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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

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venerdì 15 giugno 2018

Un popolo incapace di compassione


Un popolo incapace di compassione

     Un popolo è fatto di moltitudini, difficile dire quale sia la sua volontà. Essa si manifesta in coloro che lo guidano e in democrazia le moltitudini ne hanno la responsabilità: devono saper essere, collettivamente, un limite politico agli abusi dei potenti. Nel popolo ci sono i buoni e i cattivi e c’è sempre una lotta tra gli uni e gli altri. Riconoscere qual è il bene e qual è il male e decidersi per il bene  è il lavoro di ogni giorno di ciascuno. E’ il tema della morale personale, ma anche di quella collettiva. Interagendo, le moltitudini creano la realtà dell’azione sociale, nella quale può prevalere il bene, ma anche il male se non viene contrastato efficacemente. In questo aiuta la religione. L’azione sociale è l’oggetto della dottrina sociale, l’insegnamento autorevole del papa e dei vescovi su quell'aspetto della vita umana. Ne trattano perché c’è un collegamento tra l’organizzazione della società e la religione. Scegliere il bene significa anche indirizzare la società verso certi valori, certi principi orientativi. In società la religione è ancora considerata un valore proprio perché è capace di orientare al bene. Il bene è la misericordia, la compassione.  Le società che ne sono incapaci sono sostanzialmente atee. Se la contrastano sono anche empie. A volte contrastano apertamente la religione, altre volte cercano di trovare con essa un accomodamento, in modo da avere da essa quella pietà che negano ad altri, in genere a chi sta peggio. Se la religione cede, diventa inutile, ma, di più, diventa empia anch’essa, una contraffazione dell’autentica fede. E questo anche se si è ancora capaci di proclamare i medesimi dogmi, che però perdono sostanza, rimangono solo parole, parole ipocrite.
  In fondo, sta in quello che ho scritto il problema della religione oggi in Italia. Sta diventando inutile, perché ci manifestiamo collettivamente privi di compassione. E’ per questo che la dottrina sociale, e l’azione politica che ne dipendeva, stanno diventando irrilevanti. E’ bruciante il contrasto tra gli alti principi ancora inutilmente proclamati dal papa e dai vescovi  e l’azione sociale come si va manifestando tra la nostra gente. Certo, collettivamente le persone realmente religiose sono ancora masse di una certa consistenza, ma appaiono confinate nei loro micro-mondi di prossimità e forse, quando si prospetta loro la visione di una nuova Gerusalemme, pregano che la loro realtà non sia mai sconvolta fino a tal punto. In quest’ottica la religione è più che altro medicina dell’anima e serve a sentirsi bene,  a posto. La tentazione tremenda è allora quella  di riconoscere francamente che, sì, tutti i critici della religione avevano e hanno ragione, nessuno è veramente capace di compassione e la nostra fede non è per questo mondo: ma, di più, ogni fede religiosa è inganno sociale e abbaglio individuale. Inganno innanzi tutto per chi sta peggio e confida religiosamente nella liberazione. E' ipocrita e inutile consolazione per chi si salva gettando a mare gli altri e vorrebbe tuttavia sentirsi riconoscere giusto, buon padre di famiglia.
  In questi giorni mia madre sta morendo in un letto di ospedale, non lontano da casa mia. E stata una persona molto, molto religiosa. Negli ultimi trent’anni  è vissuta pregando, in particolare il Rosario. Da lei ho appreso come essere persona di fede. Mi ha detto che sta dimenticando l’Ave Maria: è la conseguenza di un ematoma cerebrale che non si sa se potrà riassorbirsi o essere svuotato. Ha voluto che gli ricordassi quella preghiera e ieri pomeriggio l’abbiamo recitata insieme diverse volte. Ha il rosario tra le mani, quello stesso rosario che talvolta compare anche tra mani empie, di gente empia perché incapace di compassione. Quanti di quelli che strumentalizzano la nostra fede ricordano ancora l’Ave Maria? Ma il loro cattivo esempio non è nulla, per me, rispetto alla testimonianza di fede di mia madre che, giunta alla fine della sua vita, si abbandona alla sua fede di una vita, la mia stessa fede. C’è ancora qualcuno veramente capace di compassione tra noi. Basterà per salvare la società? Gli antichi temevano Nèmesi, la dea che dava agli ingiusti ciò che meritavano per la loro ingiustizia, il giusto castigo. Una società incapace di compassione cadrà vittima della sua stessa spietatezza. Nella Bibbia si narra che un destino simile ebbe Sodoma, nonostante l’intercessione di Abramo, persona pia.
  Leggo da una catechesi di Joseph Ratzinger - Benedetto 16° del 18 maggio 2011 che ho trovato sul WEB:
[http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347958.html]

 Il primo testo su cui vogliamo riflettere si trova nel capitolo 18 del libro della Genesi; si narra che la malvagità degli abitanti di Sodoma e Gomorra era giunta al culmine, tanto da rendere necessario un intervento di Dio per compiere un atto di giustizia e per fermare il male distruggendo quelle città.
  È qui che si inserisce Abramo con la sua preghiera di intercessione. Dio decide di rivelargli ciò che sta per accadere e gli fa conoscere la gravità del male e le sue terribili conseguenze, perché Abramo è il suo eletto, scelto per diventare un grande popolo e far giungere la benedizione divina a tutto il mondo. La sua è una missione di salvezza, che deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell’uomo; attraverso di lui il Signore vuole riportare l’umanità alla fede, all’obbedienza, alla giustizia. E ora, questo amico di Dio si apre alla realtà e al bisogno del mondo, prega per coloro che stanno per essere puniti e chiede che siano salvati.
  Abramo imposta subito il problema in tutta la sua gravità, e dice al Signore: "Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?" (vv. 23-25).
  Con queste parole, con grande coraggio, Abramo mette davanti a Dio la necessità di evitare una giustizia sommaria: se la città è colpevole, è giusto condannare il suo reato e infliggere la pena, ma – afferma il grande Patriarca – sarebbe ingiusto punire in modo indiscriminato tutti gli abitanti. Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono essere trattati come i colpevoli. Dio, che è un giudice giusto, non può agire così, dice Abramo giustamente a Dio.
  Se leggiamo, però, più attentamente il testo, ci rendiamo conto che la richiesta di Abramo è ancora più seria e più profonda, perché non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice, infatti, al Signore: "E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?" (v. 24b). Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva.
  Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli. Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia "superiore", offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti.
  È questa la richiesta di giustizia che Abramo esprime nella sua intercessione, una richiesta che si basa sulla certezza che il Signore è misericordioso. Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà. Certo Sodoma è una grande città, cinquanta giusti sembrano poca cosa, ma la giustizia di Dio e il suo perdono non sono forse la manifestazione della forza del bene, anche se sembra più piccolo e più debole del male? La distruzione di Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina. Abramo – come ricordiamo – fa diminuire progressivamente il numero degli innocenti necessari per la salvezza: se non saranno cinquanta, potrebbero bastare quarantacinque, e poi sempre più giù fino a dieci, continuando con la sua supplica, che si fa quasi ardita nell’insistenza: "forse là se ne troveranno quaranta… trenta… venti… dieci" (cfr vv. 29.30.31.32). E più piccolo diventa il numero, più grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio, che ascolta con pazienza la preghiera, l’accoglie e ripete ad ogni supplica: "perdonerò… non distruggerò… non farò" (cfr vv. 26.28.29.30.31.32).
  Così, per l’intercessione di Abramo, Sodoma potrà essere salva, se in essa si troveranno anche solamente dieci innocenti. È questa la potenza della preghiera. Perché attraverso l’intercessione, la preghiera a Dio per la salvezza degli altri, si manifesta e si esprime il desiderio di salvezza che Dio nutre sempre verso l’uomo peccatore. Il male, infatti, non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva (cfr. Ezechiele 18, 23; 33, 11); il suo desiderio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene.
  Ebbene, è proprio questo desiderio divino che, nella preghiera, diventa desiderio dell’uomo e si esprime attraverso le parole dell’intercessione. Con la sua supplica, Abramo sta prestando la propria voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio ha trovato in Abramo e nella sua preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di grazia. Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito.
  È questo che il Signore vuole, e il suo dialogo con Abramo è una prolungata e inequivocabile manifestazione del suo amore misericordioso. La necessità di trovare uomini giusti all’interno della città diventa sempre meno esigente e alla fine ne basteranno dieci per salvare la totalità della popolazione. Per quale motivo Abramo si fermi a dieci, non è detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo (ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male. Ma neppure dieci giusti si trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte. Una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d’intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. 
  Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: "La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio" (Geremia 2, 19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: "forse là se ne troveranno…". "Là": è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. È una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio. E nella realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava.
  Ma la misericordia di Dio nella storia del suo popolo si allarga ulteriormente. Se per salvare Sodoma servivano dieci giusti, il profeta Geremia dirà, a nome dell’Onnipotente, che basta un solo giusto per salvare Gerusalemme: "Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò" (5,1). Il numero è sceso ancora, la bontà di Dio si mostra ancora più grande. Eppure questo ancora non basta, la sovrabbondante misericordia di Dio non trova la risposta di bene che cerca, e Gerusalemme cade sotto l’assedio del nemico.
  Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è lui: bisogna però che Dio stesso diventi quel giusto. L’infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che "non sanno quello che fanno" (Luca 23, 34). Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita.
 Cari fratelli e sorelle, la supplica di Abramo, nostro padre nella fede, ci insegni ad aprire sempre di più il cuore alla misericordia sovrabbondante di Dio, perché nella preghiera quotidiana sappiamo desiderare la salvezza dell’umanità e chiederla con perseveranza e con fiducia al Signore che è grande nell’amore.

    Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è lui: bisogna però che Dio stesso diventi quel giusto.”: è questo il fondamento della nostra speranza anche in tempi bui come quelli che stiamo vivendo.
  Ricordo le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° in una storica omelia tenuta a Sarajevo, in Bosnia, al termine del massacro nazionale, il 13 aprile 1997:

«Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto» (1 Gv 2, 1).
1. Abbiamo un avvocato che parla a nome nostro. Chi è questo avvocato che si fa nostro portavoce? L'odierna liturgia offre una risposta esauriente: «Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto» (1 Gv 2, 1).
Leggiamo negli Atti degli Apostoli: «Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù» (At 3, 13). Egli è colui che è stato tradito e rinnegato dai suoi connazionali, persino quando Pilato voleva liberarlo. Essi chiesero che fosse graziato al suo posto un assassino, Barabba. In tal modo fu condannato alla morte l'autore della vita (cfr At 3, 13-15).
Ma «Dio l'ha risuscitato dai morti» (At 3, 15). Così parla Pietro che fu testimone diretto della passione, morte e risurrezione di Cristo. Come tale fu inviato ai figli di Israele e a tutte le nazioni del mondo. Nel rivolgersi ai propri connazionali, tuttavia, egli non soltanto accusa, ma anche scusa: «Fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi» (At 3, 17).
Pietro è testimone consapevole della verità sul Messia che, sulla croce, ha portato a compimento le antiche profezie: Gesù Cristo è diventato avvocato presso il Padre, l'avvocato del popolo eletto e di tutta l'umanità.
Aggiunge san Giovanni: «Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli infatti è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2, 1-2). Questa verità viene oggi a ripetervi il Successore di Pietro, giunto finalmente in mezzo a voi. Popolo di Sarajevo e di tutta la Bosnia ed Erzegovina, io vengo oggi a dirti: Tu hai un avvocato presso Dio. Il suo nome è: Gesù Cristo giusto!
2. Pietro e Giovanni, come pure gli altri Apostoli, divennero testimoni di questa verità, poiché videro con i loro occhi il Cristo crocifisso e risorto. Si era presentato in mezzo a loro nel Cenacolo, mostrando le ferite della passione; aveva permesso loro di toccarlo, affinché potessero convincersi dal vivo che egli era quello stesso Gesù che avevano prima conosciuto come "il Maestro". E per confermare fino in fondo la verità sulla sua risurrezione, egli ha accettato il cibo che gli avevano offerto, mangiandolo con loro come aveva fatto tante volte prima di morire.
Gesù aveva conservato la propria identità, nonostante la straordinaria trasformazione operatasi in lui dopo la risurrezione. E quella identità conserva tutt'ora. Egli è lo stesso oggi come ieri e rimarrà il medesimo per i secoli (cfr Eb 13, 8). Come tale, come vero Uomo, è, presso il Padre, l'avvocato di tutti gli uomini. Anzi, è avvocato di tutta la creazione da lui e in lui redenta.
Egli si presenta davanti al Padre come il testimone più esperto e più competente di quanto, mediante la croce e la risurrezione, si è compiuto nella storia dell'umanità e del mondo. Il suo è il linguaggio della redenzione, cioè della liberazione dalla schiavitù del peccato. Gesù si rivolge al Padre come Figlio consustanziale, ed insieme come vero uomo, parlando il linguaggio di tutte le generazioni umane e di tutta la storia umana: delle vittorie e delle sconfitte, di tutte le sofferenze e di tutti i dolori dei singoli uomini ed insieme dei singoli popoli e nazioni di tutta la terra.
Cristo parla con il vostro linguaggio, cari Fratelli e Sorelle della Bosnia ed Erzegovina, così a lungo e dolorosamente provata. Egli ha detto: "Sta scritto: il Cristo dovrà patire"; ma ha aggiunto: "Dovrà risorgere dai morti il terzo giorno . . . Di questo voi siete testimoni" (Lc 24, 48-49). Abitanti di questa terra provata, coraggio! Voi avete un avvocato presso Dio. Il suo nome è: Gesù Cristo giusto!
3. Sarajevo: città divenuta un simbolo, in un certo senso il simbolo del ventesimo secolo. Nel 1914, al nome di Sarajevo venne a legarsi lo scoppio del primo conflitto mondiale. Al termine di questo stesso secolo, al nome di questa città si è unita la dolorosa esperienza della guerra che, nel corso di cinque lunghi anni, ha lasciato dietro di sé in questa regione una impressionante scia di morte e di devastazione.
Durante questo periodo, il nome di questa città non ha cessato di occupare le pagine della cronaca e di essere tema di interventi politici da parte di capi delle nazioni, di strateghi e di generali. Il mondo intero ha continuato a parlare di Sarajevo in termini storici, politici, militari. Anche il Papa non ha mancato di levare la sua voce su tale tragica guerra e più volte e in diverse circostanze ha avuto sulle labbra e sempre nel cuore il nome di questa città. Già da alcuni anni egli desiderava ardentemente di poter venire di persona tra voi.
Oggi finalmente il desiderio s'è avverato. Sia ringraziato il Signore! La parola con cui vi porgo il mio saluto affettuoso è la stessa che Cristo rivolse, dopo la risurrezione, ai discepoli: "Pace a voi" (Lc 24, 26). Pace a voi, uomini e donne di Sarajevo! Pace a voi, abitanti della Bosnia ed Erzegovina! Pace a voi, Fratelli e Sorelle di questa amata terra!
[…]
  La pace che Gesù dona ai suoi discepoli non è quella imposta dai vincitori ai vinti, dai più forti ai più deboli. Essa non trova la sua legittimazione sulla punta delle armi, ma, al contrario, nasce dall'amore. Amore di Dio per l'uomo e amore dell'uomo per l'uomo. Risuona forte oggi il comando di Dio: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore . . . amerai il prossimo tuo come te stesso" (Dt 6, 5; Lv 19, 18). Su questi saldi presupposti si può consolidare ed edificare la pace raggiunta. E "beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5, 9).
Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina, hai un avvocato presso Dio, Gesù Cristo giusto!
4. Come servitore del Vangelo, il Papa, in unione con i Pastori della Bosnia ed Erzegovina e con tutta la Chiesa, vuole svelare una dimensione ancora più profonda che si cela nella realtà della vita di questa regione, della quale il mondo intero si occupa da anni.
Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina, la tua storia, le tue sofferenze, le esperienze dei trascorsi anni di guerra, che speriamo non tornino mai più, hanno un avvocato presso Dio: Gesù Cristo, il solo Giusto. In Lui, hanno un avvocato presso Dio i tanti morti, le cui tombe si sono moltiplicate su questa terra; coloro che sono rimpianti dalle madri, dalle vedove, dai figli rimasti orfani. Chi altro può essere, presso Dio, avvocato di tutte queste sofferenze e di tutte queste prove? Chi altro può leggere fino in fondo questa pagina della tua storia, Sarajevo? Chi può leggere fino in fondo questa pagina della vostra storia, nazioni balcaniche, e della tua storia, Europa?
Non si può dimenticare che Sarajevo è diventata simbolo della sofferenza di tutta l'Europa in questo secolo. Essa lo è stata all'inizio del Novecento, quando la prima guerra mondiale ebbe qui il suo inizio; lo è stata in un modo differente la seconda volta, quando il conflitto si è consumato totalmente in questa regione. L'Europa vi ha preso parte come testimone. Ma dobbiamo domandarci: testimone sempre pienamente responsabile? Non si può eludere questa domanda. Occorre che gli statisti, i politici, i militari, gli studiosi e gli uomini della cultura cerchino di darvi una risposta. L'auspicio di tutti gli uomini di buona volontà è che quanto Sarajevo simboleggia rimanga confinato nell'ambito del ventesimo secolo, e non abbiano a ripetersi le sue tragedie nel millennio ormai alle porte.
5. Per questo volgiamo lo sguardo con fiducia alla divina Provvidenza. Preghiamo il Principe della Pace, per intercessione di Maria sua Madre, così amata dai popoli dell'intera regione, perché Sarajevo diventi per tutta l'Europa un modello di convivenza e di pacifica collaborazione fra popoli di etnie e religioni diverse.
Riuniti nella celebrazione del sacrificio di Cristo, non cessiamo di ringraziare te, Città così provata, e voi, Fratelli e Sorelle che abitate questa terra di Bosnia ed Erzegovina, perché in qualche modo, con il vostro sacrificio, vi siete assunti il peso di questa tremenda esperienza, nella quale tutti hanno la loro parte. A voi ripeto: Abbiamo un avvocato presso Dio, è Cristo, il solo Giusto.
Davanti a te, Cristo crocifisso e risorto, si presentano oggi Sarajevo e tutta la Bosnia ed Erzegovina, con il pesante bilancio della sua storia. Tu sei il nostro grande avvocato. Questa umanità Ti invoca affinché Tu permei la dolorosa storia qui vissuta con la potenza della tua redenzione. Tu, Figlio di Dio incarnato, come Uomo cammini attraverso le vicende degli uomini e delle nazioni. Cammina attraverso la storia di questa gente e di questi popoli più strettamente legati al nome di Sarajevo, al nome della Bosnia ed Erzegovina.
6. Carissimi Fratelli e Sorelle! Quando nel 1994 desideravo intensamente venire qui tra voi, facevo riferimento ad un pensiero che s'era rivelato straordinariamente significativo in un momento cruciale della storia europea: «Perdoniamo e domandiamo perdono». Si disse allora che non era quello il tempo. Forse che quel tempo non è ormai giunto?
Ritorno oggi dunque a questo pensiero e a queste parole, che voglio qui ripetere, affinché possano discendere nella coscienza di quanti sono uniti dalla dolorosa esperienza della vostra città e della vostra terra, di tutti i popoli e le nazioni dilaniate dalla guerra: «Perdoniamo e domandiamo perdono». Se Cristo deve essere il nostro avvocato presso il Padre, non possiamo non pronunciare queste parole. Non possiamo non intraprendere il difficile, ma necessario pellegrinaggio del perdono, che porta ad una profonda riconciliazione.
«Offri il perdono, ricevi la pace», ho ricordato nel Messaggio di quest'anno per la Giornata Mondiale della Pace; ed aggiungevo: «Il perdono, nella sua forma più vera e più alta, è un atto d'amore gratuito» (cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace, 8 dic. 1996: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIX, 2 (1996) 933), come lo fu la riconciliazione offerta da Dio all'uomo mediante la croce e la morte del suo Figlio incarnato, il solo Giusto. Certo, «il perdono, lungi dall'escludere la ricerca della verità, la esige», perché «presupposto essenziale del perdono e della riconciliazione è la giustizia» (Ibid.). Ma resta sempre vero che «chiedere e donare perdono è una via profondamente degna dell'uomo» (Ibid., 4).
7. Mentre oggi appare chiaramente la luce di questa verità, 
i miei pensieri si rivolgono a Te, Madre di Cristo crocifisso e risorto,
 
a Te che sei venerata e amata in tanti santuari di questa terra provata.
Impetra per tutti i credenti il dono di un cuore nuovo!
 
Fa' che il perdono, parola centrale del Vangelo, divenga qui realtà.
 
Saldamente aggrappata alla croce di Cristo,
la Chiesa riunita oggi a Sarajevo Ti chiede questo,
 
o Clemente, o Pia,
 
Madre di Dio e Madre nostra,
o dolce Vergine Maria!
Amen.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli