Popolo sognato
La teologia, in genere, non ha un’immagine realistica del popolo, ed
essa è la parte più importante della formazione dei nostri capi religiosi. Eppure,
teorizzando, dà molta importanza al popolo in tema di verità: in sostanza esso avrebbe un intuito innato per
individuarla, anche se poi c’è sempre necessità di qualcun altro che gliela
spieghi.
Nella Costituzione La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) si
legge: «L'universalità dei fedeli, che hanno l'unzione ricevuta dal Santo (cf. 1 Gv. 2, 20 e 27), non
può ingannarsi nel credere, e manifesta questa sua singolare proprietà mediante
il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando "dai Vescovi
fino agli ultimi fedeli laici" (S. Agostino, De Praed. Sanct. 14, 27) esprime
l'unanime suo consenso in cose riguardanti la fede e i costumi». Se ne è anche
scritto come di infallibilità del Popolo
di Dio (ad esempio nella Dichiarazione circa la Dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori d'oggi, diffusa nel 1973 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede).
Mille anni di crudele polizia ideologica religiosa (modello di tutte le
altre inquisizioni politiche) potrebbero però convincerci del contrario: questi
sono fatti. Se è necessario trucidare la gente per mantenere la disciplina
dottrinale, non è proprio evidente che verità
e popolo vadano naturalmente d’accordo. Ma che cos’è la verità? E’ una domanda che risuona anche nelle Scritture. Di fatto sembra
che non sia mai stato facile stabilirlo. Se ne è discusso molto per tutti i due
millenni della storia della nostra fede. Spesso non ci si è intesi e allora ci
si è anche combattuti. Accade anche ora, ma i limiti all'accanimento contro gli altri imposti nei sistemi
democratici impediscono esiti tragici.
C’è un verità che riguarda anche il popolo. Qui bisogna scegliere: averne una
visione affidabile, corrispondente alla sua realtà, o immaginarsela per
progettare qualcosa di diverso. Da chi è fatto il popolo che rileva per la
fede? Oggi, in genere, si pensa che sia l’intera umanità, su tutta la Terra. Se
ne vorrebbe fare una sola famiglia. In passato se ne ebbero altre concezioni,
più limitate. E’ un po’ quello che accade ai tempi nostri con i migranti
indesiderati, quelli che vengono dalle nostre parti senza permesso. E’ gente di
cui dobbiamo occuparci? Una risposta, che è quella che è venuta l’altro giorno
da uno dei capi politici italiani, e prima di lui da altri come lui, è che “Noi non
abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere
morale di aiutarli. Aiutiamoli
a casa loro”. Che significa: respingerli. Di parere diverso è il nostro Padre
Francesco, che ci esorta invece ad accoglierli.
Entrambi ritengono che si debba aiutarli, ma, è chiaro, una cosa è darsi da
fare subito, su gente che si ha vicina, su persone concrete, con necessità
immediate, altra programmare di farlo da
lontano. Da vicino le persone sono veramente persone. Da lontano le
persone diventano gente e poi popolo, e popolo di cui, per la
lontananza, si tende ad avere una visione confusa, come appunto accade quando
si guardano le cose da lontano. E, aggiungo, quando ci si comincia a fare
sconti sui doveri morali è poi tutta una china che va verso quella direzione e,
in fondo, ripete la tragica situazione che troviamo all’inizio della storia sacra con quel “Dov’è tuo fratello?”.
Nella nostra confessione la verità è stata legata storicamente all’autorità, non al popolo. Si è pensato
che la verità, scesa del Cielo, fosse proclamata in modo
affidabile, ma anche obbligatorio,
dall’autorità religiosa costituita, che a metà Ottocento è stata poi definita inderogabilmente
nel papato, dal punto di vista dogmatico e giuridico. Vale a dire che si
ritiene fondamentale, per la fede, credere
che il papato possa dire in merito una parola definitiva. E questo nonostante
la catena infinita di errori che il papato imperiale, come ogni altra
autorità politica, ha commesso storicamente in ogni campo dello scibile umano,
a volta correggendosi e a volte no. Insomma si confida che in materia di fede,
quando usa certe formule solenni e impegna la propria autorità sacrale, il
papato non sbagli. La decisione di
quella svolta dogmatica venne in tempi
turbolenti, nel corso di un travagliato Concilio Vaticano 1°, quando, in fondo, la fiducia dei nostri capi
religiosi nella capacità del popolo di intuire la verità era veramente ai
minimi. Infatti sembrava che stesse per crollare un mondo. E’ un po’, in fondo,
anche la situazione dei tempi nostri.
In
genere l’autorità religiosa si è ritagliata
il proprio popolo a misura delle definizioni di verità di
volta in volta escogitate. Il suo popolo
era quello che subiva il fascino della verità
proclamata d’autorità e come gregge seguiva il suo pastore e la sua voce, senza
porre problemi. Ma questo modo di
procedere non ha funzionato più tanto bene quando si è trattato di interloquire
in processi democratici. Questo si è reso necessario più o meno dall’Ottocento,
in Europa, con la metamorfosi, e talvolta il crollo, delle monarchie europee con cui il
papato si era federato, con concordati o accordi simili. Questo in particolare in
rapporto con i movimenti nazionalistici
italiani prima e con il Regno d’Italia poi.
Innanzi tutto, con la fondazione dell’Azione Cattolica, all’inizio del
Novecento (ciò che c’era prima nel laicato italiano era piuttosto diverso), si è
tentato di costituire un corpo politico coerente agli ordini del papato. Poi,
dal secondo dopoguerra, si è accettata una collaborazione politica dei laici con
sempre maggiore autonomia, nelle istituzioni pubbliche civili, fino alla
formale accettazione della democrazia politica nel 1991. In questa fase sono
tornati utili il lavoro sistematico di formazione del laicato fatto nei decenni
precedenti e il ripianare i contrasti con la componente cattolico-democratico
del laicato, con la mediazione di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo
Moro. Negli anni a seguire, quindi negli anni ’90, si è provato a riprendere il
controllo diretto del popolo che politicamente serviva, senza la mediazione dei
cattolico-democratici, ma non è andata bene e ora non si sa più che fare. La
lunga sfiducia manifestata sotto il regno religioso di Karol Wojtyla verso il laicato adulto italiano, vale a dire relativamente
autonomo, quello che Fulvio De Giorgi ha paragonato in un suo fortunato libro
al brutto anatroccolo, con il
tentativo di silenziare il libero dibattito sulla maggior parte delle questioni
per sospetto di deviazione in senso liberale o marxista, e ciò
più o meno fino all’inizio del regno del nostro Padre Francesco, ha
privato, in fondo, la gerarchia di un vero e proprio popolo. Del resto non se ne è curata a sufficienza la formazione,
non si è assecondata una tradizione democratica, timorosi di perderne il
controllo.
Ora spesso si avverte, da come ne parlano, che i nostri capi religiosi non conoscono a sufficienza il loro popolo, impegnati come sono in
prevalenza, per la gran parte della loro giornata che è di ventiquattro ore
come quella di tutti noi, nell’amministrazione
del clero e dei religiosi degli
istituti di vita consacrata, e dei beni e aziende che al clero e agli
istituti di vita consacrata fanno riferimento. Francesco vorrebbe che avessero l’odore del gregge, vale a dire che
avessero maggiore dimestichezza con la gente, ma anche questa è una metafora
che presenta qualche rischio. Quando si parla di pastori ci si riferisce ai
capi, che dovrebbero essere come il Buon
Pastore, un pastore veramente particolare, che non sfrutta economicamente
il gregge. Ma pensare poi al popolo come a un vero e proprio gregge, con la spiritualità, diciamo,
della pecora, non aiuta. Le persone
non sono pecore, non vanno dove si dice loro di andare: bisogna convincerle e spesso
vogliono partecipare alle scelte. Noi laici non siamo e non vogliamo essere
pecore e, dico chiaramente quello che gran parte di noi pensa e non si
azzarda in genere a dire, non riteniamo
la docilità al modo di pecore una virtù. Tra pastore e gregge non ci può essere dialogo. Tra persone sì. Ma la
partecipazione e il dialogo, che è innanzi tutto confronto tra diverse
argomentazioni, richiedono un tirocinio che in religione in genere non si fa o
si fa troppo poco. In Azione cattolica,
ad esempio, si fa.
Il gregge ideale venne talvolta individuato nel mondo
contadino. Accadde nell’Ottocento. Le popolazioni cittadine erano invece esposte, si
riteneva, alle subdole insidie delle nuove ideologie che si venivano
affermando. I pastori dovevano proteggere gli uni e gli altri, contadini e cittadini, con
atteggiamento intransigente, senza
possibilità di mediazioni di qualsiasi genere. Si riteneva che non si dovesse, non si potesse, ma in definitiva non si volle fare diversamente. Ruppero con il nuovo stato nazionale italiano. Questa fu fondamentalmente la
posizione del papato dal 1870 alla fondazione dell’Azione Cattolica nel 1906. Fu la privazione della democrazia per i fedeli cattolici: una tragedia culturale e politica durata circa cinquant'anni, e anni cruciali per la vita politica italiana. Ma
il mondo contadino serviva a poco, al dunque, perché era una forza sociale
subalterna e finché fosse rimasta tale, sebbene, almeno fino agli inizi del
Novecento molto numerosa, molto più di oggi. Questo richiese la collaborazione
delle classi colte e un lavoro di formazione sistematico tra la gente, a
partire dai più piccoli: fu affidato all’Azione Cattolica. In Italia, si era
iniziato spontaneamente a svolgerlo, da parte dei laici, nella seconda metà dell’Ottocento,
ma erano sorti, verso la fine del secolo, gravi dissidi tra correnti intransigenti
politicamente contrarie all’integrazione nel nuovo stato nazionale italiano e correnti democratiche. L’enciclica Le novità, del 1891, dalla quale si fa
iniziare la dottrina sociale contemporanea, venne dopo almeno due decenni di
iniziative sociali di laici e preti.
Esse si manifestavano periodicamente in un’istituzione nazionale che era
l’Opera dei Congressi, sede di incontro per coloro che in quelle azioni sociali
erano impegnati. Non riuscendo a controllare la situazione, il papato ripartì
da capo con l’Azione Cattolica, ad inizio Novecento, dopo aver posto termine d’autorità
a ciò che c’era prima. Fino al 1958, quando terminò il regno religioso di
Eugenio Pacelli, la struttura era centrata su un potere religioso-politico
sacralizzato e centralizzato, il papato romano, regnante religioso alla cui maestà la gente si accostava al modo in cui faceva con i regnanti civili, con lo stesso timoroso e
sottomesso ossequio, e su masse politicamente e sistematicamente formate a
seguire gli indirizzi politici del papato nelle questioni civili (per sostenere
i diritti della Chiesa). Una soluzione
che ebbe notevole successo e che consentì un ruolo determinante dei cattolici
nella fase politica successiva alla caduta del fascismo. Dal ‘58 si attivarono
processi democratici e si ebbe una progressiva desacralizzazione del potere politico
del papato, sostituita dal fascino
personale del regnante. Si cominciò con il Papa-buono,
Angelo Roncalli, e poi con la spettacolare e lunga esperienza di Karol Wojtyla.
In questa fase la relazione mediatica tra regnante e masse fu molto importante
e la gente fu spinta a diventare popolo
del Papa: un papismo ingenuo, non sacralizzato, in cui la personalità e la
vita del regnante erano molto importanti e conosciute fin nei minimi dettagli
(cosa inimmaginabile riferita ai papi sacrali regnanti fino al 1958). Dagli anni ’80 il
lavoro di formazione del laicato progressivamente si fece meno efficace e i
processi democratici annichilirono. Si riteneva, in definitiva, che fosse
sufficiente l’immedesimazione emotiva del popolo con il regnante, che, nei grandi eventi di massa, appariva
così efficace. Questo ha creato un vuoto, una distanza, tra pastori e gregge, per cui ci si conosce poco. Per la
gente comune c’è stata, dunque, e a
lungo, prevalentemente la spiritualità-spettacolo,
di massa, senza vera partecipazione, ma solo presenza; per una stretta cerchia di consulenti c’è stata la
possibilità di avvicinare i capi religiosi ma senza alcuna vera condivisione di
responsabilità. Della partecipazione,
in fondo, si diffidava e non si sapeva nemmeno come gestirla: per questo
divenne carente anche la formazione.
Dal
2005, in Italia, si è tentato di
rimediare: è del marzo di quell’anno la Lettera
ai fedeli laici - “Fare di Cristo il
cuore del mondo” della Commissione
Episcopale per il laicato della Conferenza Episcopale Italiana, nella
quale si legge:
“A volte, può essere che il laico nella Chiesa si senta ancora poco
valorizzato, poco ascoltato o compreso. Oppure, all’opposto, può sembrare che
anche la ripetuta convocazione dei fedeli laici da parte dei pastori non trovi
pronta e adeguata risposta, per disattenzione o per una certa sfiducia o un
larvato disimpegno. Dobbiamo superare questa situazione. Una cosa è certa: il
Signore ci chiama; chiama ognuno di noi per nome.
[…]
È indispensabile uscire da quello strano ed errato atteggiamento
interiore che faceva sentire il laico più “cliente” che compartecipe della vita
e della missione della Chiesa.
[…]
Se lo Spirito Santo è il
protagonista ultimo della vita personale, così come lo è della vita della
Chiesa, non si può ritenere che ci sia un’isola spirituale, cioè la comunità
ecclesiale in cui affidarsi alla guida dei pastori, e uno spazio operativo,
cioè il mondo, dove si è soli con la propria autodeterminazione. La
responsabilità laicale comincia nel partecipare attivamente là dove si assumono
i grandi orientamenti delle scelte cristiane sotto la guida di pastori; la
fedeltà a Cristo e alla Chiesa continua là dove si vive immersi nel mondo e
nella relativa autonomia dei suoi ambiti. Parte integrante di questa sintesi di
vita del laico è la capacità di raccordare sapientemente il suo essere e
servire nella Chiesa, con il compito di animare cristianamente la realtà del
mondo.
[…]
In questo momento storico, in cui si va plasmando la complessa
fisionomia di una nuova civiltà planetaria; mentre la comunità cristiana
italiana si prepara a celebrare nel 2006 a Verona il suo quarto Convegno
ecclesiale nazionale, che ruoterà intorno a tali problemi, c’è bisogno di una
nuova primavera del laicato, che possa letteralmente rianimare, in forme
significative e comunicabili, tutti gli ambiti di vita in cui un fedele laico
può essere apostolo: nell’evangelizzazione e santificazione, nell’animazione
cristiana della società, nell’opera caritativa; nell’azione pastorale della
Chiesa, così come nella famiglia e nella vita pubblica; in forme individuali e
associate; delineando un nuovo stile di vita, segnato dalla conversione
dell’intelligenza e degli affetti, in cui l’intera rete delle relazioni con se
stesso, con gli altri e con il creato sia abitata dal soffio dello Spirito. Ma
per fare ciò bisogna ovviamente pregare, riflettere, estrarre dal nostro tesoro
«cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52): essere cioè veri cristiani.
Da allora però non si è fatta molta strada.
Venuto meno un regnante religioso con la personalità e l’indole adatte agli
eventi spirituali spettacolari, ci si è avveduti che la gente è preda del populismo, che è quando ci si fa massa
dietro a colui che conferma la gente nelle sue paure o nelle sue tentazioni. Ma anche l’immagine del popolo che danno i populisti è poco aderente alla realtà. Il populismo,
come certi fatti religiosi, è solo incantamento e, in genere, ha le gambe
corte, come si dice delle bugie, e disillude presto. Rimangono le persone con i
loro problemi di vita e accostarle costa fatica, ma alla fine produce, crea
relazioni più significative. Nel contesto dell’individualismo dei nostri
giorni, in cui sembra che ognuno viva per sé, o al massimo in famiglia,
possiamo figurarci un popolo disperso. Le scorciatoie mediatiche per radunarlo si
sono dimostrate piuttosto inefficaci: al massimo fanno convergere una folla,
che rapidamente si disperde, nel giro di qualche ora o al più di qualche giorno.
Eppure, come si sostiene fin dall’antichità, gli esseri umani sono viventi sociali. E’ sufficiente creare
delle opportunità e si stabiliranno nuove relazioni. Ma bisogna accettare le
persone per quelle che sono, vale a dire
esseri umani, non pecore, gregge.
Sì, in effetti noi laici abbiamo avuto l’impressione di essere stati
poco valorizzati, ma anche più di questo: sappiamo di contare
poco o nulla. Si parla di noi laici, nei convegni che fanno sulle nostre vite i nostri capi religiosi, ma
ci è abbastanza chiaro che di noi, di quelle nostre vite, non sanno molto e, in
più, decidono sulla base di molti partiti presi di dubbio fondamento. Così, si
coesiste ignorando tutto ciò, facendo finta che tutto vada come deve. Quindi
poi esistono due mondi, affiancati non integrati: quello delle vite dei laici e
quello del clero e dei religiosi. Ci si accosta perché si ha bisogno gli uni
degli altri, ma c’è poco più di questo. Potrebbe essere diverso? Potrebbe. Perché
no? Ma certe cose occorre inventarsele, e prima ancora sperimentarle. Non sarà
dall’ambigua teologia pastorale
corrente, piena di distinguo e di riserve, per cui con una mano sembra che si
dia ma con l’altra sicuramente si riprende, che verranno le soluzioni. Se il
principio rimarrà “tutto il potere al
clero”, non si andrà molto avanti. Il gregge
rimarrà tale e tanti saluti a tutto…
Mario Ardigò – Azione Cattolica
in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli