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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

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lunedì 12 ottobre 2020

Popolo - Spunti per il dialogo in vista dell’incontro in Google Meet del 17 ottobre 2020 sul tema “Come siamo popolo?”

 Popolo

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Spunti per il dialogo in vista dell’incontro in Google Meet del 17 ottobre 2020 sul tema “Come siamo popolo?”

 

0. Premessa. Le idee di popolo e di nazione  sono di nuovo al centro del dibattito pubblico.  Sono sfruttate per creare nuovi fattori di coesione politica tra la gente, in un tempo in cui ne sono venuti meno molti del passato recente.  Nell’Ottocento furono alla base delle ideologie nazionaliste che promossero l’unificazione politica dell’Italia, in particolare di quella repubblicana di Giuseppe Mazzini (1805-1872), fino ad arrivare ai movimenti interventisti  che, tra il 1914 e il 1915, spinsero per l’entrata del Regno d’Italia nella Prima Guerra mondiale. La rigenerazione del popolo italiano, e quindi della nazione, fu uno un tema dominante nell’ideologia del fascismo mussoliniano, come fattore principale di un progettato imperialismo italiano. Dopo la sconfitta del regime fascista, nella fase di progettazione e costruzione di uno stato con diversi fondamenti (1945-1946), deposta nel nuovo corso l’ideologia razzista e imperialista, l’idea di popolo come comunità attiva, realmente partecipante, responsabile e deliberante  fu proposta in antitesi al sistema istituzionale monarchico, come principio cardine di una riforma repubblicana delle istituzioni pubbliche, sulla base degli esempi di virtù civiche manifestate durante la guerra di Resistenza (1943-1945). Successivamente, e fino all’inizio degli anni ’90, le questioni pubbliche si polarizzarono su marcate differenze ideologiche tra le formazioni partitiche che avevano assunto il controllo dello stato, in particolare tra il partito cristiano, sorretto dall’attivismo cattolico, e quelli di ideologia socialista, nell’ambito dei qualei quello comunista venne presto a rappresentare la forza maggiore a differenza che in epoca pre-fascista.  Dalla metà degli anni Novanta e per i successivi vent’anni circa, la politica fu marcatamente de-idelogizzata e fu concepita in genere come manifestazione di interessi coalizzati, ma anche di diversi stili di vita e di consumo. Tra il 2010 e il 2013 in Italia si visse un’epoca propriamente rivoluzionaria, con un fortissimo ricambio di ceto politico e di fattori di coesione prodotto da agitazioni sociali basate sul proposito di rottamazione  del precedente personale della politica, accusato di aver operato prevalentemente nell’interesse dei propri gruppi di influenza. Da un lato si sono tentate sperimentazioni di democrazia diretta, sfruttando piattaforme  informatiche, dall’altro si sono recuperati temi del precedente nazionalismo, in un neo-nazionalismo caratterizzato da un’idea di popolo  con marcati connotati etnici, sul modello di quello proposto dal fascismo storico, senza però inglobare il principio della guerra imperialista come fattore di rigenerazione etica e politica.

 In religione, d’altro canto, dagli anni ’60 doveva farsi i conti con l’idea di Popolo di Dio, comunità di fedeli attiva e solidale in fase di espansione universale, deliberata nei documenti normativi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) come essenza della Chiesa nella concezione cattolica.  La questione si è da ultimo ulteriormente articolata con l’avvento del regno del papa Francesco (2013), nel corso del quale sono stati proposte idee derivate dall’esperienza delle Chiese latino-americane che, cercando di contrastare il colonialismo culturale europeo, hanno dato molta importanza alle  culture  dei popoli anche nelle espressioni religiose. Non solo al Popolo universale di Dio, come totalità, ma anche ai singoli popoli che ne costituiscono porzioni  non parti, con le loro differenti culture, si vorrebbe riconoscere quel  senso della fede - sensus fidei,  nel significato di senso soprannaturale della fede di tutto il popolo,  che sarebbe quella proprietà di non potersi ingannare nel credere, nelle questioni di fede, che si manifesterebbe quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici c’è l'universale consenso in cose di fede e di morale. E’ questione non particolarmente evidente al di fuori della teologia cattolica, per l’incredibile livello di violenza impiegato storicamente nei secoli nella lotta alle cosiddette  eresie e contro la gente del popolo che vi credeva e  che ne praticava i valori e l’etica. Ed è difficile immaginare una sola delle questioni di fede e morale sulla quale in passato si sia avuto universale consenso  dei popoli  e all’interno dei popoli. La linea dell’ortodossia è stata tracciata, in realtà, d’autorità, senza coinvolgimento di tutto  il popolo. E tutto sembra un po’ dipendere da che cosa si intende per Popolo di Dio, in particolare se i dissenzienti ne continuino a fare parte o non.

 Considerata, quindi, la grande attualità dell’argomento, ho pensato, nell’organizzare per il prossimo 17 ottobre il primo incontro telematico, con Google Meet, di proporre alla riflessione e al  dialogo comuni la domanda “Come siamo popolo?”,  per cercare di chiarirci le idee a partire dal nostro concreto e personale modo di vivere in società, evitando di impelagarci in questioni ideologiche e dottrinali con le quali in genere si ha meno dimestichezza. Nella mia prospettiva, il metodo  di quell’incontro   è però importante quanto il tema. I

  Il metodo  è quello del dialogo democratico. Il tema, quello di  come si  è popolo, mette in questione la convivenza democratica, perché si può essere popolo  anche in altri modi.

  Dialogo democratico  significa che ci si impegna a non limitarsi a  dire la propria, come accade spesso quando si parla insieme in un gruppo, ma ad agganciarsi  alle argomentazioni proposte dagli altri, per condividerle, integrarle o confutarle. In modo che poi, alla fine, sia possibile fare una sintesi  del dibattito, proprio per quei legami  che ciascuno ha tessuto con gli altri. Questo richiede di  ripudiare l’argomento  secondo me, che taglia fuori gli altri e di impegnarsi a sviluppare ragionamenti che cerchino condivisione ragionata   anche al di fuori della propria soggettività, per costruire un pensiero comune.

  Quello della democrazia è uno dei modi  in cui si può essere popolo. Lo si può essere anche semplicemente rimanendo sudditi  ad un potere superiore. Fino al Concilio Vaticano 2° era appunto quest’ultimo il modo prescritto di essere popolo  nella Chiesa universale. Siamo ancora nella fase di passaggio, aperta da quel Concilio, verso un modo diverso di essere popolo, quello in cui si è comunità attiva di fedeli  in una Chiesa locale, porzione  della Chiesa universale, non semplice suo distretto  amministrativo al quale siano assegnati  popolo e territorio, e in una Chiesa universale come comunione di Chiese.

   Di seguito offro alcuni spunti per i dibattito che ho sviluppato dall’inizio di settembre sul blog  http://acvivearomavalli.blogspot.it/ . Ve li offro di seguito.

1. Sull’idea di popolo.

  L’idea di popolo  ha avuto uno sviluppo storico e varia, in una stessa epoca, di società in società e di contesto in contesto.  Divenne molto importante per la nostra fede fin dalle origini.

   Per il Maestro, “popolo” era innanzi tutto quello degli israeliti della sua epoca, ai quali disse di essere stato mandato innanzi tutto. Essi concepivano loro stessi come popolo in quanto legati dall’etnia, da costumi religiosi e di altro genere, da un rapporto particolare con il territorio, tra il Mediterraneo a occidente, il Libano e la Siria al nord,  il fiume Giordano a oriente e il deserto a sud, nel quale si erano insediati storicamente, e dalla consapevolezza di una predilezione divina che determinava un comune destino.

  E poi c’erano tutti gli altri popoli della terra, ai quali, ad un certo punto il Maestro inviò i suoi seguaci, per farne dei discepoli, e quindi perché venisse insegnato  loro tutto ciò che egli aveva comandato.

  I primi cristiani, presto, ritennero anch’essi di essere diventati un popolo, come gli israeliti, salvo che per la relazione con un certo territorio. Roma e Costantinopoli non divennero mai per i cristiani ciò che era Gerusalemme per gli ebrei. I Cristiani si figurano una nuova Gerusalemme che scenderà dal Cielo. E immaginano di essere amati dal Creatore, non prediletti tra gli altri popoli.

  Nello sviluppo storico delle teologie cristiane questo popolo doveva espandersi in tutto il mondo. Come si sarebbe dovuto relazionare con gli altri popoli? Il rapporto poteva pensarsi come  conflittuale di assimilazione, di coesistenza nella separazione, di dominio. Tutte queste modalità si manifestarono negli eventi politici nei quali i cristiani vennero coinvolti nella loro lunga storia. La nostra fede, dal Quarto secolo, manifestò evidenti connotati politici, vale a dire che influì sul governo delle società in cui era immersa. Presto la relazione prevalente diventò quella di dominio.

 Dal Secondo millennio quel dominio fu teorizzato come sostenuto da una struttura istituzionale paragonabile a quella delle società civili, ma distinta da esse. In relazione a questa istituzione, il popolo, come nelle società civili, venne concepito come la massa dei governati, delle persone soggette all'autorità istituzionale. Con il formarsi degli stati europei, che divennero modello per analoghi processi nel mondo colonizzato dagli europei, dal Cinquecento quella struttura istituzionale venne considerata analoga a un stato, quindi come una società organizzata, visibile, religiosa, con poteri propri di una società perfetta e sovrana,quindi  con leggi proprie, con autorità proprie, con mezzi e fini propri, resa omogenea  da quelle leggi e autorità proprie, con un popolo  costituito dagli individui, dalle famiglie dagli altri gruppi soggetti a quel potere istituzionale.

 Nell’Ottocento, con il formarsi in Europa delle ideologie basate sulle nazioni, vale a dire sulle popolazioni considerate accomunate per elementi etnici, linguistici, storici e destinate a ricadere sotto l’autorità di istituzioni di dimensione nazionale, il popolo  fu visto progressivamente come fonte della legittimazione  all’esercizio del potere politica, insieme o in sostituzione di quella sacrale  evidenziata dalla diciture “Per Grazia di Dio” sulle deliberazioni delle autorità sovrane. Questo processo, però, non riguardò, se non in minima parte. la Chiesa cattolica come istituzione, nella quale, ed è la situazione di oggi, il popolo  è ancora prevalentemente presentato nella condizione di gregge  nei confronti dei Pastori, che governano l’istituzione, anche se gli viene riconosciuta un virtù singolare, per la quale non potrebbe ingannarsi quanto alle verità di fede.

2. Popolo di fede.  E’ diverso chiedersi “Come siamo popolo?”, o, invece “Che cosa è  il popolo?” o “Come dovrebbe essere il popolo?”.

Nel primo caso, non si tratta di:

a) dare una definizione di popolo;

b) dire quale sia la definizione giusta  di popolo in politica o religione;

c) trattare della nazione  e del nazionalismo, concetti politici strettamente legati a quello di popolo.

  Si tratta di presentare come si è popolo, quindi come ciascuno lo è e lo fa. Questo implica anche dire qual è il proprio atteggiamento politico  nella società, perché l’idea di popolo è interamente costruita dalla politica e pertanto  è espressione di un sistema di dinamiche di potere sociali. Quindi anche: come si partecipa politicamente alla società.

   Quella di popolo si è sviluppata come concezione religiosa e poi giuridica. Ora è religiosa e giuridica. Non, ad esempio, sociologica o antropologica. La sociologia studia le dinamiche sociali; l’antropologia le culture umane, i modi sociali di essere umani. Per sociologia e antropologia quello di popolo è un concetto poco accurato: nelle scienze che studiano la natura e la società si parte dalle osservazioni della realtà, ma nella realtà il popolo  non c’è. Ci sono le società così come ci appaiono, composte da strati sociali che le dividono, le attraversano, si scontrano, si combinano, si fondono, si separano, a seconda delle dinamiche sociali. Ci sono individui e gruppi, con certe caratteristiche antropologiche. La scienza studia partendo dal basso, il concetto di popolo  cala invece dall’alto. Nella ricerca scientifica, il pensiero formale, quello che crea concetti, cerca di adattare i concetti  alla realtà; nel campo religioso e giuridico, invece,  si tenta di adattare la realtà ai  concetti. Pensare  realisticamente  i popoli secondo le immagini  che ne propongono le religioni e il diritto delle società va oltre le facoltà cognitive dell’essere umano, nella sua biologia, che comprende anche capacità mentali su basi neurologiche. Da questo punto di vista, si ritiene che un umano possa  pensare  al più circa 150 relazioni con altre persone. Noi agiamo sempre in  teatri  sociali molto limitati. Tutto ciò che va oltre  è una massa confusa di gente  nella quale non riusciamo a cogliere le individualità se non avvicinandoci a contesti limitati, ad un certo gruppo  di persone. Su questo si basa la magia  del teatro e del cinema: si può rendere l’idea  di masse umane con pochi attori sulla scena. Non ne cogliamo l’incongruenza, perché la nostra realtà cognitiva è appunto quella.

  Quando il Papa si affaccia dalla finestra del suo ufficio che dà su piazza San Pietro all’Angelus della domenica vede solo una massa  di individui: non gli è possibile coglierli ognuno nella propria realtà personale. Ma anche per i fedeli nella piazza è un po’ lo stesso. Vedono una figura umana, sentono la sua voce, ma non possono cogliere il Papa nella sua individualità: gli sono troppo lontani. La nostra vita è fatta di relazioni personali ravvicinate. Questo perché, come ci avvertono gli esperti di psicologia cognitiva e di neuroscienza, la nostra mente ha una base biologica che risale a circa 200.000 anni fa e, da allora, non è cambiata molto.

  Con il progresso delle tecnologie informatiche si cerca di superare questi limiti cognitivi e di avvicinarsi a ciò che si riteneva proprio degli dei: conoscere tutti nella loro individualità personale. Questo perché ciò darebbe un potere enorme sulle società umane: è un risultato che in Occidente si è già prodotto,  su scala ancora non generale ma comunque abbastanza vasta, nelle attività di influenza dei consumatori e dei corpi elettorali. Sistemi automatici hanno imparato a parlare  a ciascuna delle persone sulle quali chi gestisce il sistema vuole influire, ma parlando  nello stesso alle persone come componenti di una società, in modo da influenzare l’agire sociale di moltitudini. In questo lavoro l’idea di popolo non è utile. La tecnologia informatica, combinata con la psicologia, la sociologia e l’antropologia, fa emergere gli  strati sociali  di cui una società è composta, per influirvi. Per certi versi quello di popolo è un concetto di natura mitologica, vale a dire una narrazione che combina aspetti di realtà con elementi emotivi, in modo da rendere l’idea, non di  ciò che è, ma di ciò che si vorrebbe fosse.

  Vediamo in questi giorni i grandissimi stormi di storni sulla nostra città. Improvvisamente si levano in alto e cominciano a girare tutti insieme e sembra che cerchino una direzione: ad un certo punto partono tutti insieme. Stormo,  una parola dal gergo militare è passato alla biologia. Indica una moltitudine inquadrata  e orientata. Popolo ha un significato simile: ecco perché nasce dal gergo religioso e giuridico. In entrambi quei campi si fa questione di autorità e di obbedienza. Vi sono stati tempi in cui popolo  era chi obbediva e altri nei quali il popolo  si faceva motore dell’agire sociale, era un società in movimento ordinato verso un fine. Quando Giuseppe Mazzini, rivoluzionario irredentista italiano (1805/1872), propose il motto Dio e popolo era in quest’ultimo senso che intendeva il popolo.

  L’idea di popolo  fu al centro del dibattito sviluppatosi nella Chiesa cattolica durante il Concilio Vaticano 2°, che si svolse a Roma, nei palazzi del Vaticano, tra il 1962 e il 1965 e che deliberò una marcata riforma  della nostra Chiesa, rimasta in gran parte inattuata. Si volle indurre un cambiamento dell’essere popolo nella nostra Chiesa, da moltitudine obbediente,  resa popolo proprio da quell’essere sottomessa  al dominio di un sistema di autorità, a moltitudine motore della storia, per indurre un mutamento sociale radicale, secondo l’idea di agàpe salvifica, in una società sottomessa  alla violenza sociale, economica, politica, a partire dalle singole persone per estendersi come un incendio a tutti gli ambienti, fino a modificare le strutture sociali di potere dominanti. L’agàpe,  termine del greco antico che è al centro delle narrazioni evangeliche e che richiamava originariamente l’idea di un lieto convito, è una forma di convivenza libera dalla violenza e dall’oppressione. 

 Ora, a noi, per crescere in una fede che sia capace di pensiero sociale e dunque di attivismo sociale, di pensiero orientato all’azione sociale secondo la missione dell’Azione Cattolica, non serve approfondire più di tanto il concetto di popolo  sotto il profilo religioso o giuridico, quanto capire se il nostro modo di vivere la fede comprenda, e come, un essere popolo, e anche come si manifesti, nella pratica del nostro vivere quotidiano,  questo essere popolo. Ci sentiamo e agiamo come popolo sottomesso ad autorità o, anche  o invece, popolo motore della storia? Come interpretiamo questo nostro essere popolo  secondo la nostra  vita di fede religiosa (secondo la nostra teologia pratica, per ora senza considerare la dottrina, quella teologia semplificata che ci insegna come obbedire alle autorità religiose)? Il nostro essere popolo è in qualche modo legato alla nostra fede e come?

 Una versione di questo proposito di riforma, che implica una proposta di essere popolo e di considerare come popoli  le masse che animano le società umane, si trova nel magistero di Papa Francesco, regnante nella nostra Chiesa dal 2013. Una sintesi efficace si trova nel libretto  di Roberto Repole “Il sogno di una Chiesa evangelica - L’ecclesiologia di papa Francesco”, del quale ho pubblicato una sintesi sul blog https://acvivearomavalli.blogspot.com .

3. Difficile immaginare il popolo. Popolo si è un po’ come gli stormi  degli uccelli: una massa orientata, che va verso una direzione e ci va tutta insieme. Ma gli stormi  di uccelli, per quanto numerosi, e talvolta come accade a Roma con gli storni molto numerosi, non sono mai tutto, anzi tutti. L’idea di popolo va molto più in là di ciò che si vede. Ciò che non si vede, si cerca di immaginarlo, e qui soccorre il mito, soprattutto per evocare la direzione di quelle moltitudini che chiamiamo popoli. Il problema è che proprio non ce la facciamo ad immaginarci veramente  una moltitudine come un popolo, ad esempio quella del popolo italiano. Alla fine ciò che ci appare nella mente è un po’ sempre una folla e poi, in essa, dei gruppetti o addirittura degli individui che prendiamo come simboli del popolo a cui appartengono.

  Nei miti che riguardano il popolo è su quei simboli che riversiamo attributi emotivi e, allora, la nostra immagine di popolo finisce per risentirne, perché una persona la collega, ad esempio, a Giuseppe Mazzini, un’altra al Cavour e un’altra ancora al Papa Pio 9°, che di Mazzini e Cavour fu un duro avversario. Infatti, se ci avviciniamo a una società, l’indistinzione che caratterizza in genere l’idea di popolo, come gruppo che comprende tutti,   svanisce e ci si manifesta la realtà delle società umane, che sono fatte di gruppi in interrelazione tra loro per questioni di interesse, vale a dire per le direzioni che prendono e che a volta li portano a collidere continuando a fronteggiarsi, altre a fondersi, altre a separarsi, e, infine, recuperata precariamente una certa stabilità pacati i conflitti, spesso a porsi in una gerarchia, dove c’è chi domina  e chi è dominato, e rimane una tensione tra loro.

 Le narrazioni evangeliche in questo non ci soccorrono. Raccontano, infatti, di un piccolo gruppo, in posizione blandamente anarchica, quindi non rivoluzionaria,  nei confronti dei poteri costituiti al suo tempo, che provoca dinamiche piuttosto fluide intorno a sé. Non vediamo costituirsi, dalla sua azione sociale,  posizioni di potere stabilizzate che inducano il sorgere di un popolo. Lo avvicinano folle, tra le quali poi si stagliano alcune persone che interagiscono con il Maestro e i discepoli in una relazione interpersonale, con effetti riflessi sulla società, ma non politica in senso proprio. Come negli episodi della moltiplicazione prodigiosa del cibo, dai quali non origina un’organizzazione sociale: finito l’episodio le folle e i discepoli con il Maestro si separano.

 Compare il popolo  nell’inchiesta di Pilato sul Maestro, quando gli fu portato prigioniero invocando che fosse giustiziato. Vennero le autorità e il popolo, ma certamente non c’era tutta la gente della città e nemmeno tutti gli israeliti, e quindi quel “popolo” non era veramente il popolo. C’erano i capi religiosi e una folla orientata contro il predicatore detenuto: quest’ultima popolo  in quanto soggetta ad un’autorità, quindi “stormo”, nel senso originario di brigata combattente secondo ordini ricevuti. Non è il popolo come oggi cerchiamo di figurarcelo quando usiamo quella parola.

  «Sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome» [nel Vangelo secondo Matteo, capitolo 2, versetto 9]. Ecco, qui la parola popolo  appare usata nel senso in cui oggi la intendiamo. In questo contesto, però, si prevede una dinamica conflittuale, che in alcuni casi si è prodotta, soprattutto alle origini, ma poi è mutata in quella di assimilazione e dominio, con l’inculturazione dei cristianesimi in Asia, Europa e poi in tutto il mondo, processo di scontro che però in certi posti è senz’altro ancora vivo, e allora ci immaginiamo popolo oppresso da altri popoli senza mai veramente riuscire a figurarci l'inverso. La situazione italiana di oggi non è certamente quella del conflitto, tanto che la Repubblica finanzia in maniera imponente la nostra Chiesa ed è rimasta legata ad essa con trattati molto importanti e impegnativi noti come Patti Lateranensi, conclusi del 1929 dal Regno d’Italia e revisionati  in era repubblicana nel 1984. Il nostro problema però è quello di capire se l’essere popolo  abbia anche un significato per la nostra fede e, in particolare, per la missione di evangelizzazione: quell’essere inviati. A chi?

 « “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo".», così traduce  CEI 2008 Mt 28, 18-20, dal testo in greco antico.

« “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,  insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo"», così tradusse CEI 1974 lo stesso passo.

 E così, la TILC  - Traduzione interconfessionale in lingua corrente, togliendo di mezzo “popoli” e “nazioni”: « “Perciò andate, fate che tutti diventino miei discepoli; battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; 20 insegnate loro a ubbidire a tutto ciò che io vi ho comandato. E sappiate che io sarò sempre con voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo”».

 Il testo greco, dove quelle versioni traducono popolinazioni e tutti, ha πάντα τὰ ἔθνη, che si legge pànta ta ètne: la prima parola significa tutte, la seconda le, e la terza, che è all’origine della parola italiana etnia,  nel  greco antico significava sostanzialmente stirpi, genti legate dalla convinzione di una comune discendenza, ma, nella Palestina al tempo del Maestro, veicolava il concetto di genti straniere rispetto ai Giudei, come si chiamavano tra loro gli  ebrei rimasti in Palestina dopo l’Ottavo secolo dell’era antica, quando molti altri vennero deportati altrove.

E’thnos non è equivalente alla parola greca dèmos, che compone la parola italiana democrazia, tanto importante nelle nostre ideologie politiche. I greci antichi fecero delle loro etnie dei popoli-dèmos, costruendo costituzioni attraverso la politica, che è il governare il popolo-dèmos, mentre la democrazia è il popolo che governa se stesso. In definitiva, il popolo-dèmos emerge dalle etnie mediante la politica. L’etnia richiama prevalentemente gli aspetti naturali dei gruppi umani, il popolo  quelli culturali, tra i quali principalmente la politica.

  Ecco che il greco imparato poco e male al liceo, per la mia qualità di pessimo studente, ora mi torna utile nella mia meditazione religiosa. Ma essa naturalmente è veramente infima cosa rispetto alla letteratura immensa che su ogni parola dei Vangeli è stata prodotta, e nessuna persona umana può ormai dominarla.  Nondimeno quella meditazione rimane uno dei principali doveri religiosi, la nostra spiritualità si fonda su di essa: affrontarla nel dialogo vero la arricchisce, oltrepassando i nostri limiti individuali, che sono anche del sapiente: nessuno riesce ormai a sapere tutto. Da qui l'utilità di incontri come quelli che abbiamo programmato, delle nostre riunioni come gruppo di AC San Clemente, e anche la ragione per cui, con lo strumento di Google Meet, vorremmo coinvolgere altri. Inoltre, come AC, uno dei nostri principali interessi è l'azione sociale, che esige appunto l'aprirsi  sociale, in particolare per elevarsi alla politica democratica. E su questa via incontriamo il problema del popolo. 

   Mi sono convinto di questo, ma naturalmente è argomento che nel dibattito con altre persone colte, o addirittura veramente sapienti, potrebbe non reggere e richiedere di essere modificato (Il dialogo, se è veramente tale, arricchisce. La sapienza circola):  sulla questione popolare in senso politico, il pensiero evangelico non ci dà precise istruzioni, in particolare su come risolvere i conflitti sociali, non tanto per fare giustizia (che comunque è molto importante), ma per orientare la gente e farne così ciò che immaginiamo debba essere un popolo, quando cerchiamo di figurarcelo.

4. Popolo e organizzazione sociale. L’idea di popolo,  come anche quella di nazione, non si basa sull’osservazione della realtà delle società umane: popoli  e nazioni  non esistono in natura, si tratta di concetti culturali, in particolare con una forte valenza politica. Sintetizzo un’argomentazione che, naturalmente, va sottoposta a verifica nel dialogo. La riunione  in videoconferenza Google Meet del gruppo AC San Clemente  indetta per il prossimo 17 ottobre, alle 17, dovrebbe servire a questo. E’ finalizzata all’azione sociale, il campo principale di lavoro dell’Azione Cattolica, e si terrà con metodo democratico, che implica pari dignità e  libertà di pensiero e di espressione e, quindi, anche una demitizzazione  dei concetti che vogliono definire i fatti sociali, nel senso che nulla  è sottratto al dibattito, nessuna definizione può pretendere obbedienza incondizionata, tutto è proposto per l’adesione libera e partecipata, dunque aperta all’interazione, nessun argomento può essere respinto facendo appello ad una autorità, ogni confutazione deve essere sufficientemente argomentata.  Questo è il metodo che si adotta anche nella ricerca scientifica. Va bene per tutto il popolo? Ecco, vedete: torna il concetto di popolo, per decidere su una questione molto rilevante, vale a dire quella sulla libertà da riconoscere alle persone. Fino ad epoca abbastanza recente la nostra gerarchia restringeva abbastanza quella libertà nel governo della maggior parte della popolazione, e questo anche non in ambito propriamente di dottrina dogmatica, quelle affermazioni fondamentali tratte dalla teologia che vengono poste come discrimine tra chi è dentro  e chi è fuori.   Quindi il metodo democratico di dialogo è poco usato nelle nostre collettività, che in gran parte vedo costruite come comunità  intorno ad autorità costituite per delega o cooptazione dall’alto   o carismatiche.

  Nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti - Lumen gentium,  un documento legislativo contenente definizioni dogmatiche deliberato durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965), troviamo la seguente definizione, al n.2:

 

Così la Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

 

 Qui è la teologia che definisce l’idea di popolo, attribuendogli il principale fattore di unità,  di natura soprannaturale. Fatto il lavoro teologico, comincia quello sociale, che può essere organizzato in diversi modi, tra i quali quello democratico. In una teocrazia  la medesima autorità che ha la forza  di imporre quella definizione teologica come dogma, quindi come affermazione sottratta al dibattito se non per chiarirne il senso e l’estensione, darà le disposizioni conseguenti di organizzazione sociale. Questo fu l’orientamento della prima dottrina  sociale, quella che troviamo nell’enciclica Le novità - Rerum novarum,  diffusa nel 1891 sotto l’autorità de papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°. Il metodo teocratico  si scontra con la difficoltà di comprendere nei dettaglio quella realtà sociale di cui si vorrebbe, d’autorità, fare un popolo. Fatalmente si scivola nell’assolutismo dogmatico che finisce per comprendere nel dogma anche tutte le disposizioni, per così dire, esecutive, irrigidendo il sistema che inevitabilmente viene a scontrarsi con resistenze sociali di una popolazione che la teocrazia non riesce veramente a capire. Posta la definizione di Chiesa come popolo e il suo fattore di unità nella Trinità divina, sono possibili molte vie diverse per costruire in pratica quel popolo. Oggi è molto sentita la questione di come quel popolo  debba entrare in relazione con gli altri popoli  e se debba essere, oltre che principio di unità tra i credenti cristiani, anche promotore dell’unificazione dell’intero genere umano, e se, in questo caso, esso dovrà soppiantare  gli altri popoli, assimilarli  o farsene assimilare, o, infine, mantenersene sempre separato, al mondo in cui l’ebraismo ha in genere pensato il suo rapporto con le altre genti. Dalla definizione dogmatica non discende tutto il resto, che va pensato  e organizzato, come in effetti si è fatto in vario modo nella storia bimillenaria della nostra Chiesa. Negli scorsi anni ’60 lo si è fatto durante il Concilio Vaticano 2°, che ha avuto al suo centro, appunto, l’idea di popolo e il ruolo in esso del laico, vale a dire chi non è chierico o appartenente ad un ordine religioso.

 Il metodo democratico applicato a problema dell’organizzare il popolo parte dalla condivisione del lavoro tra chi di quel popolo è chiamato a fare parte, che, come osserva spesso papa Francesca,  è in maggioranza il laico. La teocrazia  parte dall’alto e dai concetti teologici, la democrazia  fa emergere la realtà sociale come effettivamente è, nel suo grande pluralismo in un mondo più popolato che mai, e cerca le vie per raggiungere il fattore di unità  definito dalla teologia. In quest’ottica, la competenza  a valutare e decidere dipende dal fatto che quella del popolo è una realtà che anzitutto va vissuta, e vissuta da ognuno. Vissuta significa anche sviluppata nelle situazioni concrete della vita, che sfuggono  al potere e anche alla capacità cognitiva di qualsiasi teocrazia, come anche di qualsiasi altro potere, e sono materia della responsabilità personale.

 Una religione puramente teocratica può senz’altro essere cosa solo degli specialisti teologi, così come l’informatica che c’è negli smartphone che usiamo tutti i giorni è materia dei tecnici informatici e il popolo,  nell’insieme, deve limitarsi a utilizzare  secondo schemi preordinati altrimenti spacca i telefoni, ma una religione popolare,  che quindi voglia anche costituire e costruire un popolo, no, almeno nell’essenziale: in quest’ottica, se la Chiesa universale è popolo, con il fattore di unità Trinitario, ciò che non può essere compreso, e quindi accettato consapevolmente, dal popolo non è l’essenziale. Ma il popolo è realtà necessariamente pluralistica, con tante facce e menti quante sono le persone chiamate a comporlo, altrimenti non è popolo ma solo una sua immagine mitizzata,  quindi  semplificata, e questo richiede che in quel comprendere per accettare siano coinvolti molti e che  tra i quei molti avvenga quello scambio di idee  che consenta la diffusione del sapere e delle esperienze indispensabile per fare di una popolazione, quindi dei molti, una superiore unità. Il metodo democratico, come oggi lo si pratica, e lo si pratica in modo molto diverso per certi aspetti da come lo si faceva tra i greci antichi che lo inventarono e teorizzarono per primi, serve appunto a fare quel lavoro in modo più ampiamente condiviso e partecipato.

5. Essere popolo. Dal punto di vista giuridico, popolo è la gente stabilmente soggetta all’autorità dello stato senza esserlo a quella di altri stati, come gli stranieri. In alcuni casi i trattati internazionali consentono che si possa essere contemporaneamente soggetti all’autorità di due stati. C’è poi il caso degli stranieri che però non sono soggetti all’autorità di altri stati, gli apolidi, e per essi valgono regole particolari. Infine la legge italiana considera popolo anche un certo numero di discendenti di italiani che risiedono stabilmente all’estero e che, per questo, sono molto labilmente soggetti alle autorità italiane.

  A partire dal Cinquecento, la Chiesa cattolica si è data un’organizzazione politica simile a quella degli stati e considera i fedeli come suo popolo in senso giuridico. Considerata però dal punto di vista religioso, secondo la sua dottrina quindi,  essa, nel complesso, è popolo e, più precisamente «un  popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Questo fattore ideale di unità sostituisce quello che per gli stati è costituito dalla loro cultura in senso sociologico, vale a dire l’insieme di concezioni, costumi, istituzioni, tradizioni, comprese quelle religiose,  miti e lingua comuni a una gente stanziata su un certo territorio e diffusi in modo prevalente nella sua società, sulla cui base quando si pensa a quella gente la si pensa come popolo. Questi elementi culturali non sono essenziali per la fede, che è destinata a diffondersi in tutte le culture umane. Nello stesso tempo, quando si diffonde, ciò avviene permeando le culture dei popoli e, ad un certo punto, entra nelle loro tradizioni religiose, costituendone così un fattore di unità con rilevanza politica, quindi per il governo delle società di riferimento. E’  in questo tempo che l’Italia venne considerata  un insieme di popoli cattolici, e poi uno stato  e una nazione cattolici: il principio della religione cattolica come religione di stato venne definitivamente abbandonato solo nel 1984, con la revisione del Concordato Lateranense tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (il Papato romano) che quell’anno fu deliberata dalle due parti, con la procedura prevista dalla Costituzione vigente. Ma già era superata con l’entrata in vigore di quest’ultima che non lo prevede e, anzi, è fondata sul diverso principio della laicità dello stato.  

  Considerata dalla parte degli individui, la questione del popolo, da quando si sono costituiti gli stati,  si presenta sotto forma di quella della cittadinanza. La cittadinanza è l’insieme dei diritti e dei doveri che per il singolo comporta l’essere parte di un popolo in senso giuridico. Con l’affermarsi dei processi democratici, tra quei diritti vennero compresi anche quelli politici, di partecipazione al governo. Nelle autocrazie essi erano e tuttora sono fondamentalmente limitati a certe garanzie, in particolare per quanto riguardava i beni, la vita, le procedure giudiziarie. Ma essi tendono a scemare aumentando il grado dell’autorità pubblica che li fronteggia: nelle autocrazie del passato ogni diritto poteva essere travolto dal sovrano. Ai tempi nostri anche nelle autocrazie sono stabilite garanzie formali verso il potere supremo, ma esse tendono di fatto ad essere ignorate. La Chiesa cattolica è organizzata giuridicamente come un’autocrazia, che tuttavia riconosce ai propri sudditi vari diritti di garanzia verso ogni autorità pubblica salvo quella del Papa, la cui potestà di governo è definita «ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente.» [dal canone 331 del Codice di diritto canonico vigente, deliberato nel 1983]. Nell’esercizio del governo egli è libero di avvalersi o di non avvalersi della cooperazione degli altri vescovi. Tuttavia, per effetto delle leggi deliberate durante il Concilio Vaticano 2° (1962/1965), dagli scorsi anni Sessanta la Chiesa cattolica è interessata a diffusi processi democratici, in particolare nel suo essere popolo con fattore di unità Trinitario, in particolare per il diverso ruolo che fu stabilito in esse per i laici, i fedeli che non sono né chierici né appartenenti ad un ordine religioso. Essi, fino ad un certo punto, furono assecondati, perché si iniziò a pensare al popolo nella sua realtà di organismo di diffusione e di trasmissione della fede, dove per secoli lo si era pensato sostanzialmente solo come oggetto  dell’evangelizzazione attuata da chierici e ordini religiosi.

  In effetti le tradizioni religiose si diffondono e perpetuano nel popolo allo stesso modo degli altri elementi culturali che contribuiscono a definirlo, appunto, popolo. Il problema è però che, quando si  è giunti a prendere coscienza di questo fatto, questa modalità popolare  di evangelizzazione andava facendosi meno efficiente, per i contemporanei processi di desacralizzazione  del potere politico che si andavano manifestando. La desacralizzazione politica, che viene detta anche secolarizzazione,  parola che indica appunto che dalle autorità politiche si pretende una forma di legittimazione  diversa da quella religiosa,  è un fenomeno che è comune a tutto l’Occidente, ma che in Italia, per i fatto che dal dicembre del 1945 al maggio 1994 il partito cattolico,  la Democrazia Cristiana, ebbe la responsabilità della direzione del governo, ebbe caratteri particolari, perché fu assecondato dalla Chiesa cattolica italiana per liberare l’evangelizzazione dai pesanti condizionamenti della politica che si erano inevitabilmente prodotti. Il voto cattolico concentrato su quel partito era stato infatti essenziale per l’instaurazione e il mantenimento della nuova democrazia repubblicana, che aveva anche mantenuto certe posizioni privilegiate di potere alla gerarchia cattolica. In quest’ordine di idee, in particolare, si spiega il senso della scelta religiosa  compiuta dall’Azione Cattolica dal 1963, durante la presidenza di Vittorio Bachelet: da allora l’associazione legò se stessa alla promozione della politica democratica e di una coscienza religiosa libera e consapevole, adulta  in questo senso, indispensabile per influire, come popolo, nella prima. Un modo  di essere popolo  questo che non  poteva non rifluire su quello di essere Chiesa.

6. Popolo o tribù? La concezione di popolo  ha natura propriamente politica  e quindi influenza le attività formative. Gli esseri umani sono infatti, per natura,  viventi che formano  società, ma non sono per natura  popolo. Essere popolo è un modo di vivere una società umana secondo particolari connotati culturali.  L’essere popolo deve quindi essere appreso e insegnato. E ci sono diversi modi di esserlo.

  Nelle nostre attività formative religiose non si ha di solito ben chiaro come  essere popolo secondo la fede e che cosa  comporti. La teologia e, quindi, la catechesi si mantengono molto sulle generali, apparentemente pronte a correggere ma non capaci veramente di definire.

 Uno degli errori più comuni, e fatali, nella formazione religiosa è proporre il popolo  secondo la  fede come una tribù, quindi con legami di solidarietà, dipendenza e preminenza/sottomissione modellati sullo schema della famiglia allargata e quindi con struttura piuttosto rigida modellata su autorità paterne. Del resto la cultura biblica è fortemente impregnata di una tale mentalità. Ma la vita tribale è caratterizzata da un complesso di miti/tradizione/costumi  che non sono fondati sugli insegnamenti evangelici. Il Maestro, in particolare, non costituì una propria tribù e visse piuttosto liberamente le costumanze tribali del proprio ambiente, tanto da venire rimproverato per questo.  E così fecero i suoi primi seguaci fino, addirittura, a staccarsene (come ad esempio sulle questioni delle prescrizioni rituali che riguardavano gli alimenti e della circoncisione).

  Inserito in una tribù, la persona ne dipende. Come in famiglia, viene ancora accettata anche se commette una qualche infrazione, ma non le viene perdonata il rifiuto della dipendenza, della sottomissione. La decisione di staccarsi dalla comunità comporta anche l’interruzione delle sue relazioni con le persone che sono rimaste dentro, quindi la sua emarginazione.   La minaccia dell’esclusione e dell’emarginazione  è un potente strumento di controllo nelle mani delle autorità paterne che dominano il contesto tribale. In questo modo la comunità esercita una pressione  sulle singole persone perché si sottomettano. A differenza di ciò che accade nelle famiglie parentali, l’esclusione e l’emarginazione sono possibili in un contesto tribale e sono molto temute e dolorose per chi le subisce.  Ciascuna persona sta nella tribù come incastrata. La tribù poi si difende dal contesto sociale intorno separandosi  da esso o entrando in conflitto attivo.

  Innestare la formazione religiosa in un contesto comunitario di tipo tribale può apparire utile per consolidarla con quella pressione di cui si diceva. In realtà è altamente controproducente, perché è propria degli esseri umani, biologicamente, l’apertura sociale e questo a differenza delle specie che biologicamente  ci sono più vicine. Inoltre la buona novella evangelica veicola un messaggio di liberazione e di libertà. Vi è poi il rischio di confondere il messaggio religioso con altre tradizioni culturali che portano a travisarlo. Infine, tale modo di procedere è disastroso nella formazione dei giovani, i quali, per natura, devono  affrancarsi da simili contesti costrittivi, come dalle famiglie di origine. Di fatto, il risultato è, prima o poi, il rifiuto della comunità tribale e, insieme, della religione. E’ fatale che accada, soprattutto in una società aperta come quella in cui siamo immersi.

  Di solito, il metodo basato su comunità di tipo tribale comporta il distacco dalla famiglie di origine, qualora non siano inglobate nella tribù. L’argomento di solito è quello che non sono state capaci di mettere in riga  i propri giovani. In genere è un argomento ingiusto e infondato, addirittura diffamatorio, non rispettoso della personalità altrui. In realtà quelle famiglie hanno avviato i propri giovani alla formazione religiosa, secondo il loro dovere religioso, mentre i formatori tribali,  contravvenendo al proprio, li disamorano alla fede con il loro metodo. Del resto, il metodo tribale è necessariamente fondamentalista e totalitario: non tollera partecipazione e collaborazione, ma solo sottomissione.

 Vengono magnificati i risultati ottenuti nel corso di eventi carichi di emotività, al modo degli esercizi spirituali, e si rimprovera alla famiglie che, una volta che i propri giovani, rimessi in riga,  sono rientrati nel loro ambito, non hanno saputo mantenerli come erano diventati. Ma l’evento emotivo crea quella quella che i sociologi chiamano condizione di stato nascente,  analoga a quella dell’innamoramento. E’ piena di emotività, che suscita una sensazione di riconoscimento  e di comprensione sul piano intuitivo e profondo.

Scrisse il sociologo Francesco Alberoni in un libro divulgativo che continua ad avere successo, Innamoramento e Amore, RCS Libri, 1979:

 

«Un famoso mistico medievale, Raimondo Lullo, scrive: - L’amante e l’amato  sono realtà diverse [eppure] concordanti insieme senza opposizione alcuna né alcuna diversità di essenza -. Ne deriva perciò una esperienza particolarissima, di essere completamente diversi eppure di avere una misteriosa e fortissima affinità spirituale. Questa affinità spirituale però prima non c’era, si va costituendo nell’incontro stesso.

[…]

E’ questo il motivo per cui, nei grandi movimenti collettivi, migliaia di persone diverse per età, per classe sociale, si “riconoscono” e formano una unità collettiva, un noi. Il processo è ancora più intenso e violento dell’innamoramento.

[…]

 Tutti i movimenti collettivi  nella loro fase iniziale, in quello che chiameremo  stato nascente, hanno queste caratteristiche.

[…]

  L’innamoramento ha […] la funzione di separare ciò che era unito e unire quanto era diviso; ma unire in modo particolare perché questa unione si  presenta come alternativa  strutturale alla solida relazione precedente. La nuova struttura sfida quella antica alle radici, la degrada a qualche cosa che no ha valore. In parallelo fonda la nuova comunità sulla base di un valore assoluto, un diritto assoluto, e riorganizza attorno a questo diritto ogni altra cosa.»

 

  Quando una persona in formazione viene condotta a un evento emotivo organizzato da una comunità che  è organizzata per esercitare una pressione al modo tribale, viene spinta a staccarsi  dall’ambiente sociale di origine, e, se è una persona giovane, dalla sua famiglia di origine, e spinta verso la comunità tribale. Se, finito l’evento e rientrando in famiglia o comunque nelle relazioni sociali consuete, non si stacca dai costumi familiari o da quelle delle relazioni abituali, significa che l’integrazione tribale non è riuscita, non che ha rifiutato la fede. Ma, per quella comunità, e per le autorità paterne  che la dominano, il rifiuto della comunità  equivale  al rifiuto della fede e quindi prenderanno ad escludere ed emarginare la persona riottosa. Ecco, questa conclusione è assolutamente arbitraria e fa molto danno se vi si dà spazio nella formazione religiosa. Esprime una violenza psicologica inammissibile e, in quanto violenza, controproducente e antievangelica. Bisogna sempre saper distinguere il processo di conversione personale  da quello di assimilazione personale in una certa comunità. Nessuna comunità particolare può pretendere di esaurire i modi di vita secondo la fede, quasi che non ne fossero possibili al suo esterno.

  La condizione di stato nascente  è, per sua natura, in quanto suscitata da forti  elementi emotivi, transitoria. Se non produce, nel tempo, un’amicizia,  si esaurisce: il formatore religioso dovrebbe adoperarsi per favorire una solida  e costante amicizia con Dio che poi si riverbera nelle relazioni sociali. Una formazione alla fede legata prevalentemente ad esperienze altamente emotive produrrà invece adesione altalenante, legata a condizioni straordinarie fatalmente episodiche, una sorta di realtà aumentata nella quale la fede agisce un po’ come un fattore allucinante.

  La fede, poi, serve veramente per mettere in riga  le persone? E’ una sorta di ausilio alla polizia sociale? Il servizio che le comunità formative organizzate al modo tribale offrono è appunto questo. Non stupisce, naturalmente, che i giovani se ne tengano alla larga.

 Per la verità, questa idea del controllo sociale organizzato con una formazione comunitaria  permea anche il rinnovamento della catechesi progettato dagli anni ’70. Comunità emotivamente coinvolgenti avrebbero dovuto sostituire quella pressione che sulle persone veniva esercitata dall’ambiente di cristianità in cui viveva, quello in cui si era persona per bene  se si andava a messa. Naturalmente questa era più che altro una tentazione che rimaneva un po’ sullo sfondo, perché si faceva e si fa invece molto conto sull’adesione profonda, personale, consapevole, ma c’era. Ma fare formazione vera, quella che rende liberi  della libertà dei figli di Dio costa tempo e fatica e bisogna esservi preparati. Non tutti quelli che si occupano di formazione appaiono tali.

 

«Cristo ci ha liberati per la libertà! Sta dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Lettera ai Galati 5,1; detto a proposito dell’obbligo rituale di praticare la circoncisione)

 

  E’ discutibile l’idea di essere popolo di fede  secondo costumi tribali, perché non ci è stato ordinato di chiuderci  dentro delle tribù, ma di andare per il mondo a coinvolgere tutte le genti. Quest’idea si ritrova anche nel magistero di papa Francesco sulla Chiesa in uscita.

  Dunque, come essere popolo? E’ proprio il tema dell’incontro programmato per il prossimo 17 ottobre. E, innanzi tutto,  essere popolo  o essere nel popolo? Essere popolo  implica un’idea di  conformità collettiva a un ideale modello sociale, da adottare tutti insieme (perché il popolo è moltitudine). Essere nel popolo denota invece un modo di interrelazione sociale che, anche in un certo popolo, lascia sussistere e ammette la diversità e un contesto pluralistico.  La concezione democratica di popolo è appunto questa.

7. Un popolo e la sua storia. L’idea di popolo non corrisponde a una realtà naturalistica, come quella relativa al comportamento sociale degli umani. Rientra nella cultura di una società, vale a dire l’insieme delle concezioni, costumi, tradizioni, modalità comunicative a partire dal linguaggio, istituzioni che viene utilizzato per definirla, oggettivarla, renderla comprensibile e prevedibile e, in questo modo, per governarla. Una società può essere fondata in un certo tempo storico con forti elementi di novità, e quindi, in questo senso, partendo quasi da zero (mai da zero, per gli elementi culturali preesistenti  che fatalmente  compongono le mentalità dei suoi nuovi consociati). Un popolo al contrario, proprio perché prodotto culturale, non è mai concepibile senza far riferimento a una lunga storia. Tutti gli elementi che lo connotano hanno avuto una evoluzione storica, in particolare le sue istituzioni che si legano a certe tradizioni. Anzi, gran parte del credito che quelle istituzioni riscuotono si deve al fatto di essere manifestazione di tradizioni storiche. L’antico culto degli antenati si basava su questo. Il processo genetico delle società deriva da abitudini di relazioni sociali che si consolidano ripetendosi nel tempo e coinvolgendo sempre più gente. La consuetudine,  non la legge formale quella deliberata da un’autorità costituita,   è stata la più antica fonte del diritto ed è ancora all’origine dell’evoluzione giuridica che sempre si manifesta nel concreto mondo delle relazioni sociali, e solo successivamente entra nella riflessione teorica dei giuristi e nei provvedimenti normativi delle autorità.

 Quando ci riferiamo genericamente ad un popolo  di solito vogliamo intendere la gente che consideriamo esprimere una nazione. Quest’ultimo è un concetto molto recente nelle idee politiche, e risale fondamentalmente, in quell’accezione,  al Settecento ed ebbe il suo massimo sviluppo nel secolo seguente. La politica contemporanea lo sta recuperando in vari modi dopo il discredito che a lungo lo aveva colpito, per le catastrofi causate in Europa dai nazionalismi fascisti.

   Il  concetto di nazione  è affine a quello di popolo,  con una particolare accentuazione di ipotizzati legami di etnia e con un certo territorio. Ma è poi la politica che definisce l’estensione di quello che viene definito  stato nazionale  e quindi del suo popolo. Su queste basi, ad esempio, si fece il processo di unificazione politica italiana, compiuto nell’Ottocento, sulla base del mito della nazione e quindi  del popolo italiano, quindi di una narrazione colorata da molti elementi emotivi e discriminando nella storia delle genti italiane quelli che non si accordavano con essa. In realtà, ancora oggi come allora, variando certi criteri e tenendo conto di ciò che in precedenza si era ritenuto secondario, si possono distinguere nell’area geografica che politicamente si definisce Italia vari aggregati che, per storia e cultura, meriterebbero il titolo di nazioni  e di popoli. La necessaria correlazione tra governo  e nazione, per cui ogni nazione debba avere un suo governo,  non è mai stata storicamente data per scontata e venne proposta come ideale politico solo a partire dal Settecento in Europa. Nel mondo contemporaneo in genere gli stati presentano caratteri multi-nazionali, vale a dire che aggregano componenti sociali con caratteristiche di nazioni diverse. Bisogna evidenziare che l’ideale dello stato, vale  a dire di una istituzione di vertice che in linea di principio non riconosce altri poteri sopra di sé, sovrano  in questo senso, è stato teorizzato  sempre prima di quello di nazione, come fonte di legittimazione etica e politica del primo. Anche il concetto di nazione,  a differenza di quello sociologico di etnia e come quello di popolo, non descrive dunque una realtà della natura ma è una creazione politica, vale a dire finalizzato al governo di una determinata società.

  In altri contesti, la parola popolo  viene ad indicare solo una parte della società, contrapposta alla sua struttura istituzionale di vertice, in particolare nei sistemi politici basati sul dominio di aristocrazie di stirpe, come nell’antico sistema feudale europeo o come avveniva nell’antica repubblica di Roma, tramontata nel primo secolo dell’era antica con l’egemonia di Giulio Cesare.

  La sigla S.P.Q.R.,  usata nella Roma antica per definire il sistema di governo, significa, dalle iniziali in latino, il Senato e il Popolo Roma, dove originariamente il Senato era un organo collegiale di governo composto da membri di un’aristocrazia (anche se nel tempo vi furono ammessi anche coloro che non ne originavano), e il popolo era la parte restante della popolazione. E’ stata questa, fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e al codice di diritto canonico deliberato nel 1983 per conformare le istituzioni ecclesiastiche ai principi teologici affermati da quel Concilio, anche la concezione di popolo adottata nel governo della Chiesa:

 

sintesi dei canoni 2016-217 del Codice di diritto canonico deliberato nel1917.

 Le Diocesi, e possibilmente i Vicariati e le Prefetture Apostoliche si divideranno in parti territoriali; alle singole saranno assegnati la chiesa, il popolo e il pastore proprio. Nelle Diocesi le parti si chiamano parrocchie, fuori, quasi-parrocchie se hanno un proprio pastore; nè sono ammesse divisioni per nazionalità, famiglie o persone; né nelle esistenti ogni cambiamento senza indulto apostolico. [dal Web]

 

naturalmente con l’avvertenza che al posto di una aristocrazia etnica nella Chiesa vi era, come ancora vi è,  una struttura gerarchica basata sull’Ordine sacro e quindi composta da chierici, la quale si perpetua per cooptazione (chi è sopra sceglie  coloro dei livelli inferiori dell’ordine gerarchico).

 Nell’attuale codice di diritto canonico invece, tutti i fedeli, chierici, laici e religiosi, sono compresi nel Popolo di Dio. Quest’ultimo però non viene definito con connotati etnici o per legami con una certa cultura tradizionale, una lingua, un territorio e, dunque, sotto questo profilo non è nazione  in senso politico.

  E’ evidente che, nel trapasso tra il codice di diritto canonico del 1917 e quello del 1983 è variato il concetto di popolo  nel governo ecclesiastico. Ma, dagli anni ’70, vi è stata un’evoluzione ancora più importante, per il rilievo sempre meno marcato dato alle culture europee e quindi alla teologia europea, che di quelle culture è parte.

  Se si risale nel tempo la storia mondiale, ci si avvede presto come, nel trapasso delle culture, anche l’idea di popolo  cambiò. Se poi ci confrontiamo con le narrazioni evangeliche, ci rendiamo conto, infine, che in esse un’idea di popolo universale, il Popolo di Dio, come lo intendiamo oggi in religione, non c’è, anche se sicuramente ce ne sono gli spunti.

 Quando si ragiona di popolo  e di popoli bisognerebbe quindi tenere sempre sotto mano i manuali di storia delle scuole secondarie, e ricomprarli se ce se ne è disfatti. E la storia, non solo quella detta sacra perché relativa alle narrazioni bibliche, dovrebbe sempre rientrare nella formazione religiosa di base.

8. Che fare come popolo  nella nostra Chiesa?  Concludo le mie riflessioni sull’idea di popolo, in vista dell’incontro in Google Meet del prossimo 17 ottobre sul tema “Come siamo popolo?”. Sono basate sulle mie letture. Sarebbe molto utile che anche i lettori che pensassero di partecipare a quella riunione virtuale preparassero analoghe sintesi, da proporre nel dibattito. Ho proposto di articolare il dialogo in interventi piuttosto brevi, di tre minuti ciascuno, in modo da evitare che la riunione diventi una specie di conferenza in cui tutti quelli che ascoltano prendono come riferimento chi spiega, sempre che la loro attenzione resista un tempo sufficiente, e non è scontato. Lo schema della conferenza mal si adatta ad un incontro virtuale che non abbia come finalità un aggiornamento specialistico. Ma partecipare tutti richiede di prepararsi.

  Quando, nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti, deliberata nel corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che ha la natura e la forma di una legge  della Chiesa, si fecero queste definizioni:

«[…] la Chiesa universale si presenta come « un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» [Cost. Luce per le genti, n.4]

(rifacendosi alle argomentazioni di alcuni Padri della Chiesa richiamati in nota nel documento [Tazio Tellio CIPRIANO (3° secolo), Sulla preghiera del Signore; Aurelio AGOSTINO d’Ippona (5° secolo): Giovanni DAMASCENO (7° / 8° secolo), Contro gli iconoclasti])

e poi:

«In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità.» [Cost. Luce per le genti, n.9]

e

«Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15)

e, infine, (bisognerebbe imparare a memoria quanto segue)

[…]

«I laici nella Chiesa

30. Il santo Concilio, dopo aver illustrati gli uffici della gerarchia, con piacere rivolge il pensiero allo stato di quei fedeli che si chiamano laici. Sebbene quanto fu detto del popolo di Dio sia ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero, ai laici tuttavia, sia uomini che donne, per la loro condizione e missione, appartengono in particolare alcune cose, i fondamenti delle quali, a motivo delle speciali circostanze del nostro tempo, devono essere più accuratamente ponderati. I sacri pastori, infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune. Bisogna infatti che tutti « mediante la pratica di una carità sincera, cresciamo in ogni modo verso colui che è il capo, Cristo; da lui tutto il corpo, ben connesso e solidamente collegato, attraverso tutte le giunture di comunicazione, secondo l'attività proporzionata a ciascun membro, opera il suo accrescimento e si va edificando nella carità» (Ef 4,15-16).

Natura e missione dei laici

31. Col nome di laici si intende qui l'insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.

Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici. Infatti, i membri dell'ordine sacro, sebbene talora possano essere impegnati nelle cose del secolo, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al sacro ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido ed esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore.»

non si proposero certamente idee nuove: su di esse si discuteva, anche con aspre e tragiche divisioni,  nelle Chiese cristiane dal Cinquecento.

 In quelle affermazioni confluiscono due modi diversi e divergenti di concepire la Chiesa e il suo popolo. Fin da ragazzo mi furono spiegati.

  Il primo modello è piramidale, con al vertice il Papa, sotto i vari gradi della gerarchia ecclesiastica, fatta di chierici,  e, in fondo, il popolo, vale a dire, fondamentalmente, i laici che non appartengano ad un ordine religioso.

  L’altro  modello è circolare, con al centro il Cristo e intorno il suo popolo, nel quale ognuno ha qualcosa da fare, una funzione a beneficio di tutti, quindi un ufficio, secondo le sue capacità e la sua indole, i laici come i chierici, come i religiosi.

  Lo sforzo fatto dai chierici che si riunirono in quel Concilio fu quello di tenere insieme  i due modelli, perché, in particolare, ritenevano che l’organizzazione feudale della gerarchia ecclesiastica, ricevuta dai secoli addietro, fosse irrinunciabile ed essenziale per tramandare integra la nostra fede. Di fatto, con alcuni temperamenti, continuò a prevalere il primo, anche se non vanno sottovalutate le novità, in genere presentate solo come aggiornamenti  dell’antica dottrina, piuttosto che come una riforma. In particolare la nostra gerarchia ecclesiastica rimase una autocrazia teocratica, un sistema di potere che non ritiene di aver necessità di una legittimazione dal basso, diciamo dal popolo, in quanto fondata su un mandato soprannaturale  di natura sacramentale, tramandato nell’Ordine sacro.

  E tuttavia la nostra Chiesa è anche organizzata, almeno del Cinquecento, propriamente come uno stato, con autorità, territorio e popolo, vuole ancora essere, nelle questioni di stato, una società perfetta [definizione datane dal gesuita toscano Roberto Bellarmino [1542-1621)],  con tutto ciò che ne consegue trattandosi di stato governato da una autocrazia: la mancanza di limiti all’esercizio del potere se non quelli esercitati dall’altro e l’ampia discrezionalità concessa ai vari livelli dei poteri intermedi, secondo l’ideologia feudale, genera poi i problemi di cui in questi giorni ci si scandalizza nell’opinione pubblica.

  Dopo un decennio di interessanti sperimentazioni di nuovi impegni laicali (anche nella nostra parrocchia), negli anni ’70, durante i quali, in Italia, venne approfondito il nesso tra evangelizzazione  e promozione umana, in particolare nel convegno ecclesiale nazionale svoltosi a Roma nel 1976, sotto il magistero dei Papi Wojtyla – Giovanni Paolo 2° e Ratzinger – Benedetto 16°, venne d’autorità sospeso quel processo, temendosi la dispersione del gregge dei fedeli. In realtà, per quanto mi  è stato dato di constatare, nelle realtà di base si è talvolta addirittura  arretrati a modi di essere popolo di Chiesa caratteristici dell’epoca preconciliare, con la novità che, talvolta, i modi di governo di tipo clericale vengono esercitati nell’associazionismo ecclesiale da autorità laicali, ma nello stesso modo autocratico. In questo quadro, l’Azione cattolica italiana ha fatto sicuramente eccezione, perché è governata con metodo democratico, anche se alcune sue cariche apicali, a tutti i livelli, anche parrocchiale, richiedono il gradimento della gerarchia ecclesiastica.

  Nella realtà di base, quella parrocchiale, in teoria i fedeli dovrebbero essere chiamati a prendere decisioni in Assemblea e, in particolare, ad eleggere membri nel Consiglio pastorale parrocchiale, organo solo consultivo ma comunque manifestazione di una certa incipiente democraticità.  Spesso però queste procedure cadono in desuetudine e personalmente non ricordo di essere stato mai chiamato a parteciparvi nella nostra parrocchia.

  Quindi poi, a livello parrocchiale, ma ai livelli superiori mi pare vada addirittura peggio, i laici sono chiamati prevalentemente ad operare come collaboratori del parroco, al pari dei chierici assegnati alla parrocchia, senza che sia loro riconosciuta alcun ruolo di iniziativa o decisionale. Essi  del resto non sono abituati a collaborare tra loro e, a parte le pratiche individuali di pietà, si riuniscono in associazioni settoriali, prevalentemente dedite al perfezionamento spirituale, ciascuna gelosa del suo spazio. Anche in questo campo l’Azione Cattolica fa eccezione.

  Di questa situazione si è lamentato papa Francesco, ma certamente finora non si è fatto nulla di concreto per cambiarla. Bisognerebbe fare spazio ai laici, ma né loro, né i chierici, sono preparati a questa nuova organizzazione del lavoro. Quindi poi si continua a essere popolo  come prima.

  Ho letto che in alcune parrocchie italiane si sono tentati processi sinodali  per rinvigorire le forme di partecipazione che sulla carta ci sono ancora. Il sinodo dovrebbe essere una organizzazione che, nell’arco di un periodo abbastanza lungo, mesi o addirittura un anno, induca una maggiore coesione nel popolo, chierici e laici, in modo da generare impegni di azione collettiva condivisa e partecipata. Il primo scoglio  è stato, come sempre accade nelle procedure democratiche, e quella sinodale in alcuni suoi aspetti lo è,  individuare chi aveva diritto a prendervi parte: i residenti  nel territorio parrocchiale o anche chi aveva preso l’abitudine a frequentare una parrocchia diversa da quella con giurisdizione sul suo luogo di residenza. La questione  è particolarmente spinosa nella nostra parrocchia, dove in una delle organizzazioni laicali esistenti, la più numerosa, sono presenti molti non residenti che vengono in parrocchia solo per gli eventi di quella loro congregazione. In effetti la parrocchia ha assegnati, come prevedeva il codice di diritto canonico del 1917, un territorio  e un popolo, che è quello che su quel territorio abita, ma, in realtà, non si sa precisamente chi siano quelli di quel popolo che vogliono (e sarebbero disposti a spendere il proprio tempo per) essere parte attiva nell’istituzione parrocchiale, e non semplici utenti  di servizi religiosi. Questo, però, ha in fondo poca importanza per come va una parrocchia ancora oggi, perché quel popolo non conta nulla. Cambiare questa situazione, in un processo sinodale, richiederebbe di conoscerlo,  quel popolo, ma, su questa via, potrebbero aversi spiacevoli sorprese. In teoria ho stimato che quelli che fanno riferimento alla religione cristiana per la loro etica, e talvolta anche per la loro spiritualità sono circa 15.000 nella nostra parrocchia; in pratica, contando invece quelli che sarebbero veramente  disposti ad essere popolo attivo secondo le nuove (per modo di dire) idee conciliari, potrebbe arrivarsi a poche decine di persone. Bisognerebbe intanto cominciare da questi, perché la democrazia, in qualsiasi misura la si introduca, ha la caratteristica di essere contagiosa, quindi di diffondersi e di appassionare. Ma, appunto, non si è formati a farlo e, anzi, dei processi democratici si è anche molto sospettosi.

 

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli