorge Mario Bergoglio, Francesco in religione. Si tratta di documenti in genere poco conosciuti. Per i più richiedono un aiuto per avvicinarli, come l'ho avuto io per tutta la mia vita, fin da universitario. Questo soprattutto per inquadrare il contesto storico e culturale in cui si inseriscono. La dottrina sociale è diffusa dal papato, per un ordine che viene di volta in volta dal papa regnante che ne firma i testi, ma naturalmente è stata sempre un lavoro collettivo, in cui i papi hanno svolto generalmente il ruolo di committenti, ispiratori, coordinatori, capi redattori e poi di divulgatori. Il nostro Padre Francesco ne ha parlato proprio in questi termini per quanto riguarda la genesi dell'enciclica Laudato si, nella quale tanta parte hanno avuto diverse scienze.
   Partita da posizioni francamente reazionarie, la dottrina sociale, in una lunga evoluzione prodottasi nel contatto vivo con la gente, ha superato l'iniziale diffidenza per la democrazia che caratterizzò la sua impostazione dal papato di Mastai Ferretti a quello del papa Achille Ratti, che regnò in religione dal 1922 al 1939 come Pio 11^. Essa non usò mai argomenti populisti. Questo ne fa un tesoro prezioso,una perla rara, nel desolante contesto politico italiano attuale, nel quale le maggiori forze politiche usano disinvoltamente il populismo. La ragione è che la dottrina sociale moderna, fin dalle sue origini, si presentò come forza critica, in particolare prima nei confronti del nazionalismo italiano, poi nei riguardi dello sviluppo del nuovo stato unitario, istituito nel 1861, e quindi nei riguardi del liberalismo, del socialismo, del nazionalismo, del capitalismo liberistico, dell'individualismo, del collettivismo, dell'imperialismo, del colonialismo, del razzismo, di ogni specie di suprematismo di gruppi sociali su altri. La dottrina sociale nacque come orientamento del popolo per organizzarlo a sostenere, in particolare in Italia e in ambiente democratico-liberale, le politiche del papato in un'epoca in cui esso era in polemica con le politiche di buona parte degli Stati europei, per varie ragioni. Essa, proprio in quanto forza critica, fa costante riferimento alla coscienza e alla ragione e in questo, oltre che che al rapporto con la fede, può individuarsi una sua continuità, pur nella sua evoluzione. La dottrina sociale non è solo teologia, anche se la teologia come riflessione sui doveri sociali che la fede comporta, indubbiamente la caratterizza. Essa si presenta essenzialmente come analisi critica del proprio tempo, del quale cerca di avere una visione realistica, ma anche come rassegna critica delle diverse soluzioni possibili ai mali sociali. Originariamente il  papato immaginò di poter dare autonomamente indicazioni normative per una completa ristrutturazione degli assetti sociali, quindi di poter esso stesso ricavare, con la teologia, le soluzioni di volta in volta necessarie, fin nei dettagli. Dsgli anni Sessanta capì invece di dover accettare una collaborazione più ampia, in particolare sulla base delle scienze sociali e della concreta esperienza politica svolta dai laici di fede. Ma già in precedenza aveva posto l'accento sulla necessità di laici di fede veramente competenti nelle questioni sociali e scientifiche promuovendone la formazione mediante le proprie organizzazioni di universitari.
  Un documento molto importante di quell'impostazione, di importanza veramente epocale, fu la lettera apostolica Octogesima AdveniensApprossimandosi l'Ottantesimo [anniversario dell'enciclica Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 13^], diffusa nel 1971 dal papa Montini, in religione Paolo 6^, che vi invito a cercare su Web e a leggere attentamente. Per la prima volta si accetta l'idea che in politica la fede possa esprimersi in diversi orientamenti, che però devono passare al vaglio critico della coscienza religiosa e della ragione. Si esortano i fedeli a collaborare alla realizzazione di una nuova democrazia. Un lavoro che è ancora in corso. Da allora è passata più di una generazione. Purtroppo è stato carente il lavoro di formazione. Questo ha esposto la gente di fede al pericolo, alla tentazione, e alla colpa sociale, di prestare fede alle politiche populiste. La nostra gente non appare più capace di essere veramente forza sociale critica e l'esperienza segnala che ha crescente difficoltà ad intendere gli insegnamenti della dottrina sociale.

95. Prepararsi alla cittadinanza

 La politica è una manifestazione della carità in senso religioso, ci insegnano. E, allora, che dobbiamo pensare di una persona che se ne esce con un "Io, non mi occupo di politica"?
  Si pensa, però, che della politica debbano occuparsi i "governanti". Li dovremmo accettare, e subire, un po' come accade con la pioggia e il bel tempo: vengono e ci si rallegra se non fanno danno. Ancora non abbiamo inventato metodi per mantenere il bel tempo stabile. Poi ogni tanto la terra trema e anche in questo caso non ci si può fare nulla, se non rimuovere le macerie e ricostruire. Però in politica è molto diverso e tanto più nei regimi democratici. Non occorre fare una rivoluzione violenta per cambiare, ma per cambiare in meglio non è sufficiente recarsi ogni tanto ai seggi elettorali. E, innanzi tutto, cambiare è possibile, perché la società intorno a noi è integralmente una costruzione umana e come è stata fatta può essere mutata. Nella storia dell'Italia democratica è avvenuto molte volte. La prima volta è stato nel giugno del 1946, quando si dovette scegliere tra Repubblica e Monarchia ed eleggere un'assemblea con il compito di scrivere e approvare una Costituzione, in sostituzione delle norme fondamentali sul funzionamento dello stato impartite nel 1848 dalla dinastia monarchica dei Savoia (lo "Statuto Albertino", imposto dal re Carlo Alberto accogliendo richieste sostenute da un imponente moto popolare). Più recentemente si è avuto nel 2013, quando, a seguito di elezioni politiche, si ê prodotto un significativo mutamento del ceto parlamentare, in gran parte rinnovato. Non è vero, quindi, quello che sento dire non di rado, che "Sono sempre gli stessi!". Tra queste due epoche ci sono stati molti altri cambiamenti nella politica nazionale, che negli anni '70 ha dovuto fronteggiare anche tentativi  di colpi di stato di opposta tendenza. In queste fasi le masse sono state determinanti, e non solo con il voto. La concreta possibilità di indurre collettivamente dei cambiamenti politici pone i cittadini in una condizione di responsabilità. Da un punto di vista etico, quindi anche della morale religiosa, vale a dire di ciò che si deve fare in quanto giusto, anche l'omissione, il semplice non fare, che in genere significa anche un "lasciar fare", è colpa. "Non fare" quando "si può" fare e nei limiti in cui si può. Questo insegnamento ci viene dal magistero in modo pressante, in particolare riguardo alla politica, dagli scorsi anni Sessanta. Lo troviamo, ad esempio, nella lettera apostolica Octogesima Aveniens - Avvicinandosi l'ottantesimo [anniversario dall'enciclica Le novità, del 1891], diffusa nel 1971 dal papa Giovanni Battista Montini, regnante in religione come Paolo 6^. Scrisse in quel documento:
"47. [...] Occorre inventare forme di moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la possibilità di tenersi informato e di esprimersi, ma impegnandolo in una responsabilità comune. I gruppi  umani così si trasformano a poco a poco in comunità di partecipazione e di vita. La libertà, che si afferma troppo spesso come rivendicazione di autonomia opponendosi alla libertà altrui, si sviluppa così nella sua realtà umana più profonda: impegnarsi e prodigarsi per costruire solidarietà attiva e vissuta.
[...]
48. È a tutti i cristiani che noi indirizziamo, di nuovo e in maniera esigente, un invito all'azione. [...] Ê troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale".
  Questa che ho citata è una delle più belle e coinvolgenti definizioni della politica democratica in cui mi sia mai imbattuto. Capite? La politica è molto più che accreditare proposte altrui tracciando un segno su una scheda elettorale o di referendum. Occorre una "conversione", vale a dire un profondo cambiamento di mentalità, che è anche conversione alla democrazia. È tanto facile, oggi, accodarsi a chi facilmente la diffama, innanzi tutti ai populisti di ogni colore, i quali sono accomunanti da uno stesso  rifiuto dei processi democratici e la cui proposta si riduce in definitiva ad una sola: far fare tutto a loro, rinunciando ad altra partecipazione che non sia quella di dar loro via libera.
 Da dove inizia il nostro dovere di cittadini? Dall'informarsi, dal capire il tempo in cui si vive. La prima colpa la dovremmo, allora, riconoscere quando, da ragazzi, passando al primo anno delle superiori, buttiamo o vendiamo i libri di storia del triennio delle medie inferiori, uno strumento essenziale per capire. Così facendo, rinunciando allo sforzo di capire, innanzi tutto facendo memoria, ci mettiamo nelle mani della politica spregiudicata, a cui basta il nostro voto ma a cui di noi non importa nulla. Per convincerci, se non ci fortifichiamo preparandoci, le basta poco, quel tanto che è sufficiente al successo di una campagna pubblicitaria commerciale, basata sull'emotività e su meccanismi logici elementari. Se io dico, ad esempio: "la ricchezza prodotta nell'ultimo trimestre è aumentata più delle aspettative e ciò è avvenuto dopo le riforme attuate da un certo governo, quindi accade a causa di quelle riforme", sostengo una cosa che potrebbe non essere vera, perché ciò che viene prima non è sempre causa di ciò che viene dopo, ma potrebbe essere vera però non fare onore a quel governo, se, ad esempio, nelle altre nazioni vicine la ricchezza fosse aumentata di più. Questo significherebbe che l'aumento più contenuto della ricchezza che si è avuto da noi è colpa, non merito, di quel governo. Da come viene posta la questione, cambia il risultato. E spesso viene posta nel modo più conveniente a chi vuole il consenso della gente. Se uno è un cittadino un po' superficiale, e non è mai bene esserlo nelle cose importanti, e non va a verificare, corre il rischio di accreditare come un merito di un governo ciò che invece potrebbe essere addirittura una colpa, o, forse, più probabilmente, se l'entità della variazione è piccola e si riferisce ad un periodo molto breve,  ad esempio uno "0,qualche cosa" in un trimestre, non dipendere dal!'azione di quel governo, ma da altri fattori.
  Un buon cittadino deve impegnarsi ad essere meno superficiale: ma questo, a ben considerare, dovrebbe essere anche una qualità della persona religiosa, la quale vuole essere addirittura capace di incontrare l'eterno lì dove apparentemente non c'è nulla, perché, come è scritto, "Nessuno l'ha mai visto".

96. Fare politica

 Non basta interessarsi di politica, occorre "fare" politica. Ci insegnano che è anche un dovere religioso. Spesso invece lo si ritiene una colpa in religione. Bisognerebbe tenere separate politica e religione, si sostiene.  Se esaminiamo i documenti della dottrina sociale possiamo facilmente renderci conto che non è questo l'insegnamento del magistero. Ad esempio, nella lettera apostolica Octogesima adveniens - Approssimandosi l'ottantesimo [anniversario della prima enciclica sociale moderna, la Rerum novarum - Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 13^], del papa Giovanni Battista Montini - Paolo 6^ in religione, diffusa nel 1971 leggiamo:
"L'attività economica rischia di assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si palesa necessario il passaggio dall'economia alla politica. [...] ciascuno sente che nel settore sociale ed economico , sia nazionale che internazionale, l'ultima decisione spetta alla politica. Questo, in quanto è il,vincolo naturale è necessario per assicurare la coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene comune.
[...]
 È a tutti i cristiani che noi indirizziamo, di nuovo e in maniera esigente, un invito all'azione [...] È troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale [...] nella diversità delle funzioni,delle organizzazioni, ciascuno deve precisare le proprie responsabilità e individuare, coscienziosamente,le azioni alle quali egli è chiamato a partecipare. Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi. La Chiesa invita tutti i cristiani al duplice compito di animazione e di innovazione per far evolvere le strutture e adattarle ai bisogni presenti."
  Un invito all'azione è più di un invito a informarsi, anche se lo comprende, perché è vano agire senza aver prima capito. La politica si fa collettivamente. Non è politica l'opinione che uno ha della politica. In quanti bisogna essere per fare politica? Direi almeno in due, purché si tratti di un rapporto vero, umano, forte, non virtuale, come invece sono quelli che si formano mediante internet. Si deve convivere, perché è appunto nella convivenza che si affrontano realmente i problemi politici, vale a dire quelli di governo delle società umane. Essi sorgono molto presto, fin da bambini, nelle prime esperienze sociali, le quali, ognuno lo sa bene, contengono quasi tutti i problemi politici delle società maggiori. È da quel momento che occorre iniziare a fare politica e, quindi, che occorre anche insegnare fare politica. Ad esempio a non dare ascolto a chi vorrebbe spingerci a dare il peggio di noi stessi. Così poi, da adulti, ci si sarà fortificati e si saprà come reagire di fronte a proposte analoghe. Non è in fondo questa la morale, il profondo insegnamento, di un libro come Pinocchio, che è per i bambini, ma anche per adulti ridivenuti bambini? Non è mai bene acciaccare al muro i grilli parlanti. È  in definitiva questo che si è fatto quando, all'invito del nostro padre Francesco di accogliere, proteggere, promuovere, integrare, i migranti e i rifugiati, gli si è replicato con una specie di pinocchiesco "Chetati , grillaccio del malaugurio!", invitandolo a farsi gli affari suoi e a rimanersene chiuso in Vaticano, "perché non possiamo accogliere tutta l'Africa". In effetti non tutta l'Africa è giunta da noi in un anno, ma, è stato osservato, più o meno tante persone quante ne potrebbero contenere due stadi di calcio. E non è nemmeno tutta l'Africa che si sta spostando verso l'Europa, quindi dai posti più poveri del pianeta ad uno dei posti più ricchi, e certamente il più sicuro per viverci. Ma indubbiamente vi sono veramente molti sofferenti in viaggio: non li si dovrebbe carcerare solo per questo, dice il nostro padre Francesco, ( "evitare ogni forma di detenzione in ragione della loro condizione di migranti"), ma le cronache ci dicono che in Libia, con i cui governanti abbiamo recentemente raggiunto accordo riguardo alle migrazioni umane, è proprio questo che sta accadendo, mentre l'Italia sta anche intervenendo militarmente laggiù. Sono in questione principi umanitari molto importanti, ma anche prettamente religiosi.  Scrive il nostro padre Francesco, nel Messaggio per la Giornata mondiale de rifugiati 2018: "Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è un'occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo straniero accolto o rifiutato in ogni epoca (confronta Mt 25,35.43).
 Nulla di nuovo per la verità. L'attuale Papa non fa che ribadire, precisandolo, l'insegnamento del suo predecessore Montini, il quale, nella lettera apostolica che ho sopra citato, scriveva, nel 1971, in un tempo in cui i tra i migranti da proteggere vi era ancora tanta gente nostra:
"Pensiamo altresì alla situazione di un gran numero di lavoratori emigrati, la cui condizione di stranieri rende ancora più difficile, da parte dei medesimi, ogni rivendicazione sociale, nonostante la loro reale partecipazione allo sforzo economico del paese che li accoglie. È urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico, per creare uno statuto che riconosca il diritto all'emigrazione, favorisca la loro integrazione, faciliti la loro promozione professionale e consenta a essi l'accesso a un alloggio decente dove, occorrendo, possano essere raggiunti dalle loro famiglie.
  A questa categoria si aggiungono le popolazioni che, per trovare lavoro, sottrarsi a una catastrofe o a un clima ostile, abbandonano le loro,regioni e si trovano sradicate presso altre genti."
  Perché Pinocchio dà ascolto ai cattivi compagni? Perché è solo di fronte a loro e, in fondo, sta bene cosi. Ne ha avuto abbastanza dei grilli parlanti. Se ne va, allora, al Paese dei balocchi, spregiando i suoi doveri. Era diventato umano, da burattino che era, ma, così facendo. diventa addirittura animale, un somaro. Recupererà l'umanità quando recupererà la capacità di misericordia, dandosi da fare per il padre. Ma, e questo nel Pinocchio di Collodi non c'è, non ci si può riuscire rimanendo da soli: da soli ci prende la paura e allora finiamo nelle mani di chi si attacca alle nostre paure per spingerci al male, per convincerci che non c'è altra strada per salvarci che essere cattivi, che scegliere il pace, ad esempio sostiene che tutta l'Africa sta venendo da noi e allora noi dovremmo, per non farci travolgere, per questo negare la cittadinanza a chi cittadino lo è ormai di fatto, perché parla come noi, pensa come noi, vive come noi, e dá il suo contributo al bene comune; e negare qualsiasi impegno per quelli che soffrono nella migrazione, e sono anche carcerati all'estero. La nostra salvezza dipende dalla pace, ma, questo ci insegnano i nostri maestri religiosi, non c'è pace duratura senza fraternità universale. Se oggi respingiamo chi invoca il nostro aiuto, poi introduciamo in società un principio malvagio che ci si potrebbe ritorcere contro, quando saremo noi ad essere nel bisogno. E a noi italiani sta già accadendo con l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. La condizione dei nostri giovani emigrati per lavoro in quella nazione si sta facendo precaria.

97.Informarsi, conoscere, capire
 
 Di solito gli adulti pensano di saperne abbastanza sulla società intorno. Quando però parlano tra loro scoprono tante curiosità non appagate. Non è sempre chiaro come funzionano le cose. Dove e come informarsi meglio? 
 Se una persona rimane da sola, non sempre avverte la necessità di sapere di più. Questo accade anche se la maggior parte delle relazioni che si hanno avvengono telematicamente, in gruppi sociali collegati mediante applicazioni internet. Questo perché, aderendo ai vari gruppi, ci si seleziona, si è molto simili in tutto, e ciò che si sa  In genere basta. A quei gruppi va bene una definizione delle masse che le chiama "folle solitarie", perché, anche se si dialoga convergendo in un'applicazione, non ci sono mai vere relazioni personali. Queste ultime sorgono solo quando ci si incontra realmente, faccia a faccia.
  Nel governo della società occorre sapere di più e, innanzi tutto, conoscerla meglio. In un regime democratico non è cosa da specialisti, ma compito, e addirittura dovere, di tutti. Non solo di quelli che possono votare alle elezioni, ma di tutti quelli che compongono la società e che con i loro comportamenti la determinano. Si partecipa alla società fin da bambini e anche se non si è cittadini. E il governo popolare di una società non si fa solo votando alle elezioni. Uno dei modi più importanti in cui si partecipa alla società è da lavoratori e da consumatori. Il lavoro comprende anche quello che si fa creando e organizzando un'impresa, vale a  dire una collettività che si dedica alla produzione e al commercio. Il sistema sociale delle relazioni tra lavoratori e e consumatori costituisce il mercato, che ai tempi nostri è esteso a tutto il pianeta, vale a dire su scala "globale". È regolato da norme giuridiche, parte delle quali sono di origine pubblica, sono imposte dalle leggi degli stati e da accordi internazionali, e parte sono concordate dai privati. Un esempio di queste ultime sono i contratti che firmiamo quando compriamo un servizio telefonico, come un numero di telefono cellulare.
  Ai nostri tempi le relazioni di mercato tendono a influenzare quelle politiche, che riguardano il governo della società. La legge fondamentale del mercato è quella del più forte, che non significa necessariamente il migliore. Gli operatori più forti sono in grado di influenzare il mercato e addirittura di determinare il comportamento dei consumatori, creando nuovi bisogni sociali. La politica regola il mercato in modo che questa legge sia moderata da norme che impediscano ai più forti di mangiarsi tutto. Se però la politica si fa più debole, e, in particolare, più debole nei confronti del mercato, allora può accadere che i più forti sul mercato divengano anche i più forti in politica. Essi però agiscono essenzialmente nel proprio interesse, mentre in democrazia la politica dovrebbe operare nell'interesse di tutti. Mirano al "profitto" che è la differenza tra quanto si ricava dal commercio sul mercato dei prodotti e quanto si è speso nella produzione (i costi). Chi opera sul mercato, anche i consumatori, tende al profitto maggiore. E gli operatori più forti sul mercato tendono a persuadere i consumatori che acquistando un certo prodotto avranno un profitto, anche se magari esso non c'è, o è minore dei quello prospettato o ha molte controindicazioni, ad esempio danni per la salute. Le norme della politica servono anche a impedire che la pubblicità, che può essere molto convincente, non inganni il consumatore. Se però il mercato prevale sulla politica, anche questa attività regolatrice di farà più debole. Governi meno attenti all'utilità pubblica si sono fatti, anzi, un vanto di aver "deregolamentato". È accaduto, in particolare negli anni '80. I politici più importanti che seguirono in quegli anni quella linea furono il presidente statunitense Ronald Reagan e il primo ministro britannico Margaret Thatcher. Essi confidarono nella capacità dell'economia di autoregolarsi e di creare ricchezza per tutti, pur se ciascun operatore mirava solo al proprio profitto, al proprio interesse.
  La dottrina sociale dà invece l'indicazione di regolare l'economia in modo che non danneggi il bene comune. Assegna questo compito alla politica, che in democrazia è compito di tutti.
 Leggiamo ad esempio nella lettera apostolica Octogesima Adveniens  - Approssimandosi l'ottantesimo [anniversario dell'enciclica Rerum novarum - Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 12^], diffusa nel 1971 dal papa Giovanni Battista Montini, Paolo 6^:
46.L'attività economica [...] rischia di assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si palesa necessario il passaggio dall'economia alla politica [...] ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico".
  L'appello alla politica chiama in causa tutti noi che, nel partecipare alla società, ad esempio da consumatori, siamo anche agenti politici. Siamo convinti che sia bene che la politica, vale a dire ciascuno di noi, possa regolare i fatti economici o, invece, riteniamo, come Reagan e Thatcher, che le leggi del mercato debbano fare il loro corso fino alle ultime conseguenze e che la società debba fare un passo indietro? Questo un primo tema su cui intendersi, innanzi tutto sulla base della nostra concreta e quotidiana esperienza. L'alternativa è attualissima ed è rappresentata oggi dalle linee del presidente statunitense Donald Trump e del Papa Francesco. Quest'ultimo, nella sua enciclica Laudato si' del 2015, non fa che ribadire l'insegnamento sociale dei suoi predecessori, in particolare gli sviluppi della dottrina sociale dal 1941. Dobbiamo però vagliare razionalmente le argomentazioni proposte, perché è da queste che, trattandosi di materia sociale e non di dottrina di fede, deriva la loro autorevolezza. Ma come farlo senza una sufficiente informazione, rimanendo soli o al più parti di folle solitarie su internet? Il lavoro che c'è da fare ci spinge quindi ad incontri reali e sistematici, per arrivare a persuaderci di un certo orientamento e a determinarci di conseguenza. Un'attività che può senz'altro farsi in parrocchia, fin dalla prima formazione alla fede, tenendo conto che la dottrina sociale non è fatta per un pubblico di esperti, ma per tutti.

98. Usare l'intelligenza

  Usare l'intelligenza fa parte dei doveri politici di tutti. È una fatica che i populisti, quelli che pretendono da noi mani libere confermandoci nelle nostre paure e incoraggiandoci a cedere alle nostre peggiori tentazioni, vorrebbero risparmiarci. Lasciando loro le mani libere, finiremmo poi nelle loro mani. E in che mani! Gente che non sente scrupoli a usare le maniere forti con chi sta peggio  e che ci propone di fare lei in società, per conto nostro, il lavoro sporco che ci ripugna, assicurandoci che non saremo tra quelli abbandonati. Possiamo credere loro? Una volta introdotto un principio disumano, di abbandonare i sofferenti al loro destino, quello poi si diffonde come un cancro, guastando la società. E la sofferenza tocca a tutti. A quel punto si vorrebbe solidarietà. Ma in nome di che? In un sistema in cui tutto ha un prezzo, bisogna avere di che pagarlo. E se non se ne ha o non se ne ha abbastanza? Potremmo scoprire che la società, caduta in mano ai populisti, non è più "casa nostra". E che "casa nostra" è ormai solo la nostra condizione di sofferenza e che noi siamo diventati, per la società intorno, gli scarti da rimandare a mani vuote "a casa loro". Troppo tardi, per noi, ci potremmo convincere che le cose sarebbero potute andare diversamente, solo se avessimo, al tempo giusto, voluto seguire gli insegnamenti dei nostri buoni maestri, come è ai tempi nostri il nostro Padre Francesco, disinvoltamente svillaneggiato sui giornali della nostra destra. Egli non fa che confermare l'insegnamento dei suoi predecessori. In politica occorre usare l'intelligenza, la testa e non la pancia, la ragione e non l'emotività. Questo per convincerci che non c'è alcuna via di salvezza per l'umanità che quella di seguire la via dei veri valori, quelli che l'animo religioso ritiene donati agli umani per virtù soprannaturale. Quelli che ci portano a distaccarci dalle leggi violente della natura, dove prevale il più forte. Se noi ci facciamo come bestie, rinunciando al l'intelligenza, avremo il destino delle bestie. Ma un'umanità di otto miliardi di umani non può sopravvivere se governata da bestie e riducendo a bestie gli umani.
  Di questo si tratta per esteso in molti documenti di quel magistero che viene indicato come dottrina sociale. Leggiamo ad esempio nell'enciclica Pacemaker in terris - La pace sulla terra, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23^:
"4. Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità con le stesse leggi che sono proprie delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l'universo; quando invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.
  Sono quelle, infatti, le leggi che indicano chiaramente come gli uomini devono regolare i loro vicendevoli rapporti nella convivenza; e come vanno regolati i rapporti fra i cittadini e le pubbliche autorità all'interno delle singole comunità politiche; come pure i rapporti fra le stesse comunità politiche; e quelli tra le singole persone e le comunità da una parte, e dall'altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune universale.
5. In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi un soggetto di diritti e doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili e inalienabili.
  Che se poi si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa appare incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono redenti dal sangue di Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna."

99. Uguali in dignità

 Voglio ricordare questa affermazione, che si legge al n.5 dell'enciclica La pace sulla terra - Pacem in terris, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23^:
"In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi un soggetto di diritti e doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili e inalienabili."
  Essa è molto importante perché contiene la definizione di persona in senso insieme religioso, filosofico, ideologico e politico. Quanto a quest'ultimo, esso deriva dal fatto che, nell'impostazione del Roncalli, che è poi quella della dottrina sociale moderna, il principio della dignità della persona deve essere posto a base di una convivenza ordinata, che comprende appunto ogni comunità politica, ad ogni livello. Si è parlato, a proposito dell'orientamento espresso nell'enciclica che ho citato, di principio personalistico. In politica esso trova un antecedente fondamentale in questa affermazione contenuta nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America, del 1776, nel punto dove si proclama:
"Consideriamo evidente [=che non ha bisogno di essere provato] che tutti gli esseri umani siano stati creati uguali, dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti, e tra di essi quello alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità".
 Si tratta di un principio che in Italia è attualmente legge fondamentale della Repubblica, agli articoli 2 e 3 della Costituzione. Inteso in tutta la sua estensione fonda un orientamento di solidarietà umana che va molto oltre quello che consegue alla cittadinanza di uno stato e ha di mira la pace universale, l'unica condizione in cui gli esseri umani possono essere veramente felici. È appunto in questo modo che viene insegnato nella dottrina sociale. Esso, mediante l'azione determinante dei cattolici democratici è stato posto alla base della realizzazione del processo di unificazione europea.  Avendo perseguito con determinazione la pace a livello continentale, proprio dove fin dall'antichità si era avuta una serie praticamente ininterrotta di guerre, si è effettivamente prodotto un periodo di pace molto lungo in Europa, come mai era accaduto prima, tanto che oggi, in Italia, chi ha meno di ottanta anni o giù di lì non ha memoria personale della guerra. Per un cittadino degli Stati Uniti d'America, ad esempio, è molto diverso, perché la sua nazione ha vissuto pochi periodi di pace e anche oggi vive il pericolo di diverse guerre contemporaneamente. Anche per l'Europa la situazione sta però cambiando. Un focolaio di guerra è in atto, ad esempio,  in Ucraina tra stati in cui prevalgono i cristiani. Ma gli europei sono impegnati in guerre in Afghanistan e in Siria e stanno intervenendo anche in Libia. 
  È chiaro che l'affermazione della dignità inalienabile degli esseri umani non ha mai impedito ai democratici statunitensi, come ad altri democratici nel mondo, fatta eccezione per la nostra nuova Europa, di fare guerra. L'apporto caratteristico del pensiero sociale orientato dalla nostra fede è stato invece quello di inserire la pace tra i diritti umani fondamentali. L'idea è che la dignità della persona non sia compatibile con l'azzardo morale della guerra, con lo sterminio di altri esseri umani. Questa dottrina politica è piuttosto recente anche  in religione. Gli stessi papi nel medioevo proclamarono delle guerre. Le ultime a cui parteciparono come sovrani politici furono nel 1848 la prima guerra d'Indipendenza italiana, con l'invio di un corpo militare nel lombardo-Veneto contro gli austroungarici, al quale fu però impartito l'ordine di ritiro prima che avesse impegnato il nemico (ordine che non fu obbedito dal capo della spedizione), e nel 1849 e nel 1870 la difesa della città di Roma rispettivamente dai rivoluzionari mazziniani e dall'esercito del Regno d'Italia. La svolta si ebbe durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e fu preceduta dalla riflessione filosofica e politica del pensiero sociale cristiano e preparata da una dichiarazione del papa Benedetto 15^ del 1917, contenuta in una lettera ai capi delle nazioni in guerra, in cui definì la guerra che si stava combattendo, la Prima Guerra Mondiale, una "inutile strage".
  La responsabilità delle persone di fede è maggiormente coinvolta in politica proprio perché è con il contributo determinante del pensiero religioso che nell'era contemporanea è scaturita l'idea di realizzare in concreto una politica di pace a livello mondiale come parte dei diritti umani inalienabili degli esseri umani. In passato l'aveva proposta, ad esempio, il filosofo cristiano Immanuel Kant (1724-1804), nel libro Per la pace perpetua, del 1795.

100. Veramente uguali

Si legge nell’enciclica Pacem in terris - La pace sulla terra,  diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23°:
“4. Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto che si ritiene di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità politiche con le stesse leggi che sono proprie delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l’universo; quando invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.
Sono quelle, infatti, le leggi che indicano chiaramente come gli uomini devono regolare i loro vicendevoli rapporti nella convivenza; e come vanno regolati i rapporti fra i cittadini e le pubbliche autorità all’interno delle singole comunità politiche; come pure i rapporti fra le stesse comunità politiche; e quelli fra le singole persone e le comunità politiche da una parte, e dall’altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune universale.”
e poi:
“5. In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili.
Che se poi si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa apparirà incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono stati redenti dal sangue di Gesù Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna.”
   Definire l’essere umano, ogni  essere umano, persona  nel senso sopra precisato, significa proclamare il principio dell’uguaglianza in dignità  tra gli esseri umani. Nella visione della dottrina sociale esso non varia a seconda dei rapporti stabiliti tra gli esseri umani. Nell’enciclica sono ricordati tutti: a) quelli vicendevoli tra le persone, b) quelli tra le persone e le autorità politiche; c) quelli tra le comunità politiche, d) quelli tra le persone e la comunità mondiale ed e) quelli tra le comunità politiche e la comunità mondiale. Il nostro magistero insegna che,  in ognuna di quelle relazioni sociali,  si è sempre persona nello stesso modo, con gli stessi diritti e doveri universali, inviolabili, inalienabili. Una conseguenza è che, per la dottrina sociale, se si finisce nelle mani di una comunità politica diversa da quella di origine, non per questo si è meno persona quanto a quei diritti e doveri fondamentali. Ai tempi nostri, tra le comunità politiche più ricche del mondo, come è la società italiana, si dissente su questa applicazione del principio di uguaglianza. Di fatto si vorrebbe limitare quest’ultima ai cittadini, ma se questa eccezione riguarda i diritti fondamentali, quelli che la dottrina sociale definisce universali, inviolabili e inalienabili, lo si fa non solo violando l’etica religiosa, ma anche le norme fondamentali vigenti, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, la quale all’art.2, riconosce  e  garantisce  i diritti inviolabili dell’uomo,  sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità,  richiedendo, contemporaneamente,  indipendentemente dalla condizione di cittadinanza, l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.  Ma la violazione riguarda anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,  anch’essa legge vigente in Italia. Essa stabilisce l’inviolabilità  della  dignità umana estendendo esplicitamente, in merito,  ad ogni  persona  umana  la  condizione di uguale dignità sociale,  anche con riferimento a diritti fondamentali previsti espressamente dalla nostra Costituzione per i cittadini (ma riconosciuti per via interpretativa anche agli stranieri dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale).
TITOLO III
UGUAGLIANZA
Articolo 20
Uguaglianza davanti alla legge
Tutte le persone sono uguali davanti alla legge.
Articolo 21
Non discriminazione
1.   È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
2.   Nell'ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.
Articolo 22
Diversità culturale, religiosa e linguistica
L'Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica.
Articolo 23
Parità tra donne e uomini
La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione.
Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.
  Siamo veramente convinti della  pari dignità sociale delle persone? E se sì, siamo disposti ad agire conseguentemente? E se non lo siamo, come la mettiamo con la religione e la legge?
 E’ diverso agire in un certo modo perché si è convinti di fare il giusto o solo perché si temono le sanzioni per le violazioni. Se poi si è partecipi di una democrazia di popolo, in cui si tiene conto degli orientamenti della gente, potrebbe avvenire che le leggi, anche quelle molto importanti, vengano sostanzialmente disapplicate. Durante il regime fascista, quando vennero imposte per leggi discriminazioni sociali contro gli ebrei, accadde che molta gente rifiutò di applicare quelle più dure. Ora qualche volta sembra accadere l’opposto. Certe cose ripugnano, ma c’è che si propone di farle per nostro conto, senza che personalmente ci si debba sporcare le mani. Basta che si faccia fare a loro, senza legar loro le mani con questioni di principio. Abbiamo istintivamente paura del diverso e loro ci confermano che abbiamo ragione di temere.
  Sì, è vero, i più di noi temiamo per il futuro. Ce lo dicono i sociologi: viviamo una condizione di insicurezza sociale. Eppure le nostre società sono tra le più ricche del mondo. Com’è che, in società tanto ricche, c’è tanta gente che sta male e le autorità dichiarano di non avere di che pagare i servizi sociali per la collettività? Si sta male e allora chi può, in particolare i più giovani, emigrano. Lo possono fare liberamente nell’Unione Europea, perché è un diritto che è stato loro riconosciuto. Non vengono respinti, ma si trovano nella condizione di doversi trasferire all’estero. Non li rimproveriamo per questo. In altre nazioni europee il fenomeno è stato molto più imponente. Del resto il diritto di migrare è previsto  da un’altra importante convenzione internazionale che  è diventata legge dello stato, il Protocollo n.4 addizionale della Convenzione dei diritti dell’uomo  e delle libertà fondamentali: art.2, comma 2: Ogni persona è libera di lasciare qualsiasi Paese compreso il proprio”. I giovani europei migrano, ma di solito non rischiano la vita se non lo fanno. Molti di quelli che, rischiando la vita in lunghi viaggi per terra e per mare, giungono alle nostro frontiere, o vengono intercettati mentre vi stanno arrivando, invece fuggono da condizioni sociali tali a mettere in pericolo le loro vite. Da stati dove non è possibile procurarsi ciò che è indispensabile per vivere, in cui le abitazioni sono malsane, in cui non ci si può curare, in cui non ci si può procurare un’istruzione sufficiente. E’ chiaro che usiamo due principi diversi per valutare le condotte dei nostri cittadini che emigrano e quelle di quegli altri. E’ in questione la vita, quindi si tratta di diritti fondamentali. Ma quali sono le cause che costringono la gente a emigrare? Alcuni studiosi ci dicono che le cause sono le stesse per i nostri cittadini e per quegli altri e che è un’illusione pensare di risolvere il problema solo respingendo chi a rischio della vita certa di arrivare da noi. Occorre riformare profondamente i sistemi economici, sociali e politici che causano il problema. E occorre farlo su scala globale, perché il problema si è fatto globale. Chi si trova in condizione privilegiata, perché si è trovato inserito nella parte giusta del mondo, o è riuscito ad esservi ammesso, rifiuta di doveri di solidarietà  inderogabili per soccorrere quegli altri che sono rimasti esclusi, che quindi risultano essere uno scarto  del sistema. Ce ne ha parlato il nostro Padre  Francesco nell’enciclica Laudato si’, del 2015. O invece pensiamo che il mondo debba andare così come va, così come vengono i terremoti e non ci si può fare nulla se non cercando di mettersi in salvo e di scampare alla morte? Ma come la mettiamo con il fatto che i sistemi sociali sono integralmente una costruzione umana? Hanno una storia, cambiano, possono cambiare in un senso o nell’altro, in peggio o in meglio. E’ dalla metà degli scorsi anni ’80 che stanno cambiando in senso sfavorevole ai lavoratori che lavorano alle dipendenze altrui. In particolare si è passati da rapporti di lavoro più stabili a rapporti meno stabili. E il potere di acquisto dei salari è costantemente diminuito, salvo che per le categorie che si trovavano in rapporti di forza favorevoli o che hanno potuto conservare meccanismi di adeguamento automatico.
  Tutte le questioni a cui ho accennato rientrano in quelle comprese nel tema della  giustizia sociale. Quest’ultimo è in genere ritenuta collegato a quello della pace, nel senso che storicamente non si è mai riusciti ad assicurare veramente la pace  senza creare condizioni di giustizia sociale. Ecco come se ne parla nell’enciclica La pace sulla terra:
Secondo giustizia
51. I rapporti fra le comunità politiche vanno inoltre regolati secondo giustizia: il che comporta, oltre che il riconoscimento dei vicendevoli diritti, l’adempimento dei rispettivi doveri.
Le comunità politiche hanno il diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo: ad essere le prime artefici nell’attuazione del medesimo; ed hanno pure il diritto alla buona riputazione e ai debiti onori: di conseguenza e simultaneamente le stesse comunità politiche hanno pure il dovere di rispettare ognuno di quei diritti; e di evitare quindi le azioni che ne costituiscono una violazione. Come nei rapporti tra i singoli esseri umani, agli uni non è lecito perseguire i propri interessi a danno degli altri, così nei rapporti fra le comunità politiche, alle une non è lecito sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre. Cade qui opportuno il detto di sant’Agostino: "Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni, se non a grandi latrocini?".
Certo, anche tra le comunità politiche possono sorgere e di fatto sorgono contrasti di interessi; però i contrasti vanno superati e le rispettive controversie risolte, non con il ricorso alla forza, con la frode o con l’inganno, ma, come si addice agli esseri umani, con la reciproca comprensione, attraverso valutazioni serenamente obiettive e l’equa composizione.
   Nell’enciclica  Laudato si’, del nostro padre Francesco, questo lavoro di realizzare la pace nella giustizia è assegnato a tutti noi, a ciascuno di noi e noi nelle collettività di cui siamo partecipi, nel quadro di uno sforzo di conversione:
218 Ricordiamo il modello di san Francesco d’Assisi, per proporre una sana relazione col creato come una dimensione della conversione integrale della persona. Questo esige anche di riconoscere i propri errori, peccati, vizi o negligenze, e pentirsi di cuore, cambiare dal di dentro. I Vescovi dell’Australia hanno saputo esprimere la conversione in termini di riconciliazione con il creato: «Per realizzare questa riconciliazione dobbiamo esaminare le nostre vite e riconoscere in che modo offendiamo la creazione di Dio con le nostre azioni e con la nostra incapacità di agire. Dobbiamo fare l’esperienza di una conversione, di una trasformazione del cuore».[ Conferenza dei Vescovi Cattolici dell’Australia, A New Earth. The Environmental Challenge (2002).]
219. Tuttavia, non basta che ognuno sia migliore per risolvere una situazione tanto complessa come quella che affronta il mondo attuale. I singoli individui possono perdere la capacità e la libertà di vincere la logica della ragione strumentale e finiscono per soccombere a un consumismo senza etica e senza senso sociale e ambientale. Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, non con la mera somma di beni individuali: «Le esigenze di quest’opera saranno così immense che le possibilità delle iniziative individuali e la cooperazione dei singoli, individualisticamente formati, non saranno in grado di rispondervi. Sarà necessaria una unione di forze e una unità di contribuzioni». Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit, 72 (trad. it.: La fine dell’epoca moderna, 66).La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria.
  Ecco, politica è anzitutto costruire quelle reti comunitarie virtuose a cui l’enciclica si riferisce. Ogni ideologia democratica è partita da questo.



FINE