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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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Il sito della parrocchia:

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domenica 13 dicembre 2020

Dai Natali passati

 Dai Natali passati

 

1. Una commessa del supermercato vicino casa mia anni fa  manifestò a mia moglie il suo stupore per l'aggressività mostrata dai clienti nei giorni sotto Natale nel fare le ultime spese prima delle feste, in particolare per i regali e per le cibarie del pranzo natalizio. E' una cosa che risalta anche nel grande centro commerciale non lontano dal quartiere dove abito e nelle strade del centro di Roma solitamente frequentate per le spese natalizie e a piazza Navona, dove bisogna portare i bambini tra Natale e la Befana. Le consuetudini sociali delle feste natalizie spingono fortemente a comprare  e a mangiare, ma  talvolta non lo si fa con la gioia che dovrebbe scaturire dalla comprensione interiore della teologia natalizia, ma con affanno, per essersi ridotti agli ultimi giorni, con angoscia, perché si pensa che i soldi non bastino (è a volte è proprio così), e anche con un certo rimorso, per averne spesi tanti per un obbligo sociale senza che gli eventi delle feste, in particolare il "Natale con i tuoi", diano particolare soddisfazione. Ieri, sul quotidiano che di solito leggo, c'era un articolo in cui si davano consigli per evitare che il pranzo natalizio si trasformi in un incubo  a causa dell'incapacità di parenti e amici di coesistere pacificamente almeno in quell'occasione, lasciando fuori della porta i motivi di divisione e contrasto. Insomma, a volte il Natale diventa un obbligo sociale costoso e sgradito e c'è chi sbotta esclamando che non vede l'ora che questo tempo passi e si ritorni alla vita normale. Solo nei genitori di bimbi piccoli questo sentimento è attenuato, perché queste cose "si organizzano per loro", cosicché quella che viene definita la magia del Natale diventa essenzialmente una cosa per bambini. Di tutto questo il clero si lamenta e, in fondo, vi vede un proprio insuccesso nello spiegare il Natale alla gente, perché sempre meno si nota il significato religioso di queste feste sociali e, in definitiva, la giustificazione del fare festa la si trova semplicemente nel fare festa, in una teologia alternativa che è quella di Babbo Natale, secondo la quale, in particolare, solo i bambini sono spinti ad essere più buoni, per ricevere dei premi dagli adulti - babbi natale, in quella sorta di giudizio universale in cui per i più piccoli finisce per consistere la festa. E per un bambino che vive questo Natale della teologia alternativa può anche sorgere il dubbio che Gesù bambino sia Babbo Natale da piccolo.

  Del resto non è facile né immediato capire la sofisticata teologia dell'Incarnazione che sta alla base dell'istituzione delle feste natalizie. Fin dagli inizi essa fu cosa per teologi. Non deve ingannare l'apparente semplicità delle narrazioni evangeliche sui fatti della nascita del Nazareno, sulle quali le preoccupazioni teologiche di molto successive a quell'evento hanno influito in misura rilevante e ciò fin dal primo formarsi della tradizione che è alla  base dei racconti confluiti nei Vangeli canonici. Abbiamo scarsi riscontri della verità storica, secondo i criteri che gli storici utilizzano per vagliarla, delle storie evangeliche, ma in particolare per quanto riguarda la nascita del Nazareno, fin dal particolare del luogo di questo fatto. Le origini della nostra fede non vanno situate nelle montagne (che però non sarebbero considerate tali secondo i criteri che usiamo in Italia) della Giudea, ma nelle pianure e basse colline della Galilea intorno al lago di Tiberiade. Del resto al nostro primo Maestro fu dato l'appellativo di Nazareno, nel senso di originario della città di Nazareth, in Galilea, (e di Nazoreo, parola il cui significato però non si ritiene coincidere con quell'altra, indicativa della provenienza geografia) e i suoi primi seguaci venivano facilmente riconosciuti, dal loro accento, come provenienti dalla Galilea.  Anche nell'individuazione della città di Nazareth come quella in cui il nostro primo Maestro crebbe, si ritiene che possa aver avuto influenza l'intento teologico di evidenziare come le Scritture avessero preannunciato la sua nascita, il suo avvento, in quel luogo.

 La teologia cristologica ha potentemente agito sulla comprensione del senso dell'Avvento,  inteso come abbassamento del fondamento soprannaturale di tutto fino alla nostra dimensione umana per la nostra redenzione, in tutta la storia del pensiero  espresso dalla nostra fede, fino all'epoca attuale. In particolare è stata ed è molto coinvolgente per moltitudini di fedeli quella proposta dal pensiero e nell'esperienza di vita di Francesco d'Assisi in cui quell'abbassamento è declinato anche nel senso di farsi povero tra i poveri, un aspetto che, per quanto ho capito, era meno presente nell'originaria teologia natalizia e ha sorretto l'ideologia pauperistica la quale è ancora molto forte nella nostra attuale comprensione della fede ed è collegata con uno stile di vita penitenziale che, per ciò che ritengo di aver compreso, non caratterizzava le nostre prime collettività religiose. In queste ultime, per come si legge in quelle parti delle nostre Scritture sacre che ne trattano, c'era la consuetudine di vendere i propri beni, ma non per farsi poveri, ma per metterli in comune, in modo che tutti i fedeli della comunità potessero beneficiarne, secondo le loro necessità, secondo quello che è stato definito un comunismo delle origini della nostra fede.

 In definitiva mi pare che ogni tempo abbia espresso una sua particolare cristologia, e quindi poi una sua teologia del Natale,  e questo anche tenendo conto solo di quelle che sono state considerate in linea con quella dogmaticamente fissata tra il quarto e il quinto secolo della nostra era. Ad esempio, quella espressa da Francesco d'Assisi risentiva fortemente dei problemi che la collettività di fede manifestava a quei tempi per quanto riguardava i costumi dei potenti, dei prìncipi civili e di quelli religiosi. E allora il problema del Natale che abbiamo oggi, per cui talvolta non riusciamo a vivere queste feste con gioia, può essere individuato nel fatto che non disponiamo più di una teologia del Natale che ce ne faccia comprendere il senso nella civiltà in cui viviamo, o meglio, nel fatto che la teologia del Natale  corrente in larghe masse di gente non è più di origine cristologica, ma babbonatalistica. I colori del Natale in tutto il globo, da noi come nelle nazioni  in cui lo si festeggia senza più il minimo riferimento religioso, sono in fondo quelli scelti dalla statunitense  The Coca-Cola company per la sua bevanda di maggior successo commerciale. Né è pensabile sanare la ferita con il puro e semplice recupero di una delle teologie natalizie storicamente precedenti, perché esse non rispondono più alle domande che per le persone umane scaturiscono dalla loro vita sociale di oggi in merito al senso ultimo dell'esistenza. Ciò è rappresentato con molta evidenza dall'incredibile e confusa accozzaglia di personaggi che su certe bancarelle del presepe vengono proposti per animare i  presepi delle nostre famiglie, che ancora si fanno richiamandosi all'esempio di Francesco d'Assisi. Non si riesce più a cogliere il senso blasfemo di certe inclusioni di statuine nel presepe.

 C'è un lavoro da fare ed esso spetta  ai teologi. Noi fedeli comuni possiamo solo tentare di sperimentare nuove vie per dare un senso al Natale, all'avvento del Dio -con-noi, nella nostra storia di oggi, non rassegnandoci all'oblio dello cristologia fondativa della nostra fede. Su queste esperienze poi rifletteranno i teologi, secondo la loro scienza.

2. Il  Natale in  genere viene considerato una festa della famiglia: si sta con i propri cari e ci si scambia dei doni. Ci si fanno anche degli auguri per l’anno che viene. C’è anche la vaga idea che per, almeno per un giorno, si debba cercare di essere più buoni. E’ rimasta la sensazione che nella festa sia coinvolte potenze soprannaturali, che vengono perlopiù  iconograficamente rappresentate in un magico vegliardo vestito con i colori di The Coca Cola Company –Atalanta -  GA – USA. Ci dicono che la festa trae origini da antiche tradizioni che celebrano la luce che vince le tenebre. Quest’ultima idea ci può collegare al suo significato religioso più recente: “lux lucet in tenebris”, espressione tratta dal Vangelo di Giovanni, è scritto sulla facciata del Tempio valdese, qui a Roma, a piazza Cavour, di fronte al “nostro” Palazzaccio. Il Natale è infatti una festa cristiana.

 Nella liturgia cattolica la festa dura otto giorni, fino a Capodanno. Si celebra sempre lo stesso evento. In epoca carolingia si è iniziato a contare gli anni a partire da esso, ci si è costruita sopra un’«era». Il momento iniziale è ipotetico, le fonti sono imprecise. Si è voluto con ciò segnalare l’importanza di una svolta  che  aveva cambiato l’antico mondo greco-romano e segnato profondamente  l’evoluzione delle culture europee, che è proseguita fino a noi. Essa consistette nell’innesto dello stupefacente senso di giustizia sociale dell’antico ebraismo, che Emmanuel Levinas definiva “meraviglia delle meraviglie”, nell’ideologia filosofica e politica greco-romana, realizzando in tal modo la sua universalizzazione. Lo strumento culturale che consentì questo processo fu la traduzione in greco della Bibbia ebraica, la versione cosiddetta dei “Settanta”, risalente all’Egitto del terzo secolo dell’era antica, in epoca ellenistica. Ma la sua macchina incubatrice fu la Galilea del primo secolo, la Galilea delle genti, uno straordinario melting pot in cui si attuò un vivace incontro/scontro di civiltà. A partire dal quel marginale, veramente periferico, frammento di umanità si produsse nel giro di quattro secoli la completa sostituzione dell’ideologia religiosa, politica e sociale dell’impero che allora dominava i popoli del Mediterraneo e di parte dell’Europa settentrionale, i precursori di coloro che, nell’Ottocento e Novecento, giunsero ad essere i dominatori del mondo. Si tratta di un processo sul quale a scuola ci sono state date scarse notizie e ancor meno nella formazione religiosa di base, per quelli che vi sono stati esposti. Di solito si passa dal raccontare dei cristiani perseguitati al narrare dei cristiani dominatori politici. La fase intermedia è avvolta nel mistero. In effetti c’è proprio un problema di fonti. Quello su cui di solito si concorda era che nel primo secolo della nostra era c’era un’attesa di qualcosa come l’ideologia cristiana. L’insoddisfazione per l’ideologia antica emerge con molta chiarezza, ad esempio, già negli scritti platonici (5°/4° sec. era antica).

 La narrazione cristiana sul Natale ci presenta il Bimbo del Natale come l’Atteso, e anche l’Annunciato. In essa c’è molta teologia e molta politica. Il Natale cristiano essenzialmente non è, insomma, una “festa della famiglia”, come spesso si usa presentarlo in religione. E, per la verità, nonostante la grande importanza che oggi si dà alla famiglia nell’etica cristiana, essa è quasi del tutto assente nelle fonti neotestamentarie. Il Natale in senso religioso ci parla di una straordinaria metamorfosi sociale.

 La famiglia del Bimbo del Natale viene, come dire, “risucchiata” verso la Giudea, dalle origini galilee, per adempiere a quelle attese. Queste ultime piombano addosso a quella mamma e a quel papà sotto forma di sogni, di una visione angelica e poi di alcune profezie fatte alla madre sull’infante durante suoi soggiorni in Giudea. I genitori del Bimbo accettano, consentono, di farsi collaboratori della realizzazione di quelle attese. Ma non viene chiesto loro nulla di eccezionale, solo di fare quello che tutte le mamme e tutti i papà fanno per i loro bimbi. Si prendono cura del piccolo, lo nutrono, lo vestono, lo proteggono, lo educano. E ciò in linea, per ciò che credo di aver capito, con l’idea di giustizia dell’ebraismo di tutti i tempi, che la vede realizzata a partire dalla quotidianità, e anche nelle consuetudini più minute, nell’osservanza anche di precetti minimi e solo apparentemente senza importanza, mentre essa, in realtà, “fa siepe” intorno ai principi più grandi ed è espressione del medesimo anelito di santità. Ciò emerge anche dal successivo insegnamento del Maestro secondo cui chi trasgredisce nel piccolo sarà considerato piccolo anche al momento dell’appagamento delle attese. La mamma e il papà del Bimbo del Natale sono considerati importanti esempi di vita di fede dai cristiani. La teologia del Natale è molto più di una mitologia. Non mira a sorprendere con “effetti speciali”, che pure vi sono, e possono essere considerati come una sorta di colonna sonora della narrazione.

 Il prendersi cura degli altri è al cuore della teologia cristiana. Si verrà giudicati, è scritto, in base a come ci si prende cura degli altri. E’ una teologia che vediamo espressa nella narrazione di quel viandante che, scendendo verso Gerico, si imbatte in un uomo lasciato mezzo morto per strada da briganti, e se ne prende cura. Ma anche nel ministero pubblico del Maestro, che ci viene presentato addirittura commosso fino alle lacrime di fronte alla morte di un amico, e ancora vedendo folle che non hanno di che mangiare e i malati e i sofferenti. Egli non rimane inerte, si attiva e si prende cura degli altri. Questo atteggiamento caratterizza la figura del re-pastore del suo popolo che esprime la particolare forma di regalità nella concezione cristiana. Un modello, quello del pastore, del tutto avulso dalla funzione economica della pastorizia, che in realtà comprende anche il trarre vantaggi economici dal gregge, e tutto concentrato, appunto, solo sul prendersi cura degli altri, senza lasciare che nessuno si disperda. Il cristiano è uno che si fa coinvolgere dalle sofferenze altrui e si prende cura dei sofferenti. Questa concezione è alla base di tutto il pensiero sociale cristiano che si è espresso in varie forme nei due millenni della storia di questa fede fino a che, in una straordinaria metamorfosi che ne ha comportato una ulteriore universalizzazione, si è trasfuso nelle grandi dichiarazioni politiche sui diritti umani dalla fine del Settecento in poi. Un processo che è tuttora in corso. In qualche modo, insomma, le attese delle origini non sono mai state colmate.

 La politica è stata spesso di ostacolo. In particolare l’ibridazione con la tradizione del diritto romano, nel campo costituzionale e in quello civilistico, ha comportato problemi. Essi si sono manifestati in modo sempre più grave in particolare nel secondo millennio dell’era cristiana, quando la Chiesa cristiana occidentale, centrata su Roma, venne organizzata come un impero religioso, sul modello feudale, esprimendo una corrispondente teologia, un imponente apparato giuridico specializzato  e un’efferata polizia ideologica, modello di tutte le successive organizzazioni del genere. Negli scorsi anni Sessanta iniziò il processo di destrutturazione e di metamorfosi di quest’ordine divenuto oppressivo e controproducente, processo che, dopo un congelamento trentennale sembra aver ripreso il suo corso. Il fattore propulsivo decisivo di questo moto di riforma è stato, dalla metà dell’Ottocento, il ripartire di un’azione di popolo per la giustizia sociale, non più comprimibile in religione con mezzi autoritari, per l’affermarsi della democrazia politica. Si è trattato di un processo che in Italia è stato particolarmente evidente. Esso ha lasciato profonde tracce nel nostro sistema giuridico e ha influenzato in maniera determinante le decisioni dei saggi del Concilio Vaticano 2°, negli scorsi anni Sessanta. E’ la luce che, insieme a molte altre che vengono da altre componenti sociali, continua a risplendere nelle tenebre sociali. E’ la luce del “prendersi cura”, la luce che risplende nel Natale religioso. 

3.  Il Tempo liturgico di Natale dura circa due settimane, fino alla festa del Battesimo del Signore, la domenica dopo la solennità dell'Epifania, che in questo anno liturgico cadrà il prossimo 10 gennaio. Per i primi otto giorni dal giorno di Natale, dal punto di vista liturgico è come se si fosse sempre in quel giorno. La rilevanza liturgica del Tempo di Natale manifesta che le festività natalizie spingono a portare l'attenzione della gente su un aspetto molto importante della nostra fede, la cui comprensione è maturata nel corso dei cinque secoli dopo l'evento delle resurrezione del Nazareno. Uno dei motivi per cui non mi attira l'idea di un ritorno alle origini, ai tempi apostolici, è che esso mi priverebbe del Natale.

 La teologia, la comprensione della nostra fede, che sta dietro alle feste natalizie è piuttosto complessa. Uno dei suoi temi mi pare che sia la capacità dell'esistenza umana di contenere e manifestare il fondamento soprannaturale, quindi di essere più  che  una parte della natura. Questa concezione, che è stata profondamente assimilata nella civiltà europea anche se se ne è persa in genere consapevolezza (essa quindi rimane come teologia implicita, non più esplicita), desta ancora molto scandalo in altre religioni storiche contemporanee. Essa è alla base dell'ideologia egualitaria  e dei diritti umani fondamentali che caratterizza molto l'Europa politica di oggi. Le si contrappongono, ad esempio, l'ideologia e la correlata teologia implicita (che si richiama all'antico confucianesimo) della Cina continentale contemporanea, che manifesta oggi un modello vincente, capace quindi di imporsi su moltitudini e di governarle, alternativo alla civiltà europea.  

 In realtà, quando celebriamo il Natale, non torniamo quindi alle origini, intesi come il tempo dell'esistenza terrena del nostro primo Maestro, ma riflettiamo su quella teologia cercando di aprirne/rinnovarne la comprensione tra le masse con il potente strumento della liturgia, che è appunto azione di massa. Essa, centrata sulle narrazioni evangeliche della nascita del Nazareno, consente di proporre una sintesi pacificata del cuore delle concezioni di fede in materia, le quali in realtà ebbero storicamente uno sviluppo piuttosto travagliato e, come ciclicamente è accaduto nella storia della nostra confessione religiosa, anche violento, crudele e mortifero. Infatti nelle nostre collettività religiose ci si è molto accapigliati per questioni teologiche, e questo è un tratto che veramente risale alle origini, e, da un certa epoca in poi, da quando la nostra fede divenne l'ideologia dell'impero mediterraneo in cui si era diffusa e che per almeno tre secoli aveva tentato senza successo di estirparla  o almeno di contenerla, ci si è anche molto combattuti nel vero senso del termine. Ai tempi nostri le questioni vengono affrontate con un altro spirito, anche se una certa aggressività permane, e questo nuovo modo di ragionare sulle questioni di fede, per cui non ci si uccide più per controversie teologiche, è esso stesso uno sviluppo prettamente  teologico (e abbastanza recente)  delle concezioni di fede che stanno alla base delle festività natalizie. Un altro motivo per cui non mi entusiasma il programma del ritorno alle origini è che, seguendo questa tendenza, perderei questo sviluppo importante della nostra comprensione della fede comune, ricadendo nelle ere che oggi consideriamo buie in cui per questioni religiose si emarginava e si uccideva.

 Dunque, l'esistenza umana, di ogni essere umano, manifesta il suo fondamento soprannaturale. Questo significa che essa, pur scaturendo da un processo di natura, non è riducibile  ad esso. Di questo in genere ci si convince nel progredire della propria interiorità personale a contatto con la cultura del proprio tempo, in cui si è immersi. Si soffre nel vedersi ridotti a parte di un meccanismo naturale o sociale, ma anche nel vedere gli altri ridotti in questa condizione. C'è una verità su di noi, che è quella appunto manifestata nel Natale, che ci libera da una condizione di asservimento in cui fatalmente si cade nella propria vita di esseri umani, e che riguarda il decadimento naturale del nostro corpo e i condizionamenti sociali della nostra esistenza. Questa verità, in fondo, contrasta con la natura e la storia così come ci si presentano, diciamo con il mondo  così com'è. Ma senza di essa noi perdiamo la speranza, che è ragione di vita per gli esseri umani. Siamo dunque consapevoli di vivere una realtà personale minacciata, al modo in cui lo è la vita di un neonato, che dipende in tutto da qualcuno che si prenda cura di lui. E tuttavia che il senso della vita umana  e la nostra capacità di sperare si basano su questo non accettare la condizione di asservimento e di riduzione che quella minaccia induce, ma di prendersi cura dell'esistenza umana per elevarla alla sua verità, al modo in cui lo si fa quando si diventa genitori tra gli esseri umani, che è molto più impegnativo di ciò che avviene in natura tra gli animali che biologicamente ci sono più simili.

 I racconti del Natale ci dicono che la nascita di un essere umano è molto più di un semplice fatto riproduttivo, di ordine biologico, perché un essere umano è molto più della sua biologia. Esso  è capace del soprannaturale, nel senso che lo contiene e lo manifesta. Questo spiega la pervicacia con cui in religione ancora (ma si tratta di idea che risale effettivamente alle origini) ci si oppone a concezioni che tendono a considerare e a trattare la vita umana solo nella sua biologia e utilità sociale, facendo distinzioni tra coloro che meritano di vivere e coloro che per vari motivi possono essere soppressi. Naturalmente appare paradossale come una teologia animata da questi principi possa aver fatto, storicamente, tante vittime umane, ed effettivamente lo è, almeno con la nostra sensibilità contemporanea. Da un lato ciò si spiega, storicamente, con la stretta connessione che, da una certa epoca in poi, ha legato la nostra confessione religiosa ai poteri civili, per cui ogni variante teologica veniva anche apprezzata come sovversione politica, con ciò che ne conseguiva in termini penali, e poi col fatto che certi principi venivano considerati tanto importanti e la loro affermazione nel dialogo pacifico tanto difficile che, talvolta, si preferiva tagliare corto ed estirpare le opinioni contrarie e chi le sosteneva. Ai tempi nostri i problemi sono diversi, ma ci sono. In Europa, in particolare, c'è la difficoltà di esprimere una teologia esplicita  che faccia riscoprire il fondamento religioso di valori considerati fondamentali nell'ordinamento sociale e politico del nostro continente, ma anche di far prendere coscienza, di generazione in generazione, di quella verità  sull'esistenza umana di cui dicevo. Le due questioni, in ordinamenti politici di democrazia popolare avanzata, sono strettamente connesse, perché radicare certi valori  nella masse significa anche, attraverso i meccanismi democratici, ottenere il riconoscimento sociale e politico. Il radicamento sociale dei valori di fede non è più, come accadde per  circa millecinquecento anni nelle civiltà cristiane, una questione di accordi  tra sovrani civili e religiosi, ma dipende dai meccanismi democratici, che funzionano bene se si riesce a elevare le masse ad una condizione di non pura rassegnazione ad essere soggette a meccanismi biologici e sociali, che equivale a diffondere tra di esse la speranza di fede. Per certi versi le nostre teologie e i nostri consueti metodi di diffusione delle concezioni religiose sono inadeguati a questo fine; essi infatti si sono formati in epoche del passato, in cui in fondamenti della coesione sociale erano molto diversi e, benché si sia cercato di adattarli ai tempi nuovi, risentono ancora della loro origine storicamente datata. C'è anche la tentazione, talvolta, di sfruttare le occasioni che, per certi versi, le crisi delle democrazie popolari contemporanee offrono alle vecchie concezioni e, ad esempio, di puntare molto su personalità carismatiche per l'affermazione dei valori di fede, al modo in cui nelle crisi delle democrazie emergono capi populisti, e ciò per suscitare adesioni emotive e conformistiche, un modo in fondo per ridurre le masse a meccanismo sociale invece che elevarle al di sopra di esso.

 Essere veramente coinvolti nel Tempo di Natale significa cogliere la sfida che i tempi nostri ci propongono e, insieme, l'impegno che storicamente ci viene richiesto, nell'interesse della comune umanità: radicare la speranza religiosa nel mondo di oggi non rinunciando ad alcuna delle grandi conquiste di civiltà dei nostri tempi.

4. Anni fa, in prossimità del Natale celebrammo in una riunione del nostro gruppo di AC a “liturgia” del presepe vivente ideata da Lorenzo Daniele, nel corso della quale si allestisce insieme il presepe, deponendovi una propria statuina e formulando un pensiero.  Quando mi accostai al presepe con la mia statuina del pastore tra le mani per dire il mio pensiero su questo Natale, mi trovai  in difficoltà, come sempre mi è accaduto in occasioni simili. Per quanto infatti sia molto affezionato al presepe, tanto che in casa mia ce n’è sempre uno piccolo allestito, mi riesce difficile uscire dalla pura e semplice contemplazione della rappresentazione. Questo mi accade perché sento molto forte il rischio, e la tentazione, di riversarvi sopra ideologie mie o altrui che lasciano il tempo che trovano. Inoltre, come ho detto agli amici del gruppo di Ac, mi riesce più facile immedesimarmi in Giuseppe, il papà terreno del divino Bambino, più che in un pastore, in un semplice spettatore della natività. Questo perché anch’io sono stato padre di due neonate, le ho avute letteralmente tra le mani, le ho cresciute e viste crescere e fortificarsi, in sapienza e grazia, come è scritto di quel Bimbo del Natale, e ieri sera erano vicino a me, donne fatte. Le rappresentazioni del Natale coinvolgono molto chi è genitore,  perché rimandano a un’esperienza di gioia profonda che egli ha vissuto, nei primi giorni in cui ha cominciato a conoscere il nuovo essere umano che da lui è scaturito. Si ha tra le mani un bimbo molto piccolo e si fanno molti sogni su di lui. Si spera che cresca bene. E questo, ieri, mi sono sentito di dire: speriamo che cresca bene. Riferito al fondamento di tutte le nostre speranze questo augurio, naturalmente, assume un significato molto più ampio e riguarda tutta l’umanità e il suo destino, noi e tutta l’altra gente intorno a noi, e addirittura quella che ci ha preceduti nel tempo e quella che verrà dopo di noi: cresca, dunque, la speranza che è in noi, ci pervada e si diffonda sempre più, fino agli estremi confini della terra e del tempo; siamone messaggeri e testimoni secondo la missione che ci è stata affidata.

 Nei racconti del Natale si intuisce che c’è molto di più di una vicenda famigliare, di una coppia che ha un figlio, vale a dire di  un evento che rientra nella normalità delle cose degli esseri umani, come di tutti i viventi. C’è politica, c’è teologia. Quel Bimbo del Natale ci viene presentato come l’Atteso, e non solo dai suoi genitori. Ma ci viene anche spiegato che molte delle attese su di lui, in particolare quelle legate alla politica, sono andate deluse, mentre quelle della teologia delle origini sono state di molto superate. “Tu sei re?”, chiese la politica al nostro primo Maestro che le era davanti nella condizione di prigioniero e di accusato. La risposta che fu data ha generato infiniti ragionamenti su come si debba intendere la regalità che noi attribuiamo, in fondo fin dalla sua nascita,  a colui nel quale riponiamo tutte le nostre speranze. Di lui è scritto che è il Verbo e “tutto per mezzo di lui fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto”. E’ anche scritto che egli è luce per noi, che brilla nelle tenebre, e che dimorò fra noi e noi vedemmo la sua gloria, come di Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità (cfr Gv 1). Questa è la realtà che ha oltrepassato tutte le attese della teologia.

  Anche nei  bei pensieri che sento in occasione del Natale, come pure nei canti e nelle varie liturgie e consuetudini di festa di questo tempo, ci sono molta politica e molta teologia. Anche noi abbiamo delle attese su quel Bimbo. Ed è come se, da genitori, volessimo indicargli una strada da seguire, come abbiamo fatto con i nostri figli. Non si dice, del resto, che uno dei più gravi e impegnativi compiti dei genitori è l’educazione dei loro figli? Possiamo immaginare che anche Maria e Giuseppe l’abbiano svolto. Dico “immaginare”, perché negli scritti che riconosciamo come sacri, e che poniamo a fondamento della nostra fede, c’è veramente poco su questo. E, innanzi tutto, non ci sono stati tramandati detti del nostro primo Maestro che ce ne parlino.  Chissà se ha narrato ai suoi discepoli della sua vita prima diventare Maestro? Se lo ha fatto, chi lo ascoltava ha tenuto per sé le sue parole, non ce le ha riferite. Quindi noi, oggi, abbiamo pochi punti di riferimento per sapere come comportarci con quel Bimbo del Natale. In Maria, nella quale vogliamo riconoscere la figura della Chiesa, egli ci è figlio, ma, nello stesso tempo, siamo anche suoi discepoli ed egli ci ha generati alla fede.

 Allora, anche in questo Natale, come in quello di anni fa in cui si fece quella “liturgia del presepe” (si era nel 2014), il proponimento che faccio è quello di lasciare spazio a quel Bimbo, di essere disposto a lasciarmi sorprendere da lui, senza che le mie aspettative su di lui sovrastino il suo insegnamento e il suo esempio di vita, e gli siano d’impaccio, di intralcio, nella sua crescita in me, in noi, nella nostra società e nel nostro tempo. E, anche, di usare verso il Bimbo del Natale quella delicatezza che abbiamo nella cura dei nostri bimbi piccoli, quando sono del tutto affidati a noi e noi gioiamo nel vederli dormire tranquilli nelle loro culle, perché hanno mangiato, li abbiamo puliti, sono al caldo nei loro panni e tra le loro copertine, e allora anche noi possiamo finalmente chiudere gli occhi e sognare di loro.

 

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli