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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

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martedì 27 marzo 2018

estratto da: Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957, pagg.191-202


estratto da: Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957, pagg.191-202, attualmente in commercio, €19,00

«O se siete voi stessi a dirmi sempre come mi disse quel gesuita: “Parli troppo alto per il tuo popolo. Il popolo non è capace di distinguere né di ragionare e così la tua parola porta più confusione che chiarezza”.
 Un’affermazione che potrà anche essere vera, ma io rifiuto di adattarmi alla mentalità che l’ha generata. Una mentalità di resa, di accettazione passiva di uno stato di fatto che ognuno ha compreso, ma che ha ormai archiviato come cosa di ordinaria amministrazione: il popolo è inferiore, il popolo è infante, per parlargli bisogna abbassarsi a lui, scaldargli la pappina perché non ha denti per il Pane. A un popolo che è cristiano da 20 secoli volete parlare come S.Paolo a città evangelizzate da pochi giorni? e volete evangelizzarlo stando al piano di sopra? e vi meravigliate se poi il popolo non accetta questa degnazione?
 Ma state tranquilli, non sarò io a consigliarvi di scendere a lui. Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà con pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo.
 Ma prima di entrare sull’argomento sentite ancora quel che mi scrive un prete di montagna:
 “…i cittadini li spregiano e hanno quasi ragione perché sono spregevoli perfino a me che sono il loro prete e li amo solo perché me la prendo col mondo e non con loro se sono così.
 Me la prendo con la storia, coi secoli, col dislivello culturale, con la società che ne è responsabile e così riesco a perdonarli, a aver pietà di loro, a amarli come si amano dei poveri malatini, degli infelici da Cottolengo in cui si stenta a riconoscere il volto umano. Come si ama un animale domestico. Sì, m’è scappato detto ormai e lo ripeto: come animali inferiori.
 A vivere nella solitudine, senza il contrappeso della cultura o del pensiero o di un’intensa spiritualità, sono diventati davvero animali inferiori.
 E se anche questa parola pare una bestemmia al nostro esser tutti figlioli di uno stesso Padre, lo dico per esprimere quanto l’immagine divina sia seppellita in loro sotto un cumulo di sovrastrutture che non sono né divine né umane.
 Io non te li posso neanche descrivere perché sono indescrivibili e perché li amo troppo.
 Dovresti vederli lì impalati sul sagrato della chiesa, tutti ripicchiati nei vestiti nuovi, tutti impensieriti per la piega dei calzoni e dei capelli tutti intenti a studiare i gesti degli altri per non farne uno di più o uno di meno.
‘Perché siete venuti stasera?’.
‘Non ci vuole a vespro?’.
‘Ma perché proprio stasera?’.
 Lo sanno, ma non rispondono. Son venuti perché oggi è il titolare e tutti vengono dunque bisogna venire.
‘Ma che vu gli fate a Dio, voi che mancate sempre alla Messa? Venite a un vespro solo perché vengon tutti? Ma  decidetevi una volta per sempre! Siete giovani!  Vorreste diventare anche voi come i vostri babbi, come i nonni, come da mill’anni fanno i vostri nonni; quel che fanno gli altri e basta, non un capello di più non uno di meno. Siete cristiani o non siete?’
‘O non siamo cristiani? Che siamo? Ebrei?’
 E’ una risposta buttata lì che non è una risposta, è un rifiuto di ragionare, di scendere da quella piattaforma ormai intoccabile. Posso parlare per ore, posso dire cose appassionate da far venire i bordoni giù per la schiena.
 I volti gelidi mi dicono che le mie parole non passano neanche la soglia delle orecchie.
 C’è di mezzo un rifiuto preconcetto all’ascolto, al ragionamento, alle decisioni.
 Non sono uomini e non vogliono esserlo.
 Alla loro età i giovani operai sono capaci di aprirsi a tutto, ma soprattutto al pentimento dei propri peccati oppure ai problemi sociali.
 In montagna il muro.
 E’ cosa che tra i preti si sente lamentare da per tutto.
 Tutti sanno che se un prete di città si trovasse in una qualsiasi chiesa di montagna a confessare i giovani e facesse loro la più pudica domanda oltre il terzo Comandamento, guai a lui.
 A lui i giovani risponderanno di no, che tutto va bene, che hanno già detto tutto, fingeranno  perfino di non capire cosa voglia dire, lo faranno passare da imbecille, da patologicamente curioso.
 A casa poi lo bolleranno: ‘Da quel prete non mi confesso più, vuol saper troppe cose’. Ma a lui così non diranno mai e a confessarsi torneranno egualmente.  E seguiteranno a fissarlo coi loro occhi gelidi, impenetrabili come se lo giudicassero. Occhi che non s’abbassano, occhi senza pudore, senza dolore, senza esame di coscienza, occhi a muraglia.
 E se il prete sarà costretto a battere in ritirata, a vergognarsi d’aver osato, a domandarsi se forse non possa esser vero, se forse la montagna non sia un’isola di purezza in un mondo impuro, per poi venire a sapere il giorno dopo le più turpi cose dalle chiacchiere dei bambini, dagli incidenti estremi, dalle chiacchiere di chi vuol vendicarsi di un vicino. Tutta la rosa dei peccati è rappresentata sui monti, dai più patologici ai più normali, in tutte le età, in tutte le famiglie.
 E il prete lì in quella bara che è un confessionale dove non palpita la vita vera di nessun peccatore. Dove ognuno che viene dice solo: ‘Ho mandato quale ‘resia, ho perso qualche Messa’ ed è lo stesso come se venisse a gridargli in faccia:‘Non credo in Dio, non credo in questo Sacramento, non me ne importa di esser perdonato, non penso di aver nulla da farmi perdonare, non mi fido di te, ti confesso le bestemmie perché le bestemmie sono cosa insignificante, ma non ti confesserò nulla che sia vita mia vera di quella che mi preme e che non deve interessare né a te né a Dio, vengo perché son sempre venuto, vengo perché a Pasqua bisogna venire, vengo blindato, impenetrabile, non mi scoscenderai neanche con le mine’.
 Ah sapessero almeno fare questo discorso crudele. Sapessero  farlo almeno dentro di sé, ma non sanno. Son muti anche con sé stessi. Infelici!
 E noi bisogna insaccare il capo e tacere, bisogna rincantucciarsi nella preghiera, nell’esame di coscienza nostro, ripetere al Signore la nostra fede nella libertà dell’uomo, nella libertà della Grazia di Dio, nella nostra incapacità a comprendere il mistero della salvezza individuale in cui Dio solo legge.
 Bisogna stare in confessionale come sta un certosino nella sua cella, a esercitarvi l’identico lavoro di distacco dalle cose terrene, dalla pretesa di intervenire  terrenamente  nelle cose terrene, dalla pretesa di conoscere qualcosa, oppure di pensar qualcosa o di decidere qualcosa o di fare qualcosa.
 Sì, così facciamo perché siamo buoni, ma possibile che Dio ci chieda questo solo? Possibile che ci vesta da parroci per poi volerci trappisti? Che ci metta in mano dei mezzi solo perché si rinunzi a usarli?
  Non c’eri te quel giorno del Corpus Domini alla Messa delle 11 quando col cuore ormai colmo di sofferenza e di affetto parlai al mio popolo.
 Dissi parole che i loro bambini intendevano a una a una e nel loro insieme. Non parlai un linguaggio da intellettuale o indecifrabile. Mi credi tanto stupido e tanto letterato da non sapere (dopo anni che vivo tra loro) allineare solo parole facili, aperte, senza segreti, senza pretese. Parole che non suppongono altra cultura precedente. Parole identiche a quelle che essi si scambiano tra loro tutti i giorni per parlar di vacche, del campo e della casa. Alcuni mi hanno inteso infatti e m’hanno odiato. Altri non potevano neanche intendermi, poveretti. Intendevano le singole parole e le singole proposizioni. Ma concatenarle in mente, seguire un filo di pensiero, questo è un’altra cosa.
- ‘Prendete e mangiate’ vuol dire far la Comunione.
‘Fate questo per ricordo di me’ vuol dire Messa.
Messa e Comunione le due cose che voi lasciate sempre, o quasi, le ha comandate il Signore chiaro chiaro.
 Della Processione il Signore non ha parlato. E’ un’invenzione d’uomini. Una piccolissima cosa. Non  è necessaria. Non è nulla a petto di quell’altre due. Ecco voi ora volte ancora una volta venire  in massa alla Processione. Volete parteciparvi in cappa, portare i segni e il baldacchino, volete far atti di onore al Signore, a quel Signore che vi rifiutato poi di obbedire nelle più semplici e serie cose.
‘Prendete e mangiate’. ‘No’.
‘Chi non mangia il mio Corpo non avrà la Vita Eterna’. ‘Non ce ne importa’.
‘Fate questo  in ricordo della mia morte per voi’.
‘No, non ci s’ha usanza, si passerebbe per strani. Noi si vien la sera in cappa a reggere lo stendardo e gli altri segni’.
 Ma figlioli, io n on vi chiedo poi tanto. Non  vi chiedo di venire a confessarvi, non vi chiedo di fare la Comunione, non vi chiedo di venire a Messa.
 Siete adulti, se queste cose non vi vanno, se non le intendete, girate al largo.
 A me col venirci, finché non le intendete, non fate piacere certo. Al Signore nemmeno, io credo.
 E dunque fatemi solo questo di non venire neanche a turbarmi la pace della Processione. Lasciatemici andare coi vostri bambini che son fratelli miei davvero e m’intendono.
 Lo stendardo se non lo porterete lo lasceremo lì al muro. Domani quando i vostri bambini saranno più grandi e lo potranno, lo porteranno loro.
 Per ora lasciateci girare così per questi boschi senza stendardo e senza baldacchino, soli, pochi, piccini, ma cristiani.
 Io e loro che amiamo il Signore, e che osserviamo per quanto possiamo i suoi grossi comandamenti. O per lo meno: che desideriamo osservarli, e ci pentiamo quando non ci riesce e si cerca nei Sacramenti il suo perdono. Lasciateci in pace a compiere con gioia anche questa cosa che il Signore non ci aveva chiesta, ma che noi gli regaliamo in più  come segno d’affetto-.
 Mi rispondono con l’unica parola che sanno dire: il broncio.
 Un broncio, cieco sordo e muto.
 E poi con quell’altra arma segreta di chi non sa parlare: il fatto compiuto. Preparare ogni cosa, anche le cose più semplici, nell’ombra del segreto e poi farla di sorpresa e attendere che tu la sappia da altri o che tu la veda da te quando ormai non c’è più nulla da farci e le lagnanze e le parole che tu potrai dirci sopra con la tua arte infernale batteranno in un muro solido come l’acciaio: è tardi. Il fatto compiuto. L’arma del gatto. L’arma degli infelici.
 Per esempio quella sera, dopo un discorso così chiaro e così offensivo, quando ti saresti atteso un deserto in processione, invece erano lì, s’erano spartiti le cariche come sempre, s’erano messe le cappe. Non ne mancava uno. Non ce ne fu uno che stesse a casa anche solo a mostrarmi che la mia parola, di bene o di male che fosse, avesse mosso o cambiato qualche cosa. Guai se la parola avesse questo potere! Dove mai s’andrebbe a finire?
 Ma fosse tutto qui il male, fossero chiusi solo al pensiero e avessero un cuore traboccante d’amore.
 Ma non hanno neanche questo. Son chiusi in sé stessi, nell’egoismo più elementare. L’egoismo dell’infante e della belva. L’egoismo che giunge all’amore per i figlioli. Ci giunge per istinto come nel bruto. Non conosce l’amore per altri. Neanche per i genitori.  Perché in questo l’istinto vale poco (e difatti c’è occorso un comandamento, mentre sull’amore materno un comandamento sarebbe parso superfluo anche a un’elefantessa).
 Questo egoismo da giungla è tutto ciò che si può trovare in un uomo quando non l’ha raggiunto l’influsso vivificatore della parola, cioè del mezzo per ricevere l’apporto dei suoi simili e soprattutto quello dei suoi simili migliori di lui e più ancora quello di Un suo Simile che è Parola e che s’è fatto Carne cioè Parola Incarnata per essere Parola più convincente. E che poi ha posto un Libro come fondamento della nostra elevazione e un Magistero per l’interpretazione di quel Libro e poi dei Sacramenti che sono in sé stessi più che quel Libro e più che quel Magistero, ma che pure non si possono affrontare neanche loro senza l’anticamera della Parola (e del catechismo).
 Da tutto questo son tagliati fuori questi infelici e non solo per il loro non posseder la parola abbastanza (insisto però su questo concetto, perché son sicuro che proprio manca loro materialmente un possesso sufficiente della parola), ma soprattutto per non volerla possedere, per non volerle dar luogo nella vita, per non aver conosciuto la sua dignità vivificatrice, la sua capacità di piegare, di trasformare, di costruire.
 Forse nel subcosciente ognuno di loro sa cos’è la parola e la ragione e forse ha indovinato anche troppo ciò che la ragione può far nascere in lui.
 Forse ha già capito che se le aprisse l’anima, se la lasciasse penetrare fino a quel recondito regno dell’io dove si prendono le decisioni di vita, allora dal primo giorno in poi gli toccherebbe  differenziarsi dai suo vicini, per esempio mutare atteggiamento di fronte ai Sacramenti, oppure di fronte ai divertimenti o alla politica, fare, dire, pensare qualcosa che gli altri nel popolo non pensano, non dicono, non fanno.
 E questo gli fa paura. Perché sa che per differenziarsi occorre poi posseder la parola in modo da potersi difendere. Non sarà più come ora che fa come tutti e quindi vive proprio bene anche muto e bendato.
 Tra loro, per aver osato parlare, son guardato come un intruso. Uomo senza tatto, né gusto, né discernimento, né educazione. Un uomo che vuol parlare, un uomo che pretende che le parole corrispondano al pensiero, che costruiscano cose, che trasformino situazioni, persone, idee, usanze, turbino equilibri secolari.
Mi sopportano solo per la passione che hanno perché i loro figli vengano a scuola. Passione che è l’unico aspetto ancora umano in loro e che non cade solo perché è abbarbicata in quell’altra passione, superiore a ogn’altra, del voler scappare dai monti e rifarsi una parità sociale.
 In una famiglia modello, l’unica del popolo in cui si dica ogni sera la Corona, dove c’è una vecchietta che va a Messa ogni giorno e c’è santi a tutte le pareti (specialmente nella stalla), dove si sa storie di preti e di uffizi e si conosce i priori e i poderi di decine di chiese, dove però la Comunione è ridotta ferramente alla Pasqua e la confessione s’intende solo per quella; in questa diabolica famiglia mi provai a far notare garbatamente qualcosa.
 Mi risposero con freddezza aggressiva:
‘La nostra famiglia è rammentata da per tutto per cristiana. Lei vada da tutti i preti che ci hanno conosciuto nel Firenzuolino e da per tutto dove siamo stati. E le diranno chi siamo noi e chi erano i nostri nonni. Tutti cristiani dei primi in tutte le chiese. Ma in tant’anni che frequento la chiesa io un’osservazione da un prete non l’avevo avuta mai’.
 Vorrebbero ridurti a un funzionario.  non sopportano che tu sia uomo, non sopportano che tu voglia intervenire nel tran tran della vita, che tu voglia smuovere le cose ferme. sovvertire un ordine che si son dati e che di cristiano non ha più nulla.
 Si, insisto. Nulla. Perché cosa ci può essere  di cristiano là dove si rifiuta al prete questo diritto di avvertire, di parlare, di scuotere? Ma che dico al prete. Là dove si rifiuta alla Parola di penetrare. E al pensiero, alla ragione. Dove  si rifiuta alla Religione stessa d’entrare nei fatti della vita.
 Cos’ha di cristiano una fede che osserva il rito (e non tutto) e poi fuori di quello non vuol essere turbata in nulla? Non è questa la fede degli egiziani e dei romani? Fede in Dio senza addentellati in nessun comandamento di vita, ma solo in comandamenti di rito.
 Hanno votato per il comunismo. E i preti sono cascati dalle nuvole. E’ parso loro un mostro improvviso, imprevedibile, inspiegabile. Han pensato che certo deve essere venuto da fuori con diaboliche arti.
 Macché! Macché da fuori. Macché nuovo. Era da secoli che il loro cuore si rifiutava a qualsiasi intervento del Cristo e della Chiesa nella loro vita e ora ci meraviglieremo per questa pisciatella che è un voto?
 Fosse tutto lì il male. E invece non è che un campanello che ci avverte di cose che bastava aprir gli occhi per vederle già da tanto tempo nude e crudeli distese quotidianamente dinanzi ai nostri occhi.
 Quando un uomo viene a ‘confessarsi’ e si rifiuta di confessarsi. Quando questo rifiuto è così profondo che non c’è neanche da provarsi a interrogare perché sappiamo benissimo che non solo non confesserà i suoi peccati, ma che non si sentirà in colpa, neanche avrà quel tono umile di chi sa di aver sbagliato due volte una volta nel peccato e la seconda nel negarlo. Quando sappiamo invece che si sentirà interiormente sicuro di sé, giudice del pretino ficcanaso, parte offesa da questa curiosità ingiusta su cose che appartengono al regno intoccabile dei ‘fatti suoi’ dei fatti che non deve conoscere nessuno all’infuori di eventuali complici. Quando manca ancora anche il primo gradino del pentimento cioè il concetto di peccato (il sentirsi creatura di Un Altro che ha diritto di pórci legge e potere di punirci), quando manca interiormente anche il senso del dovere d’arrendersi a chi ci ha creati, d’umiliarsi a una volontà che è diversa, anzi spesso in contrasto, con l’usanza d’altri. Quando s’è interiormente giurato di non umiliarsi a nessuna altra legge che che quella che pone l’usanza del prossimo e che  è l’unica legge che non è ‘strana’ perché  è la legge di tutti. Quando un uomo incolto sa per sua esperienza (o crede di sapere) che tutti i diciottenne vanno in determinati luoghi, che tutti i fidanzati fanno determinate azioni, che tutti gli sposi fanno altre determinate azioni, che tutti i commercianti  dicono determinate bugie, che tutti gli uomini agiscono solo per un determinato loro interesse, allora chiama legge tutto questo  e stranezza una legge che con tutto questo contrastasse.  Allora penserà che il prete predica  quest’altra strana legge solo per dovere professionale, ma senza la minima convinzione, perché è un uomo  di mondo anche lui e sa bene che il mondo non è al quel modo. Quando un uomo ‘ragiona’ così, cioè non ragiona e non si vede spiragli per cui farlo salire a un’atmosfera più respirabile per noi, allora non bisogna confessarlo, né chiamarlo a una predica, né dargli in nessun modo la tessera di cristiano, né illuderlo in nessun modo che tra lui e la Chiesa, tra lui e Dio  ci sia possibilità di accomodamento. Perché accomodamento non di sarà se non nel miracolo.
Ma quando parroci, cioè corresponsabili terreni di questo groviglio di irrazionalità ci presenteremo a Dio a chiedergli il miracolo della conversione dei contadini, non ci sentiremo forse rispondere che il miracolo verrà per i contadini innocenti perché bestioni, perché incapaci di rendersi conto di qualcosa, ma non verrà per il prete che ha avuto inestimabili doni di intelligenza e di parola e di cultura e non li ha usati per farne parte ai bestioni né per correggere il proprio agire pastorale?
 Concludendo: io non sono fratello di gente che si fa un’etica della bugia, della chiusura, del rifiuto del ragionamento, dell’abbassarsi metodico alle usanze, all’eguaglianza col prossimo. Di gente che vive nel terrore dei vicini, di gente che non sa, non dico fare, ma neanche seguire un ragionamento filato e perciò ignora ogni principio fuorché quell’unico principio di far come gli altri. Di gente per cui in predica io non posso neanche usare l’aulica formula cappuccinesca: ‘Fratelli,  i nostri peccati…’. Quali? Io non ho peccati in comune col mio popolo. I miei peccati e i suoi non sono neanche parenti. I suoi atti non sono né bene né male. Non sono nulla.
 Tra una gente senza dolore dei propri peccati, anzi peggio tra una gente senza peccati e me non c’è nulla in comune e ci manca anche il linguaggio  col quale qualcosa di comune se non c’è si crea.
 Ora, se questo qualcosa di comune si dovrà creare, io mi rifiuto di crearlo al loro livello.
 Son loro che devono diventare miei simili e miei pari.
 Ecco perché per ora non faccio con convinzione altro che scuola.
 Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli indotti pecorai di questi monti.
 E’ che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intenderli. Dopo poi potranno fare il diavolo se vorranno: buttarli dalla finestra o mettersi nel cuore, s’arrangino, se sceglieranno male sarà peggio per loro.
 Ma qui è diverso. Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato loro la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno suola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale.
 Domani poi, tra questi sordomuti ritornati alla luce della parola, ci saranno santi e dannati. E quel giorno la responsabilità della salvezza ricadrà su ognuno di loro come è nell’economia normale della Salvezza. Ma se invece mi rifiuto di creare questo ponte, allora per loro non ci sarebbe che il Limbo dei bambini e per me il castigo di chi non ha fatto il suo dovere.
 Lo stesso avviene quassù in montagna: con la scuola non li potrò fare cristiani, ma li potrò fare uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti e 1000, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi. Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati nel mio popolo, ma del numero degli evangelizzati. Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare ed io non me la sento di dirgli che ho predicato quando ho la certezza che per ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili, parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare.
 Anche i miei predecessori lo sapevano e han seguitato ugualmente a parlare al muro che si vedevano intorno. Hanno sperato di potersi presentare al Signore con titolo legale: ’Ho predicato a dei battezzati, non mi hanno ascoltato’.
 Mi dispiace di aver dovuto toccare questo tasto delicato e crudele, ma bisogna ben chiarire le cose con freddezza di chirurgo. Auguro loro che Dio li accolga nella sua infinita misericordia e si contenti. Ma non mi contenterò io, dinanzi a lui, ormai che ho inteso, di un gioco di parole e di legalità osservate di cui la mia coscienza d’uomo, di cristiano e di sacerdote non si appaga.
 Dopo queste premesse mi pare di poter dire che la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti metodi possibili, ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più né meno di quel che non sia la parola per i missionari dell’istituto Gualandi o la lingua per i missionari in Cina.
 Domani invece, quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un rettorico senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza d’interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti.
 Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso  di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nella scuola (Nota :Ho detto hic et nunc e nulla più. Quelli dunque che hanno popoli diversi in cui i problemi si presentano in modi diversi mi lascino dire. Ciò che dico servirà per quelli che intravedono nel loro popolo situazioni analoghe a questa).
  E credi, non è più solo un progetto o una speranza. Ho già visto qualcosa. In questi pochi anni da che son qui, la scuola ai giovanotti ancora brancola nel buio di una distanza secolare di civiltà diverse. Ma coi bambini è un’altra cosa.
 Con loro parlo ormai davvero come a miei pari. E non c’è cosa ch’io voglia dir loro  alta o bella o nuova e ch’io non riesca a far giungere alle loro menti. E non c’è cosa che abbiano in mente e che non riescano a spiegarmi.
 Tre anni di grammatica e di lingua con loro mi son bastati. E ora vibrano a tutto quel che pare a me, alla cultura, al pensiero, alla fede.
 E già guardano i loro genitori con una pietà accorata di giudici e di superiori. Si sono affacciati ormai al mio mondo, sono ormai di quelli che la tua ispettrice chiama ‘spostati’. Sì, spostati ormai per tutta la vita, non torneranno più indietro”.»