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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

sabato 9 settembre 2017

Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia PARTE TERZA

Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia
PARTE TERZA



di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

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Un processo continuo di liberazione
(8 gennaio 2013)

Se c’è, come non può non esserci nel mondo un processo continuo di liberazione, la Chiesa, il cristiano con la Chiesa e per la Chiesa, deve essere presente in questo processo di liberazione. In che modo? Con la triplice azione sacramentale che è propria della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la parola.
Nel processo di liberazione e di promozione umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano deve essere innanzi tutto presente con la parola di Dio.
[…]
Con la vita.
La Chiesa. … e il cristiano nella Chiesa non può accontentarsi di parlare di liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno, deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti che la Chiesa deve portare nel mondo la liberazione totale e integrale operata da Cristo.

[ da La Chiesa sacramento di Cristo e segno e strumento di liberazione, relazione tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo Enrico Bartoletti – all’epoca segretario generale della CEI, in Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo – a cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].

 Lo scritto che ho sopra riportato rende bene il clima degli anni immediatamente dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa cattolica, a lungo considerata essenzialmente una forza di contenimento sociale e personale, se non una organizzazione francamente reazionaria, veniva concepita in modo nuovo, nel senso che come fedeli ci si assegnava compiti nuovi, religiosamente motivati, in un mondo in cui era generale l’ansia di elevazione di popolazioni o strati di popolazioni fino ad allora considerati fatalmente destinati alla sofferenza e alla minorità.
 Bisogna dire che di certi temi in Italia si parlava accostandoli piuttosto da lontano, ad esempio di quello dell’elevazione e liberazione delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia. Ai tempi nostri, in cui strati di popoli africani e asiatici sono migrati dalle nostre parti, i problemi si sono fatti più concreti.
 E’ necessario anche aggiungere che il disegno conciliare prevedeva un ruolo molto più attivo dei fedeli laici in questi nuovi compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro di preparazione di questa parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune sue porzioni particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello di presenza  dei fedeli laici nella società in cui vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80, nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
 Oggi, se consideriamo chi siamo, noi cattolici, visti nel nostro complesso e parlando francamente, dobbiamo considerarci prevalentemente una forza di liberazione e promozione umana, o una forza di contenimento, o ancora una forza di reazione, gente che quindi vuole tornare ai tempi di prima?
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Pace come promozione umana
(13 gennaio 2013)

Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”


Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.4:
“E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa.
Aumenta lo scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai diversi.
Infine, con ogni sforzo si vuol costruire un'organizzazione temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il progresso spirituale.
Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le scoperte recenti.
Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l'angoscia, mentre si interrogano sull'attuale andamento del mondo.
Questo sfida l'uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.”

Dalle relazione tenuta da mons. Enrico Bartoletti (1916-1976, dal 1972 Segretario generale della C.E.I.) al seminario della Caritas italiana del 27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo, Editrice A.V.E., 1982, pag.123.

Ecco allora quello che è la Chiesa o per lo meno quello che ella è virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve di continuo divenire: una comunità, una comunione di uomini amati da Dio e che hanno la capacità per il dono dello Spirito che è stato loro concesso di trasfondere, di manifestare, di realizzare questo amore di Dio per gli uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto verso coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere membra vive della medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli uomini: “ogni uomo è mio fratello”.
  Se noi comprendiamo questo e se non ripetiamo pappagallescamente lo slogan dell’amore che risolve tutto, ma arriviamo a comprendere la radice profonda che costituisce l’essenza intima e autentica della Chiesa come comunità di credenti, come comunione di coloro che Cristo ha redento, allora veramente noi abbiamo della Chiesa e quindi di noi stessi un’altra visione. Noi comprendiamo che se questa è l’essenza profonda della Chiesa, se questa è la sua realtà di base, la sua intima connessione interiore, se questo in fondo è il suo mistero, rivelare questo mistero al mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per primi e poi via via a cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco, Dio non ha abbandonato il mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha abbandonato la storia perché ha messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù nell’amore dello Spirito, questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo secondo il progetto di Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per lui.

 Intendere la Chiesa comunità pacificante è stata una delle idee forti che si sono manifestate nel Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
 Bisogna considerare che sul tema della pace non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in particolare dopo il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso le concezioni che oggi sono diffuse dal magistero.
 Il tema della pace, nei documenti conciliari, si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché la pace è cosa da realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei templi dove dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito principalmente laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica per l’instaurazione e il mantenimento della pace  tra i popoli è quello di un’autorità mondiale, universalmente riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una sorta di polizia di pace, nel senso di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione di un ordine pacifico, in una accordo tra autorità costituite, con una cessione di sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo.
  In realtà un’autorità mondiale di questo tipo non è stata ancora realizzata. L’esperienza europea di pacificazione continentale, che l’anno scorso ci è  fruttata il Nobel per la pace, è basata molto su una progressiva convergenza dei costumi dei popoli oltre che sull’azione di autorità a vario livello, secondo il principio, riconosciuto anche dalla dottrina sociale della Chiesa, della sussidiarietà. In questo quadro ha avuto molta importanza la penetrazione sociale di costumi democratici, intesi sia come forme partecipate e pacifiche di decisioni su temi di interesse comune sia come affermazione concreta dei diritti umani fondamentali.
 Il lavoro di pacificazione può farsi rientrare nell’impegno di promozione sociale, quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo fondamentale al laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli scritti che ho sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo da un intervento fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono indicate specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come realizzare la pace in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta considerazione del contesto sociale umano ( lo scrutare i segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei laici, che, nella visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con tutti le altre persone bene intenzionate.
 Pace, in senso religioso, non è solo assenza di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui la personalità degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente, secondo il vero bene di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà esercitarsi l’azione laicale.
 Nei discorsi religiosi e su base biblica, si collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace potrà essere realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia, realisticamente, non è garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace nelle società umane, in cui si manifestano sempre, ad un certo livello, delle devianze rispetto all’ordine costituito, talvolta sulla base esclusivamente degli appetiti e degli interessi individuali e di gruppo. Questo significa che per  il mantenimento della pace occorrerà sempre l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e, comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di punizione dei colpevoli.
 Mons. Bartoletti metteva in guardia dal parlare con troppa disinvoltura di amore come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che richiede un impegno concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che essa scaturisca, quasi magicamente, dal parlare di amore.
 Pacificare le società umane non è sempre facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala globale o nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale  e dall’Asia, l’integrazione sociale degli stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa. Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.
 A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter entrare di nuovo in contatto con le tante persone più giovani che, formatisi in religione nella nostra parrocchia, non la frequentano più, forse essendo rimasti a vivere in zona. Anche questo farebbe parte di un’opera di pacificazione, se si fossero allontanati per qualche motivo di risentimento o di rancore nei confronti della nostra comunità.  Molti sono impegnati nel lavoro o nello studio quando il gruppo si riunisce. Io stesso ho talvolta difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E anche gli impegni di famiglia possono ostacolare un impegno extradomestico in certi orari.  Sentiamo però la nostalgia e il bisogno di queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro storie. Come ho detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il mondo in cui vivono per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri umani, secondo grandi principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a dire ben consci della sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo. Eppure, passo dopo passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è pure sorta dai millenni bui delle guerre continue!
 Non abbiamo la pretesa, noi del gruppo parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la vite degli altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede un impegno enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che stiamo facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale, che passa anche il prendersi cura degli altri  a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo, ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.
 Ma, in definitiva, lo sforzo che si fa in un gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso, segna innanzi tutto un progresso spirituale, che, come contagio, può diffondersi nella società intorno a noi, nei punti in cui entriamo in contatto con essa.

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52
Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana
(13 gennaio 2013)

Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”

Da “Una Chiesa in ricerca, in servizio, in crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione e promozione umana – atti del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:

“…se le due funzioni di servizio, proprie della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente distinte, non sono però separate e devono trovare la loro sintesi nella unità organica della comunione ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il vero contributo della evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera della Gerarchia o dei laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve passare attraverso il servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in Italia il primo problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il nesso intrinseco tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito dal convegno) è quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.

 Venerdì prossimo inizierà la settimana per l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo tema, pensiamo alle diverse confessioni cristiane che ancora hanno organizzazioni separate mentre, nella visione cattolica, le si vorrebbe tutte legate a un unico pastore, al mondo in cui esse vogliono essere sottomesse ad un unico Signore.
 Tuttavia il problema dell’unità sussiste anche all’interno della nostra stessa confessione religiosa. Esso si è fatto più pressante nel corso degli sviluppi del Concilio Vaticano 2°, come indica il brano della relazione del 1976 del padre Sorge che ho sopra trascritto. Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha fatto le spese in particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80 ha visto ridursi molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura messo in discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e i vescovi e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.
 Ad esempio nella nostra parrocchia possiamo facilmente constatare come l’Azione Cattolica non sia più, da tempo, la principale articolazione del laicato. Ad essa si è sostituita l’organizzazione del Cammino Neocatecumenale la cui storia, la cui azione e i cui punti di vista nella Chiesa e  nel mondo hanno caratteristiche piuttosto distanti da quelle dell’Azione Cattolica.  Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è diventata nella parrocchia un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra parrocchia e altre che hanno subito dinamiche simili assomigliano a una confederazione di vari gruppi in precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione tra le varie parti che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono varie attività nella liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione. L’unità in definitiva si fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.
 Come ho cercato di riassumere nei miei precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme organizzative che ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per l’esigenza dei laici cattolici di partecipare di più all’edificazione della società del loro tempo, in particolare sfruttando le opportunità offerte dai sistemi politici democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare anche in modo nuovo il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio Vaticano 2° è stato assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2° l’Azione Cattolica ha fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi principali obiettivi. Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una certa frizione tra i principi religiosi e quelli secondo i quali era organizzata la società civile. Una delle ragioni del decremento della partecipazione all’Azione Cattolica può essere vista nel venir meno dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta solo dell’emergere del fenomeno della secolarizzazione, per cui certe convinzioni religiose hanno avuto meno forza nella società e vengono riservate fondamentalmente ai momenti rituali e cerimoniali della società, ma proprio del fatto che la società civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a principi democratici, tra i quali quello della libertà religiosa, sembra richiedere di meno un attivismo dei fedeli laici, che allora possono, come dire, concentrarsi sugli aspetti più prettamente spirituali della fede. Ad un certo punto si  è sentita di meno l’esigenza dell’unità di pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe richieste e indicazioni che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno trovato altri modi di essere proposte nella sede civile e in quella politica. Ecco quindi che l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico italiano ha potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune. Questo ha fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di contenere, vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel suo complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un punto di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose cambiano quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società, sul modo in cui vivere una buona vita  cristiana e poi, principalmente, sul problema degli alleati che si vogliono avere per fare  progredire la società, vale a dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente  con le ideologie liberali, fasciste  o socialiste che esprimevano un’azione di forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si individuava una cultura della mediazione, impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come  portatrici varie organizzazioni, tra le quali il Cammino Neocatecumenale. In genere si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa abbia scelto il metodo della presenza. Oggi  si è ormai perso il senso di questo diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora ci sono quelli per  i quali  i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal magistero.
 Certamente siamo chiamati all’unità e ad un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione. Innanzi tutto siamo chiamati a parlare delle nostre scelte con gli altri con i quali ci sentiamo di dover essere in comunione. Mancano però di solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta nel proprio gruppo separato.
 Ma non  è detto che poi, parlando, discutendo, si arrivi effettivamente a deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di laicità che ci vengono consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio in questo senso: arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise. Bisogna riconoscere però che il metodo democratico, che si è ampiamente affermato nelle società civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato nella nostra Chiesa, che, del resto, protesta orgogliosamente la propria a-democraticità. Insomma, la piena comunione ecclesiale è ancora di là da venire, mi pare.
 Uno dei luoghi in cui essa potrebbe manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la quale appunto non ha le caratterizzazioni forti  di altri gruppi e pratica il metodo democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.
 Se però guardiamo alla nostra realtà di gruppo vediamo che quel traguardo è molto lontano dall’essere realizzato. In realtà è in forse la nostra sopravvivenza associativa, se non riusciremo ad attrarre forze nuove nel nostro lavoro. Eppure esso sarebbe ancora importante nella Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia è ancora un problema. C’è ancora un contributo che potremmo dare alla crescita dell’insieme e, purtroppo, non ci sono altre organizzazioni che si occupano di fare il lavoro al quale storicamente l’Azione Cattolica si è impegnata, che possiamo sintetizzare efficacemente nell’idea dell’evangelizzazione come promozione umana e della promozione umana come evangelizzazione.

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53
Scrutare i segni dei tempi
(15 gennaio 2013)


Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965):
Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.
LA CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO CONTEMPORANEO
4. Speranze e angosce.
Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.
Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione reca con sé non lievi difficoltà.

 L’Azione Cattolica è particolarmente impegnata non solo ad attuare i deliberati del Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare ciò che si debba fare nel dopo Concilio. Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha nostalgia della Chiesa-di-prima, anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al mondo  in cui i cristiani vivono, a ciò che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in particolare la seconda questione.
  Riassumendo molto, le posizioni che prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle piuttosto fiduciose nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo in vari campi, in particolare in quelli della scienza e della tecnica e della politica. Si aveva la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano producendosi e si capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli aspetti religiosi della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi in un tempo di crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui risultati di questo processo. Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi di crescenza con riferimento ad esso. Si volle quindi aprire gli occhi e il cuore a quello che accadeva nel mondo, per capirne le opportunità religiose di bene. Si usò a questo proposito l’espressione evangelica scrutare i segni dei tempi, parlandone come di un dovere permanente  per la Chiesa: anch’essa la troviamo nel brano che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che, storicamente, questa può essere considerata una novità rispetto alle posizioni precedenti del magistero.  E giunse in un tempo in cui ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce per le visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si faceva propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta guerra fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi politici dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che tuttavia  non esplodeva in una conflitto guerreggiato, in una nuova guerra  mondiale, per il timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi effetti distruttivi di una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari. Tuttavia bisogna ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era anche nel tempo in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace mondiale. Anche l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne considerata da alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come un segno  provvidenziale. Dovettero però passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello mondiale divenissero infine realtà.
 Fino al Settecento la Chiesa cattolica  fu piuttosto integrata con il mondo in cui viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente al modo in cui lo erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i suoi capi o, comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero, religiosi. Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del popolo dei fedeli generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i suoi signori delle nazioni.
  A partire dal Settecento la situazione mutò rapidamente. Non furono tanto e non solo i fondamenti ideali del pensiero religioso ad essere messi in questione, ma il potere temporale della Chiesa, vale a dire la sua capacità di influenza sul mondo in cui viveva. Di fronte a queste contestazioni, che poi vennero cristallizzandosi nei movimenti liberali e socialisti, la Chiesa reagì con un moto di opposizione e di contrasto in quasi tutto il mondo in cui la sua azione era consentita, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America per la particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di quella entità statale, che aveva mantenuto saldi legami con fondamenti religiosi cristiani. Questo modo di proporsi al mondo culminò in due momenti: l’elencazione legislativa degli errori del tempo, contenuta nel documento denominato Sillabo, allegato all’enciclica Quanta Cura, promulgata nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con provvedimento della Penitenzieria Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con l’enciclica Graves de communi, promulgata dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una politica democratica cristiana. Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose anche la conclusione, nel 1929, dei Patti Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia, quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale, sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.
  Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato viene chiarito il senso dell’espressione scrutare i segni dei tempi: essa vuole dire conoscere e comprendere il mondo in si vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.
 La Chiesa nei secoli precedenti si era considerata e dichiarata maestra di umanità, come ancora ritiene di essere. Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia dalla propria tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è proposta di avere una visione più realistica del mondo fuori dello spazio liturgico, per capirlo meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica competenza dei laici, i quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del magistero. Possiamo notare, in particolare, come questa concezione abbia molto influito sull’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, in particolare dall’enciclica Populorum progressio, promulgata dal papa Paolo 6° nel 1967.
 La concezione ottimistica dell’andamento delle cose del mondo espressa nei deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto temperandosi durante il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu certamente uno dei maggiori artefici degli sviluppi conciliari, ma era portatore, specialmente negli ultimi anni del suo regno, di una visione pessimistica sull’umanità sua contemporanea, vista come soggiogata da potenze di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in questo l’influsso del pensatore eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev (1853-1900), il quale pronosticava l’avvento dell’Anticristo nell’apparente progressismo delle tendenze sociali moderne e che era portatore di una visione di stampo religioso  fortemente pessimistica sul mondo del suo tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti che idealmente agiscono come piccolo resto in opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti negativi e antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del cristianesimo delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta ostilità o vera e propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità di impronta familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un cristianesimo integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri aderenti che condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.
 Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009 dal papa Benedetto 16°, la tendenza si è di nuovo invertita.
 Non che nella Chiesa cattolica non possano avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate all’idea del piccolo resto: esse anzi ci saranno sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita religiosa. La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un ordinamento fortemente pluralistico, in cui da sempre sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur nella condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che specificamente vengono denominati dogmi  di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi non solo con la modalità della testimonianza di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.
 Capire il mondo è fatica, non nascondiamocelo. Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una religiosità familiare che richiama quella della loro infanzia, centrata prevalentemente sulle liturgie parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma, devo dire, i più anziani del nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano invece lo spirito indomito laicale della loro gioventù  e in questo a volte sorprendono i più giovani, i quali sono più facili allo scoramento.
 Bisogna riconoscere che nell’opera di comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore. E ciò è ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti a diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel nostro gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco quindi, come spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro, nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario, ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso, non c’è mai stato nel

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54
Fede cristiana: speranza credibile e onesta o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
Preghiera di Paolo VI per la Messa funebre per Aldo Moro (13 maggio 1978 – San Giovanni in Laterano)

  Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis”, il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce.
   Signore, ascoltaci!
   E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui.
   Signore, ascoltaci!
   Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!
   Signore, ascoltaci!
   E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!
   Signore, ascoltaci!

 Interrompo gli interventi sui temi del Concilio Vaticano 2° per proporre una riflessione sulla base del dibattito  che si è articolato nella riunione di martedì scorso del nostro gruppo.
 La fede religiosa ci salva dalla sofferenza dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto angosciati da ciò che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni momenti della loro vita. Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6° recitò nel corso della messa funebre per Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, suo amico personale, ucciso quattro giorni prima da un’organizzazione terrorista di impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un lungo sequestro di persona.
 Una delle accuse più tremende rivolte alla nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode, che prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali invece che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o rinunciando a farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli oppressori e aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto di vista storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella nostra spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.
 Noi, da credenti, non ci facciamo illusioni sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella vita degli esseri umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla via della fede, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata dal papa Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa  può essere uno dei modi per reagire alle avversità, in alcuni casi essa può addirittura essere di impaccio sulla strada della resistenza e allora ce se ne libera. Ma, di solito, quello che in certe condizioni personali difficili si rifiuta non è la vera fede, ma una sua approssimazione insufficiente, il fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare le difficoltà che anche da credenti ben formati si incontrano in certe condizioni di contrasto e di dolore. La nostra infatti è una fede religiosa paradossale, che quindi non trova  definitive conferme nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se la magnifica complessità della natura suggerisce l’idea di un disegno intelligente che si spera essere anche amorevole, visto che l’amore nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e l’incessante lotta di questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo, per prevalere a spese di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte. Per quanto poi ci si ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che le cose, in conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità interiore profonda che noi troviamo il fondamento della nostra speranza religiosa, alla quale, per quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va, sentiamo di non poter rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle cose, quindi non chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che tutto è bene. Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore Bernanos usò nel romanzo  Diario di un curato di campagna  (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita umana,  la nostra vita, merita di essere vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine. Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato che tutti riescano ad arrivarci con facilità:  ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°:  Non è vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà.     

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55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19 gennaio 2013)

Dal  decreto Apostolicam Actuositatem (traduzione dal latino: L'attività apostolica) sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)

 L'opera di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza degli uomini, però abbraccia pure il rinnovamento di tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche ad animare  e perfezionare l'ordine temporale con lo spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.

 In queste poche righe del decreto conciliare Apostolicam Actuositatem, del Concilio Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi molto importanti e anche molto controversi nella storia della nostra confessione religiosa.
 Innanzi tutto, iniziamo a tradurre i termini che vengono utilizzati nel documento, i quali, a loro volta, sono una traduzione dal testo originale scritto in latino ecclesiastico moderno.
 Che cosa è l'ordine temporale? E' il mondo in cui viviamo, l'ambiente naturale  e sociale.  Lo si distingue dall'ordine spirituale che, nella terminologia teologica,  è quello della fede, in cui il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in particolare, interagisce e dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due ordini da sempre sono stati considerati distinti per i cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo secolo della nostra era, però anche legati.
 Il cristianesimo nasce nella Palestina del primo secolo, in un popolo di cultura e religione ebraica ma sotto occupazione militare e politica romana. La situazione politica del tempo non era tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui bisognava organizzare una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di  distinzione origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per la guerra ai romani, all'opposizione dura,  si deliberò  di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Cesare era l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire ai doveri specificamente religiosi.
 Nei primi secoli, quelli dell'opposizione e della persecuzione, il modo della distinzione prevalse. Poi il cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si integrò nell'ordine politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a porsi il problema del legame, vale a dire dell'influenza dei principi religiosi, oggi diremmo dei valori, sull'ordinamento politico e civile della società. Non è che, prima di allora, le società dominate dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare l'errore di considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante dei secoli dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano, chiamiamo i pagani fossero atei. Tutto al contrario, i pagani dell'ellenismo e della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si  spiegherebbe perché costruirono tutti quei grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti pensare al titolo di pontefice che si dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.
 La dialettica, che ebbe storicamente anche evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli imperatori, e i monarchi, politici in genere, che si succedettero in Europa nelle nazioni divenute cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione  e legame. Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere delle monarchie assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di proprietà ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia politica autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas, che significa papà), si era instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie, aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali (un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano, a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi. L'accusa di papismo cattolico ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy. Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535), importante  ministro e consigliere del re Enrico 8°.
  Nella visione antica del legame tra temporale  e spirituale, pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,  con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano emarginati.
 Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale, vale a dire della società civile, significò in genere, nelle nazioni europee soggette a monarchie assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione. I primi a farla, in senso moderno, furono i coloni britannici del Nord America, nel 1776. La Chiesa cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia ufficiale tomistica c'erano principi anche per decidere quando rivoltarsi a un sovrano ingiusto. Ma in particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni democratiche come quelle che portarono alla deposizione delle dinastie regnanti con le quali aveva concluso accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo talvolta ricevuti in Vaticano con onori particolari gli eredi di antiche dinastie regnanti ormai senza più alcun potere.
 L'assimilazione alle monarchie assolute iniziò però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un certo momento in poi, diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad esempio, cominciarono a sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui, secondo un'antica tradizione, dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in una sorta di turbante dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in quello politico, re dei re.
 E' chiaro che la prospettiva è molto diversa nel brano della Apostolicam Actuositatem che ho sopra citato. Qui  l'idea di rinnovamento delle società civili è addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo. Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni  di popolo. Ma anche l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella di un tempo: essi vengo denominati città degli  uomini, espressione cara a Giuseppe Lazzati e che richiama l'idea contemporanea di sovranità popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in cui, con riferimento all'idea di rinnovamento delle società civili, sono tramontati i monarchi e sono sorti i popoli.
 La pace tra cielo e terra non è poi più affidata ad un accordo condominiale tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli ordini di sovrani: la coscienza.

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Democrazia, difficile virtù

  In religione si ha di solito difficoltà a pensare alla democrazia come ad una virtù. In un certo senso la si subisce e perciò, quando se ne parla, si cerca di mettere in guardia i fedeli dalle sue degenerazioni e, in definitiva, si suggerisce di rimettersi al giudizio della gerarchia del clero, un’organizzazione non solo non democratica, ma addirittura antidemocratica. E, infatti, si ripete abbastanza spesso che le nostre collettività non sono delle democrazie (ed in effetti così come sono organizzate  non lo sono) e non si capisce che questo non è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un loro problema, perché, appunto, la democrazia è una virtù.
  Considerando che tra il 1944  e il 1991 la democrazia è entrata anche nella dottrina sociale della Chiesa, nel senso che la si considera una condotta politica virtuosa, dopo che, fin dagli esordi dei processi democratici moderni, a fine Settecento, la si era sostanzialmente assimilata all’eresia e condannata, bisognerebbe insegnare la democrazia nella nostre collettività di fede, e soprattutto praticarla.
  Democrazia non è solo la regola per cui la decisione comune è quella maggioritaria. Significa, prima di tutto, libertà di coscienza e di parola, rispetto degli altri, processi decisionali preceduti da un dibattito franco, aperto, completo, informato, responsabilità dei capi verso i governati, temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto un particolare impegno a quella che Ghandi (Mahatma - “grande anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto  dire sempre la verità, perché noi non possediamo  la verità e sempre la dobbiamo cercare come a tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire  gli altri secondo un certo nostro modello promettendo la felicità.
  Bisognerebbe fare scuola di democrazia a partire dai bambini della prima iniziazione religiosa, quando scoprono l’amicizia. La democrazia ha molto a che fare con l’amicizia, perché presuppone la condivisione di valori forti ancor prima che inizino i processi decisionali. Questi valori sono appunto quelli implicati nell’amicizia tra gli esseri umani, il riconoscersi reciprocamente bisognosi gli uni degli altri, quella dimensione relazionale che ci fa crescere, come ci è stato spiegato nel primo incontro del ciclo Immìschiati  sulla dottrina sociale della Chiesa, per cui non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per questo che la democrazia, prima di studiarla sui libri, occorre  viverla  e innanzi tutto scoprirla  nelle relazioni con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto, imparare a non diffidarne.

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Dottrina sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°

  I documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) sono leggi per la nostra confessione religiosa e contengono importanti disposizioni in materia di liturgia e di dottrina sociale. Le novità più rilevanti apparvero essere, fin dai primi anni, quelle in materia di liturgia. Ma anche la dottrina sociale venne profondamente innovata.
  Nell’Ottocento, quella che consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà ne è storicamente l’ultima propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni democratici che si venivano manifestando in Europa, animati da spirito di libertà e di giustizia sociale. Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in polemica, fin dall’enciclica Le novità  del papa Pecci del 1891, con il liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora sopita, tanto che è stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del ciclo Immischiati, nella nostra  parrocchia.
 Durante il Concilio Vaticano 2° si corresse il tiro. La libertà di coscienza del liberalismo e l’impegno per la giustizia sociale del socialismo divennero virtù anche in senso religioso.
 Nello stesso tempo si cercò di avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto più ampiamente l’uso delle lingue nazionali in luogo del latino, che era diventato un grosso ostacolo alla formazione religiosa dei fedeli mediante la partecipazione alle azioni liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà del papa Montini l’uso della lingua nazionale divenne poi la forma normale delle liturgie con la partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti monastici o della Curia Vaticana  e di altri ambienti particolari.
 Per quanto riguarda il rito della Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella Costituzione Il Sacro Concilio:
48. Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti.
  La partecipazione attiva alla liturgia era collegata all’impegno per la giustizia che si ritenne di promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per infondervi i principi religiosi,  per ordinarla secondo Dio, come venne scritto nella Costituzione  Luce per le genti
n.31 Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
i laici dovevano essere adeguatamente preparati e la liturgia era un’occasione molto importante per farlo.
  Il nuovo ruolo dei laici di fede nella società disegnato dai saggi del Concilio spiega perché negli anni successivi venne accettata anche la democrazia come virtù politica e religiosa insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle affermazioni teoriche, con l’enciclica Il Centenario  del papa Wojtyla, ma ancora in corso nei suoi sviluppi pratici.
  Nell’incontro Immìschiati sulla persona è stato detto che la dottrina sociale non è una terza via tra liberalismo e socialismo ed è vero. In realtà si tratta di una mediazione culturale della nostra fede che recepisce, ibridandoli, principi liberali e principi socialisti. Ne costituisce una sintesi, costruita per rendere compatibili le loro principali istanze con la nostra fede religiosa.  In un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno sia libero di fare di sé stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare, perché noi non siamo dei, ma solo creature fragili.  E’ questa è sicuramente la realtà.
 Nell’Ottocento la via democratica era ancora molto di là da venire in religione.
 Il nazionalismo del Regno d’Italia privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia centrale ed essi la presero molto male.
 Il Regno d’Italia era retto da un sistema politico che integrava conservatorismo, autoritarismo, nazionalismo e liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però che di quest’ultimo poteva fare a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere del contenzioso con il Papato si presentava come uno stato democratico, anche se l’elettorato era piuttosto selezionato, tra i soli uomini di un determinato censo o con un livello minimo di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto sta che il Papato, nella polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un movimento del popolo minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un arrogante e presuntuoso ceto politico irreligioso, tuttavia era ancora custode delle buone e antiche tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente appartenenti ai ceti colti,  che cercavano una via per vivere attivamente le istituzioni democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine Ottocento del movimento politico della democrazia cristiana, e anche l’ideatore del nome  e del concetto di tale politica, e cercò di  mantenere le masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato, per utilizzarle come strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato tolto con la guerra del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di avere mantenuto una sovranità sugli italiani. La prima dottrina sociale della Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date da un sovrano, il Papa, al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione all’elaborazione di quei principi sociali, sebbene le encicliche sociali non siano mai state il frutto di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre  un lavoro collettivo, a più mani, perché i Papi  hanno una formazione prevalentemente teologica, anche se, ad esempio, persone come Montini e Wojtyla si intendevano pure di filosofia. La repressione dei ceti colti dei laici di fede determinò che la religione apparisse cosa da incolti. In più, i fedeli erano indotti a non partecipare alle elezioni politiche e così si trovavano nella stessa condizione degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi a causa della loro condizione di ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi del Novecento, che si cominciò, faticosamente, a cercare di andare in altra direzione, dando una formazione ai fedeli laici, ed anche alle donne dal primo dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata per essere un più docile strumento alla politica papale in Italia rispetto alla rissosa Opera dei Congressi, indotta a sciogliersi d’autorità nel momento di più acceso scontro tra intransigenti (contrari alla partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,  divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato con il regime fascista, che consentì di chiudere  la questione romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre). L’ideologia di questi politici  democratici cristiani  fu modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla. Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo inserirono nella loro  nuova dottrina sociale.
 Ecco ad esempio che cosa  si legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:
I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.
 Sia nella liturgia che nelle cose sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo Concilio fu quello di promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la dottrina sociale non furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di tutti richiede di fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto indietro.
 Da un lato la gerarchia del clero diffida profondamente del popolo, sempre visto sul punto dell’apostasia e  bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo è il tremendo verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi di vita buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che cercano di imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con la forza del numero o della loro veemenza.
 In particolare si ha sempre difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e religioso dei nostri tempi.
 Le cose si sono molto complicate nella società italiana di oggi. Per molti italiani è impossibile  tornare  a una fede religiosa che non è mai stata quella della loro tradizione, perché provengono dall’ortodossia orientale e da altre confessioni cristiane, dall’islamismo, dall’induismo, dal buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il maggior livello di istruzione della gente, raggiunto per merito del sistema scolastico pubblico, ha comportato che su molte questioni  di coscienza non si sia più disposti all’obbedienza  acritica. Nessuno in genere, neanche le donne che in passato sono state le fedeli più  docili, è più disposto adabitare  ambienti sociali in cui gli è vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre certe umiliazioni non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora talvolta colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i fedeli considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.
 Così, ad esempio, si è insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi liturgici, come la Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e infarcita della simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione di tutti e la comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si pongono tanti problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.
  La partecipazione attiva nella società del nostro tempo richiede la democrazia, e innanzi tutto il rispetto degli altri, perché ci troviamo a vivere in un contesto sempre più pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto diversi punti di vista, è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai tempi nostri, può sapere tutto di tutto, salvo che in settori superspecialistici, ma per questo sempre più limitati. Come scrisse Pierre Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note di catechismo per ignoranti colti, Mondadori, non più in commercio) al più riusciamo ad essere ignoranti colti.  Insieme ci sforziamo di superare i nostri limiti individuali. La sapienza degli altri ci arricchisce e viceversa. Confrontando le conoscenze e  le opinioni, le correggiamo. E’ questo che si fa nel dialogo: ci si mette in relazione gli uni con gli altri, chiarendosi. Questo è l’inizio della democrazia.

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Convincersi della democrazia

 Ho imparato la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, anni duri, anni in cui furono assassinati due grandi esponenti del movimento cattolico-democratico, Aldo Moro, tra in fondatori della nostra nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e tra i principali artefici di varie fasi di rinnovamento della democrazia italiana, ucciso nel 1978, e Vittorio Bachelet, tra i rifondatori della nostra Azione Cattolica, ucciso nel 1980. Divenne evidente il carattere antidemocratico dei moti insurrezionali dell'epoca motivati da costruzioni ideologiche comuniste: la democrazia italiana, però, a quei tempi riprese a funzionare e il pericolo, lentamente, nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di solito si fanno finire quelli che vengono definiti anni di piombo con l’omicidio di Roberto Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico, nel 1988. A quei tempi egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato democratico.
 Di fronte al pericolo, si ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia gli uni negli altri, questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in un’epoca di duri conflitti sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini politici, ma non avrebbe avuto successo senza questa nuova situazione nella società italiana.
 La FUCI storicamente è stato l’ambiente sociale della nostra fede che più si  è dedicato, fin dalle origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine Ottocento, qui a Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri, prete e attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era ancora vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una generica azione sociale.
 Quello degli universitari è un mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il tempo in cui si studia all’università è il momento in cui si avverte più acutamente il bisogno degli altri, la propria non autosufficienza. Fino al liceo il mondo può stare in manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano nella propria piccola libreria domestica. All’università si approfondisce, si entra nei particolari, e più lo si fa, più si capisce di riuscire a controllare settori sempre più limitati della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si aspetta da una persona di cultura, occorre interagire con gli altri, che si sono concentrati in altri settori e hanno ciò che serve per completare il proprio lavoro. Bisogna, in questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per far capire i risultati della propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo specialistico, e anche per capire quella altrui. In sostanza, all’università più si sa e più si capisce quanto non si sa. Sapere di non sapere venne considerato da un antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è anche il sapere,  il rendersi conto,  di ciò che non si sa, quindi uscire dal generico e individuare bene i propri limiti, per capire che cosa occorre, quale collaborazione cerare, per andare avanti. E' in quel momento che si comincia a ricercare chi possa aiutare a superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre alla ricerca (Ricerca  è la rivista dei fucini). Nel momento in cui si capisce di avere bisogno degli altri per superare i propri  limiti nasce anche la democrazia. Infatti per interagire con gli altri occorre creare il contesto giusto, praticare un certo metodo.
 Non si può praticare la democrazia quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si è convinti che gli altri non solo non servono, ma costituiscono anche un pericolo, o comunque un fastidio, perché tendono a mettere in dubbio certe sicurezze. Allora si cerca di imporre agli altri la propria visione, così come avviene certe volte nelle riunioni condominiali, e si finisce per litigare inutilmente: la cosa comune poi ne risente, si deteriora, perché non c’è accordo su come farne la manutenzione. L’incapacità di democrazia degrada la società, che richiede un lavoro comune per sostenersi, e innanzi tutto un impegno, di molti. Fino al Settecento la democrazia veniva considerata in religione, ma sulla base di un antico pensiero greco, una forma di disordine e di allontanamento dalla verità. La democrazia, come oggi la intendiamo, nel senso di potere di tutti, ha invece bisogno di ordine, di chiarezza, e anche di fiducia reciproca e di  rispetto.
 All’origine della democrazia c’è l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la democrazia come una forma di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno dell’aiuto degli altri ed essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene di tutti, irraggiungibile senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare ma anche essere rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici. Questo collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al termine del greco antico agàpe,  vale a dire a un lieto convito in cui ce n’è per tutti.
 Se la democrazia è una forma di amicizia, si capisce come non si possa praticarla veramente per via telematica. Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare esperienza concreta gli uni degli altri. In questo incontro ci si svela e si possono avere sorprese piacevoli e spiacevoli, ma comunque in genere si hanno sorprese. Finché gli altri rimangono una linea di caratteri sul video servono a poco. D’altra parte conoscerli veramente è impegnativo, in tutti i sensi: richiede uno sforzo, una pazienza nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica, un tempo da trascorrere insieme. E’ così che però si costruisce la società, si creano legami duraturi.
 Se lo stare insieme dipende solo dalla comune soggezione ad un qualche gerarca, culturale, politico, religioso e via dicendo, ha basi labili. Perché il legame vero è solo con il punto di riferimento gerarchico non tra le persone alla base. Ecco perché l’ingenuo attuale papismo delle nostre collettività religiose serve a poco sia per formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze sociali.
 Certe volte ci si incontra, in religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni gli altri le parole d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che serve? Si rimane estranei come prima, con in più molto risentimento.
  Un universitario per la prima volta nella sua vita viene posto di fronte alla realtà così com’è veramente, ed essa è complessa. Tutte le semplificazioni degli studi precedenti si rivelano ciò che sono, vale a dire, appunto, semplificazioni, una base di partenza. Scopre che ci sono molte interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte, anche perché è in movimento, evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche parte, ed evolve anch’essa. Questo è vero anche per tutte le verità, comprese quelle ritenute fondamentali, della nostra fede. E’ per questo che si scrive tanto di teologia. Se tutto fosse così semplice come talvolta viene presentato, non servirebbe.
 Il primo passo per affrontare il pensiero sociale della nostra fede è il convincersi della democrazia, perché questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla dottrina sociale nel corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per influire nelle società pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi i grandi principi ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è possibile dominare culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso, un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così, perché la democrazia è per tutti,  ed è solo così che è veramente efficace.

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Democrazia dei cristiani, democrazia di tutti
(30-3-16)

[dal libro: Pietro Scoppola, La democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo politico nell’Italia unita - intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, 2005, €10,00, disponibile in commercio]

Domanda: Ma ci sarà un ruolo significativo per i cattolici nella vita politica italiana di domani?
SCOPPOLA: Certamente, anche se sarà diverso da quello che svolsero in passato, al momento dell’Unità d’Italia nel 1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e mortificati proprio perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43, quando assunsero la responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato verso la libertà e lo sviluppo.
 Il loro futuro sarà di sostenere la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di una profonda ispirazione etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri credenti, alla migliore tradizione laica e alle tradizioni popolari delle sinistre europee, ma ancora una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.
 La Democrazia cristiana è stato il partito dei cattolici italiani, l’espressione più riuscita della loro maggiore età politica, lo strumento del loro enorme potere e insieme della loro crisi, come sempre accade nella storia umana.
 Ma oggi il problema è la democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico italiano si misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la Democrazia Cristiana per un proprio partito esclusivo,  e di lavorare piuttosto per la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).

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  Quand’è che si entra veramente in società? Un primo momento importante è quando si trova un lavoro stabile. L’altro è quando si forma un famiglia coniugale, basata su  un rapporto d’amore coniugale, più stabile perché si pensa anche a dei figli. In genere, ai tempi nostri, ci si arriva intorno ai trent’anni.
 E quand’è che si hanno le prime esperienze veramente sociali, al di fuori della famiglia, nella società generale,  che di solito coincidono con la scoperta dell’amore sessuale, la base della famiglia coniugale? Per me è accaduto al terzo anno delle superiori, a sedici anni.
 I trentenni di oggi hanno compiuto sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da cui ho tratto la citazione sopra trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un testo da universitari.  I trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le mani appena pubblicato. Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, finito dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario della metà del primo decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale esperienza, anche se era citata in un capitolo o due dei libri di storia per le superiori.
 Un trentenne di oggi, allora, potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto tra le mani quel testo di Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i cattolici abbiano vissuto sotto il dominio dei laici, intesi come gli irreligiosi, i non credenti. Invece i cattolici, dal 1946, hanno dominato la politica italiana, ininterrottamente sino ad oggi, prima con lo strumento di un partito e poi, dalla metà degli anni ’90, mediante un’azione di pressione politica attuata direttamente dalla Conferenza Episcopale Italiana per il tramite di gruppi di pressione transpartitici.
  Di solito si ricordano le leggi sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria della gravidanza (1978) come casi di sconfitta delle posizioni politiche dei cattolici. Sono stati gli unici due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia della Repubblica democratica. E in realtà non si trattava di una sconfitta dei cattolici, perché si trattò di leggi ampiamente condivise dai cattolici, come dimostrarono i successivi referendum promossi su di esse, ma di una sconfitta della politica della gerarchia cattolica.
 Un terzo caso simile potrebbe darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle persone omosessuali e sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione. L’azione di interdizione politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora impedito l’approvazione di qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo vaglio di costituzionalità, che aveva travolto la legge sulla fecondazione assistita del 2004, pesantemente condizionata dall’azione politica della gerarchia cattolica. Anche nel caso delle unioni civili omossessuali e delle unioni di fatto i sondaggi evidenziano un ampio consenso della maggioranza degli italiani, cattolici compresi. Se la legge fosse approvata, e non è ancora sicuro che lo sia, e si andasse ad un referendum, probabilmente sarebbe democraticamente confermata dalle urne.
  Tutto il resto della politica italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito con il contributo determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro volontà, ispirata in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa, in particolare a quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si attenuò molto l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata dalla fine dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del pensiero laicale in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia e la sociologia.
   L’idea di trovarsi in uno stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa.  Ecco perché Scoppola parlò del partito dei cattolici  come lo «strumento del loro enorme potere».
 Il potere dei cattolici italiani raggiunse il suo massimo livello nel regime democratico post-fascista. Fu sorretto da un’ideologia originale, riconducibile al pensiero di  politici come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, che colmava le grandi lacune della dottrina sociale in materia di democrazia. Quest’ultima fu accettata pienamente dalla gerarchia cattolica solo con l’enciclica Il Centenario,  del 1991, del papa Wojtyla. Ma nei testi della dottrina sociale la democrazia non viene trattata in dettaglio. La si presenta genericamente come una forma di potere del popolo che richiede partecipazione. Ma come si debba partecipare non è precisato. In genere si è molto attenti a fissarne dei limiti nei confronti della gerarchia del clero e in materia di trasformazioni sociali. La gerarchia, in genere, diffida del popolo;  e spesso non comprende bene la vita della gente, i suoi problemi, le sue aspirazioni. Vive in un universo autoreferenziale. E poi sente il pensiero democratico come un pericolo per il suo stesso potere, perché essa non è organizzata democraticamente e addirittura se ne vanta, non vuole esserlo (ma le spiegazioni che dà in merito non sono molto convincenti). Questo spiega anche perché il tirocinio democratico non rientra in genere tra le esperienze che vengono proposte ai fedeli nelle collettività di base. Lo si pratica, ad esempio, nei circoli intellettuali della FUCI e del MEIC, due movimenti scaturiti dall’Azione Cattolica che in questo si sono particolarmente specializzati.
 In realtà la democrazia, come ai tempi nostri la intendiamo, è una forma di governo delle società umane molto particolare, perché è strettamente legata alla giustizia, la comprende al suo interno. Nelle altre forme di potere essa può essere al più un orientamento morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno: in quei casi la legge suprema del potere è il potere stesso, il mantenimento del potere, e di fronte ad essa la giustizia recede. Viene praticata se e nella misura in cui serve al mantenimento del potere, alla creazione di un consenso sociale, al mantenimento della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti, invece, vive della giustizia, perché non si può governare tutti  senza essere giusti, senza riconoscere a tutti  la medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale, oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa. Questo crea qualche problema alla dottrina  sociale, intesa come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia. Questo rende ancora difficile, talvolta,  spiegare teologicamente come una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa, fondata su democrazia e giustizia sociale.
  Io che ho fatto il liceo ai tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, o il partito cristiano come lo definì un altro fine intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a capire come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi dovrebbe forse ripartire da capo.
  Innanzi tutto occorre fare realisticamente i conti con la storia. Respingere certe interessate falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i cattolici vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti sotto il regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è stata costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel mondo cattolico, ed è  innanzi tutto crisi del pensiero democratico espresso dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica.  Tutto questo è necessario    in politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa  come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte, in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale <www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,  il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015,  del papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi, per poi approfondire ulteriormente.  In questo tempo di sviluppo  della dottrina sociale,  le novità  dei tempi hanno inciso moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina sociale  che è rimasta, appunto, una  dottrina, vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana. Questa realtà normativa  è poco adatta al pensiero sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.
 Non so quanti sarebbero disposti, ad esempio, a condividere questa affermazione, riportata nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 227, riprendendo pronunce del papa Wojtyla:
“Le unioni di fatto, il cui numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa concezione della libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del tutto privatistica del matrimonio e della famiglia”.
 Questa sentenza non corrisponde a ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche inutilmente insultante verso chi ha realizzato unioni coniugali non formalizzate in un matrimonio, religioso o civile, ma comunque stabili e feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia  a quelle unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è uscita da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale. E' stato scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste sociali.
 Alla democrazia è essenziale un pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente, vale a dire nel libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non si possono fare progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi  in politica lascia, allora,  un po’ il tempo che trova, come si dice.
 O si vorrebbe che la gente, imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse ad essere il braccio secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in politica, secondo il progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo l’esperienza di politica democratica della Democrazia Cristiana volle superare.
 Come persone di fede non possediamo  la verità, ogni soluzione giusta, sui fatti sociali e politici. Le soluzioni devono essere ricercate nel confronto democratico, in quella che Scoppola definiva la democrazia di tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava come di Omnicrazia, che significa la stessa cosa, e la vedeva attuata attraverso Centri di orientamento, in cui capire e scegliere nel confronto e dialogo democratici.

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Nella grande  politica
(6-6-16)

 Incollo di seguito il testo di un discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco a magistrati convocati a Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia delle scienze. In esso ha ripreso il tema della necessità di immischiarsi  nella politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra natura.
 I primi commentatori delle parole di Bergoglio hanno notato il riferimento alla "grande" politica più che quello alla libertà dei giudici. Entrambi però sono importanti e connessi e rappresentano delle novità nell'ideologia proposta negli ultimi anni alle collettività di fede che riconoscono l'autorità religiosa del vescovo di Roma.
  Più o meno dal Sesto secolo della nostra era la Chiesa cattolica come complesso di istituzioni è stata uno dei più importanti attori politici europei; questo in particolare a partire dal secondo millennio, da quando si è costituita come un impero religioso ad ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in politica",  e in quella "grande". Dove sta la novità? 
 La novità sta nel fatto che nelle parole di Bergoglio quell'impero non c'è più. Lui per primo ne ha rifiutati i segni andando a vivere in albergo, invece che nella reggia romana dei pontefici.
 Ci sono i popoli e ci sono delle esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze da lenire, ci sono delle vittime a cui dedicare "grande attenzione". C'è un ordine sociale da cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che viene evocato come una "buona onda", "dall'alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità e dai popoli e dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli dirigenziali", dove quei "viceversa" sono molto importanti, perché in passato non se ne faceva conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in basso e dal centro alla periferia.
 In quest'ottica sembra quasi che dal giudice si pretenda molto di più di quello che egli è autorizzato a fare, anche negli ordinamenti di tipo democratico: qualcosa che pare una rivoluzione sociale, da fare agendo insieme, in comunità, per "aprire brecce, vie nuove di giustizia". E' perché Bergoglio, prendendo lo spunto dall’udienza a quei magistrati, sembra aver considerato il giudice come un modello di cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti  a farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,  avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato" che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare  un nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre.  Può liberare forze potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o semi-liquido.
 Venendo veramente da un altro mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica per la riforma sociale, presentata come dovere religioso:   " Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento "L'80° Anniversario"].
 "Giustizia, libertà, azione collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione se ne riprende a parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento. Un capo religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare, tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi. “La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini” tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla luce della fede che rende esigente  l’impegno politico come valore anche religioso.

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INTERVENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]

Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016



Buonasera. Vi saluto cordialmente e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra collaborazione nel contribuire al progresso umano e sociale, di cui la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è capace.
Se mi rallegro di tale contributo e mi compiaccio con Voi, è anche in considerazione del nobile servizio che potete offrire all’umanità, approfondendo sia la conoscenza di questo fenomeno così attuale, ossia l’indifferenza nel mondo globalizzato e le sue forme estreme, sia le soluzioni dinanzi a tale sfida, cercando di migliorare le condizioni di vita dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi. Seguendo Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in politica; la Chiesa deve mettersi nella “grande” politica! Perché — cito Paolo VI — la politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità. E la Chiesa è anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora più quando si considerano le situazioni dove si toccano le piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in cui la vostra testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.
Nel corso degli ultimi anni non sono mancate importanti attività della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali sotto il vigoroso impulso della sua Presidente, del Cancelliere e di alcuni collaboratori esterni di grande prestigio, che ringrazio di cuore. Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e donne di oggi e, in particolare, attività volte a sradicare la tratta e il traffico di persone e le nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico di organi, il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha detto il mio predecessore Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in diverse occasioni, questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono essere riconosciuti come tali da tutti i leader religiosi, politici e sociali e plasmati nelle leggi nazionali e internazionali.
L’incontro con i leader religiosi delle principali religioni che oggi influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo, il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua incidenza.
Ora, ispirata dagli stessi aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e pubblici ministeri di tutto il mondo, con esperienza e saggezza pratica nello sradicamento della tratta, del traffico di persone e della criminalità organizzata. Siete venuti qui in rappresentanza dei vostri colleghi con il lodevole intento di progredire nella piena consapevolezza di tali flagelli e, di conseguenza, di rendere manifesta la vostra insostituibile missione dinanzi alle nuove sfide che ci pone la globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo alla crescente richiesta della società e nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Farsi carico della propria vocazione significa anche sentirsi e proclamarsi liberi. Giudici e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle pressioni dei governi; liberi dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi dalle “strutture di peccato” di cui parla il mio predecessore san Giovanni Paolo II, in particolare della “struttura di peccato”, liberi dal crimine organizzato. So che subite pressioni, subite minacce in tutto questo; e so anche che oggi essere giudici, essere pubblici ministeri, significa rischiare la pelle, e ciò merita un riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono continuare a essere liberi nell’esercizio della propria funzione giuridica. Senza questa libertà, il potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina corruzione. Tutti conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no? La giustizia con gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la bocca.
Fortunatamente, per l’attuazione di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano, cioè liberare l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che l’Accademia realizza seguendo la mia richiesta, si può anche contare sull’importante e decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una maggiore consapevolezza di ciò, una forte consapevolezza. Sono lieto che i rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile e integrale, in particolare il numero 8.7, che recita: «Adottare misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro forzato, porre fine alle forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri umani e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro infantile, inclusi il reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi entro il 2025, porre fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui la Risoluzione. Si può ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un imperativo morale per tutti i Paesi membri dell’ONU.
Perciò occorre generare un moto trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci l’intera società dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica fino ai più alti livelli dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come hanno già fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici prendano piena consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria responsabilità davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone pratiche e agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria, potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza, che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti, accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una società di popolo.
L’Accademia, convocando i giudici, aspira solo a collaborare in base alle proprie possibilità, secondo il mandato dell’ONU. È opportuno ringraziare qui quelle nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono mostrate indifferenti o arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno collaborato attivamente con l’Accademia per la realizzazione di questo vertice. Gli ambasciatori che non hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati le mani o che hanno pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla prossima riunione.
Chiedo ai giudici di realizzare la propria vocazione e missione essenziale: stabilire la giustizia senza la quale non c’è ordine né sviluppo sostenibile e integrale, e neanche pace sociale. Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo odierno è la corruzione a tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo, debilita la democrazia partecipativa e l’attività della giustizia. A voi giudici spetta fare giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare giustizia nell’ambito della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò e al crimine organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela delle corruzioni.
Quando diciamo “fare giustizia”, come voi ben sapete, non intendiamo che si debba cercare il castigo di per sé, ma che, quando si comminano pene, queste siano date per la rieducazione dei responsabili, in modo tale che si possa dare loro una speranza di reinserimento nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà luogo alla speranza è una tortura, non è una pena. Su questo mi baso anche per affermare seriamente la posizione della Chiesa contro la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo che nella concezione della teologia medievale e post-medievale la pena di morte conteneva la speranza: «li affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è più così. Lasciamo che sia Dio a scegliere il momento... La speranza del reinserimento nella società: “neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.
I giudici sono chiamati oggi più che mai a dedicare grande attenzione ai bisogni delle vittime. Sono loro le prime a dover essere riabilitate e reintegrate nella società, e per loro si devono perseguire in una lotta senza quartiere trafficanti e carniferos, i carnefici. Non vale il vecchio adagio: «Sono cose che esistono da che mondo è mondo». Le vittime possono cambiare e di fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto dei buoni giudici, delle persone che le assistono e di tutta la società. Sappiamo che non poche di queste persone sono uomini e donne avvocati e politici, scrittori brillanti o hanno incarichi di successo per servire in modo valido il bene comune. Sappiamo quanto sia importante che ogni vittima trovi la forza di parlare del suo essere vittima come di un passato che ha superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto o, per meglio dire, una persona con qualità di vita, con dignità recuperata e libertà assunta. Riguardo a questo tema del reinserimento, vorrei raccontare un’esperienza empirica. Mi piace, quando vado in una città, visitare il carcere. Ne ho visitati diversi. È curioso, senza voler offendere nessuno, ma la mia impressione generale è stata che le carceri in cui il direttore è una donna vanno meglio di quelle in cui il direttore è un uomo. Questo non è femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo al tema del reinserimento, un olfatto speciale, un tatto speciale che, senza perdere energie, per ricollocare queste persone, per reinserirle. Alcuni lo attribuiscono alla radice della maternità. Ma è curioso, lo dico come esperienza personale, vale la pena rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta percentuale di carceri dirette da donne, molte donne, giovani, rispettate e che sanno trattare con i detenuti. Un’altra mia esperienza personale è che alle udienze del mercoledì non è raro che partecipi un gruppo di detenuti — di una o l’altra prigione — portati dal direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono tutti gesti di reinserimento.
Voi siete chiamati a dare speranza nel fare la giustizia. Dalla vedova che insistentemente chiede giustizia (Lc 18, 1-8) alle vittime di oggi, tutte alimentano un anelito di giustizia, come speranza che l’ingiustizia che attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà, non abbia l’ultima parola.
A volte può essere di giovamento applicare, secondo modalità proprie di ciascun paese, di ogni continente, di ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di recuperare i beni criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti, per offrirli alla società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime. La riabilitazione delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre realmente possibile, è il bene più grande che possiamo fare a loro, alla comunità e alla pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina con la sentenza. Termina dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una crescita, un reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.
Se c’è una cosa che attraversa le beatitudini evangeliche e il protocollo del giudizio divino con cui tutti saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo (cap. 25), è il tema della giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati quelli che soffrono per la giustizia, beati quelli che piangono, beati i miti, beati gli operatori di pace, benedetti dal Padre mio quelli che trattano il più bisognoso e il più piccolo dei miei fratelli come me stesso». Essi o esse — e qui è il caso di riferirci in particolare ai giudici — avranno la ricompensa più grande: possederanno la terra, saranno chiamati e saranno figli di Dio, vedranno Dio, e gioiranno eternamente insieme al Padre.
In tale spirito oso chiedere ai giudici, ai pubblici ministeri e agli accademici di continuare la loro opera e realizzare, nei limiti delle loro possibilità e con l’aiuto della grazia, le felici iniziative che onorano il loro servizio alle persone e al bene comune. Grazie!
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Il partito del Papa

 Con l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha diffuso un progetto integrato di riforma della società contemporanea, un vero e proprio manifesto politico. Esso deve essere discusso democraticamente, ma proprio per la fonte da cui proviene è difficile farlo in religione, e al di fuori dei contesti religiosi non lo si fa perché non interessa. Infatti il partito del Papa  non ha seguito in Italia. Il nostro è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato dominato da un artito cristiano ed è stato impressionante constatare che nelle ultime elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti che le animavano si è richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha affrontato il tema di Roma come città della fede, e questo nonostante il Giubileo in corso. Nessuno si è richiamato ai temi politici della Laudato si’, che probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e anche laddove è conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto specificamente politico. Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura pontificia, si sia considerato distrattamente un documento in cui invece ogni parola è importante perché segna un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove opportunità. Si dà uno sguardo ai titoli, si legge qualche brano scelto traendolo dai commentatori, e poi si aspetta il prossimo documento, che infatti  è venuto con l’esortazione Letizia dell’amore.
  Fare  politica ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come una forma esigente di carità. Questa espressione viene attribuita, sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Sarto, il Papa dei Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono riuscito a trovare uno stralcio sul WEB:

I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.

È con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.

 In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi. Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica  di Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:


“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”


 Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo Anniversario[della prima enciclica sociale  Le novità, del 1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:


"Significato dell’azione politica

46 […]È vero che sotto il termine «politica» sono possibili molte confusioni che devono essere chiarite; ma ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.
Questo, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui, delle famiglie e dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio di tutti, le condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell'uomo, ivi compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti della sua competenza, che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e interviene sempre nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene comune, di cui ha la responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo d'azione e le responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi concorrono alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni intervento in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già di distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente, tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani, sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini."
 Che cosa c’è di diverso tra il pensiero del Sarto e quello del Montini sulla politica? C’è la democrazia, che significa anche considerare la politica non come inevitabile sviluppo di interessi particolari,  ma come servizio efficiente e disinteressato per  realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. E c’è la mediazione, che significa concepire la politica come  ricerca  insieme ad altri, in un clima di pluralismo.
  Esercitare il potere in modo insieme democratico e  conforme allo spirito evangelico non è innato nei fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio. Negli anni ’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in cui in Italia fiorirono tante scuole  di politica.  Ma poi emerse il pluralismo della politica e si lasciò perdere. Si riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni bui dell’intransigentismo ottocentesco, quelli della polemica durissima con il liberalismo democratico, che ancora risalta moltissimo nelle parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è persa una tradizione di impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea solo sui libri. Quindi poi la rinnovata esortazione all’impegno politico democratico di Bergoglio cade nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto agli orientamenti politici  della Laudato sì, la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni francamente di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su migranti ed emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a scapito di qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare  più tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali e dell’edilizia intensiva.
  Ad essere cittadini di una democrazia avanzata si impara e se la politica democratica ha un valore anche religioso si tratta di un lavoro che deve essere impostato anche negli ambienti di fede, come una parrocchia. Si inizia con un tirocinio, con fare esperienza di democrazia negli affari minuti, nella gestione di un gruppo, di un servizio, rifuggendo e contrastando il cesarismo  dei capi. Poi ci si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che costa fatica, perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo tempo, tutte le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in disuso, a cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di legittimazione democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare quando si svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle stesse persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno ben chiaro a che titolo vi partecipino.
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Fede e politica: una relazione essenziale


[da: Ludwig Hertling, Storia della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag, Berlin, 1967)]

La nuova serie di papi sotto l’influenza degli imperatori

 Ottone I (1°) [912-973, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 962] e suo figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto, erano intervenuti nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza ottenere veri risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo Ottone [Ottone III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero dal 996], il quale personalmente non possedeva la qualità dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma deve avergli giovato il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno alla corona imperiale per merito di suo padre e di suo nonno.

Gregorio V e Silvestro II

 Quando nell’anno 996 morì Giovanni XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio verso Roma. I romani lo pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III contava allora 16 anni, era profondamente religioso, essendo stato educato  dai migliori maestri del tempo, ed inoltre era un idealista entusiasta che sognava gli splendori dell’antico Impero romano. Egli designò come papa il suo cappellano di corte, che era anche un suo parente, Brunone. Questi, a sua volta molto giovane, perché contava solo 24 anni, in fatto di idealismo non la cedeva all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio V (5°), ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai promettente. Dopo di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro Gerberto. Gerberto, un francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era molto ammirato per la sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha fatto un mago. Non meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro II (2°), era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un lungo tempo la Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente cristiana e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli ungari con la metropoli  di Gran, A colui che era stato fino allora il duca degli ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.

Il nuovo predominio dei signori di Tuscolo

Dopo la morte prematura dell’imperatore Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente un conflitto tra i conti di Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V avevano tentato di suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un antipapa. Ma il nuovo imperatore  Enrico II  (2°) fece accettare ai romani il legittimo pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della famiglia di Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due città vinsero i saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani. Nel 1020 il papa si recò in Germania e consacrò  il duomo di Bamberga, fatto erigere da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in Pavia, in cui il celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero promulgati fin d’allora decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli ordini sacri in cambio di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia si vennero un po’ alla volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal sistema delle chiese di proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della Chiesa dai signori feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta delle investiture.
 I conti di Tuscolo tornarono a essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il fratello di Benedetto VIII, Alberico, governava la città col titolo di console. Dopo la morte di Benedetto VIII, un terzo fratello divenne papa col nome di Giovanni XIX (19°).  Questi incoronò imperatore Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re Rodolfo III (3°) di Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al resto, egli non si occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°) di Bisanzio gli profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al patriarca di Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi precedenti gli avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma dovette rinunciarvi a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i monaci cluniacensi (federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di  Cluny, in Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di Tuscolo, che voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei suoi membri, impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto. Il ragazzo, che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato dopo poco tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse, dal momento che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra volta, egli ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete di San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro III (3°).

Intervento di Enrico III (3°)

 Giovanni Graziano aveva agito con le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver ora accettato egli stesso l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°), come egli si chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli ecclesiastici più rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma poiché uno dei principali punti del programma di riforma si riferiva alla simonia, e cioè al commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno un’imperfezione che il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo scopo di farlo abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua abdicazione e ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro III. In questo ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere d’aiuto. Enrico III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia. Egli tenne un sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto IX, che già aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo papa, furono definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare volontariamente il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma, l’imperatore lo prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane chierico romano, Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo storico di grande importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.
  L’imperatore sembrava l’unica personalità in grado di ristabilire l’ordine, tanto che tutti furono d’accordo che fosse lui stesso a nominare i papi seguenti. I suoi due primi papi, Clemente II (2°), precedentemente vescovo di Bamberga, e Damaso II, vescovo di Bressanone, uomini eccellenti entrambi, morirono dopo pochissimo tempo dopo la loro elezione. Allora Enrico III nominò un alsaziano, il vescovo di Toul. Il nuovo papa, però, Leone IX (9°), desiderò un’elezione regolare da compiersi a Roma. Nel viaggio che doveva condurlo a questa città, prese con sé il giovane Ildebrando, il quale, dopo la morte di Gregorio VI, s’era fatto monaco, probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e i suoi successori, finché non venne eletto papa egli stesso [con il nome di Gregorio 7°].
[…]
 Alessandro II [papa eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e  senza l’ingerenza dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero luogo il giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di arcidiacono, il popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I cardinali si ritirarono immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo secondo le regole precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò il giorno dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico IV. A ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).
 Gregorio VII appartiene a quegli uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché suscitino le reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio appropriato sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del medioevo, morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è cattolico e papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un barbaro. E fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute spavento al mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone la festa ogni anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali Gregorio VII è il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che Gregorio VII fece un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier Damiani lo chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò significare l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni altro. Come già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura, mobilissimo, infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile vitalità. Lo zelo lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio. Ogni cosa era per lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a sant’Ignazio di Lojola.
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  Quando da ragazzo lessi le pagine che ho sopra trascritto, da un libro di studio di mia madre, rimasi meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling di argomentare, contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in cui mi ero formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio seguente e quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi racconti sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra fede e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende dal suo attivismo, è un progetto suo.
  Nel 2013 è stato eletto papa un  vescovo, un religioso dello stesso ordine di Hertling, che ha assunto un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era mai stato prima un papa di nome Francesco. E’ andato a vivere in un albergo nella cittadella vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha rifiutato le insegne della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un nuovo corso politico, con il suoi documenti  La gioia del Vangelo,  del 2013, e Laudato si’,  del 2015. Un po’ come avvenne intorno all’anno Mille. All’epoca il moto di cambiamento fu sostenuto dai monaci della federazione di Cluny, oggi dal movimento  conciliare.
  Quanto è importante la politica nella fede?
  Una tesi che si potrebbe tentare di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto, tanto studio per farlo) è che è tutto, da un punto di vista storico e sociologico, naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine soprannaturale.
   Adottando il lessico di Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’ superficiale come è quello di un ignorante colto come io sono, uno che non è uno specialista di certi temi e che pure per rendere ragione della propria fede deve tentare di ragionare su di essi, come se dal Quarto secolo della nostra era la penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo  sia avvenuta per la massima parte per via politica. Una politica che nel primo millennio fu dominata dai sovrani civili, gli imperatori romani e poi da quelli che si considerarono loro successori, e che nel secondo millennio, da Gregorio VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai sovrani religiosi romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti come un impero religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta di condominio su un  popolo di sudditi. Questa era dei papi-imperatori sta volgendo al termine in questi anni ed è questa l’epoca in cui noi fedeli siamo finiti in mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo nascere nella Roma dominata dai signori di Tuscolo, che espressero sovrani religiosi definiti da alcuni storici, spregiativamente, pornocrati.
  Se, da un punto di vista storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione della fede, è evidente che chi propone l’apoliticità  della fede non fa gli interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte durissime non nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben vedere, su temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società del nostro tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare il pastore chi a questo ruolo è designato in quanto membro del clero? E poi: come combattere la povertà? Come evitare che l’industria rovini l’ambiente in cui viviamo? Chi e in base a che criteri deve fare le parti della ricchezza che si produce? Una fede religiosa che non affronti questi temi diventa inutile. E la nostra  fede non lo è mai stata storicamente e non lo è. Infatti di questi temi si discute oggi, in religione.
  La politica contemporanea si fa con metodo e secondo principi democratici, che significa partecipazione di tutti  al governo, elevazione di tutti  alla sovranità. Questo implica un tirocinio, una  formazione che non può limitarsi allo studio dell’imponente letteratura dei papi. La politica democratica richiede una partecipazione anche alla elaborazione dei principi e, vista la stretta connessione tra fede e politica, per cui la nostra mi appare essere stata sempre (questo mi sembra il suo vero tratto distintivo rispetto ai tanti culti misterici che le furono coevi nel primi tre secoli della nostra era) una fede politica, ciò finirà (come del resto è già accaduto con lo sviluppo del movimento di idee che sfociò negli scorsi anni Sessanta nell’ultimo Concilio ecumenico) per riflettersi anche sul modo di pensare  la fede. E’ stato osservato, ad esempio, che alcuni dei più importanti movimenti scaturiti nel post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica teologia, anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in genere alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la proposta politica del nostro vescovo e padre universale Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio solo degli specialisti.
  Possiamo considerare, sotto l’aspetto politico, i papi Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo 2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto 16°, gli ultimi sovrani dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da quelli del primo millennio. E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il papa che ci è venuto dal Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata dai sovrani medievali alla cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato,  il capostipite di una nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un processo che coinvolgerà anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo. Un ritorno al passato è impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il nostro  mondo è la Terra intera e non il piccolo universo umano in cui pensavano di essere signori del mondo i papi intorno all'anno Mille.
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La vita di fede come esperienza civile


 La fede può essere alla base di un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato che fosse possibile. Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una storia analoga si è vissuta in Germania.  In altre regioni europee la fede è stata integrata nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad esempio, alla Spagna e alla Polonia.  In Italia al centro di tutto ci sono stati dei valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici. Tutto ciò è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo punto, però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.
  Di tutto ciò si sono avuti riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato. Ho ricordato i fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con quell’epoca, appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose. In passato, e molto a lungo,  si è pensato che oltre a catechismo e famiglia ci fosse poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli di storia, in cui la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.
 Negli ultimi vent’anni c’è stato anche un problema di formazione del clero. Sono venuti a collaborare molti sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di quella storia di esperienza civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non conoscendola non l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte eccezioni naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica, molto centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio. Quando ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha fatto impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li ricordo sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi visitatori laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza: certo, eravamo meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo in qualche modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro erano destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime comunioni, a cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata a stare  in chiesa. Ma non è proprio questo il nostro popolo? Quando lo si idealizza nei bei documenti del nostro supremo magistero, popolo qui, popolo lì … tutto va bene, ma quando il popolo esce dalla carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona impressione. E’ perché manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in cui ognuno sia ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la liturgia serve appunto anche asuscitare  un popolo diverso, per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro  da una certa storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli ambienti con questi nugoli di incenso.  
  Si è puntato molto al perfezionamento  interiore, cercandolo di sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi pare abbiano vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di  alcuni ordini religiosi, le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno l’amicizia della fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per le donne.  Ma la vita di fede non sta solo in questo.
  Agli albori del cattolicesimo democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò Fava Ghisilieri, in Riflessioni politico-morali raccolte da un solitario ad uso della gioventù libera d’Italia [citato in Vittorio E. Giuntella, La religione amica della democrazia - i cattolici democratici del Triennio Rivoluzionario (1976-1799)]:
“Quand’è che l’uomo può dirsi un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti de’ suoi fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola dolce a se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi della morale? Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata, più stabile della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle interpretazioni in spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il più dolce, e il più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual altro è mai, se non quello della Carità? E non è forse nel sistema repubblicano, che più si cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più opportuna di questa a un tal uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci tutti come fratelli. Le dissensioni civili, che son tanto nemiche della Libertà, non trovano forse ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei dinanzi al Giudice supremo persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che lacerano l’altrui fama, non che degli odi covati a lungo nel seno?”
  Ad uno spirito religioso può non bastare di distinguersi dalla società, di starsene da parte in un mondo tutto suo che, man mano che ci si separa, finisce per diventare tutto fantasia, sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che siamo stati mandati nel mondo? Da giovane non avrei sopportato questa prospettiva, che per altro non mi fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci adatto. Però ci sono pochi posti in cui vivere un’esperienza civile animata dalla fede. Uno deve fare da sé. Certe cose non te le spiegano in parrocchia e nemmeno altrove. Viene tra noi uno come don Ciotti e sembra un marziano, una persona da un altro mondo. Eppure intorno a lui ci sono tante persone di fede che condividono la sua esperienza civile.
  Da dove ripartire?
  Direi dai più giovani perché in genere hanno più tempo per la formazione: è il loro lavoro. Il tempo degli adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane poco per qualcos’altro. Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in cui presentiamo la religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il nucleo di spinta di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante rigenerazione, è costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano: occorre che sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne diffidino, che arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro le fosche visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri ultimi sovrani religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società in disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è solo questo intorno a noi.
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Condominio o repubblica

C’è una bella differenza tra un condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono decisioni seguendo il metodo democratico.
 In un condominio ci si finisce perché si compra un appartamento e si diventa proprietari anche di parti comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci si serve anche di altre cose, però per queste si è obbligati a farlo  insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e, soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose  e non le vogliono cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.
  Una repubblica nasce quando ci si sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare una società migliore, in cui si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia abbandonato alla propria sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose molto meno. Ci si cerca perché si vive bene insieme. Al centro di una repubblica ci sono dei valori: questo significa una certa concezione di società. E poi la fedeltà a quei valori. Si è disposti a dare molto, anche la vita, per realizzarli. Uno  di essi, molto importante, è l’eguaglianza in dignità, che significa rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo richiede di essere sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra. Per diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni, i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide che vinca  la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad ognuno dei diritti fondamentali  che nessuna maggioranza può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni persona è  sacra, nel senso che ha diritti intangibili. Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non  è qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente, che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima  in cui non c’era e che avrà un dopo  in cui non ci sarà più. Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo? In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe, che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale.  Nessuno escluso.
   Alcuni dicono che bisogna cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il mondo. E seguono vie di perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro sforzo di perfezione  rimangono poi soli con sé stessi. Gli esseri umani non sono  fatti  per essere così. Questi cammini  allora dove portano? Ci si perfeziona, se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe, crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale, a tutto quello che c’è intorno.
  Anche in una parrocchia, come in ogni specie di società, si fa la scelta di essere condominio  o  repubblica. Dipende da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro  per noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la si condivide  al modo dell’ascensore in un condominio, con l’essere umano si entra in relazione.
 La nostra Cena rituale, con le povere cose che condividiamo, alle quali però diamo un valore  infinito perché ci mettono in relazione benevolente e universale, non è forse la celebrazione dell’agàpe religiosa? Farne una realtà condominiale  sembra impossibile, eppure è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente per il fastidio che certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare una realtà universale, in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno sia sacro… Ma non è meglio essere in meno a condividere, in modo che ce ne sia di più per quelli che ci sono? Questa  è fondamentalmente la ragione politica della crisi della nostra nuova Europa comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto delle  cose e non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione, quella per cui nell’agàpe  l’inventario contabile di ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità, stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito  repubblicano. Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata: ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in spirito repubblicano e non condominiale.



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65
Fedi omicide

  Ci sono  nel mondo di oggi persone che manifestano le loro convinzioni religiose uccidendo e uccidendosi. Il principale loro bersaglio sono quelli della loro stessa fede: è tra essi che fanno il maggior numero di morti. L’Europa c’entra perché è la sua cultura che è criticata: infatti vengono colpiti quelli che vivono all’europea.
  Parlando di questioni culturali, bisogna dire che condividiamo con altre fedi monocratiche un importante patrimonio culturale e che in quest’ultimo c’è anche l’antico comando di sterminio degli  infedeli  e degli apostati, quelli che hanno rinnegato la propria fede di prima. Leggiamo pagine tremende in merito negli scritti sacri originati dall’antico ebraismo. Ma anche parti di quelli formatisi nelle nostre prime collettività di fede sono stati interpretati in quel senso nel corso della storia.
 Di fatto le nazioni che abbracciarono la nostra religione si resero responsabili di orrende stragi per ragioni religiose, che nelle Americhe divennero addirittura genocidio. In Europa ebbero motivazioni religiose i pogrom, le periodiche persecuzioni antiebraiche, attuati in Polonia e Russia.
 Strumentalizzarono la nostra fede i razzismi nordamericani e sudafricani. L’organizzazione razzista nordamericana Ku-Klux-Klan celebrava i suoi delitti con croci infuocate.
 La particolarità della religiosità omicidiaria contemporanea è l’autoannientamento degli stessi omicidi, in un quadro di martirio religioso, di testimonianza di fede nella prospettiva di una ricompensa soprannaturale, in un aldilà. E’ qualcosa di diverso dal cercare la morte in battaglia. Infatti, di solito, sono colpiti degli inermi e la morte dell’omicida non è solo una eventualità, ma una sicurezza, come nel caso di quelli che si fanno esplodere in ambienti affollati. L’autoannientamento ha ragioni politiche e serve a potenziare l’effetto terroristico di queste azioni stragiste, ma anche a ostacolare le indagini, eliminando la possibilità di dichiarazioni dei colpevoli.
  La fede, e in particolare una fede basata sulla cultura biblica, può essere stragista? Poiché di fatto lo è stata, attraverso i secoli, dobbiamo riconoscere che lo può essere. Perché, in genere, non lo è più? Perché c’è stata una conquista culturale derivata dai processi democratici originati in Europa e nel Nord America, per cui si è riusciti a far convivere pacificamente religioni esclusiviste, le quali quindi in linea di principio escludono la possibilità di altre fedi. Questi sviluppi hanno coinvolto entrambe le due maggiori fedi monocratiche del mondo, ma anche, e da tempi molto più antichi, l’ebraismo. Quest’ultimo, dopo la distruzione della propria entità politica nel Vicino Oriente e la diffusione in Europa e in altre parti del mondo, si è trovato a dover convivere con popoli di altri fedi, e ha sviluppato una corrispondente religiosità.
  Quello che emerge dalle stragi di questi anni, commesse con moventi religiosi, è che con la teologia si può convincere la gente di tutto, veramente di tutto. E che quindi la teologia ha molte e serie controindicazioni. Naturalmente serve gente che, per qualche sua ragione, non è più disposta ad esercitare qullo spirito critico che è la base della convivenza civile.
  In Europa non si uccide più per moventi religiosi tratti dalla nostra fede, ma ancora si discrimina. Ci si convince, ad esempio, che la donna è inferiore all’uomo e che ha un destino servile. O che certe famiglie non sono vere famiglie e non vanno riconosciute come tali. Bergoglio qualche giorno fa ha detto che dobbiamo chiedere perdono agli omosessuali, e qualche ragione evidentemente c’è. Si tratta di discriminazioni su basi teologiche che la teologia non riesce ancora a superare. L’ultima grande persecuzione motivata da ragioni religiose della nostra fede è stata quella contro i modernisti, attuata all’inizio del secolo scorso dal papa Giuseppe Melchiorre Sarto. Fu molto dolorosa. Colpì animi buoni e di grande valore. Qui la teologia è molto cambiata.
  Nel mondo contemporaneo, in cui vive un numero di gente enormemente superiore che nel passato e in cui ci siamo intensamente legati gli uni con gli altri nei processi economici, è indispensabile che le religioni convivano pacificamente. Esse sono necessarie per conservare l’umanità del nostro vivere, ma a condizione che nessuna pretenda l’esclusività. Altrimenti diventano disumane e fanno vivere male. Uccidono. La soluzione è di promuovere di generazione in generazione quel processo culturale per cui in concreto esse possono convivere. Significa accentuare i processi democratici, secondo i quali la persona umana ha diritti fondamentali intangibili, che ruotano intorno al diritto alla vita. E’ l’antico comandamento Non uccidere! che in democrazia viene preso molto sul serio, tanto che, ad esempio, nella nostra nuova Europa non c’è più la pena di morte.  E poi costruire e sostenere,  nella gente, con un’adeguata formazione e anche in sede religiosa, la capacità critica, per cui, ad esempio, si riesca a distinguere in eventi come quelli del Bangladesh i loro veri moventi, al di là della paccottiglia ideologica religiosa che li riveste. E’ quello che facciamo nella nostra fede accostando il tema storico delle Crociate.
 Gli assassini vogliono farci odiare gli uni gli altri, è stato osservato da più parti in questi giorni: la giusta reazione quindi non è quella di odiare, perché sarebbe fare quello che quelli vogliono da noi, ma di attuare e intensificare forme di convivenza pacifica tra genti di fedi diverse. Nel mondo di oggi è possibile e in genere accade: gli odiatori religiosi sono sparute minoranza, ormai, per nostra buona sorte.


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66
Le religioni e il tribunale della coscienza e della ragione
(16 luglio 2016)

Solo da quale decennio la nostra religione ha aderito alla cultura della pace universale, e ora ci sembra assurdo che potesse essere altrimenti. Ma non lo è.
 Storicamente la nostra religione è stata mortifera quanto, e, al tempo della sua diffusione mondiale, addirittura molto più delle altre religioni coeve. Condivide un importante patrimonio culturale con le altre principali religioni monoteistiche e in esso vi è il germe della violenza stragista. L’ebraismo della nostra era lo ha superato, al tempo della sua dispersione tra le genti, e ha costituito un buon esempio di come farlo. Noi ci abbiamo messo  molto più tempo, essenzialmente perché la nostra fede è diventata e rimasta a lungo strumento di potere, e potere  e violenza sono strettamente legati.
 I grandi principi umanitari che costituiscono il nerbo dell’etica sociale e politica dell’Occidente contemporaneo furono proclamati, a fine Settecento, nel corso di due rivoluzioni, quella nord americana e quella francese, che espressero una notevole violenza, in particolare la seconda. Eppure quei principi condussero alla cultura dei diritti fondamentali della persona e al rifiuto della violenza pubblica, compresa la pena di morte, della nostra nuova Europa. Occorse però il bagno di sangue della Seconda guerra mondiale per produrre questo risultato. Con la laicizzazione delle istituzioni pubbliche le religioni cessarono, in Occidente, di costituire fattore di ordine pubblico e furono liberate dalla loro violenza. Nella nostra religione, i teologi ci spiegarono come fare per vivere la fede in modo molto diverso dal passato e, innanzi tutto, che si poteva, e anzi si doveva farlo. E’ il processo che venne denominato purificazione della memoria. E’ pur vero, però,  che, anche ai nostri tempi, dobbiamo riconoscere, come scriveva Aldo Capitini, che solo ieri eravamo violenti.
 Sarebbe bello constatare che il rifiuto della violenza si  sia prodotto storicamente per virtù propria della nostra religione, ma purtroppo non avvenne così. Gli strumenti della violenza ci dovettero essere strappati dalle mani, dagli stati liberali, e non di rado ne esprimiamo anche una certa nostalgia.
 Ci stupisce la violenza collettiva a sfondo religioso espressa nel Vicino Oriente e la pretesa di altre religioni monoteistiche di monopolizzare le religioni dei popoli, di ridurre tutte le altre fedi a culti tollerati (nel migliore dei casi) o di annientarle (nei casi limite): ma questa è stata anche la nostra cultura fino all’altro ieri e ciò fin dalle origini. Ci vantiamo di essere stati, nei tempi antichi, distruttori di idoli, ma in realtà questo significa essere stati persecutori religiosi. La distruzione stragista del soprannaturale altrui fu eclatante nella colonizzazione europea della Americhe.
 La violenza per sottomettere le donna e quella contro gli omosessuali fanno parte della nostra cultura religiosa, delle nostre radici bibliche, e infatti ciclicamente si manifestano ancora tra noi.
 Chi oggi prenderebbe alla lettera il comando biblico di sterminare gli infedeli? Eppure a lungo lo si è fatto, ad esempio nella distruzione delle culture native americane e nelle guerre di religione europee.
  Sulla via del contrasto della violenza bellica ebbe i suoi guai il nostro Lorenzo Milani, nella sua polemica contro i cappellani militari italiani che avevano trattato da vili gli obiettori di coscienza. Si era, appunto, nell’altro ieri  della nostra storia religiosa.
 Per gran parte dei due millenni della nostra storia religiosa si è stati convinti che in guerra un qualche dio fosse con noi, nel mentre facevamo a pezzi gli altri. Lo stesso che avrebbe dato una ricompensa eterna, in un qualche suo paradiso, ai morti sul campo di battaglia. Questo fu appunto lo spirito penitenziale con cui si affrontarono storicamente le “crociate”.
 Si insegna, in religione, che la nostra è un fede che ci porta oltre la morte: sicuramente la nostra religione è stata utilizzata per contenere la paura della morte, specialmente in battaglia. L’etica del milite europeo è stata, molto a lungo, anche religiosa.
 Oggi ci definiscono “crociati”, ma è solo perché non ci conoscono bene. La nostra buona battaglia religiosa non è più quella della guerra. Abbiamo imparato la lezione di uno come Immanuel Kant che consigliava la pace perpetua e invitava a vergognarsi della vittorie belliche. E allora c’è una vecchia  religione che abbiamo abbandonato e una nuova  religione alla quale e nella quale ci siamo aperti. Nella violenza con pretesti religiosi di questi giorni vediamo allora noi stessi come eravamo  solo l’altro ieri.
 Ad un certo punto abbiamo portato la nostra religione davanti al tribunale della coscienza e della ragione e ci siamo ritrovati noi stessi sul banco degli imputati: la religione era solo lo specchio di noi stessi, di come volevamo essere.
  In un’umanità di otto miliardi di persone, strettamente interconnessa, per cui quasi tutti gli oggetti di nostro uso quotidiano vengono prodotti dall’altra parte del globo,  è ancora ammissibile poter sostenere  lo sterminio degli infedeli, e tante altre cose della vecchia  religione? Ad esempio tutto il sessismo che troviamo nelle nostre scritture, per cui un certo pluralismo in questo campo provocherebbe l’ira soprannaturale, lo sterminio, la pioggia di fuoco e simili. Non è, questa concezione, una bruttura solo degli altri, è anche nostra. E’ solo l’altro ieri che una donna non poteva entrare in chiesa senza coprirsi il capo.
 Questo portare la religione, e noi stessi, davanti al tribunale della coscienza e della ragione è il secolarismo. Benedetto secolarismo se ci ha portato la pace, se ha tolto la violenza alle religioni, quella che di questi tempi ci si scaglia addosso provenendo da un medioevo che si manifesta in mezzo a noi e dall’altra parte del nostro piccolo mare! Ricordiamo che anche noi fummo così, solo l’altro ieri.

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67
La Nazione
   
  Nella Costituzione vigente si fa riferimento al concetto di nazione in tre punti, e in due di essi si parla di "Nazione", con l'iniziale maiuscola. È scritto che i "parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la "Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della "Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l' "unità nazionale" (art.87).
 Che cosa è la "Nazione"?  La Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione, perché esse non possono essere fattori di particolare connotazione della Repubblica: lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in campo culturale, si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che significa anche una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in particolare sotto il profilo politico, e solidarietà civile.
 La storia della nostra costruzione nazionale è stata particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche resistenze politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato, nell'Ottocento. Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu osservato. Da un certo punto di vista, l'Italia unita, politicamente organizzata intorno alla monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna con una propria storia particolare, una propria lingua e una propria cultura. L'Italiano era solo lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente francese e piemontese. La gran parte della gente era analfabeta e quindi confinata nelle culture particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci riferisce alla Nazione, si intende una realtà che si è venuta costruendo nell'arco di circa un secolo tra Ottocento e Novecento, in particolare sulla base dell'ideologia politica di Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che volle vivere insieme, per non essere "calpesti e derisi", e lo eravamo perché non eravamo popolo, perché eravamo divisi, proprio come si canta nell'inno nazionale. L'unità culturale italiana fu conseguita però, veramente, solo nel secondo dopoguerra, in particolare per le vie dell'istruzione pubblica di massa e di radio e televisione. È a partire da questa epoca che veramente la Nazione si manifestò. Ed è significativo l'abbandono dei progetti secessionistici che ebbero corso negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai popoli ma tra i popoli italiani ebbero un limitato seguito.


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Degrado della politica ed eclisse del Parlamento
(3-11 agosto 2016)

68.1.   Nel corso dei passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento come un'istituzione troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel decidere, troppo costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La ragione può essere individuata nel degrado della politica che si era manifestato nel corso del decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente dalla degenerazione della politica controllata dai partiti, che si presentarono platealmente, nel corso di inchieste giudiziarie svolte con una certa sistematicità dal 1992, come minati dalla corruzione. Essi infatti avevano preso a finanziarsi pretendendo una quota del denaro pubblico erogato per appalti pubblici da chi aveva assunto gli appalti. E influivano sulla scelta degli appaltatori, facendo preferire illegalmente quelli che avevano accettato di versare quel tributo. I partiti avevano preso consapevolezza di questi fatti molto prima che emergessero in sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta si iniziò a parlare di " questione morale" e si faceva riferimento proprio al fatto che i partiti avevano iniziato a controllare a proprio beneficio, non nell'interesse pubblico, ogni settore della vita nazionale in cui venivano spese risorse pubbliche.
 Ma la corruzione pubblica non fu l'unica ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione del sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena attuazione dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica irriducibile, colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti si opponevano a tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una più attenta selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli affari di stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non ebbe lo stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse addirittura di  una " fine della storia". In Italia l'idea di sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo ideologico della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università religiose.
 Che c'entrano i partiti con il Parlamento? La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del progressivo minor credito dell'istituzione tra la gente?
 In realtà, nel sistema istituzionale disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, approvata dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori svolti dalla metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era fondamentale per realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico in cui le masse avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il popolo che i costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da individui atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti, attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare la politica nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano stati infatti i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro l'ultimo fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e ideologiche della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere la guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche le basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e proposte in seno ai partiti.
  Il faticoso processo di elevazione del popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso nei partiti di popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di popolo, che si proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo democratico fu una conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata dal fatto che la democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era stata un fatto elitario, essenzialmente espressione di una borghesia illuminata, in una situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del 10% della popolazione.
 Il primo grande partito politico di massa italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza, la Chiesa cattolica e fu inizialmente  antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia nazionale. L’accettazione dell’ideologia democratica da parte della Chiesa cattolica, nella vita civile e, cautamente, anche nelle organizzazioni laicali, maturò tra il 1941 e il 1991.
68.2. La crisi dei partiti politici italiani ha portato ad un degrado della politica.
  L'affermazione della democrazia di popolo fu storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei partiti di massa e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi democratici. Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che determinò la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al popolo collegata in maniera vitale.
 Il primo partito politico italiano popolare, di massa, può essere considerato, sotto certi aspetti,  la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
  Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto precocemente, fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a cui è intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente, dal Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento, agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa configurazione è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur dopo le molte riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo (1962-1965). Ha cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in concomitanza con la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano e più precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento, quando la gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo piccolo regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri sovrani europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del laicato di fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per sostenere le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle loro mani la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di movimento di massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito politico di massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera dei Congressi, fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del Regno pontificio, la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo molti riferimenti ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a favore delle masse. L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino Pecci, Leone 13°,  diffusa nel 1891, fu il suo manifesto ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì, dando loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il via libera all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione sociale.
 Altri partiti di massa furono il Partito socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia mazziniana, fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse il divieto per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale nell'attività parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don Luigi Sturzo e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati il Partito Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati all'esperienza socialista,  in quanto il primo originò per scissione dai socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi esponenti del socialismo  italiano, il suo "Duce", vale a dire il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942, sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in particolare nella FUCI  (gli universitari cattolici), nel Movimento Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista fondarono il Movimento Sociale Italiano,  partito che ebbe un seguito popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista, un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
 Ecco dunque descritti i principali attori dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del secolo scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni Novanta.
68.3.  La politica italiana è entrata in crisi negli scorsi anni '70. 
 Nel secondo dopoguerra si era prodotto in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di espansione economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del lavoro. Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere sociale a favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia del partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale della Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso" elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti  i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.
  Negli anni della Repubblica democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici e politici, il Parlamento, con le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si attendeva, vale a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva attuazione della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il sistema fu "bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i partiti che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e capitalista avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i suoi legami culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano, per quelli con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo.  Tuttavia il lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere, traducendole in norme di legge, alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione comunista e di dare comunque voce a quella "missina" ( come venivano chiamati gli aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle attese aveva riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera "alta" che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora invecchiata come l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici, nello scegliere i candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini nominati da questi ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il Senato non apparì assolutamente come una istituzione inutile, come è stata presentata dai fautori della riforma costituzionale respinta nel 2016 mediante un referendum popolare,  anche se i costituzionalisti, fin dai tempi della Costituente, consigliavano di specializzarne le funzioni in modo che non fosse un puro e semplice "doppione" della Camera dei deputati. In effetti il Senato non lo fu mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si manifestò la politica come ora la viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata "Seconda Repubblica", che è quella in cui caddero tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al governo di certe forze politiche e, nel medesimo tempo quella in cui la politica parlamentare, paradossalmente,  iniziò ad essere considerata una perdita di tempo.


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69
La sfida della pace
(21 febbraio 2016)

 L’idea di una pacifica convivenza tra i popoli a livello mondiale è recente e origina nelle culture più fortemente improntate dalla nostra fede religiosa, dal secondo dopoguerra. Fondamentale fu l’esperienza storica dei totalitarismi politici e ideologici europei dal primo dopoguerra, diffusisi in popoli di antica civiltà religiosa. La fede religiosa non sembrò aver costituito un ostacolo insuperabile alle divisioni e ai conflitti, anzi il più delle volte vi fu coinvolta. Un esempio spettacolare di ciò si ebbe durante il regime mussoliniano, in Italia, con il quale la nostra gerarchia religiosa, ma non tutta la gente di fede, accettò di conciliarsi. Lo stradone in stile cimiteriale che celebra quell’evento, e che fu realizzato distruggendo un antico quartiere popolare e deportandone gli abitanti, ne è ancor oggi l’immagine: la larga via che all’epoca fu aperta portava al regime mussoliniano e la Conciliazione con il papato fu senz’altro uno dei maggiori successi politici e ideologici del fascismo italiano. Con il senno del poi dobbiamo riconoscere che può dirsi l’opposto per il papato, anche se la sistemazione politica che fu data all’epoca vige tutt’oggi. La nuova via della pace ha avuto anche il senso di una  conversione  in senso religioso.
 La novità delle concezioni contemporanee sulla pace diffuse in Occidente è che esse non prevedono l’assimilazione dei popoli in un’unica fede o in un’unica ideologia, ma si propongono la convivenza delle diversità. Questo è stato il punto debole della nostra bimillenaria esperienza di fede.
  Se leggiamo storie delle nostre collettività religiose risalenti ancora alla metà degli anni Sessanta le troviamo viziate da un’incredibile faziosità, secondo la sensibilità contemporanea naturalmente. Quelle cattoliche sono in genere veramente ossessionate dal tentativo, realisticamente piuttosto difficile, di far risalire l’organizzazione del papato imperiale del secondo millennio ai primi secoli della vita delle nostre collettività religiose.
 Studiando i libri di storia religiosa si capisce perché la materia in essi trattata non è utilizzata, in genere, nella formazione religiosa comune, quella rivolta a tutti e non alla particolare cerchia degli specialisti o dei preti e religiosi. Innanzi tutto è piena di polemiche durissime delle quali oggi è arduo capire l’importanza per la vita di fede. E’ poi esprime una violenza ideologica e verbale, ma anche fisica che è intollerabile con la mentalità di oggi.
  A partire dal Quinto secolo i gerarchi religiosi latini si separarono da quelli di cultura greca, derivati dalle nostre più antiche collettività religiose, su questioni attinenti alla persona del Fondatore che vennero presentate in modi oggi (ma anche all’epoca) accessibili solo agli specialisti. Che riflesso potevano aver avuto sulla vita della gente comune? Davvero  i popoli che aderirono alle concezioni ritenute errate dai gerarchi romani erano cattivi? Durante diverbi tra gerarchi religiosi su quelle questioni, nel 449 a Efeso, una città di civiltà greca sulle coste mediterranee dell’attuale Turchia, il vescovo di Costantinopoli Flaviano fu picchiato e morì poco dopo.
  Ai tempi nostri l’argomentare dei teologi, almeno quando si rivolgono alla gente comune, è diverso. Si ragiona sull’esperienza comune per poi spiegarne il senso religioso. Ha maggiore importanza l’antropologia, la questione di come viene considerato l’essere umano nelle sistemazioni ideologiche che vengono proposte. Questo modo di procedere ha portato a un riavvicinamento con culture religiose della nostra stessa fede dalle quali ci si era separati. Questo è avvenuto con le collettività religiose che si sono riorganizzate sulla base dei principi religiosi proposti da Lutero, Calvino e altri riformatori religiosi del secondo millennio. Con i greci, i popoli di cultura ellenistica dai quali ci si è separati molto prima, c’è la difficoltà che le loro antiche collettività in Oriente sono in gran parte finite sommerse, sovrastate, dall’altra grande fede monoteistica diffusa in quelle regioni a partire dal Settimo secolo. Si cerca allora di  riconciliarsi  con i loro eredi, con l’ortodossia dell’Europa orientale e si scopre che non ci dividono da essa questioni di fede veramente fondamentali, ma essenzialmente l’assetto istituzionale imperiale del papato romano che fu dato nel basso medioevo. Ma è soprattutto la pacifica coesistenza nelle stesse nostre città con quelli delle altre confessioni a fare la differenza dal passato. Si scopre che si può vivere insieme, conoscendosi si finisce per stimarsi, e allora tutti gli arzigogoli teologici si appianano. In Italia molte chiese ortodosse hanno sede in chiese concesse dai vescovi cattolici perché non più utilizzate.
  Anticamente la gente comune rimaneva a fare da spettatrice a certi azzuffamenti teologici e gerarchici. Era un po’, ma non sempre, nello stato di gregge. Nel secondo millennio è stato diverso. Le spiritualità nuove prorompevano dalla gente comune e i capi religiosi faticavano a venirne a capo. La scoperta, in Occidente nel Quattrocento, della stampa tipografica mise la cultura religiosa alla portata delle masse. Stiamo vivendo una rivoluzione analoga con il WEB, il trattamento telematico delle informazioni consentito dalla rete internet e dalla sua interfaccia sugli schermi dei nostri computer, organizzata in modo da essere accessibile anche ai bimbi più piccoli. Questa possibilità di renderci conto dei problemi ci responsabilizza molto. Siamo spinti ad uscire dallo stato di gregge e abbiamo gli strumenti per farlo. In un certo senso la nostra nuova Europa si fonda su questa nuova realtà. Le divisioni che oggi la minacciano interpellano i suoi popoli. Essi hanno imparato a convivere e a conoscersi. E’ più difficile rinchiudersi nell’egoismo del passato e fondare partiti del Noi soli. Anche i capi politici nazionalisti, che spingono per la chiusura della frontiere, paradossalmente creano internazionali politiche.  E’ lo stesso anche per le questioni in materia di fede. Certe forme di spiritualità non soddisfano più e, soprattutto, non servono più.
  Parlare di pace, come oggi la intendiamo, è facile e anche bello, realizzare la pace è molto più difficile, anche in religione. La vita nelle parrocchie lo dimostra. A volte la coesistenza tra le loro componenti è piuttosto precaria. A volte si ricade nei vizi delle origini, nella brutta abitudine di lanciarsi anatemi, vale a dire scomuniche, senza avere nemmeno, tra l’altro, il potere giuridico. E questo anche se la gente della nostra fede, dal secondo dopoguerra, ha mostrato molti modi perfare pace e l’Europa contemporanea, pur con tutti i suoi attuali problemi, ne è la dimostrazione.
  Joseph Ratzinger qualche anno fa diffuse un’enciclica la Carità nella Verità  (2009) in cui affrontò sostanzialmente la questione se venga prima la carità, il  fare  il bene agli altri, o la  verità, il dire  cose coerenti con il patrimonio di fede, entrando in una inedita polemica con il suo predecessore Giovanni Battista Montini, il quale nell’enciclica  Lo sviluppo dei popoli  (1967) aveva lanciato un forte appello a tutte le persone di buona volontà a fare il bene, affermando che  lo sviluppo è il nuovo nome della pace, anche in senso religioso.
 Certe questioni noi laici di fede possiamo tranquillamente lasciarle ai teologi di professione, come lo stesso Ratzinger è stato per gran parte della sua vita.
 La mia opinione  è che ci si debba concentrare, noi che non siamo teologi, sulla faccenda del  fare il bene, e innanzi tutto nel  volersi bene, nel fare pace come oggi lo si intende, comprendendo in quell’azione anche lo sviluppo  dei popoli e delle singole persone, per poi cercare il senso religioso del bene che ci è riuscito di fare, quindi non ragionando sulle sole intenzioni ma sui risultati ottenuti. Nella questioni di fede, infatti,  è vero che, come si dice, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

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70
Impegno civile come attività religiosa
(3 gennaio 2015)
Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo culturale dei nostri tempi, ha affermato in “Tristi tropici”, che in tutta la storia umana, solo due sono state le strategie impiegate allorché si è dovuto risolvere il problema diversità altrui: una è stata la strategia “antropoemica”, l’altra la strategia “antropofagica”.
 La prima consisteva nel “vomitare”, nello sputar fuori gli altri, considerati come esseri incurabilmente estranei e alieni, nel vietare il contatto fisico, il dialogo, i rapporti sociali e qualsiasi tipo di«commercium» [=relazione di mutuo scambio], commensalità  o«connubium» (=alleanza basata su una relazione affettiva profonda).Varianti estreme di questa strategia “emica” sono oggi, come sempre, l’incarcerazione, la deportazione e la soppressione fisica. Sue forme aggiornate, “raffinate” (modernizzate) sono la separazione spaziale, i ghetti urbani, l’accesso selettivo agli spazi.
 La seconda strategia consiste in una cosiddetta “disalienazione” delle sostanze estranee: nell’«ingerire», «divorare» i corpi e gli spiriti estranei  in modo da renderli , attraverso il metabolismo, identici e non più distinguibili dal corpo che li ingerisce. Tale strategia assunse una parimenti varia gamma di forme, dal cannibalismo all’assimilazione forzata: crociate culturali, guerre dichiarate ai costumi, calendari, culti, dialetti e altri «pregiudizi»  e «superstizioni» locali. Se la prima categoria mirava all’esilio e alla distruzione degli “altri”, la seconda puntava all’annullamento o distruzione della loro “diversità”.

[da: Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2011 (opera edita per la prima volta in Gran Bretagna nel 2000]

  Sono nato, sono cresciuto e mi sono formato in un ambiente religioso che dava molto importanza all’impegno civile, inteso come il partecipare alla collettività politica per costruire la città dell’uomo(espressione risalente a Giuseppe Lazzati, 1909-1986), vale a dire una società benevola verso tutti gli esseri umani. In una società pluralistica come quella in cui siamo immersi l’impegno civile richiede di essere democratico, vale a dire aperto al dialogo e alla collaborazione con chi su molte cose la pensa diversamente ma è unito a noi dalla comune umanità. 
  A volte però, in religione, si ritiene che il metodo del dialogo sia inutile e anche controproducente, perché potrebbe portare a contaminazione. Per reagire alla diversità altrui, vengono impiegate entrambe le tecniche sunteggiate da Lévi-Strauss: l’esclusione e l’assimilazione.
 Da un lato si costruiscono frontiere ideologiche strettamente presidiate e isolate dal contesto sociale intorno. All’interno, salvo che nel ruolo di semplice consumatore  di servizi religiosi, è ammesso solo chi accetta la conformità di pensiero, o, almeno, si impegna a non contestarla, per amore di pace, come si dice. D’altro lato, chi è ammesso all’interno viene esortato a farsi digerireassimilare, divenendo  parte di una collettività di uguali, in cui è abolita ogni diversità (e quindi la necessità di un vero e franco dialogo), e in cui questa uguaglianza è realizzata mediante la pratica  dell’obbedienza  verso dei formatori, in cui ogni pensiero critico non viene accolto tanto bene.
 Si tratta di ideologia piuttosto lontana da quella indicata come preferibile nei documenti del Concilio Vaticano 2°.
  In realtà essa, benché la si voglia riferire alle origini, in realtà proiettando  non del tutto a proposito  sul passato nostre attuali concezioni, diverge marcatamente dai costumi delle nostre collettività religiose di tutti i tempi, in cui l’impegno civile ha avuto una parte fondamentale: altrimenti non parleremmo oggi di radici religiose dell’Europa. Essa ha infatti origine storica piuttosto recente e precisamente in epoca fascista. Fu allora che, a seguito del compromesso raggiunto all’epoca dai nostri capi religiosi con il regime fascista, la religione si impegnò a  non occuparsi di politica (in realtà, così facendo, dando un formidabile appoggio al regime fascista), quindi delle cose della città dell’uomo. Era scritto nel Concordato che fu stipulato nel 1929 e che fu in parte superato con l’avvento della Costituzione repubblicana entrata in vigore del 1948 e, definitivamente, con gli Accordi di revisione di quel Concordato, stipulati nel 1984.
   Bisogna che sia più chiaro che, nonostante tutte le metafore sociali che utilizziamo a fini propedeutici, per rendere in termini semplici un’idea di cose molto difficili da capire, noi partecipiamo a una collettività, ne siamo anche responsabili; possiamo riconoscere anche di essere generati alla fede in una collettività, ma assolutamente non da una collettività: infatti, come è scritto, noi dobbiamo rinascere dall’altoQuindi poi nessuno può sentirsi obbligato a farsi digerire o  generare  o rigenerare da una certa collettività, per quanto poi possa decidere liberamente di farlo.
  Il metodo di assimilare  persone in una collettività di fede che si vieta l’impegno civile, inteso come relazioni con chi la pensa diversamente, porta alla progressiva emarginazione delle persone di fede. Alla situazione, per intenderci che si sviluppò nell’Ottocento nel conflitto tra il nostro nazionalismo e le pretese politiche del Papato ad un suo regno intorno a Roma. Sentiamo gli altri come estranei e da loro siamo sentiti estranei. Per farceli amici chiediamo troppo, chiediamo loro di farsi digerire; loro non ci stanno e noi li vomitiamo.
 L’impegno civile nella nostra Repubblica, come è configurato nella vigente Costituzione,  si basa su una concezione  personalistica che è stata ideata in ambito cattolico negli anni ’30, sulla base di un filone di pensiero che risale al Medioevo e che ha basi scritturistiche. Tale concezione si basa sul rispetto della dignità della persona umana, sia come singola sia nelle formazioni sociali a cui partecipa. Questo significa che non è ammesso che una formazione sociale possa digerire una persona. Ma, a ben vedere, questo principio  digestivo è estraneo anche all’ideologia insegnata dai nostri capi religiosi. Infatti la nostra fede si basa su una conversione intesa come processo di metamorfosi personale e libera. In particolare, nei nostri scritti sacri non ci viene mai presentato il nostro Maestro impegnato in attività propriamente  digestive.
 La mia formazione religiosa ha compreso anche insegnamenti su come partecipare a una collettività di fede da laico. Essa è stata condotta nello spirito del Concilio Vaticano 2°, i cui principi vennero entusiasticamente accolti nell’ambiente religioso della mia famiglia. Il laico deve partecipare a una collettività di fede mantenendo integra la sua dignità di persona umana e rispettando la dignità personale degli altri fedeli. Si tratta di cosa di cui occorre fare tirocinio.
 L’impegno civile è appunto quel tipo di relazioni con gli altri che ci permette di collaborare con chi la pensa in modo diverso da noi per costruire qualcosa di comune, in religione o altrove. Esso, nella nostra  fede, ha avuto sempre una forte valenza religiosa, della quale non sempre, però, si è mantenuta consapevolezza.


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71
Spunti per un dialogo politico su democrazia di popolo e fede cristiana.
(29-1-15)

71.1. Note di metodo
 Questa conversazione si propone di stimolare un franco dibattito politico tra persone di fede.
 Non proporrò contenuti eruditi. Farò invece riferimento ad alcune idee chiave tratte dalla storia delle nostre collettività permeate dal pensiero religioso.
  Perché il dialogo sia veramente libero non farò riferimento esplicito ad alcun documento di autorità religiose, né menzionerò queste ultime. Presenterò in forma anonima il pensiero sociale che storicamente espressero. Esso potrà  così essere analizzato e criticato senza alcuna remora.
 Inizierò definendo che cosa intendo per politica.
 Proseguirò tratteggiando alcuni tratti caratteristici di ciò che ho chiamato democrazia di popolo.
 Richiamerò la storia del pensiero politico espresso nella nostra fede religiosa, con particolare riferimento all’Italia.
 Infine analizzerò i problemi che oggi in italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla democrazia di popolo.
 La mia formazione è giuridica, ma di pratico del diritto, non di teorico. Ho ricevuto una formazione politica dal lungo contatto con mio zio Achille, persona di fede, professore di sociologia e politico.
 71.2. La politica
  Definisco politica l’attività di governo delle società umane. Un’attività di questo tipo si riscontra anche in collettività poco numerose e primitive. E’ stata ritenuta una caratteristica degli esseri umani come viventi sociali.
 Lo studio delle collettività primitive ci può dare un’idea dello sviluppo delle attività propriamente politiche. Una delle linee di costituzione di un’autorità politica può individuarsi, nelle collettività di tipo patriarcale, nell’espansione del potere monocratico di un maschio dominante su collettività di parenti o servitori. Nella nostra cultura l’idea di autorità è ancora piuttosto legata a quella di paternità e ciò per un retaggio storico molto risalente nel tempo e radicato nelle diverse culture che si sono incontrate, scontrate e ibridate intorno al bacino del Mediterraneo.
 Le nostre concezioni sulla politica impiegano tuttora schemi di pensiero originati nelle filosofie dell’antica Grecia. Solo dall’Ottocento si è cominciata a impiegare l’analisi sociologica per capire i problemi politici.  Una particolare chiave interpretativa della politica è stata proposta dal marxismo a partire dalla medesima epoca: essa è particolarmente caratterizzata dall’analisi storica dell’evoluzione delle società umane. Sociologia e marxismo convergono nell’individuare all’origine del potere politico le dinamiche sociali delle popolazioni umane. In quest’ottica tutta la storia della politica è stata reinterpretata utilizzando le acquisizioni di queste discipline. Per capire la politica e per prevederne gli sviluppi si ritiene necessario capire le società in cui essa si manifesta.
71.3. La democrazia di popolo
  Definisco democrazia un regime politico in cui l’autorità è legata in misura più o meno intensa alla volontà collettiva dei governati, sia nella scelta di chi la esercita sia nei suoi metodi, finalità generali e obiettivi concreti. Non consiste solo nel metodo maggioritario per adottare decisioni collettive. Si fonda anche su un sistema ampio di diritti di libertà, per consentire la partecipazione al dibattito politico e ai processi decisionali collettivi. In democrazia è essenziale la possibilità di un dialogo fra soggetti liberi. Anche nel definire concettualmente i caratteri della democrazia si è soliti fare riferimento a modelli realizzati e teorizzati nell’antica Grecia. Tuttavia la democrazia come ai tempi nostri la si intende è un’esperienza sociale che non è mai esistita prima del secondo dopoguerra. E non è mai stata neppure teorizzata prima degli scorsi anni Venti. Il nostro mondo è veramente un nuovo  mondo. La chiamo democrazia di popolo per distinguerla dalle precedenti esperienze storiche.
 Il suo archetipo è il regime politico emerso a fine Settecento dalla rivoluzione statunitense, che è stata espressa anche mediante temi religiosi tratti dalla nostra fede. Quell’esperienza, anche se in genere non se ne ha consapevolezza, non è stata solo una secessione dal dominio di una monarchia europea, ma è stata propriamente una rivoluzione. Ha infatti instaurato un nuovo modello di società, fondato su un’ideologia  egualitaria su basi religiose, secondo la quale tutti gli essere umani sono stati creati uguali e con diritti inviolabili.
Crediamo in queste verità che sono evidenti di per sé stesse, che tutti gli uomini sono creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti, e tra questi il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità. Per assicurare questi diritti sono costituiti i Governi tra gli uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri dal consenso dei governati.[Dichiarazione d’Indipendenza delle Tredici Colonie, costituitesi in Stati Uniti d’America, 4 luglio 1776].
 E’ proprio da questa ideologia, più che da quella espressa dopo pochi anni dopo dalla Francia rivoluzionaria, che derivano le democrazie di popolo contemporanee. E ciò innanzi tutto per il fatto che la democrazia statunitense ha avuto una durata molto più lunga di quella espressa dalla rivoluzione francese, che fu veramente effimera. Essa ha potuto quindi costituire un modello duraturo sul quale si sono innestati gli sviluppi successivi. Poi per il fatto che nel secondo dopoguerra quel modello fu preso come riferimento per riorganizzare i regimi politici europei. Il più importante e duraturo contributo della rivoluzione francese alle democrazie di popolo contemporanee è stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino  del 1789, la base dello stato di diritto: ogni autorità è soggetta alla legge e quest’ultima deriva dalla volontà generale alla quale tutti hanno diritto di concorrere;  gli esseri umani nascono  liberi e uguali, dotati di diritti inviolabili.
 L’uguaglianza nell’ottica di quelle rivoluzioni è un’uguaglianza in dignità. Essa è affermata religiosamente, vale a dire in modo pregiudiziale e assoluto,  a prescindere da qualsiasi riscontro effettivo nella realtà (uso il termine religioso  in questo particolare senso, come lo intendeva il filosofo Aldo Capitini).
 L’altro fattore da cui sono scaturite le democrazie di popolo contemporanee è stato  l’apporto del socialismo, dall’Ottocento. In quest’ottica la politica viene concepita come uno strumento per rendere effettiva  l’uguaglianza in dignità mediante la giustizia sociale. Tra i diritti inviolabili vengono inclusi anche alcuni  diritti sociali, ad esempio quello alla libertà dal bisogno, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Nell’insieme costituiscono presidi della giustizia sociale e si aggiunsero ai diritti di libertà proclamati nelle rivoluzioni americane e francese del Settecento.
 In merito si ricorda come archetipo la costituzione tedesca di Weimer del 1919, di cui trascrivo una norma significativa.

Art.151. L’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da tutelare la libertà economica dei singoli.

 Altro archetipo è considerato la costituzione sovietica del 1936 (detta di Stalin), in cui erano previsti il diritto al lavoro e al riposo, all’assistenza materiale nella vecchiaia e nella malattia o in caso di inabilità al lavoro, all’istruzione, all’uguaglianza in dignità, oltre ai diritti di libertà previsti delle costituzioni rivoluzionari settecentesche che ho sopra ricordato.  Trascrivo due articoli particolarmente significativi.

 122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica. […]
123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.

 Dalla storia sappiamo che nell’Unione Sovietica questi diritti rimasero in gran parte solo nelle costituzioni, non divennero mai realtà. Quella costituzione tratteggiò un mondo nuovo che rimase però sempre a livello ideale.
  Le previsioni costituzionali relative ai diritti fondamentali e inviolabili delle costituzioni che ho citato furono presi come riferimento nel secondo dopoguerra dai saggi della nostra Costituente, nel 1947, i cui lavori  precedettero quelli per la redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, approvata nel 1948. Da quest’ultima scaturì la concezione contemporanea della democrazia a livello planetario, come regime politico universale destinato a realizzare una reale eguaglianza in dignità degli esseri umani,  a prescindere dalla loro condizione di cittadinanza politica particoare,  mediante l’effettività dei diritti fondamentali e inviolabili, in particolare di quelli sociali, a livello universale. Riporto un articolo particolarmente significativo della Costituzione italiana vigente:

Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 Il secondo comma è stato scritto dal socialista Lelio Basso. L’universalità della concezione politica sottostante, espressa poi anche nella dichiarazione ONU, risalta dal fatto che vengono ripudiate le discriminazioni su basi etniche e linguistiche, rendendo la nuova Repubblica una democrazia non solo per  gli italiani e degli italiani. Considerata l’importanza che ebbero elementi cattolico-democratici nella redazione dei principi fondamentali di quella Costituzione, la possiamo considerare anche come espressione di una teologia politica.
 L’ultimo fattore decisivo per la creazione delle democrazie di popolo è stato il suffragio universale, che in Italia è stato realizzato solo dal 1946.
 Una democrazia di popolo è un regime con amplissima base popolare e basato su un’idea di uguaglianza molto legata alla giustizia sociale da realizzare mediante riforme sociali introdotte con l’autorità delle leggi. L’obiettivo delle democrazie di popolo è la trasformazione delle società per rimuovere le cause di infelicità e di discriminazione.
71.4. Il pensiero politico espresso dalla nostra fede religiosa, con particolare riferimento alla situazione italiana.
 Di solito non si ha sufficiente consapevolezza che i cristiani molto presto svilupparono un pensiero politico su basi di fede.  In caso contrario l’ideologia politica basata sulla fede cristiana non avrebbe potuto sostituire, nel giro di quattro secoli quella basata sull’antica religione politeistica. In particolare non se fa menzione nella formazione religiosa di primo e secondo livello. Si passa dai cristiani perseguitati dal potere imperiale romano agli imperatori cristiani.
 Un indizio della precoce partecipazione dei cristiani alla vita politica lo possiamo trovare nella Lettera a Diogneto, che si fa risalire alla fine del secondo secolo:

[I cristiani] abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri residente; a tutto partecipano attivamente come cittadini, a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria terra straniera. [V,5].

 Conquistato lo stato romano, l’ideologia politica dei cristiani fu, in genere, quella di ritenere che lo stato fosse espressione del popolo cristiano e che il monarca dovesse svolgere anche compiti di guida religiosa. Il politologo Gianni Baget Bozzo considerò come archetipo di questa mentalità il pensiero del vescovo, teologo e storico  Eusebio di Cesarea (265-340). La dimostrazione di quanto essa si fosse radicata è che tutti i concili ecumenici del primo millennio, dal primo di Nicea (325) al settimo di Costantinopoli (879), furono convocati da imperatori. L’ideologia del monarca come capo civile e religioso del popolo cristiano fu fondata sulle narrazioni veterotestamentarie adattate ad una situazione storica molto diversa e rimase latente in Europa fino all’avvento della secolarizzazione del potere politico, nell’Ottocento. Sempre su base veterotestamentaria fu fondata, in Occidente, la parallela ideologia che affermava una supremazia  politica del potere religioso su quello civile. Il popolo cristiano, in Occidente, finì per avere due padri che pretendevano di governarlo, ma solo nel secondo millennio si produsse una vera e propria competizione politica tra di essi. Nel quinto secolo le invasioni dal Nord Europa provocarono il crollo della nuova civiltà cristiana in Occidente: un evento che fu vissuto come una catastrofe anche religiosa. La storia che seguì può anche essere interpretata come un tentativo del potere religioso occidentale di porvi rimedio. In effetti gli invasori erano già venuti a contatti con la civiltà imperiale mediterranea e la prendevano come modello di potere politico. Ciò rese possibile assimilare la loro cultura in quella politico/religiosa formatasi a partire dal quarto secolo. E produsse l’emergere del patriarcato romano, uno dei cinque del cristianesimo delle origini (Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli e Roma), come imperatore religioso e politico. Il processo iniziò nel settimo secolo, sotto dominio longobardo: al papato fu assegnato un regno territoriale nell’Italia centrale. Questo dominio fu confermato in epoca carolingia, nel nono secolo, nella quale il papato si federò con l’impero dei franchi adottandone la struttura feudale nella sua organizzazione ed iniziando ad agire come sovrano propriamente politico. Questa struttura di potere politico, fondata su due padri  del popolo, su due imperatori  politico/religiosi, fu rafforzata dalle necessità di difesa dalle travolgenti invasioni islamiche. In Oriente rimase invece l’organizzazione politico religiosa del passato imperniata sull’imperatore, con il patriarca religioso, l’ultimo rimasto in Oriente, in posizione subordinata. Il consolidamento del potere imperiale del papato avvenne nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Fu basato su labili collegamenti neotestamentari, sull’idea di un impero politico-religioso come espressione della regalità divina, di cui il papato era manifestazione vicaria (teologia del papato risalente al tredicesimo secolo). Nel Basso Medioevo, dai costumi delle città medievali occidentali del secondo millennio, si produsse l’idea che il mantenimento della pace politica e religiosa fosse fondamentalmente un problema criminale, da affrontare irrogando pene efferate. Pace  a quell’epoca era una delle denominazione del diritto criminale. Da ciò l’istituzione di polizie politiche di natura politica-religiosa la cui manifestazione più eclatante fu l’Inquisizione cattolica. Ne può essere considerata un’estensione la guerra di crociata, in particolare quella condotta nel tredicesimo secolo contro i dissenzienti religiosi albigesi. In un’ottica di fede, fino all’inizio dell’Ottocento, la politica venne vista come un problema di fedeltà ad un capo politico/religioso; in Occidente anche come quella ad uno o ad entrambi gli imperatori religiosi emersi dal primo millennio. I fedeli, in genere, o erano sudditi o capi feudali assoluti.  Nel secondo millennio cominciarono a manifestarsi idealità di giustizia sociale a base popolare ed evangelica: esse dovettero però venire a patti con i padri  politico-religiosi, con le gerarchie assolutistiche monarchico-feudali civili e/o religiose, entrambe esercitanti poteri propriamente politici,  o vedersi da essi duramente represse come espressioni criminali. Esperienze di tipo di tipo tendenzialmente democratico furono organizzate nell’Europa occidentale fin dagli inizi del secondo millennio da statuti cittadini e intorno alle corti dei sovrani, ma, a parte il caso dell’importante  influsso del calvinismo politico, la prima espressione di una teologia politica su base democratica, e quello delle rivoluzioni parlamentari  inglesi del Seicento, prodottesi in collettività di fede affrancate dal centralismo religioso romano, l’idea di affidare ai popoli la definizione dei valori supremi delle società, ciò che definiamo giustizia sociale, ebbe difficoltà ad essere integrata nelle concezioni di fede. Del resto, nelle Scritture quel tipo di democrazia semplicemente non c’è, per il contesto storico in cui esse si formarono, e di ciò ha risentito la teologia su di esse costruita. C’è però un’idea che è risultata al centro delle ideologie democratiche contemporanee: l’uguaglianza in dignità.  La possiamo trovare sintetizzata in questo passo della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28. Vers.CEI 2008).
  I processi storici e sociali da cui sono emerse le democrazie contemporanee furono avviati, sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento, anticipati sul piano ideologico dal pensiero liberale  e illuminista. Ma fu l’Ottocento il secolo del loro crogiolo. In Italia il confronto con le collettività di fede fu particolarmente drammatico per i prevalere di fortissime tendenze reazionarie, appoggiate da efficienti organizzazioni di polizia ideologica. In origine non anti-religiosi, i moti rivoluzionari espressi nel Risorgimento italiano, divennero anticlericali per le difficoltà incontrate nel processo di unificazione nazionale ad opera delle organizzazioni clericali. Il motto del mazzinismo “Dio e popolo” indica che una integrazione tra tendenze democratiche e fede religiosa era possibile, ma essa fu duramente repressa. La storia delle collettività di fede italiane dalla metà dell’Ottocento può essere interpretata come un faticoso processo di integrazione tra idee religiose, idee di giustizia sociale e  idee di democrazia politica, con uno scontro durissimo su base ideologica tra diverse componenti sociali religiose, che lasciò importanti tracce, oltre che nella storia nazionale, anche nelle biografie dei più importanti personaggi di fede di quel periodo, ad esempio in quelle di Romolo Murri, il fondatore del movimento democratico-cristiano, e di  Giuseppe Toniolo. Fino alla metà degli anni Quaranta prevalsero tendenze reazionarie, con conseguenze tragiche sul piano politico. Il ritardo dell’integrazione democratica dei cattolici spianò infatti la strada al fascismo storico. Si riteneva, da molti, che, al di fuori di un’organizzazione paternalistica, fortemente accentrata, la fede religiosa si sarebbe corrotta. La democrazia era vista, secondo un filone dell’antico pensiero greco, come fonte di disordine culturale e sociale. Il crollo del fascismo storico e il ruolo dei cattolico-democratici nella lotta antifascista e nell’organizzazione della nuova Repubblica aprirono un nuovo corso.  L’ideologia di fede sottostante era stata lungamente elaborata in circoli ristretti a partire dal pensiero dei filosofi francesi Jacques Maritain e Emmanuel Mounier. Il processo ebbe una tappa importante negli anni Sessanta, ma l’idea che il regime democratico fosse quello preferibile risale, nella teologia cattolica, addirittura al 1991. E’ una storia non ancora conclusa, in particolare nell’Italia di oggi, dove l’influenza clericale in politica è stata fortissima.
71.5. Problemi che oggi in Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla democrazia di popolo.
  L’idea che in religione non si debba parlare di politica è un portato del fascismo storico e in particolare del compromesso, da molti ritenuto disonorevole, concluso tra la nostra gente di fede e il Mussolini nel 1929. In quel modo il fascismo chiuse la bocca al cattolicesimo democratico, ma, più in generale, ad ogni forma di teologia politica.
 La scelta religiosa che fu fatta in alcuni ambienti di fede negli anni scorsi anni Sessanta, sulla scia dei risultati dell’assemblea di saggi della nostra confessione religiosa svoltasi all’inizio di quel decennio, fu cosa profondamente diversa. Liberò la fede dalla politica di partito, aprendola al pluralismo e proponendosi una formazione e un tirocinio collettivi in merito. In quell’epoca, infatti, sulla base di un pensiero teologico avviato nel secondo dopoguerra, i problemi politici vennero concepiti anche come problemi religiosi, quindi in un’ottica di fede.  Fu infatti scritto:

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. [1965].

E anche:

Noi scongiuriamo per primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non meno che altrove, i laici devono assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell’ordine temporale. Se l’ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di vita. Sono necessari dei cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde: essi devono impegnarsi risolutamente a infonder loro il soffio dello spirito evangelico. [1967].

 Divenne  quindi centrale e possibile, ma di attuazione piuttosto  difficile nelle nostre collettività di fede, ciò che venne efficacemente sintetizzato, in queste righe:

“La Chiesa […] con il II Concilio ha mutato profondamente il suo rapporto con la società e l’umanità. Dalla difesa del proprio campo di missione spirituale nel temporale (obiettivo della nuova cristianità elaborato nei confronti dell’età moderna) intende passare all’apertura evangelizzatrice a tutti gli uomini, al campo della societas hominum, sul fondamento della sola, comune, natura umana.                                                                                […]
E’ nella comunità di Chiesa locale che l’unità nell’essenziale e il pluralismo di partecipazioni politiche e sociale debbano convivere se non integrarsi nella tensione talora, mai nella dialettica profana, nella dialogicità spesso, che non esclude, anzi fa crescere la funzione di guida e di autorità dottrinale e pastorale della gerarchia come la partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale dei laici, nella Chiesa e nella storia.           […]
 Sotto questo profilo, tutta l’innovazione della Gaudum et Spes e dell’intero concilio sembra concentrarsi in quel paragrafo 4 della Octogesima Adveniens di Paolo VI che così fatica a trovare (ma il convegno ecclesiale del novembre ’76 [Evangelizzazione e promozione umana] ne è un luminoso esempio) applicazione e sviluppi pastorali. […] La comunità di Chiesa locale, guidata dal Vescovo, [deve essere] assunta anche come luogo di confronti tra credenti, pure tra credenti con scelte politiche diverse, per cercare insieme le vie essenziali di impegno di tutta la Chiesa locale alla necessaria trasformazione della società in cui la comunità di Chiesa opera, per l’evangelizzazione e la promozione umana”.[Achille Ardigò, “Toniolo: il primato della riforma sociale. Per ripartire dalla società civile”, 1978]

 In quest’ottica, in religione si dovrebbe parlare di politica.  Una importante manifestazione del nuovo corso, per la verità rimasta quasi l’unica, fu il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, svoltosi a Roma nel 1976. Le difficoltà emerse negli scorsi anni Settanta portarono, dagli anni ’80 al prevalere di orientamenti paternalistici, in quello che, nel campo fede/democrazia, può essere visto come un lungo inverno, nonostante il recepimento della democrazia nel pensiero teologico. La pratica, quindi, non fu all’altezza della teoria. Significativo di questo sviluppo mi pare sia stato l’appello all’astensionismo dei cattolici in occasione di un referendum su tema sensibile  per la fede, nel 2005. E anche la dura repressione delle teologie di liberazione di origine latino-americana. Oggi siamo autorevolmente invitati a far ripartire quel processo di sviluppo democratico nella pratica delle nostre collettività di fede, ma sembrano mancare risorse sufficienti a farlo. Secondo il costume dell’ultimo trentennio, si attendono ancora, paternalisticamente, istruzioni dettagliate dall’alto, invece di suscitare un movimento in basso. Quest’ultimo dovrebbe avere come protagonisti i laici di fede, più coinvolti del clero nei processi sociali democratici.
71.6.  Da quanto ho esposto, emerge la necessità di fare tirocinio di democrazia anche nelle nostre collettività di fede, in particolare nella formazione permanente dei laici di fede, impegnati con primaria responsabilità nel compito collettivo di infondere valori nella società civile in cui sono immersi, alla quale partecipano con poteri sovrani.
  E’ passato ormai mezzo secolo da quando si prese consapevolezza di questo, ma ancora quel tipo di tirocinio è piuttosto ostico negli ambienti religiosi. Lo si vede con sospetto, come fonte di disordine. Ma è proprio per affrontare in modo ordinato il metodo democratico che esso occorre.
 Storicamente le genti di fede sono state ammaestrate ad obbedire e, in particolare, ad obbedire tacendo. “Obbedir tacendo” fu un motto dell’Arma dei Carabinieri ed esso ha un senso preciso negli ambienti militari: significa abnegazione nello sforzo di contribuire a un risultato comune che richiede compattezza e coordinazione. Si ricorda che anche il Garibaldi, rivoluzionario repubblicano risorgimentale, obbedì alle autorità militari sabaude in diverse occasioni, in particolare con un famoso telegramma spedito durante la Terza guerra d’indipendenza, la cui immagine ho incollato qui sopra, e poi al termine della stupefacente conquista delle regioni del regno borbonico dell’Italia meridionale. Ma la sua obbedienza non fu solo una questione militare: fu prima di tutto frutto di una valutazione realistica delle prospettive dell’unificazione nazionale e dello sviluppo di uno stato degli italiani che sostituisse il precedente pluralismo regionale, creando innanzi tutto un popolo capace di autogoverno, nelle forme democratiche all’epoca vigenti e concretamente possibili, alle quali egli stesso  partecipò vivacemente nel dibattito politico.
 Democrazia significa autogoverno del popolo: essa richiede la capacità culturale di elevarsi alla sovranità. Nel momento in cui si è deciso, anche in religione, tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo scorso, che non solo le persone di fede debbano sentire il dovere religioso di partecipare all’autogoverno della società in cui sono immerse, ma anche che i regimi democratici sono quelli preferibili per il governo delle società, è chiaro che, accanto al tradizionale tema della disciplina, dell’obbedienza, deve farsi strada quello del tirocinio all’autogoverno, ad essere sovrani nella società e ad esserlo collettivamente, secondo il metodo democratico incentrato sul dialogo. Non c’è altro modo, infatti, per influire efficacemente nello sviluppo di società democratiche. In quest’ottica, “la politica è la più alta forma di carità”, come insegnava il beato Giovanni Battista Montini. E,  non dimentichiamolo, fu san Karol Wojtyla  a insegnarci, con la sua lettera del 1991 in occasione dei cento anni dalla lettera del suo predecessore che aveva inaugurato il magistero sociale, che la democrazia è il regime preferibile, anche in un’ottica di fede.
 Nella prospettiva democratica, come sosteneva Lorenzo Milani,l’obbedienza non è più una virtù, se significa sottrarsi al compito della sovranità collettiva.
 La base del tirocinio democratico è la coscienza storica. Essa mi pare carente nella formazione religiosa di primo e secondo livello e anche in quella degli adulti e, in particolare, qui da noi. Questo significa che, poi, il rapporto della nostra gente di fede con la democrazia sarà piuttosto problematico. In ogni questione si andrà ansiosamente alla ricerca di una sorta di padre a cui sottomettersi, secondo un costume bimillenario in religione. Ma la scelta del padre, in mancanza di sufficiente memoria storica, avverrà con criteri superficiali, sulla base di apparenze di autorità, di forme luccicanti, di sicumere esibite, di conformismo collettivo o di puro legalismo.
 In religione ci troviamo a dover convivere con molti padri i quali pretendono obbedienza paternalistica. La democrazia però consiste in un certo senso proprio nel sindacare questa autorità paternalistica e, nella mentalità democratica, si vorrebbe riscoprire, nell’esercizio dell’autorità, il valore di una certa saggezza. I padri ce li troviamo davanti per ragioni per così dire  di natura, saggi invece si diventa e si deve essere riconosciuti.
71.7. In genere nelle nostra collettività di fede non sappiamo parlare efficacemente di libertà. Mettiamo subito le mani avanti, presentando tutti i guasti che la libertà produrrebbe. Questo ci impedisce di lasciarci coinvolgere nel pensiero democratico, che è centrato sull’idea di libertà. Non di rado si finisce per dire che l’unica vera libertà è nell’obbedienza a ciò che ordinano i nostri capi religiosi, anche se ciò viene presentato come obbedienza alla volontà divina. Purtroppo la storia ci insegna che questa soluzione non è stata sempre soddisfacente. E’ in questo senso che Lorenzo Milani scrisse chel’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.
   All’inizio ho incollato un’immagine della Statua della libertà, a New York. Ho ricordato che sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus:
“Datemi chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che si accalcano nell’anelito di libertà,
i  miseri rifiuti della vostre popolose terre.
 Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli sventurati,
innalzando la mia luce mostrerò loro la porta d’oro!”.
  Questa lirica rende bene, con forte impatto emotivo, il senso dell’azione di liberazione che è propria della democrazia e dell’idea democratica di libertà, presenti con molta forza nel pensiero che ispirò la rivoluzione americana del 1776, con esplicite radici di fede. E spiega perché, anche da cristiani, noi ci dobbiamo innamorare della libertà.
  In democrazia libertà significa libertà di essere giusti.  La giustizia sociale è al centro dell’idea democratica di libertà. Democrazia significa pensare, tutti insieme, con metodo basato sul dialogo, un mondo nuovo, in cui essere liberi di essere giusti. E’ questa la politica democratica. Che richiede di elevarsi dalla soggezione all’ingiustizia alla libertà di essere giusti. Il disegno preciso di questo mondo nuovo non c'è nelle nostre scritture sacre, che risalgono a tempi antichi, in cui l'idea di una democrazia di tutti non era stata ancora prodotta, anche se, in ambiente ellenistico, a cui però l'ebraismo delle origini cristiane era in genere ostile, la cultura possedeva varie teorizzazioni sulla democrazia. Nelle scritture sacre possiamo trovare principi di giustizia sociale e, innanzi tutto, l'idea di pari dignità degli esseri umani, creatiuguali, ma non la democrazia  di tutti come noi oggi la intendiamo. Ciò non significa che democrazia e fede non possano essere conciliate. La rivoluzione statunitense di fine Settecento dimostra proprio il contrario.
Libertà di essere giusti. Ma che cos’è questa giustizia?
 Riporto di seguito alcune righe che ci scrissi anni fa, prendendo spunto da una Giornata della memoria.
“Abbiamo molto sbagliato quando abbiamo fatto una politica cinica, cattiva, violenta. Questa è la politica dei despoti. Dobbiamo fare una politica che innanzi tutto rispetti gli infiniti mondi vitali, mio zio Achille ci scrisse un libro su, che sorreggono la nostra vita. Non escludere nessuno, non disprezzare nessuno. Ancora con Capitini: interessarsi sommamente a tutti, sperare che la realtà di tutti arrivi a tutti gli esclusi per guarirli; scoprire che c'è sempre una non violenza più autentica e che "ieri eravamo violenti". Capitini definiva questo come lavoro "religioso" perché ci mette in rapporto con una realtà sommamente amata e rispettata, una ricerca "sacra" perché comprende chi soffre e sta peggio di noi. Sulla via della più alta sovranità incontriamo l'esigenza della più alta giustizia.
  Io faccio parte di una genia di malvagi persecutori. Noi cristiani siamo stati ciechi per millenni. Seguaci di maestri ebrei, del fariseo Paolo di Tarso, abbiamo perseguitato l'ebraismo, disprezzato le sue sante tradizioni, i suoi riti, le sue consuetudini; abbiamo infierito in modo inaudito su quel mondo vitale sul quale nondimeno continuavamo a invocare benedizioni: "Gerusalemme siano rinforzate le tue porte e i tuoi bastioni, scorra in te latte e miele, siano salvate le tue madri, crescano forti i tuoi figli...". Questa la situazione in cui mi sono ritrovato, da cristiano. Ora che abbiamo finalmente iniziato a convertirci, noi cristiani, ora capiamo l'infinito amore che c'è dietro ogni gesto religioso dell'ebraismo, dietro ogni sua tradizione e preghiera, dietro ogni rito, e ci strazia l'orrore di quello che è stato fatto per tanto tempo. Il passato non può essere cambiato. Ma almeno per il presente e per il futuro, nei quali si può essere diversi, vorrei mostrare di aver imparato la lezione che ho ricevuto dalla storia e agire diversamente. "Teshuvà", pentimento e conversione. E invitare i miei compagni a fare altrettanto, quando insieme pensiamo a un mondo nuovo.
  Prima di compiere qualsiasi violenza, prima di cancellare sbrigativamente qualcuno dalla storia, prima di disprezzare qualsiasi consuetudine o idea delle quali magari non capiamo subito il senso, pensiamo bene se questa sia veramente la giustizia che ci serve per elevare "tutti" ad essere re. Tutti i giorni mi pare che non manchino occasioni per esercitare questa "pazienza", che significa apertura a tutti, aspirazione alla giustizia somma, lì dove misericordia e verità finalmente si incontrano e si baciano, come è scritto.”
  Una persona che rappresenta bene questi ideali democratici è il pastore battista statunitense nero Martin Luther King (1929-1968), il più noto esponente del movimento statunitense dei diritti civili degli anni Sessanta. Egli, seguace dell’ideologia non violenta teorizzata dall’indiano Ghandi, fu un disobbediente per amore di giustizia: questa fu la libertà che si prese.
71.8 L’esperienza del costituirsi di una collettività è vissuta spesso secondo due modalità: quella del ritrovare un padre e quella del trovare una persona da amare. Nelle nostre scritture sacre esse sono entrambe presenti, ma di solito la seconda è più difficile da vivere, e innanzi tutto da accettare, nelle nostre collettività di fede, secondo i modi religiosi che ci siamo costruiti. Questo accade fondamentalmente perché la nostra ideologia religiosa è prodotta da un ceto di maschi celibi che ambiscono al ruolo di padri e tendono a organizzare collettività paternalistiche.
 Nel tirocinio della democrazia occorre riscoprire  e rivivere quell’altra modalità, dell’amore.
 L’esperienza dello stato nascente è stata paragonata all’innamoramento, all’esperienza emotiva dell’innamoramento. E c’è molta emotività amorevole nell’esperienza della democrazia. Innanzi tutto ci si innamora dell’anelito di libertà, quindi della libertà, non vivendola più come peccato e fonte di disobbedienza. In democrazia, libertà significa libertà di pensare e costruire un mondo nuovo, in cui tutti vengano liberati dal bisogno, dall’ignoranza, dalla malattia, dalle discriminazioni su basi sociali ed economiche, dalla solitudine. E di farlo come lavoro collettivo, in cui sono coinvolte le moltitudini. Democrazia significa anche trovare e, innanzi tutto, accettare, moltissimi amici. Uscire da una condizione di schiavitù, di servaggio, esistenziale per entrare in una condizione amicale. “Vi ho chiamato amici”: riflettere a fondo sul senso di questo detto evangelico (Gv 15,15) può essere molto utile in un ragionamento sulla democrazia e le sue finalità. Esso è inserito in un brano  che tratta dall’agàpe, la forma di benevolenza sociale che è caratteristica delle nostre concezioni di fede e che ha il senso di accogliere gli altri in una piacevole convito. Gli amici non ce li troviamo imposti per natura, come i fratelli, ma ce li scegliamo. Le democrazie contemporanee si propongono di realizzare un’amicizia universale, di scegliersi come amica l'intera umanità, secondo una particolare concezione di pace che ha fatto breccia anche nel pensiero religioso, il quale  finalmente è giunto a riconoscervi le radici di fede.
 In democrazia si sogna innanzi tutto di essere liberi di avere tanti amici, di farsi tanti amici, di farsi amiche popolazioni di tutta la terra, senza discriminazioni. Un lavoro molto bello e appassionante, di cui ci si può e ci si deve innamorare. In democrazia ci si innamora di questa libertà: le catene che vengono simbolicamente infrante sono quelle della divisione e del pregiudizio verso gli altri.


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FINE