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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

giovedì 5 novembre 2020

Cataldo Zuccaro - "La centralità dell'amore nella vita del cristiano" - Meic Gruppo Uniroma 1 26-11-09

 

MEIC Gruppo Uniroma 1

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Incontro tenutosi giovedì 26 novembre 2009, ore 18:30-20:15, presso la sala grande della Cappella Universitaria dell’Università “La Sapienza”  sul tema:“La centralità dell’amore nella vita del cristiano”.

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Relatore l' Assistente Nazionale del MEIC, prof. Cataldo Zuccaro - Rettore della Pontificia Università Urbaniana


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Mediante la  mailing list del gruppo, è stato inviato ai soci il codice di accesso per la riunione in Meet del 14 novembre, alle ore 17 

A questo indirizzo di You Tube

https://www.youtube.com/watch?v=GorIYoaHGjk

abbiamo inserito un video che spiega come accedere.

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 Di seguito trovate:

A)i miei appunti sull’incontro, quindi sulla relazione, sugli interventi e sulle repliche del relatore. I testi non sono stati rivisti dal relatore e dagli intervenuti. Don Zuccaro prima dell’incontro ha consegnato al presidente del gruppo un testo scritto della sua relazione. Nell’esposizione discorsiva è stato più sintetico e ha utilizzato un lessico meno specialistico: la lettura dei miei appunti consentirà, credo, di rendersi conto più facilmente delle argomentazioni proposte e servirà come introduzione al testo scritto, elaborato nel linguaggio prettamente teologico. Solo dai miei appunti ci si potrà rendere conto del dibattito seguito alla relazione.

B)il testo scritto delle relazione che don Zuccaro aveva consegnato al presidente del gruppo prima dell’incontro;

C)alcune mie riflessioni sui temi trattati nell’incontro.

 Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma - Monte Sacro - Valli

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A

Miei appunti non rivisti dall’autore e dagli intervenuti. Al termine dei miei appunti ho inserito alcune note esplicative di termini usati dal relatore.

 

ZUCCARO

 Il relatore ha portato innanzi tutto al gruppo il saluto del presidente nazionale Carlo Cirotto. Ricorda che il prossimo congresso nazionale si terrà a Padova.

 Vuole condividere cordialmente con i partecipanti all’incontro riflessioni ed esperienza di vita. Questo l’angolo di visuale di partenza.

 Propone un itinerario scandito in due momenti: l’amore in quanto accolto e l’amore in quanto donato.

 Nell’esperienza della Chiesa l’amore sta al centro dell’esperienza cristiana. Ricorda una frase di Sant’Agostino, nel commento alla prima lettera di Giovanni: “Solo l’amore distingue i figli di Dio dai figli del Diavolo; se tutti si segnassero con la croce, se rispondessero “amen” e cantassero tutti l’ “alleluia”, se tutti ricevessero il battesimo ed entrassero nelle chiese, se facessero costruire i muri delle basiliche, resta il fatto che soltanto la carità fa distinguere i figli di Dio dai figli del diavolo. Quelli che hanno la carità sono nati da Dio, quelli che non l’hanno non sono nati da Dio”.

 A distanza di millenni, Benedetto XVI nell’enciclica “Deus Caritas est” afferma che l’amore è il centro dell’esperienza cristiana. Nell’enciclica “Caritas in veritate” menziona gli sviamenti di senso ai quali la carità è andata incontro, con i conseguenti rischi di fraintendimenti, estromettendola dal vissuto etico. Ciò impedirebbe una corretta valorizzazione in ambito sociale, culturale, giuridico, politico, economico. In questi contesti, dove più alti sono quei rischi, ne viene dichiarata l’irrilevanza per orientare l’azione. Il riferimento alla carità sembra troppo generico per essere utile per la soluzione delle crisi. Nonostante questo la Chiesa mantiene ferma la convinzione che la carità si trova al cuore dell’esperienza cristiana.

 All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con un avvenimento, con  una persona, che dà alla vita una direzione decisiva e un nuovo orizzonte: lo ha scritto Benedetto XVI all’inizio dell’enciclica Deus caritas est. La base della vita morale non è un ragionamento senza cose, né un insieme di cose senza anima, ma piuttosto una questione di essere e, come dice il Papa, di essere in relazione. La relazione fondante è con Dio. Si tratta di una proposta teologica cristiana, cattolica. L’antropologia cristiana si configura necessariamente come un’antropologia teologica. E’ il dono dell’amore della Trinità che è sia all’origine della vita dell’uomo, sia all’origine della relazione dell’uomo con gli altri. La comprensione dell’esperienza umana non può mai essere disgiunta dalla comprensione di Dio, del mistero di Dio. L’antropologia incrocia quindi, in una prospettiva cristiana, la teologia, come evidenziato in maniera lapidaria nella costituzione conciliare “Gaudium et spes”: “In realtà solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce” il mistero dell’uomo”. Al cuore del mistero dell’uomo troviamo la persona di Gesù Cristo. Senza di lui l’amore della Trinità rimarrebbe sconosciuto. Gesù è la faccia umana dell’amore della Trinità. Attraverso di lui possiamo conoscere come Dio ci ama.

 Il relatore elenca tre caratteristiche dell’amore di Dio per noi che risiedono in Gesù.

 La prima è la gratuità. Dio non ci ama perché noi siamo amabili. Dio, amandoci, ci rende buoni. Non ci ama perché siamo buoni.  E’ possibile per noi diventare buoni solo perché Dio ci ama. Non è il nostro buon comportamento morale, in quanto quindi ci sforziamo di essere buoni, che muove Dio a volerci bene.

 La seconda  caratteristiche dell’amore di Dio è che si tratta di un amore il quale non è mai per delega. Dio non delega un altro per volerci bene. Gesù non è un delegato da Dio, lui stesso è invece Dio. Gesù imparò l’obbedienza attraverso ciò che soffrì: l’amore di Dio è un amore che tocca la carne, che si sporca di sangue…

 Inoltre l’amore di Dio è fino alla fine, senza riserve (cita l’episodio della lavanda dei piedi narrata nel Vangelo di Giovanni, dove è scritto che Gesù “dopo averli amati, li amò fino alla fine”). Nel medesimo Vangelo di Giovanni è messa in bocca a Gesù morente l’espressione “Tutto è compiuto”. E le parole usate in greco fanno riferimento proprio a quel “fino alla fine”: nel senso di “fino all’ultimo respiro”,  ma anche nel senso di amore così grande che non è possibile pensarne uno più grande.

 Un terza caratteristica è molto umana e riguarda la relazione tra il Padre e il Figlio. Per capire Dio ci rifacciamo alla nostra esperienza. Un genitore è disposto a dare la vita per un figlio. Ci chiediamo perché invece questo Padre di Gesù ha lasciato che fosse il Figlio a morire. Ragionando umanamente potremmo di re che l’amore di Dio è così grande che il Padre è morto due volte per noi, una volta perché ha lasciato che il Figlio morisse e l’altra volta perché è morto lui nel vedere il Figlio morire. Perché tutto questo? La risposta è in un eccesso di amore per gli uomini.

 Il punto di partenza dell’agire morale è costituito dal tipo di risposta che noi riteniamo di dover dar a questo amore di Dio. Il punto di partenza è l’amore accolto. Percepiamo questo amore attraverso la coscienza, con una valutazione concreta, particolare. L’amore non è prima di tutto un comandamento, ma è un dono. La prima responsabilità del cristiano è esercitata nell’accogliere questo dono dell’amore di Dio. Scrive il Papa nell’enciclica “Deus est caritas”: l’amore può essere comandato perché prima è donato.

 Noi non possiamo avere un’esperienza dell’amore di Dio che ci è donato se non attraverso una decisione della coscienza morale. Altrimenti il rapporto con Dio diventa una superstizione, un fondamentalismo, una fonte di guerra. Esiste una decisione sulla fede, nei confronti dell’esperienza concreta di questo amore di Dio. Alla luce di questa decisione sull’amore di Dio noi facciamo le altre scelte morali.

 La dimensione decisiva dell’antropologia cristiana è l’affermare che l’uomo è l’essere della risposta. L’amore accolto diventa un amore donato. L’amore verso il prossimo non può essere diverso dall’amore ricevuto come dono da Dio. In Dio amo anche la persona che non gradisco e non conosco, lo ripete spesso il Papa. Il dinamismo della vita morale nasce come esigenza di passare da un amore accolto a un amore donato. Quando queste due cose non vanno insieme c’è sempre uno squilibrio. Nella riflessione morale oggi noi soffriamo di un deficit soprattutto per quanto riguarda l’esperienza dell’amore accolto, nel senso che la nostra proposta si sbilancia spesso sul comandamento dell’amore rispetto invece che l’amore donato da Dio. Il “deficit” che bisogna colmare è quello dell’esperienza di un amore accolto.

 La mancanza di amore è sempre il fallimento della persona: su questa mancanza bisogna riflettere con più calma. Sul fatto che alla base di ogni peccato ci sia una mancanza di amore di solito siamo tutti d’accordo. Ma: ogni mancanza di amore è sempre peccato? Ci si può trovare, in un momento particolare della vita, ci si può trovare nell’incapacità oggettiva di amare, non per colpa ma perché non si è mai vissuta l’esperienza di essere amato, che poi è la condizione per poter amare. Sant’Agostino sosteneva che Dio, amandoci, ci rende amanti. Ma se non abbiamo umanamente la possibilità di essere amati, come facciamo ad amare? A volte, nella nostra impostazione morale viviamo una sorta di pelagianesimo (1), abbiamo un’eccessiva fiducia nella nostra volontà che sarebbe in grado di mettere in pratica i comandamenti. Si sorvola con troppa facilità sulla situazione storica della persona che è condizionata in tanti modi: alla persona non basta conoscere la regola per poterla seguire. Non ci si innamora mai di un dovere, di un comandamento, ma di una persona. L’argomentazione non basta per muovere la nostra volontà, occorre una motivazione e la motivazione ultima è quella dell’amore. Cita Blondel (2): “se non passa per il sentimento, l’idea rimane lettera morta”. Le neuroscienze hanno sperimentato che talvolta la mancanza di una parte del cervello impedisce la decisione, la persona non sa decidersi, perché è l’affettività, nel senso di passione, che muove la volontà.

 Sotto il profilo della formazione, della proposta morale, la cosiddetta “emergenza educativa”, dobbiamo rivalutare questa verità: prima ancora di richiedere l’amore come motivazione delle azioni ci si dovrebbe preoccupare che la persona si trovi nella condizione di poterlo capire e di poterlo vivere, poiché ha fatto l’esperienza di essere amato.

 Termina con una nota problematica. Viviamo in un mondo in cui un amore così disegnato non sempre possibile applicarlo così concretamente, viviamo in un mondo pieno di strutture di peccato, che rendono difficile il riconoscimento del bene. Ricorda di aver letto di un’esperienza di gesuita in un carcere minorile dove erano reclusi figli di camorristi e che aveva tentato di far loro capire il perdono cristiano: quei ragazzi non riuscivano a capirlo, perché, nella loro esperienza, se avevano ricevuto un’offesa la morale era quella di vendicare l’offesa ricevuta.

 Bisogna riflettere sull’idea di compromesso morale. Noi di solito intendiamo in senso negativo l’idea di compromesso, di fronte alla radicalità evangelica. Ci sono però due tipi di compromesso: il compromesso con la propria coscienza e il compromesso di coscienza. Il primo significa scendere a patti con la propria coscienza e questo naturalmente è peccato. Compromesso di coscienza è chiedersi quale sia il modo più giusto, in una concreta situazione, di circostanze particolari, per ottenere non il maggior bene in assoluto ma il maggior bene concretamente possibile. Il bene è sempre un bene concretamente possibile, non il bene in astratto, in assoluto. La figura del compromesso significa accettare delle limitazioni che sono necessarie perché sulla base di quel bene concretamente possibile in un certo momento si ampli per il futuro sempre di più la condizione che rende possibile un’affermazione più grande dello stesso bene. Evoca l’immagine del cuneo: non entra tutto  insieme, entra con una piccola parte, ma se non penetra quella, non può poi penetrare tutto quello che c’è dietro. O quella del battistrada: chi è il primo della fila fa sempre più fatica di colui che viene dietro e si trova la strada spianata. Per usare un concetto teorico, possiamo dire che il compromesso porta  scritto in sé una legge di superamento, nel senso che a lungo andare si tende ad ampliare la base del bene da rendere superfluo lo stesso compromesso. L’amore diventa un principio maieutico (3) per capire il bene da farsi. L’amore non pone il limite, sposta sempre più avanti il limite. Se noi avessimo basato la nostra esperienza morale su comandamenti precisi, come quelli minuziosamente elaborati dai farisei, ad un certo punto avremmo potuto concludere di aver raggiunto il limite di ciò che doveva essere fatto. Se però il principio che regola la vita morale è l’amore, si può sostenere di aver mai raggiunto quel limite? La vita continua e l’amore sposta sempre più avanti il limite da raggiungere. Se l’amore è fermo, collassa, muore, o uccide, o muore o uccide, questo è vero anche nell’esperienza umana. O inaridisce e muore o, certe volte, uccide, se non può più esprimersi. C’è come una iperbole (4) dell’amore rispetto alla realtà esistente. Se la nostra finalità è l’amore la realtà presente non determina solo un limite, ma contiene anche la sfida a superare il limite nel senso dell’amore. La carità è creativa e tenda a trovare alternative sempre migliori, perché, nella storia condizionata dal peccato, il bene possa affermarsi in modo sempre più pieno. Questa è l’eccedenza dell’amore nei confronti della giustizia, come sostenuto da Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”: “Chi ama con carità gli altri è innanzi tutto giusto verso di loro. La città dell’uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione… [La carità] dà valore teologale e salvifico ad ogni impegno di giustizia nel mondo”.

 Termina riassumento il nucleo di ciò che intendeva dire: la carità prima di essere donata deve essere accolta, dall’altro e dall’alto. In tanto può animare il rapporto del cristiano con gli altri in quanto è stata prima sperimentata. La rottura di questo equilibrio ci sbilancia tra due estremi pericolosissimi. Il primo  è una sorta di pelagianesimo, che fa della volontà privata il cuore dell’impegno morale. L’altro è una sorta di quietismo, che enfatizzando il momento passivo dell’accoglienza dell’amore, non lo vive attivamente nel rapporto con gli altri. Il recupero della carità nella vita morale del cristiano oggi dovrebbe soprattutto avvenire a partire dalla considerazione che è Dio che ci ama, più che nostra è sua la carità che si trova al centro della nostra vita. E’ possibile capire l’amore di Dio se non incontriamo qualcuno che ci ama?

PRESIDENTE:

La relazione scritta del proc. Zuccaro è stata inviata per posta elettronica. Invita a leggerla e a meditarla con particolare attenzione. Invita i presenti a intervenire, con osservazioni e domande.

  Chiede al relatore di approfondire il rapporto tra amore e giustizia. Non è prima necessario realizzare una condizione di giustizia, prima di poter dare il massimo di esplicazione all’amore? Non rischiamo di fornire a chi ha più bisogno e ha più diritto di avere, perché è vissuto in condizioni di ingiustizia, una tranquillizzazione sul piano dell’amore? Non è forse troppo comodo dire alle popolazioni del Terzo e Quarto Mondo “io ti do qualcosa, ti regalo qualcosa” e poi non pensarci più? Non si deve invece innanzi tutto cercare di far ottenere a ciascuno ciò che gli spetta di diritto, e solo dopo regalargli qualcosa in più? Non è prima da perseguire una possibile giustizia proprio per rispettare la legge dell’amore?

ARDIGO’:

Amore è un termine ambiguo. Cercando di far capire in un ambiente altamente laicizzato il centro dell’esperienza cristiana ho detto che esso non consiste nell’affermazione dell’esistenza di Dio, ma nella compassione del sofferente. Esso è ben manifestato nel crocifisso. Presentare l’esperienza cristiana sotto il profilo della compassione del sofferente apre molte porte, molte di più di quelle che possono essere aperta dal linguaggio teologico, altamente formalizzato, e da quello del magistero, che è un linguaggio teologico. Nell’enciclica “Caritas in veritate” è citata la “Populorum progressio”, di Paolo VI, che vibra di compassione per il sofferente. A quelli che erano rimasti perplessi dal linguaggio, un po’ specialistico, della “Caritas in veritate” ho consigliato di leggere la “Populorum progressio” e l’effetto è stato molto diverso. C’è quell’appello fortissimo ai laici a buttarsi in mezzo al mondo per cambiarlo: potrebbe stare benissimo nel programma di un partito rivoluzionario. La controversia sull’esposizione del crocifisso ha posto in rilievo questo aspetto della nostra fede, che è ignorato dai più. Di solito la fede è vista infatti come catechismo e come adesione a norme, non come questa emozione che ti spinge ad andare in soccorso di chi sta peggio. Eppure la gran pare di noi è divenuta cristiana da piccoli, ricevendo il catechismo, le storie della Bibbia e la loro interpretazione, le indicazioni per una vita buona, da persone che ci manifestavano una speciale predilezione, genitori, nonni, sacerdoti ecc., e di questo è la nostra fede vive ancora da adulti. E’ possibile affiancare a un discorso razionale, ordinato, perché la teologia è anche ordine, questo discorso della centralità della compassione nell’esperienza cristiana, che può aprire molte porte, molti canali di comunicazione?

A.  socio:

 L’essere in relazione con Dio  è un essere aperto. In una società che ci spinge a chiuderci, a diventare monadi è una grande sfida, questo meccanismo di apertura e di relazione lo considero una grande sfida.  Non è una cosa facile da realizzare nella vita di ciascuno, ci vuole sempre un grande sforzo. Per mille ragioni si sarebbe portati a chiudersi. Anche la compassione per il sofferente, che è venuta in rilievo nella controversia sull’esposizione del crocifisso, rientra in questa apertura verso la relazione. Occorre aprirsi ad una condizione relazionale.

T. socio:

 Come interpretare l’assenza di carità, il rifiuto di carità?

C. socio:

 Da piccoli, al catechismo, ci parlavano del peccato originale, di questo mistero grandissimo che all’origine avvenne, capitò, per cui l’uomo decadde da una situazione di perfezione, di totale relazione con Dio. Oggi l’uomo redento dal Battesimo, che vive in una comunità di salvati, porta ancora le conseguenze di questo peccato originale. Una volta questo veniva molto sottolineato. Oggi non più. Andrebbe forse riscoperto e nuovamente sottolineato per capire il mistero tenebroso dell’iniquità umana. Questo mistero d’iniquità è all’opera e la Chiesa ci dice che non è qualcosa di astratto ma una persona. Questo  è importante perché dà uno sfondo metafisico a ciò che succede sulla Terra. Si svolge un’enorme battaglia tra il mistero d’iniquità e il mistero del bene. Anche il  nostro atteggiamento deve essere un atteggiamento apologetico, per difendere e promuovere la fede, in senso moderno. Siamo spinti a buttarci in mezzo allo scontro, nella battaglia in corso. Altrimenti non si capisce perché ci si dovrebbe buttare in una battaglia mortale e, innanzi tutto, lottare con me stesso e dopo, con l’aiuto della Grazia, dopo aver vinto me stesso, combattere anche al di fuori di me, nei rapporti interpersonali, nelle decisioni da prendere.

ZUCCARO:

 Il tema del rapporto tra giustizia e amore è complesso. Prima la giustizia e dopo l’amore? Forse il rapporto deve essere più dialettica, senza un prima e un dopo. Però sono d’accordo che non c’è amore autentico senza la giustizia e che la giustizia è una prima forma di amore.

 Dagli africani del Ruanda e del Burundi ho imparato l’importanza per loro del concetto di “restituzione”.  E poi del problema di come possano i vivi perdonare per i morti. Si tratta di temi che mi era capitato di leggere in una tesi di dottorato e che ho sentito nuovamente dal cardinale di Kartum (Sudan), che metteva in rilievo, di fronte alle sperequazioni mondiali, anche il dovere di restituzione. La giustizia non è una cosa semplice. La carità non significa mettere una pietra sopra il male commesso. E’ un problema politico grosso studiare la possibilità di realizzare la restituzione di quanto sia stato ingiustamente sottratto. La giustizia ha aspetti rilevanti e condizionanti la verità di quello che noi chiamiamo amore.  

 L’amore ha un intrigo incredibile di significati, certamente. Poi, l’osservazione: “io non mi sono mai chiesto se Dio c’è o non c’è”. Una volta si insisteva di più nel dire che attraverso la fede si arriva all’amore. Probabilmente il percorso inverso è esistenzialmente più vicino a noi. E’ attraverso l’amore che si può arrivare a credere. Sono d’accordo sul recupero delle esperienze di compassione.

 Il linguaggio è un problema, le prediche dei preti ecc. Certi termini che usiamo non agganciano più l’uditorio, ad esempio il termine “salvezza”, o il termine “peccato” (“se non si fa male agli altri, perché dovrebbe essere peccato”?). C’è dunque un problema reale. Nei miei rapporti con  i cosiddetti laici, in particolare sui temi della bioetica, la cosa ricorrente, che mi ha fatto cambiare strategia, è che ad un certo punto mi si obiettava che quello che sostenevo riguardava la mia fede e che, poiché loro non ci credevano,  non accettavano quanto sostenevo, perché loro si muovevano nell’ottica di un’etica pubblica, condivisa. Sbagliamo noi quando cerchiamo di giustificare le norme morali partendo dai presupposti della fede, dalla Rivelazione, però dobbiamo anche essere tranquilli nel dire che certe argomentazioni possono essere sviluppate partendo dalla ragione umane, dalle acquisizioni comuni. Il problema è quello dei livelli di linguaggio. Il magistero deve utilizzare un linguaggio pastorale: se nessuno lo capisce più dovrebbe cambiare il linguaggio. Noi ricordiamo la svolta del Concilio, Papa Giovanni, che usava quel linguaggio nuovo che agganciava le persone. Dobbiamo chiederci se sia ancora attuale questa attenzione a farsi capire. C’è però un altro livello della comunicazione che è per quelli che riflettono, noi ad esempio. In questo ambito dobbiamo stare attenti a non prestare il fianco alle obiezioni di chi dice che quello che diciamo è detto in nome della fede e che quindi non può essere condiviso da tutti, da chi non ha la fede. Possiamo usare anche argomentazioni umane, antropologiche: se poi in quanto teologi o semplicemente cristiani riusciamo a comunicare che tutto quello che abbiamo detto sul piano antropologico, in un orizzonte di fede, assume un significato particolare, che non si pretende che sia accolto da tutti gli interlocutori, questo è legittimo, va fatto. Noi abbiamo ricevuto il dono della fede: altrimenti opereremmo un rischiosissimo schiacciamento antropologico della fede. Sarebbe sbagliato. Però ci può essere un modo comune di argomentare, senza rinnegare i propri presupposti teologici. Come credente posso quindi dare una mia interpretazione morale sul piano teologico. Indubbiamente il linguaggio dei libri di teologia è quasi solo per gli addetti ai lavori. Anche gli stessi teologi cominciano a essere un po’ sensibili al problema del linguaggio. Però bisogna fare attenzione a che l’obiezione che ci viene dal mondo laico non diventi un impedimento a sviluppare le nostre argomentazioni su certi temi di pubblico dibattito. Il rifiuto non può essere aprioristico. Diceva Sant’Agostino che non pretendeva che l’interlocutore condividesse le sue argomentazioni, ma che, prima di rifiutarle, le capisse.

 Il tema della relazione è fondamentale. L’eredità dell’antico mondo greco è culturalmente molto più individualistica, mentre quella del mondo ebraico è molto più aperta alla relazione. Sant’Agostino, nel presentare l’uomo come immagine della Trinità, si riferisce all’importanza della relazione nell’ambito dell’umano. C’è un percorso dall’antropologia dell’indigenza all’etica della risposta. La nostra vita è segnata da un’inclusione, tra la nascita e la morte, caratterizzate dal pianto del neonato e dal rantolo del morente, quasi domande rivolte a chi le intercetta, espressioni di esigenze vitali. Se non si soccorre il bambino, al suo pianto, quello muore. Per il morente non ci si può fare niente, però lo si può accompagnare alla morte, con le ultime carezze, anche questa è una relazione. L’etica nasce da qui. Occorre intercettare il bisogno dell’altro e porsi come risposta a quel bisogno. Questa è la relazione. La risposta è sempre relativa alla domanda. Questo stabilisce la dimensione relazionale della vita. Il cuore della morale, quello che chiamiamo come amore e carità, è concepirsi come risposta al bisogno dell’altro. La nostra identità noi non la conquistiamo al tavolino, sono gli altri che ce la rendono ed è quanto di più personale noi abbiamo. Però sono gli altri che ce la rendono nella misura in cui ci rendiamo vulnerabili alle loro necessità, alla compassione. Prendendo da noi ciò di cui hanno bisogno, gli altri plasmano quella fisionomia della nostra identità che, se noi lasciamo fare, diventerà quel capolavoro che Dio ha pensato per noi. Ad esempio, sono stati i più poveri ad aver fatto Madre Teresa di Calcutta ciò che è diventata.

 Il tema del rifiuto dell’amore mi ha suscitato riflessioni. La Rivelazione di Gesù dice che Dio dà a tutti la capacità di conoscerlo: perché allora alcuni lo accettano e altri no? Una prima risposta chiara è che il rifiuto dell’amore di Dio, quando è consapevole, equivale al peccato. Si può non credere in Dio, peccando. Il caso più complicato è come si fa a capire, ad avere l’esperienza dell’amore di Dio. C’è la mediazione della coscienza. Dio  non sempre si fa conoscere con il volto di Dio.  Nella coscienza noi abbiamo la possibilità di conoscere Dio nel volto di una persona, di un bisognoso, di una istanza interiore che riguarda gli altri. Dio si presenta con un volto di uno sconosciuto, come ai discepoli di Emmaus, che lo accompagnavano ma non l’hanno riconosciuto fino ad un certo punto. E’ a questa domanda della coscienza che noi dobbiamo dare risposta. Se noi siamo sinceri  a dare risposta a questa domanda della coscienza, allora io credo che, se anche formalmente non riusciamo ad essere cristiani, la Grazia di Gesù ci arriva lo stesso, è scritto nella “Lumen Gentium”. Arrendersi alla coscienza, ubbidire alla coscienza, la sincerità verso la coscienza, è l’alleato più prezioso per arrivare a Dio. Questo è vero anche nel campo delle altre religioni. Le religioni non sono equivalenti, ma se c’è quell’atteggiamento di una persona verso la propria coscienza, la Grazia le passa attraverso.

 Per quanto riguarda il tema del peccato originale la mia idea è che se non ci fosse si dovrebbe inventarlo. Certe cose senza peccato originale io non riesco a spiegarmele.

 L’altra cosa che noi forse abbiamo dimenticato, e che nella teologia dei riformati è più evidente, è questa dimensione della lotta. Nella Costituzione “Gaudium et spes”, nella prima parte, dove si tratta della vocazione e dignità della persona umana, parla di questa lotta tra il bene e il male, a cui l’uomo partecipa in modo esplicito. In effetti esiste una dimensione agonale della vita dell’uomo, nel senso si della morte che combattimento. Noi ci troviamo all’interno di questo agone: dobbiamo scegliere il campo.

 Per quanto riguarda il mistero d’iniquità e le strutture di peccato: un modo di lottare è anche quello del compromesso, nel senso di incunearsi in queste strutture di peccato e dall’interno cercare progressivamente di ampliare lo spazio del bene.

 Per quanto riguarda l’impegno apologetico del cristiano, in questa lotta, ho dei dubbi. Preferirei il termine di “testimonianza” piuttosto che quello di “apologetica”. Il termine “apologetica” infatti tendenzialmente evoca  il proselitismo, la conquista di spazi, la contrapposizione. Forse non è questo lo stile del maestro. Non è che dobbiamo arrenderci, naturalmente. A questo proposito ricordo due episodi del Vangelo. Il primo è quando il servo del sommo sacerdote dà uno schiaffo a Gesù: Gesù non è che gli porga l’altra guancia; gli dice “Se ho parlato male dimostralo. Se non ho parlato male, perché mi hai dato uno schiaffo”. D’altra parte lo stesso Gesù che ha detto così si è lasciato inchiodare sulla croce. Vale a dire: il criterio è sempre quello della carità, in modo intelligente. La testimonianza è quello che ci resta, alla fine. Non la lotta, la testimonianza. Io rimango colpito da certi ambienti nei quali non si può parlare di Gesù, non si può portare il distintivo con la croce. E che rimane da fare in quegli ambienti: solo la testimonianza. Essa apre lo spazio per una speranza che illumina questo grigiore della lotta epica con Gog e Magog (5), la speranza della Resurrezione. Senza questo siamo destinati a fallire. A che cosa possiamo andare incontro con la testimonianza? La risorsa estrema è la morte. Ma Gesù ha vinto la morte. Lo dico, ma ho paura a dirlo, nel senso che se toccasse a me…Ho partecipato alla sessione plenaria della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e dei vescovi hanno riferito che hanno ucciso i cristiani perché erano cristiani e loro si sono lasciati uccidere. Non perché i cristiani avessero fatto cose cattive, strane, ma solo perché erano cristiani. Questo coraggio della testimonianza è ciò che mi sollecita di più. Tutti siamo sollecitati ad accettare certe lusinghe, certi compromessi, nella nostra vita. Alla fine ci rimane però la testimonianza.

INTERVENUTO “A”:

 Parla della logica della sovrabbondanza e della carità del cristiano. I non credenti talvolta rifiutano anche la logica del dono e quindi della reciprocità, che spinge a ricambiarlo. Come superare questo problema?

ZUCCARO:

 Il superamento non c’è. O la concezione di Dio entra in una prospettiva del dono oppure no. Dipende dalle scelte che si fanno. Questa è la decisione di fondo. Non potrei mai convincere una persona che è meglio il dono che il non dono. Ciò che posso dirle è che ciascuno rimane responsabile di questa decisione. Ci si può chiedere dove vada a finire una relazione basata sul non dono e dove invece una relazione basata sul dono. Si è detto che la nostra è un po’ una società di persone sole. Riflettiamo ad esempio su questa frase che si sente spesso: “La mia libertà comincia dove finisce la tua”. Noi stiamo creando delle barriere. Ci chiudiamo dentro un recinto, dove mettiamo solo quelli che la pensano come noi. Poi ci stanno gli altri. E’ cosa che dipende da come una persona vede la società. Bisogna anche rendersi conto che se una persona vive la relazione diventa vulnerabile, si rende vulnerabile. L’altro mi può invadere, mi può occupare. Può fare ciò che vuole. Però diventa possibile la relazione.

 Sul dono ricorda la lezione di Derridà, per il quale il dono dovrebbe essere estraneo alla logica commerciale del dare per ricevere, ma simile a una foglia di tabacco che, fumata, svanisce, non ritorna. Per Gesù il dono è come il sale o la luce: il sale per realizzare la sua funzione svanisce, scompare; la luce per realizzare la sua funzione si consuma. Questo è il dono. Altrimenti si entra nella logica del commercio. Rimane la responsabilità del rifiuto e quella di capire l’accettazione del dono nel limite del concretamente possibile. Sia l’offerta che l’accettazione del dono non sono mai astratte. Altrimenti illudiamo le persone, le facciamo  diventare tristi. Se uno può dare poco, darà poco. Ragionare nel limite del concretamente possibile significa avere un senso storico della vita, non astratto. L’astratto serve per aver un orizzonte verso il quale spingersi sempre più avanti. Il concretamente possibile non è il fine e la fine del dono, è la solo la realizzazione del dono. Il dono è sovrabbondante nei confronti della sua realizzazione. Rimane la responsabilità di scelta, di decisione. Ognuno darà le sue ragioni per accettare o rifiutare la logica del dono. Ma possiamo capire dove porta una logica e dove un’altra.

CR. socio:

 In nome della logica del “do ut des” abbiamo abdicato a importanti principi. Lo si vede anche nella vita universitaria. Mi sorprendo quando vedo che dei giovani di diciotto, diciannove anni, le matricole, hanno già assimilato questa logica. Quando noi, oggi più adulti, avevamo la loro età non eravamo così. Questo poi compromette lo sviluppo libero della persona umana. Si vivono condizionamenti esterni talmente forti da impedire una decisione autonoma. In questo modo nella società si riproducono i modelli avariati, non si migliora.  E’ questione che riguarda la stessa sopravvivenza umana.  Viviamo sotto la cappa della distruzione mondiale. Il Papa, nella “Caritas in veritate”, sostiene che la soluzione dovrebbe essere quella di un accordo internazionale, per superare i problemi determinati dall’ingiustizia e via dicendo. Nel nostro mondo tale obiettivo sembra però più difficile da raggiungere. Non abbiamo gli strumenti critici per tirarci fuori da questa situazione, anche a livello generazionale. La capacità critica dei giovani d’oggi è bassissima, rispetto a quello che occorrerebbe. Da dove tiriamo fuori le argomentazioni che ci servono? Non dalla fede. Dobbiamo usare la razionalità, il ragionamento. Come lo controlliamo il ragionamento, se dietro di esso c’è la logica del compromesso, della negoziazione. Non c’è giustizia in questo. Come sostiene il Papa nella “Caritas in veritate”: qual è la verità, quella che si basa sulla bilancia o quella che si basa su un’altra logica che dobbiamo sviluppare? Abbiamo una enorme responsabilità come esseri umani. Dobbiamo attrezzarci sia dal punto di vista culturale, ma anche dal punto di vista di costituire un’opposizione alla logica del “do ut des”, del commercio.

ZUCCARO:

 Condivido che ci debba essere un impegno di tutti, prioritario.

 La coscienza ci rende insostituibili. E non possiamo scappare dalla nostra coscienza. La responsabilità della coscienza non si esercita solo all’atto di prendere una decisione, si esercita lungo tutto l’arco della vita. C’è un’attività formativa della coscienza che  è molto importante: non solo siamo responsabili dinanzi alla nostra coscienza, siamo responsabili anche della nostra coscienza. Ritorna però il discorso dell’esperienza da offrire: le argomentazioni sono giuste, ma non sempre muovono all’azione. Ci vuole la motivazione per muovere all’azione.

CR. socio:

 Secondo me si dovrebbe partire da certi principi. L’azione deve essere valutabile in base a dei principi.

ZUCCARO:

In fondo stiamo dicendo la stessa cosa. Come faccio un giovane ad avere l’esperienza della gratuità se nessuno gliel’ha offerta?

CR. socio:

Nella nostra società la gratuità non è premiata. Si ricade spesso nel commerciale. La restituzione, come previa esigenza di giustizia, il problema che si sono posti in Africa,  se ha una  motivazione spirituale ha un senso, certamente, altrimenti si ricade nel commerciale. Ma un’economia che non abbia un volto umano, ce lo dicono gli stessi economisti, non ha un successo. Un’economia dal volto umano la stanno progettando, ad esempio, in India, non in Occidente. Abbiamo avuto la proposta di soluzioni ai problemi mondiali da culture, non cristiane, che però hanno una visione cosmica della vita. Non dobbiamo ridurre tutto ad esperienza personale, dobbiamo ancorare l’esperienza a dei principi importanti. La teoria e la prassi devono camminare insieme, non si deve mettere in primo piano l’esperienza.

ZUCCARO

 Aggiunge che se l’esperienza manca di un quadro di riferimento fondante, diventa estremamente fluttuante, soggettiva, individualistica.

INTERVENUTO “B”.

Oggi ci si basa molto sulle emozioni, ci si deve emozionare per muoversi. L’emozione non implica mai il passaggio alla teoria, alla consapevole acquisizione.

ZUCCARO:

Siamo passati dalla dittatura della ragione alla dittatura dell’emozione.

INTERVENUTA “C” (studentessa)

Contesta che i giovani di oggi siano senza principi e che non si vogliano impegnare.

CRISTOLINI:

Sostiene che l’immagine dei giovani d’oggi che ha prima fornito deriva da risultati di ricerca.

INTERVENUTO “D” (professore)

siamo passati a parlare sul tema del “giovani d’oggi”. E’ stato trattato nella letteratura di ogni tempo. Ci possono essere incomprensioni tra i giovani e i vecchi di oggi. Tuttavia non bisogna dare ad essi eccessiva importanza. Si tratta di cercare di capire. Ma il fondatore della Honda ha detto “se io capisco che cosa stanno facendo i giovani d’oggi, significa che non stanno facendo nulla di buono, perché vuol dire che stiamo fermi”.

INTERVENUTA “E” (studentessa)

  I giovani d’oggi sono figli delle generazioni che li hanno  preceduti. Se c’è  stata una crisi di relazioni tra genitori e figli, tra coloro che appartengono alla generazione più giovane e quelli di una generazione precedente, ciò ha riflessi sul modo di intendere anche le relazioni di tipo religioso, tra noi e Dio. La Chiesa è stata a lungo ferma al vecchio  catechismo, solo di recente si è riscoperta la dimensione relazionale nell’iniziazione cristiana. Non è giusto puntare sempre il dito sui giovani.

A. socio:

I giovani sono il futuro. Se pensiamo al futuro è a loro che dobbiamo riferirci. Per questo ne parliamo. Io, ad esempio, superati i cinquant’anni, rappresento una porzione molto limitata del futuro. In questo senso il problema dei giovani è centrale.

Si sviluppa una polemica tra alcuni partecipanti all’incontro, sul tema dei “giovani d’oggi”.

PRESIDENTE:

Non pensavo, quando ho scelto questo tema, di andare a finire sul conflitto generazionale.

INTERVENUTO F:

 Nel Buthan, un minuscolo stato dell’Asia, nelle valutazioni economiche hanno sostituito il PIL con il FIL, la felicità interna lorda, inteso come conoscenza, formazione, stato di salute. Non è tanto questione di come sono i giovani, ma dei modelli applicati nella società in cui i giovani si trovano a vivere.  Il modello italiano non  mi sembra il massimo che si possa pensare.

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Note:

(1) Pelagianesimo: teoria teologica del 5° secolo della nostra era, derivante dal pensiero del monaco Pelagio (nato in Britannia), secondo il  quale la salvezza è raggiungibile dall’uomo per mezzo della sua volontà.

(2)Blondel Maurice (1861-1949): filosofo francese. Dava molta importanza alla volontà, nell’azione umana.

3)maieutico: metodo per far progredire l’allievo nella comprensione a partire dai concetti che si formano nella sua stessa mente, come quando l’ostetrica aiuta la partoriente a far nascere il bambino che ha in sè.

4)iperbole: figura retorica che tende ad accentuare i concetti espressi.

5)Gog e Magog: personaggi mitici menzionati nella Bibbia, nei  libri di Genesi ed Ezechiele e nell’Apocalisse, e nel Corano, protagonisti di una lotta contro le forze del bene.

6)Derridà Jacques (1930-2004): filosofo francese.

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B

Testo della relazione scritta preparata prima dell’incontro:

 

 

La centralità dell’amore nella vita morale del cristiano

La tradizione della chiesa ha sempre visto nella carità la virtù che dà forma e unità all’esperienza cristiana della vita. Commentando la prima lettera di Giovanni, Agostino esplicitamente riconosce che il segno distintivo del cristiano è l’amore:

“Solo 1’amore distingue i figli di Dio dai figli del diavolo. Se tutti si segnassero con la croce, se rispondessero amen e cantassero tutti l’alleluia; se tutti ricevessero il battesimo ed entrassero nelle chiese, se facessero costruire i muri delle basiliche, resta il fatto che soltanto la carità fa distinguere i figli di Dio dai figli del diavolo. Quelli che hanno la carità sono nati da Dio, quelli che non l’hanno non sono nati da Dio. E’ questo il grande criterio di discernimento”[1].

Tale convinzione è fondata in modo esplicito nella scrittura già a partire dall’Antico Testamento, ma ancor più evidentemente nel Nuovo[2]. La recente Enciclica Deus caritas est mette in luce la novità dell’amore come “il centro della fede cristiana”[3], mostrando come questa rivelazione si trovi proprio al cuore dell’esperienza depositata nella sacra scrittura.

Come spesso accade, a livello di riflessione teologica e filosofica, il cammino che formalizza questa esperienza non è stato sempre così uniforme. Ne è consapevole Benedetto XVI quando nella recente Enciclica Caritas in veritate, al n 2 scrive:

“Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l'irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali”.

Sappiamo, infatti, che facilmente la necessità di trovare una soluzione tecnica ai problemi effettivamente complessi dell’economia e più in generale quelli legati alla crisi ancora per tanti versi in atto rischia di far apparire irrilevante o almeno generico il principio della carità. Inoltre, la svolta impressa alla morale ad opera di Kant ha messo in primo piano la perfezione dell’atto, misurata sulla base della coerenza con la legge, lasciando in penombra la perfezione del soggetto. Da qui si è rafforzata, anche in teologia, quella «morale degli atti», nata in seguito agli sviluppi del Concilio di Trento[4] e, secondo alcuni, ancora parzialmente presente nella proposta magisteriale[5]. Da tempo, però, sia la riflessione filosofica in campo etico, sia la teologia morale stanno riportando in primo piano quella che comunemente viene chiamata «l’etica della virtù»[6]. In questo orizzonte, si spiega più facilmente il giusto recupero della virtù della carità, come elemento unificante di tutta la vita cristiana. Innanzitutto la carità è accolta come il dono grazie al quale la Trinità ci rende partecipi della sua vita di amore, offrendoci la capacità reale di vivere questo amore dentro il tessuto delle relazioni sociali. Il nostro non è, dunque, un amore che possa rivendicare un’autonomia reale da Dio, ma si pone in continuità e in dipendenza dal suo. In quanto donato e accolto, l’amore si pone sul versante delle virtù teologali, ma in quanto deliberatamente vissuto in una libera e consapevole relazione con gli altri diventa anche un esercizio della virtù morale, anzi il cuore stesso dell’esperienza morale cristiana[7].

L’obiettivo delle riflessioni che seguono non è quello di ricostruire l’itinerario storico del problema, né quello di presentare un quadro sintetico della questione. Molto più modestamente, desidero sottolineare alcuni aspetti che, secondo la mia sensibilità, sono di particolare interesse ed importanza per la comprensione dell’intera vita morale. Pertanto, il cammino si snoderà a partire dall’esperienza iniziale di un amore che si riceve, per riflettere sull’esperienza successiva di questo amore che è accolto, corrisposto e donato.

1.   Dall’amore accolto…

“All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò una direzione decisiva”[8].

Penso che questa sorta di incipit della Enciclica Deus caritas est possa costituire una giusta impostazione del problema: la base della vita morale non è né «un ragionamento senza cose», né «un’insieme di cose senza anima», ma piuttosto una questione di essere e di essere «in relazione». Del resto, pur tenendo conto delle dovute cautele imposte dal passaggio non automatico e meccanico dal piano dell’essere a quello dell’agire[9], questa esigenza era già presente nell’adagio scolastico dell’agere sequitur esse. L’antropologia cristiana si configura necessariamente come un’antropologia teologica, dal momento che è il dono dell’amore della Trinità che sta all’origine della vita dell’uomo. La comprensione del mistero dell’uomo, pertanto, non può essere disgiunta dall’autorivelazione del mistero di Dio in Gesù Cristo.

In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, 22).

È lui, Cristo, il volto umano dell’amore trinitario che previene ogni attività da parte dell’uomo[10], anzi, si manifesta proprio là dove l’uomo è incapace di amare[11]. Senza questa rivelazione di Gesù, non sarebbe certo venuto meno l’amore della Trinità, eppure esso sarebbe rimasto sconosciuto per l’uomo. Questa esperienza è resa possibile soltanto dal fatto che il Verbo invisibile di Dio si è consegnato nelle mani della nostra capacità umana di vederlo e di toccarlo[12].

Si manifestano così alcune caratteristiche dell’amore divino: esso non è legato alla bontà morale dell’uomo, per cui, sotto questo punto di vista, esso è va oltre il merito o il demerito dell’uomo. Non è il buon comportamento dell’uomo a commuovere Dio e determinare un atteggiamento amorevole: il suo è un amore assolutamente libero e gratuito. Inoltre l’amore di Dio non è mai un «amore per delega», poiché è reso presente non da un altro diverso da Lui, non da un «ambasciatore che non porta pena», ma da colui che “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che soffrì”[13]. Infine è un amore «sino alla fine», come mostra l’itinerario che dal cenacolo conduce al Calvario; nella prospettiva di Giovanni, infatti, il gesto di amore fino alla fine della lavanda dei piedi[14] trova il suo compimento nelle ultime parole che l’evangelista mette in bocca a Gesù morente: “tutto è compiuto”[15]. L’icona del Crocifisso è la manifestazione di un amore che abbraccia tutta la vita fino all’ultimo respiro, ma anche di un amore così intenso che non se ne può pensare uno maggiore.

La breve meditazione teologica deve ora provocare la riflessione morale, inducendola a riflettere sulla natura e sul ruolo dell’amore nella vita cristiana. In tal senso, mi pare di capire come il punto di partenza della morale cristiana sia non la domanda, ma «la risposta». Infatti, la persona, incontrata dall’amore di Dio, deve decidersi nei suoi confronti. Non si tratta di riportare indietro la discussione sul rapporto tra autonomia morale ed etica di fede. Vorrei piuttosto sottolineare il fatto che la dimensione morale del cristiano è segnata dalla decisione assunta nei confronti dell’esperienza che Dio dona del suo amore e che l’uomo percepisce tramite la profondità della propria coscienza secondo tempi e forme diversi[16]. Infatti, il cammino che porta ad un tale traguardo non solo non è mai identico per ciascuna persona, ma nemmeno necessariamente sfocia per tutti nel riconoscimento esplicito e formale di Gesù Cristo e della sua Chiesa[17]. Per questo l’esperienza dell’amore di Dio è un’esperienza insieme di fede, perché essa trascende la capacità umana e di morale, perché l’accoglienza del dono non può avvenire in modo magico, ma solo e sempre attraverso la decisione della coscienza. Non si tratta di una riduzione antropologica della fede, come se l’esperienza dell’incontro con l’amore di Dio fosse un diritto dovuto. Non si tratta, però, nemmeno di una imposizione e di una forzatura che Dio impone a dispetto della libera e consapevole responsabilità della persona, anche se ciò dovesse avvenire per il suo bene.

Questo è il punto centrale per comprendere il ruolo della carità nella vita morale del cristiano: esso non va inteso prima di tutto come un comandamento che anima il suo rapporto con Dio e con gli altri, ma come l’accoglienza di un dono. La responsabilità, prima ancora che nell’esercizio della carità, consiste nell’atteggiamento assunto nei confronti dell’offerta dell’amore divino percepito tramite la coscienza. Sono convinto che la profondità dell’amore vissuto è proporzionata non tanto alla buona volontà della persona, ma soprattutto alla disponibilità a ricevere l’esperienza dell’amore donato da Dio. Per questo appare quanto mai credibile l’osservazione di Benedetto XVI:

“Il «comandamento» dell'amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l'amore può essere «comandato» perché prima è donato […] Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo «prima» di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi”[18].

Non riusciremo a sottolineare mai abbastanza questo dato che fonda la centralità dell’amore nella vita morale cristiana: il messaggio evangelico pone in primo piano l’amore che Dio riversa sull’uomo. Questo è il vangelo di Gesù Cristo, il Vangelo dell’amore di Dio per l’umanità[19]. Staccata da questo riferimento fondante la vita morale del cristiano si riduce al lodevole esercizio stoico di una volontà che non va oltre un rapporto «corretto» con Dio e con gli altri; corretto, ma senza amore[20]. Certamente è l’amore il principio della vita morale del cristiano; ma non il nostro amore, bensì l’amore di Dio.

L’accoglienza dell’amore come centro della vita cristiana chiama in causa la morale anche perché coinvolge la mediazione della coscienza. Si tratta di sviluppare questo punto particolarmente delicato, cui abbiamo già fatto cenno in precedenza. L’accoglienza del dono non avviene bypassando il dinamismo della coscienza morale, ma è frutto del suo esercizio; infatti l'adesione di fede all’amore di Dio si inserisce dentro le preesistenti strutture dell'agire umano responsabile[21]. La persona accoglie il dono divino dopo aver esaminato e valutato il significato che essa comporta per la realizzazione della sua esistenza. Tale decisione suppone che il credente abbia giudicato tale evento come un bene che è di estrema importanza per lui, anzi è irrinunciabile. Una volta accolto nella fede, l’amore trinitario, diventa il principio unificante della vita morale, aprendo al cristiano un corrispondente orizzonte di senso, che informerà il comportamento successivo. Pertanto, l’avvenuta «decisione sull’amore trinitario» accolto, immediatamente determina le successive decisioni morali come «decisioni di amore», componendo l’unità della coscienza. Per questo occorre coniugare insieme una dimensione «morale» della coscienza, che rende umanamente possibile l’accoglienza dell’amore divino, e una dimensione «cristiana» della stessa, che rende possibile le decisioni nella carità di Cristo. Naturalmente la «dimensione morale della coscienza cristiana e la dimensione cristiana della coscienza morale» non sono esperienze separate ma sono ricondotte all’unità nell’esperienza di fede.

Dalla centralità dell’amore di Dio deriva una dimensione decisiva dell’antropologia in chiave morale: la sottolineatura che l’uomo è suscitato dall’amore di Dio; possiamo esprimerlo dicendo brevemente che «l’uomo è l’essere della risposta». Infatti, la sua vita morale si snoda proprio a partire dalla risposta che egli dà a Dio che lo ha amato: da qui la sua scelta di fondo che, come è testimoniato in tutta la storia sacra, lo porta ad aprirsi a Dio, oppure rinchiudersi nella sua orgogliosa ostinazione[22]. Sotto questo punto di vista, mi pare di poter dire che la vita morale è una vita teologale alla radice e che prima «del fare» essa si esprime «nell’accogliere». Una tale struttura fondamentale naturalmente si riflette anche nel rapporto con gli altri e mette in luce come la carità si manifesti nel «porsi come risposta al bisogno dell’altro»[23].

2.   All’amore donato

L’esperienza dell’essere amati da Dio costituisce anche la sorgente e il motivo dell’amore vissuto dall’uomo e con il quale dimostra di avere effettivamente aperto il suo cuore a Dio. L’amore verso il prossimo, dunque, non può essere diverso dall’amore ricevuto come dono da Dio: è in questo amore che “io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco e neanche conosco”[24]. Pertanto, si capisce come il dinamismo dell’esperienza morale esiga il passaggio da un amore accolto a un amore donato. Si capisce anche come, senza l’esperienza del primo diventa difficile, se non addirittura impossibile, praticare il secondo. Credo che la riflessione morale soffra di un deficit per quanto concerne l’esperienza dell’amore accolto, nel senso che la sua proposta si sbilancia sul comandamento dell’amore rispetto all’amore donato da Dio. Il capitolo più studiato, infatti, è quello dell’amore come impegno attivo del cristiano nei confronti di Dio, degli altri, di se stessi[25]. In una parola, si nota una sproporzione dell’amore dell’uomo verso Dio piuttosto che il contrario, sebbene la scrittura testimoni in modo evidente la priorità dell’amore che Dio effonde sull’umanità[26].

Questa sproporzione non può essere giustificata dal fatto che l’oggetto della morale non verte sulla descrizione della vita divina, quanto piuttosto sull’uomo nel suo agire in libera e consapevole responsabilità. Infatti, è proprio per questo che è importante l’esperienza dell’amore che si riceve: perché esso condiziona l’atteggiamento nei confronti dell’altro. La mancanza di amore è sempre il fallimento della persona[27], ma è precisamente su questa mancanza che occorre riflettere con più calma. Che alla base di ogni peccato ci sia sempre una mancanza di amore è una verità sulla quale tutti si trovano d’accordo[28]. Possiamo, però, senz’altro affermare il contrario, cioè che ogni mancanza di amore è peccato? Naturalmente non si tratta di giocare con i termini, ma penso che esista una «mancanza di amore» che non sia colpevole quando una persona, in un momento particolare della sua vita, potrebbe trovarsi nell’incapacità oggettiva di amare non per propria colpa, ma perché non ha vissuto l’esperienza dell’amore. La dimensione della responsabilità personale non può darsi senza le condizioni di possibilità che già la teologia morale classica vedeva non solo nella capacità di comprendere la malizia di un’azione, ma anche nella capacità piena di compierla, cioè nella sufficiente libertà di azione. Credo che proprio questa sia da verificare nel caso in cui la persona manca di una condizione necessaria per poter amare: quella di essere stato amato. D’altro canto non si può ingenuamente affermare che sia sufficiente una tale esperienza per poter amare senza alcuno sforzo. Il fatto, però, che ci sia stata l’esperienza di un amore ricevuto vuol dire che la persona si trova nelle condizioni di possibilità per decidere di donare il proprio amore oppure per chiudersi nel suo egoismo.

Una delle conseguenze salutari di questa attenzione è il superamento di un vena di pelagianesimo che, talvolta, è presente nell’impostazione morale. Si tratta di una eccessiva fiducia nella buona volontà che sarebbe capace di mettere in pratica i comandamenti. Si sorvola con troppa facilità la condizione storica della persona che è condizionata in tanti modi e alla quale non basta conoscere la regola per poterla seguire[29]. Abbiamo preso coscienza che non basta una rigorosa argomentazione che dimostri la validità delle norme perché essi suscitino l’adesione interiore della persona. A questo scopo si dimostra, invece, fondamentale la motivazione che spinge la volontà a decidersi sulla base della norma nella quale la persona vede riflessa l’esigenza della realizzazione della sua dignità personale[30].

Possiamo raccogliere qui una delle lezioni fondamentali di Blondel a proposito del rapporto atto e persona, rapporto che per lui è così stretto da considerare l’atto come la «sostanza» della persona[31]. In particolare il filosofo francese ricorda che:

“Niente agisce su di noi o tramite noi che non sia veramente soggettivo, che non sia stato digerito, vivificato, organizzato in noi stessi; se non passa attraverso il sentimento, l’idea rimane lettera morta […] Esso [il motivo dell’azione] non spunta, diciamo così, all’improvviso e come per generazione spontanea. È ì1 deputato di una folla di tendenze elementari che lo sostengono e lo sospingono. È il risultato di cause più remote e più generali. E la conclusione di tutto un sistema anteriore, e funge da intermediario tra le disposizioni abituali e le circostanze particolari che ne sono l’occasione”[32].

Quando un motivo diventa per la persona così importante da determinare la decisione e la deliberazione della volontà, è segno che la posta in gioco non è più la semplice libertà di questo o quello, ma, ben più radicalmente, la libertà di volere noi stessi: “in quello che desideriamo al di fuori di noi cerchiamo sempre noi stessi […] al di sopra di ciò che brama l’uomo si interessa a ciò che in lui brama e gode. Egli si preferisce al mondo, perché di fatto vale più del mondo”[33].

È la motivazione, dunque, che riconduce al soggetto tutte le azioni deliberate e, almeno nella prospettiva cristiana, è l’amore la motivazione ultima che determina la bontà morale dell’agire. Da qui la necessità che la persona, per motivare le sue decisioni a partire dall’amore, debba averne già avuto l’esperienza, la quale non sarà possibile fino a quando non ci si è sentiti amati[34]. Pertanto, sotto il profilo della formazione morale, prima ancora che richiedere l’amore come motivazione delle azioni, ci si dovrebbe preoccupare che la persona si trovi nella condizione di poterlo capire e di poterlo vivere, poiché ha fatto esperienza di essere amata. Si scorge, in tal modo, l’inestricabile unità dell’amore accolto e donato, nonché il suo dinamismo di reciprocità. Nel momento in cui qualcuno vive l’esperienza dell’accoglienza nell’amore non può sottrarsi alla responsabilità di donarlo a sua volta, senza, con ciò, rendere vana e inefficace quell’esperienza ricevuta. D’altro canto, nel momento in cui qualcuno si concepisce come dono di amore e risposta alle necessità degli altri è segno che egli ha sperimentato l’accoglienza da parte di un altro.

Del resto questa reciprocità dell’amore accolto e donato è insita nella logica della decisione personale che non si esaurisce nel raggio del soggetto, ma coinvolge necessariamente gli altri. L’azione, infatti, non si limita a vivere solo all’interno dell’intenzione soggettiva della volontà che l’ha deliberata e l’ha eseguita della pratica. Essa varca le soglie dell’agente e cade già dentro un contesto più ampio. Per questo è

“una strana illusione quella di credere […] di farsi del male senza farne a nessun altro […] è un errore ingenuo immaginare che si possa mancare senza nuocere agli altri […] Ma allo stesso modo qualunque cosa facciamo […] farlo bene significa compiere un servizio pubblico”[35].

In fondo, nessuna azione è «astratta» nel senso letterale del termine, cioè compiuta astraendo e prescindendo da qualsiasi legame con un conteso circostante. Al contrario, essa, nell’esprimere l’intenzione e la volontà soggettiva, è allo stesso tempo condizionata dal contesto in cui viene posta e tende a condizionare quel contesto esprimendo in esso la volontà da cui è stata deliberata. Citando ancora una volta Blondel, possiamo dire che: “in ciò che facciamo c’è sempre quello che facciamo fare, e in quello che facciamo fare esiste sempre una riserva latente di energia che sfugge alla nostra previdenza e al nostro governo”[36]. Applicando il discorso alla nostra riflessione, possiamo concludere che il «dono» dell’amore è condizionato dall’«accoglienza» che, a sua volta, comporta l’esigenza del dono. Quando noi presentiamo l’amore come cuore della vita morale non possiamo separare i due momenti e sbilanciare il discorso su l’uno o sull’altro, ma dobbiamo mantenere viva la reciprocità che è loro propria.

La concretezza storica dentro cui la carità diventa principio che unifica le decisioni morali del credente suggerisce anche una ulteriore riflessione, circa il rapporto carità, giustizia e legge[37]. Abbiamo già ricordato che l’accoglienza e il dono dell’amore non avviene mai in modo astratto, cioè al di fuori delle ristrettezze di una storia che è segnata dal mistero dell’iniquità. Le relazioni tra le persone sono condizionate da strutture che tendono a rendere impraticabile o incomprensibile l’amore. Lo ricordava Giovanni Paolo II, quando scriveva che:

“La somma dei fattori negativi, che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e all'esigenza di favorirlo, dà l'impressione di creare, in persone e istituzioni, un ostacolo difficile da superare. […] non è fuori luogo parlare di «strutture di peccato», le quali […] si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. E così esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini”[38].

All’interno di queste relazioni occorre certo affermare l’amore, ma senza ingenuità, cioè tenendo conto delle limitazioni che le «strutture di peccato» impongono alla buona volontà della persona. Amare incondizionatamente non significa amare al di fuori di ogni condizione, ma significa amare in qualunque condizione possiamo venire a trovarci. Da qui la necessità di un amore che sappia farsi calcolo non per limitare la sua intensità, ma proprio per trovare la sua massima espressione concretamente possibile. In questo senso, da qualche tempo si ripensa al discorso del compromesso come un possibile modo di esprimere nella storia la radicalità evangelica[39]. Naturalmente il compromesso non consiste nello scendere a patti con la propria coscienza, ma nella ponderazione di quest’ultima per trovare la decisione che, all’interno delle situazioni concrete, meglio di ogni altra realizza il bene e il valore desiderato[40]. Il compromesso, dunque, non serve a giustificare l’ingiustizia di una particolare situazione[41], ma a penetrare in essa per piantare il germe del bene che in futuro tenderà a sanare quella situazione.

Se, però, da una parte il compromesso può considerarsi esigito dall’amore, dall’altra, se dimentica questo suo principio ispiratore, esso ne rappresenta la morte. In questo senso l’amore diventa quasi un «principio maieutico» perché non si accontenta mai della misura del bene raggiunto e insegna a spostare sempre più in il limite della realizzazione fino ad allora raggiunto. Nessuna misura è sufficiente per saziare l’amore e questo determina nella vita morale una sana inquietudine per cercarne sempre migliori e più perfette realizzazioni. In questo contesto si inserisce il rapporto tra le norme e l’amore, che rappresenta il compimento iperbolico del bene, di cui la legge è soltanto una delle possibili specificazioni e interpretazioni[42]. Infatti il comandamento dell’amore, come l’esigenza etica delle beatitudini e della sequela, introduce un cambiamento di paradigma rispetto all’osservanza esteriore e materiale della legge. Gesù ha vinto il male in modo radicale e ha reso presente una storia nella quale realmente le ristrettezze imposte dal peccato sono in lui già distrutte[43].

Da qui deriva, come conseguenza, che il discepolo di Gesù non ha paura di accettare il contrasto tra la storia attuale e l’ideale dell’amore, anzi nella misura in cui egli si impegna per vivere l’amore di Cristo sperimenta quanto è tragica la condizione negativa in cui si trova attualmente la storia. È vero che l’amore espande l’orizzonte del regno di Dio, ma è anche vero che esso lascia emergere quanto sia distante da questo ideale la storia presente. Del resto, nella croce di Gesù, che pure è il segno più alto del suo amore per l’umanità, “la drammaticità della storia è pensata fino in fondo, lo stato di abbandono del giusto in questo mondo si palesa in tutta la sua crudezza”[44]. Eppure, proprio questa certezza della vittoria di Cristo impegna il discepolo ad andare costantemente oltre una formulazione normativa dell’amore, alla ricerca di alternative sempre più valide che meglio rispondano all’iperbolico superamento della storia della colpevolezza che è stato già operato da Gesù. L’amore non si accontenta del compimento del bene secondo la legge, ma spinge più avanti il desiderio per trovare una forma sempre nuova e più rispondente alla pienezza del bene. Se il cuore della vita morale del cristiano è l’amore, come si fa a segnare il limite di sufficienza dell’amore nel concreto agire morale? Pertanto, esiste una tensione continua tra legge e carità; questo va inteso non nel senso che la carità distrugge la legge, ma nel senso che la carità impegna il discepolo di Cristo a spostare sempre più avanti il limite del bene segnato dalla legge.

La carità è creativa: senza rinunciare alla verità e alla norma riesce a trovare alternative sempre migliori perché, nella storia condizionata dal peccato, il bene possa affermarsi in modo più pieno. È in questo contesto che mi pare si possa collocare anche il capitolo sulla casistica che sta uscendo dalla clandestinità cui lo aveva relegato un cattivo uso e sta trovando una giusta collocazione all’interno della teologia morale[45]. La casistica, nel suo compito di archiviazione di modelli etici che offrono un primo riferimento nella complessità della vita, non sclerotizza la carità, la rende operativa e concreta. Anzi, è la stessa carità che deve motivare dall’interno la schematizzazione dei casi paradigmatici. Così, da una parte la carità si pone come stimolo alla casistica e, dall’altra, quest’ultima si concepisce come un servizio alla carità, senza la pretesa di esaurirla, ma nella consapevolezza di tipicizzarne le esigenze all’interno della complessità della storia.

Abbiamo messo in evidenza la necessità di una serie di vie concrete attraverso cui la carità possa risultare praticabile. Prima di terminare la riflessione, comunque, è necessario riaffermare che, nonostante tutte le conquiste della giustizia, esisterà sempre un’eccedenza della carità nei confronti di ogni legge e di ogni forma di giustizia. Lo pone in evidenza Benedetto XVI quando mette in guardia dall’errata convinzione che la giustizia potrebbe fare a meno dell’amore. Anche se “c’è del vero” nell’affermazione che “i poveri […] non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia”, tuttavia:

“L'amore -caritas- sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo [...] L'affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe «di solo pane» (Mt 4, 4; cfr Dt 8, 3), convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano”[46].

Lo stesso Pontefice riprende il discorso nella  più recente Caritas in veritate, quando proprio all’inizio scrive, al n. 6:

La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso «donare» all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. […] La “città dell'uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo”

3.   Conclusione

Parafrasando la Lettera a Diogneto, potremmo dire che quello che nella cultura dell’autore l’anima era per il corpo, la carità lo è per la vita morale: essa costituisce la persona come aperta all’accoglienza dell’amore trinitario e pronta a donarlo come risposta a Dio e ai fratelli. Alla luce di questo dato originario, allora, possiamo fondare meglio anche la tradizione morale la quale vedeva la carità come una virtù necessariamente presente in ogni altra virtù[47]. Partendo da questa convinzione, abbiamo innanzitutto insistito sul fatto che la carità prima di essere donata, va accolta dall’alto e, in tanto può animare il rapporto del cristiano nei confronti degli altri, in quanto è stata prima sperimentata. La rottura di questo equilibrio «tra l’accoglienza e il dono» della carità produce conseguenze nefaste per la vita morale del cristiano. Questa, infatti, si sbilancia o su una sorta di «pelagianesimo» che fa della volontà privata il cuore dell’impegno morale, oppure su una specie di «quietismo» che, enfatizzando il momento passivo dell’accoglienza dell’amore, non lo vive attivamente nel rapporto con gli altri.

Un’ultima conclusione è vicinissima  a quella della Caritas in veritate: il legame così stretto tra l’amore trinitario accolto dall’uomo e da lui donato e testimoniato conduce alla consapevolezza che la crisi del nostro mondo è una crisi teologale. Ascoltiamo Benedetto XVI:

“Senza Dio l'uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. […] La maggiore forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l'una e l'altra come dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli e verso una vita intesa come compito solidale e gioioso […] L'umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto all'Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile -nell'ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell'ethos- salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri delle mode del momento” (Caritas in veritate, 78)

Secondo la mia sensibilità, il recupero della carità come cuore della vita morale del cristiano dovrebbe oggi avvenire soprattutto a partire dalla consapevolezza che è Dio che ci ama. Più che nostra, è sua la carità che si trova al centro della nostra vita.

 NOTE_____________

  1. [1] Agostino, Commento alla prima lettera di Giovanni, 5, 7.
  2. [1] Mi limito a segnalare V. Warnach, Agape: die Liebe als Grundmotiv der neutestamentlichen Theologie, Patmos, Düsseldorf 1951; G. Quell-Stauffer, «agapaô – agapè», in G. Kittel - G. Friedrich, edd. Grande Lessico del Nuovo Testamento I, Paideia, Brescia 1965, 57-146; C. Spicq, Agapé dans le NT. Analyses des texetes, Gabalda – Lecoffre, Paris 1966³; V. P. Furnisch, The Love Command in the New Testament, Abingdon, New York 1972; J. Beutler, «Das Hauptgebot im Johannesevangelium», in K. Kertelge, ed. Das Gesetz im Neuen Testament, Herder, Freiburg 1987, 222-236 e S. Legasse, «Et qui est mon prochain?». Etude sur l'objet de l'agapè dans le Nouveau Testament, Cerf, Paris 1989; T. Soding, Das Liebesgebot bei Paulus: die Mahnung zur Agape im Rahmen der paulinischen Ethik, Aschendorff, Münster 1995.
  3. [1] Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 25 dicembre 2005, 1.
  4. [1] Cfr. la raccolta di L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockam a Sant’Alfonso de Liguori. Saggi di storia della teologia morale moderna (1300-1787), Paoline, Cinisello Balsamo 1990 e la storia del concetto di legge naturale ricostruita da J. R. Mahoney, The Making of Moral Theology: A Study of Roman Catholic Tradition, Clarendon, Oxford 1987.
  5. [1] Mi riferisco all’opinabile commento di M. Vidal, La proposta morale di Giovanni Paolo II. Commento teologico-morale all’enciclica «Veritatis Splendor», Dehoniane, Bologna 1994 e Id., «La morale nel “Catechismo della Chiesa Cattolica”», in Rivista di teologia morale 98 (1993) 199-228.
  6. [1] Sotto il profilo filosofico si deve menzionare il classico di A. MacIntyre, After virtue. A study in moral theology, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1984² e A. Da Re, «Il ritorno dell’etica nel pensiero contemporaneo», in Id., ed. Etica oggi: comportamenti collettivi e modelli culturali, Gregoriana, Padova 1989, 103-233. Riguardo alla teologia mi limito a ricordare S. Pinckaers, Il rinnovamento della morale, Borla, Torino 1968 e gli sforzi di Keenan, di cui segnalo: J. F. Keenan, «L'etica delle virtù: per una sua promozione tra i teologi moralisti italiani», in Rassegna di teologia 44 (2003) 569-590; D. Harrington - J. Keenan, Jesus and Virtue Ethics. Building Bridge between New Testament Studies and Moral Theology, Sheed and Ward, New York 2002 e J.F. Keenan, «Wath does Virtue Ethics Bring to Genetics?», in L.S. Cahill, ed. Genetic, Theology and Ethics. An Interdisciplinary Conversation, Herder & Herder, New York 2005, 97-113. Si può vedere, infine, il tentativo di  R. Gerardi, Alla sequela di Gesù. Etica delle beatitudini, doni dello Spirito, virtù, Dehoniane, Bologna 1999.
  7. [1] Si possono vedere le osservazioni specifiche sul tema ad opera di G. Gilleman, Il primato della carità in teologia morale, Morcelliana, Brescia 1959; cfr. anche negli stessi anni J. Fuchs, «Die Liebe als Aufbauprinzip der Moraltheologie. Ein Bericht», in Scholastik 29 (1954) 79-87. Più tardi vedi anche L. Janssens, «Norm and Priorities in Love ethics», in Louvain Studies 9 (1977), 115-156 e, infine, è tornato sul tema R. Caseri, Il principio della carità in teologia morale. Dal contributo di G. Gilleman a una vita di riproposta, Glossa, Milano 1995; M. C. McKenzie, Paul Ramsey's Ethics: the Power of 'Agape' in a postmodern World, Westport, London 2001.
  8. [1] Benedetto XVI, Deus caritas est, 1.
  9. [1] Sulla problematica si può vedere W.D. Udson, ed. The Is/ought Question. A Collection of Papers on th Central Problems in Moral Philosophy, Macmillan, London 1969 e J. Gründel, Mutevole e immutabile nella teologia morale. Considerazioni sulla teologia morale alla luce dell’assioma “agere sequitur esse”, Morcelliana, Brescia 1976.
  10. [1] “In questo si è manifestato l' amore: noi non abbiamo amato Dio, ma egli ha amato noi e ha inviato il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati” (Gv. 4, 10).
  11. [1] “Ma Dio ci dà prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi” (Rom. 5, 8). 
  12. [1] “Colui che era fin dal principio, colui che noi abbiamo sentito, colui che abbiamo veduto con i nostri occhi, colui che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, cioè il Verbo della vita -poiché la vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta e ne diamo testimonianza e vi annunziamo questa vita eterna che era presso il Padre e che si è manifestata a noi-, colui che abbiamo veduto e sentito lo annunziamo a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo” (Gv. 1, 1-3).
  13. [1] Eb. 5, 8.
  14. [1] Cfr. Gv. 13, 1-5.
  15. [1] Gv. 19, 30.
  16. [1] “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 16).
  17. [1] “Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio; e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 21 novembre 1964, 16). E ancora da ricordare l’Ad gentes quando scrive che la necessità della missione evangelizzatrice non esclude che “Dio, attraverso vie a lui note, possa portare gli uomini, che senza loro colpa ignorano il vangelo, alla fede, senza la quale è impossibile piacergli” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Ad gentes, 7 dicembre 1965, 8).
  18. Benedetto XVI, Deus caritas est, 14 e 17. Scrive Basilio "L'amore di Dio non è un atto imposto all'uomo dall'esterno, ma sorge spontaneo dal cuore come altri beni rispondenti alla nostra natura […] Diciamo in primo luogo che noi abbiamo ricevuto antecedentemente la forza e la capacità di osservare tutti i comandamenti divini, per cui non li sopportiamo a malincuore, come se da noi si esigesse qualcosa di superiore alle nostre forze, né siamo obbligati a ripagare di più di quanto ci sia stato elargito" (Basilio, Regole più ampie, in PG 31, 909-910).
  19. [1] Su questo mi permetto il rimando al mio C. Zuccaro, Cristologia e morale. Senso, interpretazione, prospettive, Dehoniane, Bologna 2003, con relativa bibliografia.
  20. [1] Cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est, 18.
  21. [1] Si può vedere S. Bastianel, «Una opzione fondamentale di fede-carità», in Coffele G. - G. Gatti, edd. Problemi morali dei giovani oggi, LAS, Roma 1990, 65-79.
  22. [1] Cfr. A. Di Giovanni, «L’ “opzione fondamentale” nella Bibbia», in Associazione Biblica Italiana,  edd. Fondamenti biblici della teologia morale, Paideia, Brescia 1973, 61-82.
  23. [1] Utile la lettura di E. Quarello, La vocazione dell’uomo: l’amore cristiano, Dehoniane, Bologna 1971.
  24. [1] Benedetto XVI, Deus caritas est, 18.
  25. [1][1] Per esempio, anche Häring, che pure mostra la sensibilità programmatica nell’introdurre il discorso sull’amore partendo dalla necessità di “trattare dell’amore con cui Dio ci ama”, tuttavia sviluppa soprattutto il dovere del nostro amore verso Dio: cfr. B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, 2. La verità vi farà liberi, Edizioni Paoline, Roma 1980, 501-586. Ancora più evidente è lo sbilanciamento sul versante dell’amore per Dio, piuttosto che il contrario, nel manuale di A. Günthör, Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale, 2. Morale speciale: le relazioni del cristiano verso Dio, Edizioni Paoline, Alba 1975, 239-320. Il fenomeno è tuttavia inequivocabile nella manualista preconciliare: si veda, come esempio, G. Mausbach, Teologia morale, Paoline, Alba 1959, 571-640.
  26. [1] Si può vedere il volume Parola Spirito e Vita 10 (1984) che tratta il tema sotto vari punti di vista; A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969 che attualizza la lettura veterotestamentario e A. Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Paoline, Cinisello Balsamo 1989² che è utile anche per la riflessione morale.
  27. [1] Cfr. E. Quarello, L'amore e il peccato. Affermazione e negazione dell'uomo, Dehoniane, Bologna 1971.
  28. [1] Rimando come esempio a P. Schoonenberg, «L’uomo nel peccato», in J. Feiner – M. Löhrer, edd. Mysterium Salutis, 4 La storia della salvezza prima di Cristo, Queriniana, Brescia 1970, 589-719. L’autore mostra come il peccato contro Dio è sempre un peccato contro le virtù teologali, soprattutto contro la carità che è “l’unico amore a Dio e al prossimo e [che] che è anche l’anima la ‘forma’ delle virtù morali che riguardano le nostre relazioni intramondano […] Il rifiuto della carità del prossimo implica tutti i peccati del catalogo dell’Apostolo Paolo in Rom. 1” (Ibid., 595-596). Interessante anche la prospettiva di Keenan che da teologo morale intravede nelle storie evangeliche che parlano del peccato sempre una mancanza di amore: “Sin is in the failure to bother to love” (J.F. Keenan, Moral Wisdom. Lessons and Texts from the Catholic Tradition, Sheed and Ward, New York 2004, 57; il capitolo che parla del peccato si trova alle pp. 47-65).
  29. [1] Sottolinea questo aspetto, anche se in modo tendenzialmente unilaterale, E. Drewermann, Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, Brescia 1992.
  30. [1] Cfr. D. C. Maguire, The Moral Choice, Doubleday, Garden City 1978 e D. Pagliacci, Volere e amare. Agostino e la conversione del desiderio, Città Nuova, Roma 2003.
  31. [1] “Si è molto discusso sull’idea di sostanza: ricondotta ciò che in questa sede ne evidenzia l’analisi, la sostanza dell’uomo è l’azione, ciò che egli fa. En to ergo to on. Noi non siamo, non conosciamo, non viviamo che sub specie actionis. Non soltanto l’azione manifesta ciò che eravamo già, ma essa ci fa anche crescere e ci fa per così dire, uscire da noi stessi” (M. Blondel, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997², 293).
  32. [1] Ibid., 197-200 passim.
  33. [1] Ibid., 202 e 220.
  34. [1] “S. Agostino, volendo descriverci il successivo perfezionarsi del dono dell’amore cristico in noi, tratteggia i tre gradi personali dell’amore umano, i quali condizionano lo stesso esercizio caritativo cristico. L’infante ama essere semplicemente amato («amare amari»). Attraverso questa esperienza egocentrica egli principia a conoscere l’amore. L’adolescente ama amare l’altro («amare amare») magari per piacere proprio. L’adulto in modo ablativo ama l’altro («amare») (T. Goffi, Etica cristiana trinitaria, Dehoniane, Bologna 1995, 58).
  35. [1] M. Blondel, L’azione, 327.
  36. [1] Ibid., 346.
  37. [1] Utili stimoli alla riflessione possono venire dalla lettura di A. Rizzi, «La carità come giustizia», in Rassegna di Teologia 26 (1985) 226-244.
  38. [1] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Sollecitudo rei socialis, 30 dicembre 1987, 36.
  39. [1] Si veda G. Lohfink, «Gesetzeserfüllung und Nachfolge», in H. Weber, ed. Der ethische Kompromiss, Universitätsverlag & Herder, Freiburg 1984, 15-58.
  40. [1] Rimando, per esempio, a K. Demmer, «Entscheidung und Kompromiss», in Gregorianum 53 (1972) 332-351.
  41. [1] Richiama questa attenzione E. Quarello, «L’amore come unico principio della vita morale in alcuni rappresentanti dell’etica della situazione», in Rassegna di Teologia 3 (1971) 299-313.
  42. [1] Cfr. F. Schmitz, «La regola aurea: chiave per il contesto etico», in K. Demmer - B. Schüller, edd. Fede cristiana e agire morale, Cittadella, Assisi 1980, 247-264.
  43. [1] “Ma in questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso contrasta come antagonista con un altro principio operante, che […] possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum pietatis».
  44. [1] K. Demmer, Fondamenti di etica teologica, Cittadella, Assisi 2004, 80.
  45. [1] Il tema, anche a causa della riflessione bioetica,  è visto sempre con maggiore interesse; mi limito a ricordare A.R. Jonsen - S. Toulmin, The abuse of casuistry. A history of moral reasoning, University of California Press, Berkeley 1988. Secondo gli autori la casistica come metodo di ragionamento morale ha risentito dell’influsso negativo soprattutto ad opera delle «Lettres Provinciales» (1656) di Pascal, il quale l’ha etichettato come ridicolo e come un tentativo di sotterfugio per eludere la legge. L’«abuso» della casistica consiste nel fatto che proprio in seguito a questa brutta fama si è rigettato il metodo casistico. Cfr. inoltre J.F. Keenan - T.A. Shannon, edd. The Context of Casuistry. Moral Tradition and moral Arguments, Georgetown University
  46. [1] Benedetto XVI, Deusa caritas est, 28. Il Pontefice continua scrivendo: “non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore” (Ibid., 29).
  47. [1] Scrive S. Tommaso: “Ad primum ergo dicendum quod caritas dicitur esse forma aliarum virtutum […] inquantum scilicet formam imponit secundum modum praedictum […] Ad secundum dicendum quod caritas comparatur fundamento et radici inquantum ex ea sustentantur et nutriuntur omnes alias virtutes […] Ad tertium dicendum quod caritas dicitur finis aliarum virtutum quia omnes alias virtutes ordinat ad finem suum” (Summa theologiae, II-II, q. 23, a. 8). Per un commento cfr. la tesi di A. J. Falanga, Charity the form of the virtues according to St. Thomas, Catholic University of America Press, Washington 1948. Si veda anche R. Carpentier, «Le primat de l’amour dans la vie morale», in Nouvelle Revue Théologique 83 (1961) 3-24: nell’annata ci sono anche altri suoi saggi sullo stesso tema.

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C

mie riflessioni.

 

 Perché continuare ad essere cristiani e che cosa fare da cristiani, come singoli e nei gruppi sociali nei quali siamo già inseriti o che pensiamo di creare? Questo il problema che si pone ad un certo punto ogni persona che ha avuto un’educazione religiosa. Esso non riguarda solo i teologi, con le loro argomentazioni rigorose e informate. Né può essere risolto semplicemente obbedendo ai capi religiosi. Ogni persona ha infatti una propria via, un posto nell’umanità, una propria storia, una propria personale fine: difficilmente sopporta a lungo la completa assimilazione ad una comunità. Questo significa che cultura e autorità non soccorrono fino in fondo, anche se possono aiutare, dare sollievo e consiglio. E che gli sforzi che dotti e capi fanno per unificare il gregge interessano fino ad un certo punto chi si pone quel problema.

 Nel corso dell’incontro del 26 novembre scorso ho detto che, a mio parere, l’esperienza  religiosa fondante per il cristiano è la compassione per il sofferente. E’ un sentimento che nei Vangeli viene attribuito spesso allo stesso Gesù. Il Dio dei cristiani nessuno l’ha mai visto,  è scritto così. La vicinanza con i sofferenti ci fa però desiderare che esista. E’  allora che ci raggiungono le storie della Bibbia e la dottrina bimillenaria, per fondare la speranza che egli esista veramente. E che, sulla base di quanto ci è stato raccontato e insegnato, stabiliamo anche che fare, che direzione dare alla nostra vita. Infatti la compassione in genere spinge a muovere verso gli altri, in loro difesa e soccorso. Lo stare fermi è sentito come colpa. Da qui in poi sorgono però dei problemi, perché, una volta inseriti in una comunità  di credenti, che educa e sostiene, ma ci si vuole muovere verso gli altri, ci si trova davanti a molte limitazioni, a molte vie sbarrate. Le Chiese cristiane hanno avuto infatti fin dagli inizi una vera fissazione per l’uniformità, sia sotto il profilo concettuale sia sotto quello etico. L’imposizione dell’uniformità è stata storicamente giustificata con il possesso della verità, esposta in una dottrina che nei secoli si è fatta sempre più compiuta e minuziosa, pazientemente adattata al mutare dei tempi ma con un nucleo immutato, considerato come “deposito di fede” connotante l’esperienza cristiana,  da trasmettere di generazione in generazione. Oggi la Chiesa vive un’epoca nella quale, nonostante il frequente utilizzo del termine “carità”, lo si legge anche nei titoli delle due encicliche del Papa regnante, si pensa sia necessario prioritariamente ricondurre i fedeli alla conoscenza e all’osservanza della verità. E’ un proposito chiaramente espresso nella “Caritas in veritate”: “…bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo della –veritas in caritate-, ma anche con quella, inversa e complementare della –caritas in veritate-". Del resto le due finalità erano già presenti nell’espressione paolina che nella lettera agli Efesini, cap.14, vers.15, definisce il concetto: “alethéuontes de en agàpe”, in greco, cioè “proclamare/agire secondo verità nella carità”. Si teme infatti che il credente, spinto da ciò che si fa rientrare nel concetto di carità, finisca per scompaginare l’ordine ecclesiale. Un timore antico, molto presente, ad esempio, già negli scritti paolini. Che in passato ha determinato molte delle azioni delle quali ci si è poi dovuti pentire, come mancanze verso la carità, da ultimo durante l’ultimo Giubileo, quello dell’anno 2000.

  E’ scritto che Dio è amore, “O Theòs agàpe estìn” in greco, “Deus càritas est”  in latino, e che chi vive nell’amore è unito a Dio e Dio è presente in lui (prima lettera di Giovanni, cap. 4, vers.15). Il termine carità, traduce il latino “càritas", che a sua volta traduce il greco “agàpe”. Ma che cos’è questo amore di cui si parla e che ci dicono poterci far capire che cosa è il Dio dei cristiani? Può esserci utile, come credenti cristiani, per risolvere il nostro problema che ho detto? Ci dicono che la carità è, tra le cose fondamentali, più grande della fede e della speranza e che essa non tramonterà mai, anche se ad un certo momento non sapremo più dire che cosa sta succedendo e interpretarne il senso per noi; è scritto. Per la verità che cosa sia esattamente la carità non è molto chiaro, come anche non lo sono, nonostante la compiutezza formale, le dottrine che esprimono le verità cristiane fondamentali. Infatti si ragiona su ciò che è inconoscibile per definizione. Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, cap.13, vers.1-7 ci fa degli esempi di come è chi “ha” la carità: è paziente, premuroso, non è geloso, non si vanta, non si gonfia di orgoglio, è rispettoso, non va in cerca del proprio interesse, non conosce la collera, dimentica i torti, rifiuta l’ingiustizia, la verità è la sua gioia, tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta, non perde mai la speranza. Ma perché dovremmo essere così? E’ scritto che Dio ci ama (prima lettera di Giovanni, cap. 4, vers.10-12), che l’amore vero è quello che Dio ha avuto per noi, non   il nostro amore verso Dio. Per questo amore di Dio verso di noi ci è stato mandato Gesù, in ciò si è manifestato l’amore di Dio per noi (“en tòuto efaneròthe e agàpe en emìn”). Dio nessuno l’ha mai visto (“theòn oudèis pòpote tethèatai”: prima lettera di Giovanni,cap.4, vers.12; la stessa espressione si trova all’inizio del Vangelo di Giovanni, cap.1, vers.18). Dio ci ha amati? Come convincersene? Dico, non solo come risultato intellettuale, derivante da un ragionamento, ma anche dal punto di vista esistenziale, anche emozionale,  che è quello che più conta nelle decisioni fondamentali di ciascuno, come appunto quando ci convinciamo che un altro, non ancora Dio, ci vuole bene.

 Certo, dal punto di vista razionale ci sono buoni motivi per fare affidamento sul Dio dei cristiani. Ma ce ne sono altrettanti per non credere. Innanzi tutto Dio non si vede. Dicono che operi, ma poi non vi è generale accordo su che cosa esattamente debba ricondursi alla sua volontà e alla sua azione, salvo che per la missione terrena di Gesù, sulla quale abbiamo riscontri storici piuttosto imprecisi, anche se sappiamo con certezza che essa ha avuto effetti importanti per l’umanità, anche solo dal punto di vista dei costumi religiosi e dei mutamenti prodotti nelle società e nelle politiche. Dicono che ci ami, ma l’esistenza umana è sempre piuttosto precaria, in preda a forze della natura e sociali preponderanti che spesso la sopprimono. E, più in generale, tutta la vita sul pianeta appare dominata dalla spinta di tutti i viventi a lottare contro tutti gli altri, della propria specie o di altre specie, per mangiarsi gli uni con gli altri e per  difendersi dalle aggressioni degli altri uccidendoli, un travaglio inteso e violento nel quale può essere arduo, alla fine, riconoscere un’intenzione amorevole di chi si dice che lo abbia progettato e lo sostenga.

 Ma è pur vero che c’è chi vive con sofferenza questo mondo com’è. La sofferenza è un sentimento, un’emozione, come l’amore. Forse si è avuto modo di imparare l’amore da piccoli, proprio quando si è ricevuta la  prima educazione religiosa, e, da adulti, si scopre che quegli insegnamenti consentono di dare voce ad aspirazioni profonde. E quindi li si approfondisce, mentre si cerca di farsi largo nella società in cui si è capitati a vivere. Per mezzo di essi si giunge a poter parlare di un altro mondo possibile, di nuovi cieli e di nuova terra, dove non ci siano più né lutto, né pianto, né dolore. La persona religiosa è consapevole che si tratta di una realtà al di fuori della portata delle forze dell’uomo: l’esperienza storica lo conferma, l’analisi delle forze in campo pure. In ciò sta appunto il carattere religioso di queste convinzioni. In effetti il mutamento prodotto da esse è innanzi tutto di carattere interiore. Esso assicura spazi di libertà personale, possibilità di azione individuale. Certe volte, come in Francesco d’Assisi, irrompe nella società e determina fratture con il contesto umano contemporaneo, salvo poi consentire successive ricomposizioni sulla base di diverse intese umane. La religione come fatto collettivo può essere una forma di mutamento della società. Ma quella cristiana determina sempre un mutamento interiore e, innanzi tutto, guida la persona al mutamento interiore secondo le sue più profonde e vitali aspettative. Non si può mai dire però che cosa ne uscirà, alla fine. A volte l’organizzazione della comunità religiosa ha guidato verso il mutamento nel senso evangelico, a volte no. Così anche nell’esperienza individuale la religione cristiana può essere utilizzata per meri scopi di integrazione sociale. Ho visto in televisione un vecchio programma di Enzo Biagi sull’Inghilterra, intervistò lo scrittore Anthony Burgess sull’esperienza religiosa della Chiesa d’Inghilterra, gli anglicani soggetti formalmente alla Regina d’Inghilterra dopo lo scisma di Enrico VIII, e lui disse che nella Chiesa d’Inghilterra i più forti moventi religiosi cristiani non erano più importanti, essa era diventata come il club del “cricket” e rassicurava gli inglesi di vivere nel mondo migliore possibile, che Dio era un inglese. Dal punto di vista del mantenimento della pace sociale anche una religione così organizzata può avere una sua utilità, noi non dobbiamo disprezzarla a priori. Così, quando ci propongono il compromesso come obiettivo tattico accettabile, che consente di realizzare il massimo bene possibile in una determinata situazione, noi in fondo non possiamo ragionevolmente opporci a questa prospettiva. Ma bisogna avere consapevolezza che nella decisione religiosa personale possono anche aver peso altri moventi, altre esigenze, a volte contrastanti con lo scopo di mantenere stabile e pacifica una determinata società. E che questi altri moventi possano essere diversi da quelli proposti come prioritari dall’autorità, nell’esercizio della funzione di governo della comunità dei credenti.  Che, addirittura, alcune strade sbarrate dall’autorità possano venir percorse da un credente, alla ricerca di un suo spazio di azione durante il processo di conversione. Questo è appunto ciò di cui oggi si ha paura, nella Chiesa cattolica, in particolare in quella italiana, guidata da persone molto anziane, il cui progetto di vita è quindi in gran parte concluso  e che, sostanzialmente, vivono nel passato. Si cerca di imporre l’uniformità nei ragionamenti e nelle consuetudini di vita, allo scopo di mantenere l’unità del popolo cristiano. In questo l’uso della ragione ha assunto un carattere autoritario: in base ad esso si pensa infatti di poter imporre una soluzione unica, o un certo ventaglio di soluzioni, ad ogni problema. E certamente percorrere strade diverse presenta dei rischi. Ma ciascuno poi, quasi sempre, percorrerà la propria, così come ciascuno quasi sempre sceglie l’amata o l’amato senza tener conto di consigli e ordini, comunque vivendoli con sofferenza, e poi dai frutti si vedrà se ha agito bene o male.

 Mario Ardigò

 

  

 



[1] Agostino, Commento alla prima lettera di Giovanni, 5, 7.

[2] Mi limito a segnalare V. Warnach, Agape: die Liebe als Grundmotiv der neutestamentlichen Theologie, Patmos, Düsseldorf 1951; G. Quell-Stauffer, «agapaô – agapè», in G. Kittel - G. Friedrich, edd. Grande Lessico del Nuovo Testamento I, Paideia, Brescia 1965, 57-146; C. Spicq, Agapé dans le NT. Analyses des texetes, Gabalda – Lecoffre, Paris 1966³; V. P. Furnisch, The Love Command in the New Testament, Abingdon, New York 1972; J. Beutler, «Das Hauptgebot im Johannesevangelium», in K. Kertelge, ed. Das Gesetz im Neuen Testament, Herder, Freiburg 1987, 222-236 e S. Legasse, «Et qui est mon prochain?». Etude sur l'objet de l'agapè dans le Nouveau Testament, Cerf, Paris 1989; T. Soding, Das Liebesgebot bei Paulus: die Mahnung zur Agape im Rahmen der paulinischen Ethik, Aschendorff, Münster 1995.

[3] Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 25 dicembre 2005, 1.

[4] Cfr. la raccolta di L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockam a Sant’Alfonso de Liguori. Saggi di storia della teologia morale moderna (1300-1787), Paoline, Cinisello Balsamo 1990 e la storia del concetto di legge naturale ricostruita da J. R. Mahoney, The Making of Moral Theology: A Study of Roman Catholic Tradition, Clarendon, Oxford 1987.

[5] Mi riferisco all’opinabile commento di M. Vidal, La proposta morale di Giovanni Paolo II. Commento teologico-morale all’enciclica «Veritatis Splendor», Dehoniane, Bologna 1994 e Id., «La morale nel “Catechismo della Chiesa Cattolica”», in Rivista di teologia morale 98 (1993) 199-228.

[6] Sotto il profilo filosofico si deve menzionare il classico di A. MacIntyre, After virtue. A study in moral theology, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1984² e A. Da Re, «Il ritorno dell’etica nel pensiero contemporaneo», in Id., ed. Etica oggi: comportamenti collettivi e modelli culturali, Gregoriana, Padova 1989, 103-233. Riguardo alla teologia mi limito a ricordare S. Pinckaers, Il rinnovamento della morale, Borla, Torino 1968 e gli sforzi di Keenan, di cui segnalo: J. F. Keenan, «L'etica delle virtù: per una sua promozione tra i teologi moralisti italiani», in Rassegna di teologia 44 (2003) 569-590; D. Harrington - J. Keenan, Jesus and Virtue Ethics. Building Bridge between New Testament Studies and Moral Theology, Sheed and Ward, New York 2002 e J.F. Keenan, «Wath does Virtue Ethics Bring to Genetics?», in L.S. Cahill, ed. Genetic, Theology and Ethics. An Interdisciplinary Conversation, Herder & Herder, New York 2005, 97-113. Si può vedere, infine, il tentativo di  R. Gerardi, Alla sequela di Gesù. Etica delle beatitudini, doni dello Spirito, virtù, Dehoniane, Bologna 1999.

[7] Si possono vedere le osservazioni specifiche sul tema ad opera di G. Gilleman, Il primato della carità in teologia morale, Morcelliana, Brescia 1959; cfr. anche negli stessi anni J. Fuchs, «Die Liebe als Aufbauprinzip der Moraltheologie. Ein Bericht», in Scholastik 29 (1954) 79-87. Più tardi vedi anche L. Janssens, «Norm and Priorities in Love ethics», in Louvain Studies 9 (1977), 115-156 e, infine, è tornato sul tema R. Caseri, Il principio della carità in teologia morale. Dal contributo di G. Gilleman a una vita di riproposta, Glossa, Milano 1995; M. C. McKenzie, Paul Ramsey's Ethics: the Power of 'Agape' in a postmodern World, Westport, London 2001.

[8] Benedetto XVI, Deus caritas est, 1.

[9] Sulla problematica si può vedere W.D. Udson, ed. The Is/ought Question. A Collection of Papers on th Central Problems in Moral Philosophy, Macmillan, London 1969 e J. Gründel, Mutevole e immutabile nella teologia morale. Considerazioni sulla teologia morale alla luce dell’assioma “agere sequitur esse”, Morcelliana, Brescia 1976.

[10] “In questo si è manifestato l' amore: noi non abbiamo amato Dio, ma egli ha amato noi e ha inviato il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati” (Gv. 4, 10).

[11] “Ma Dio ci dà prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi” (Rom. 5, 8). 

[12] “Colui che era fin dal principio, colui che noi abbiamo sentito, colui che abbiamo veduto con i nostri occhi, colui che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, cioè il Verbo della vita -poiché la vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta e ne diamo testimonianza e vi annunziamo questa vita eterna che era presso il Padre e che si è manifestata a noi-, colui che abbiamo veduto e sentito lo annunziamo a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo” (Gv. 1, 1-3).

[13] Eb. 5, 8.

[14] Cfr. Gv. 13, 1-5.

[15] Gv. 19, 30.

[16]La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 16).

[17] “Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio; e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 21 novembre 1964, 16). E ancora da ricordare l’Ad gentes quando scrive che la necessità della missione evangelizzatrice non esclude che “Dio, attraverso vie a lui note, possa portare gli uomini, che senza loro colpa ignorano il vangelo, alla fede, senza la quale è impossibile piacergli” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Ad gentes, 7 dicembre 1965, 8).

[18] Benedetto XVI, Deus caritas est, 14 e 17. Scrive Basilio "L'amore di Dio non è un atto imposto all'uomo dall'esterno, ma sorge spontaneo dal cuore come altri beni rispondenti alla nostra natura […] Diciamo in primo luogo che noi abbiamo ricevuto antecedentemente la forza e la capacità di osservare tutti i comandamenti divini, per cui non li sopportiamo a malincuore, come se da noi si esigesse qualcosa di superiore alle nostre forze, né siamo obbligati a ripagare di più di quanto ci sia stato elargito" (Basilio, Regole più ampie, in PG 31, 909-910).

[19] Su questo mi permetto il rimando al mio C. Zuccaro, Cristologia e morale. Senso, interpretazione, prospettive, Dehoniane, Bologna 2003, con relativa bibliografia.

[20] Cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est, 18.

[21] Si può vedere S. Bastianel, «Una opzione fondamentale di fede-carità», in Coffele G. - G. Gatti, edd. Problemi morali dei giovani oggi, LAS, Roma 1990, 65-79.

[22] Cfr. A. Di Giovanni, «L’ “opzione fondamentale” nella Bibbia», in Associazione Biblica Italiana,  edd. Fondamenti biblici della teologia morale, Paideia, Brescia 1973, 61-82.

[23] Utile la lettura di E. Quarello, La vocazione dell’uomo: l’amore cristiano, Dehoniane, Bologna 1971.

[24] Benedetto XVI, Deus caritas est, 18.

[25] Per esempio, anche Häring, che pure mostra la sensibilità programmatica nell’introdurre il discorso sull’amore partendo dalla necessità di “trattare dell’amore con cui Dio ci ama”, tuttavia sviluppa soprattutto il dovere del nostro amore verso Dio: cfr. B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, 2. La verità vi farà liberi, Edizioni Paoline, Roma 1980, 501-586. Ancora più evidente è lo sbilanciamento sul versante dell’amore per Dio, piuttosto che il contrario, nel manuale di A. Günthör, Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale, 2. Morale speciale: le relazioni del cristiano verso Dio, Edizioni Paoline, Alba 1975, 239-320. Il fenomeno è tuttavia inequivocabile nella manualista preconciliare: si veda, come esempio, G. Mausbach, Teologia morale, Paoline, Alba 1959, 571-640.

[26] Si può vedere il volume Parola Spirito e Vita 10 (1984) che tratta il tema sotto vari punti di vista; A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969 che attualizza la lettura veterotestamentario e A. Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Paoline, Cinisello Balsamo 1989² che è utile anche per la riflessione morale.

[27] Cfr. E. Quarello, L'amore e il peccato. Affermazione e negazione dell'uomo, Dehoniane, Bologna 1971.

[28] Rimando come esempio a P. Schoonenberg, «L’uomo nel peccato», in J. Feiner – M. Löhrer, edd. Mysterium Salutis, 4 La storia della salvezza prima di Cristo, Queriniana, Brescia 1970, 589-719. L’autore mostra come il peccato contro Dio è sempre un peccato contro le virtù teologali, soprattutto contro la carità che è “l’unico amore a Dio e al prossimo e [che] che è anche l’anima la ‘forma’ delle virtù morali che riguardano le nostre relazioni intramondano […] Il rifiuto della carità del prossimo implica tutti i peccati del catalogo dell’Apostolo Paolo in Rom. 1” (Ibid., 595-596). Interessante anche la prospettiva di Keenan che da teologo morale intravede nelle storie evangeliche che parlano del peccato sempre una mancanza di amore: “Sin is in the failure to bother to love” (J.F. Keenan, Moral Wisdom. Lessons and Texts from the Catholic Tradition, Sheed and Ward, New York 2004, 57; il capitolo che parla del peccato si trova alle pp. 47-65).

[29] Sottolinea questo aspetto, anche se in modo tendenzialmente unilaterale, E. Drewermann, Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, Brescia 1992.

[30] Cfr. D. C. Maguire, The Moral Choice, Doubleday, Garden City 1978 e D. Pagliacci, Volere e amare. Agostino e la conversione del desiderio, Città Nuova, Roma 2003.

[31] “Si è molto discusso sull’idea di sostanza: ricondotta ciò che in questa sede ne evidenzia l’analisi, la sostanza dell’uomo è l’azione, ciò che egli fa. En to ergo to on. Noi non siamo, non conosciamo, non viviamo che sub specie actionis. Non soltanto l’azione manifesta ciò che eravamo già, ma essa ci fa anche crescere e ci fa per così dire, uscire da noi stessi” (M. Blondel, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997², 293).

[32] Ibid., 197-200 passim.

[33] Ibid., 202 e 220.

[34] “S. Agostino, volendo descriverci il successivo perfezionarsi del dono dell’amore cristico in noi, tratteggia i tre gradi personali dell’amore umano, i quali condizionano lo stesso esercizio caritativo cristico. L’infante ama essere semplicemente amato («amare amari»). Attraverso questa esperienza egocentrica egli principia a conoscere l’amore. L’adolescente ama amare l’altro («amare amare») magari per piacere proprio. L’adulto in modo ablativo ama l’altro («amare») (T. Goffi, Etica cristiana trinitaria, Dehoniane, Bologna 1995, 58).

[35] M. Blondel, L’azione, 327.

[36] Ibid., 346.

[37] Utili stimoli alla riflessione possono venire dalla lettura di A. Rizzi, «La carità come giustizia», in Rassegna di Teologia 26 (1985) 226-244.

[38] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Sollecitudo rei socialis, 30 dicembre 1987, 36.

[39] Si veda G. Lohfink, «Gesetzeserfüllung und Nachfolge», in H. Weber, ed. Der ethische Kompromiss, Universitätsverlag & Herder, Freiburg 1984, 15-58.

[40] Rimando, per esempio, a K. Demmer, «Entscheidung und Kompromiss», in Gregorianum 53 (1972) 332-351.

[41] Richiama questa attenzione E. Quarello, «L’amore come unico principio della vita morale in alcuni rappresentanti dell’etica della situazione», in Rassegna di Teologia 3 (1971) 299-313.

[42] Cfr. F. Schmitz, «La regola aurea: chiave per il contesto etico», in K. Demmer - B. Schüller, edd. Fede cristiana e agire morale, Cittadella, Assisi 1980, 247-264.

[43] “Ma in questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso contrasta come antagonista con un altro principio operante, che […] possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum pietatis». Il peccato dell'uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura, sconfitto, se questo «mysterium pietatis» non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell'uomo […] Riferendosi senza dubbio a questo mistero, anche san Giovanni, pur col suo caratteristico linguaggio, che è diverso da quello di san Paolo, poteva scrivere che «chiunque è nato da Dio, non pecca»: il Figlio di Dio lo salva e «il maligno non lo tocca» (1Gv 5,18s). In questa affermazione giovannea c'è un'indicazione di speranza, fondata sulle promesse divine: il cristiano ha ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non peccare” (Giovanni Polo II, Esortazione apostolica Reconcilatio et paenitentia, 2 dicembre 1984, 19-20).

[44] K. Demmer, Fondamenti di etica teologica, Cittadella, Assisi 2004, 80.

[45] Il tema, anche a causa della riflessione bioetica,  è visto sempre con maggiore interesse; mi limito a ricordare A.R. Jonsen - S. Toulmin, The abuse of casuistry. A history of moral reasoning, University of California Press, Berkeley 1988. Secondo gli autori la casistica come metodo di ragionamento morale ha risentito dell’influsso negativo soprattutto ad opera delle «Lettres Provinciales» (1656) di Pascal, il quale l’ha etichettato come ridicolo e come un tentativo di sotterfugio per eludere la legge. L’«abuso» della casistica consiste nel fatto che proprio in seguito a questa brutta fama si è rigettato il metodo casistico. Cfr. inoltre J.F. Keenan - T.A. Shannon, edd. The Context of Casuistry. Moral Tradition and moral Arguments, Georgetown University Press, Washington 1995; J.F. Keenan, «The Return of Casuistry», in Theological Studies 57 (1996) 123-139; K.E. Kirk, Conscience and its Problem. An Introduction in Casuistry, Westminster John Knox Press, Louisville 1999.

[46] Benedetto XVI, Deusa caritas est, 28. Il Pontefice continua scrivendo: “non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore” (Ibid., 29).

[47] Scrive S. Tommaso: “Ad primum ergo dicendum quod caritas dicitur esse forma aliarum virtutum […] inquantum scilicet formam imponit secundum modum praedictum […] Ad secundum dicendum quod caritas comparatur fundamento et radici inquantum ex ea sustentantur et nutriuntur omnes alias virtutes […] Ad tertium dicendum quod caritas dicitur finis aliarum virtutum quia omnes alias virtutes ordinat ad finem suum” (Summa theologiae, II-II, q. 23, a. 8). Per un commento cfr. la tesi di A. J. Falanga, Charity the form of the virtues according to St. Thomas, Catholic University of America Press, Washington 1948. Si veda anche R. Carpentier, «Le primat de l’amour dans la vie morale», in Nouvelle Revue Théologique 83 (1961) 3-24: nell’annata ci sono anche altri suoi saggi sullo stesso tema.