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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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Il sito della parrocchia:

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sabato 26 dicembre 2015

La parrocchia-comunità di comunità

La parrocchia-comunità di comunità


1. Uno dei modi di rendere un’idea del modello di collettività religiosa indotta dai saggi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) è quello di descriverlo come quello di una  comunità, in cui tutti sono ammessi a partecipare creativamente al  lavoro comune in uno spirito di reciproco servizio inteso come manifestazione di benevolente solidarietà per andare incontro alle esigenze della vita delle persone,  rispetto a quello di tipo giuridico-istituzionale,  tutto centrato sull'idea di gerarchia e quindi sull'esercizio e la ripartizione di poteri  religiosi al modo di uno stato, nel quale il servizio  è solo l’attività di gerarchi a vari livelli, della quale quelli ai livelli inferiori rispondono  solo a quelli ai livelli superiori, e consiste prevalentemente in ciò che serve al potere religioso per dominare e mantenere unito sotto la sua autorità un popolo di sudditi.
  Questa concezione di una fede vissuta collettivamente secondo un modello comunitario era al centro del moto di vera e propria  riforma innescato dai saggi di quel Concilio, ma nella fase attuativa andò molto depotenziandosi, venendo ad essere inteso essenzialmente come uno strumento per inculcare più efficacemente nel popolo dei laici principi religiosi costruiti e custoditi altrove, in particolare dalla gerarchia del clero.
 Questo in particolare apparve piuttosto evidente nell'utilizzo  romano del modello organizzativo sostanzialmente   rivoluzionario sperimentato nelle comunità di base  latino-americane e poi in Europa a partire dagli anni Sessanta, vale a dire quello della collettività religiosa come  comunità di comunità, che comportava anche forme di auto-organizzazione democratica e di creatività ideologica  e di progetto. Ne parlo come di uno schema  rivoluzionario, perché antitetico a quello di tipo imperiale/feudale organizzato dall'Undicesimo secolo e ancora oggi sostanzialmente vigente. Tale carattere fu colto chiaramente dal papa Giovanni Battista Montini che così ne trattò nell'esortazione apostolica L’annuncio del Vangelo, del 1975, promulgata dopo un Sinodo celebrato nell’anno precedente:
58. Il recente Sinodo si è molto occupato di queste piccole comunità o «comunità di base», perché nella Chiesa d'oggi sono spesso menzionate. Che cosa sono e per quale motivo queste sarebbero destinatarie speciali di evangelizzazione e, nello stesso tempo, evangelizzatrici? 
Fiorendo un po' dappertutto nella Chiesa, secondo le differenti testimonianze sentite al Sinodo, esse differiscono molto fra di loro, in seno alla stessa regione e, più ancora, da una regione all'altra.
In alcune regioni sorgono e si sviluppano, salvo eccezioni, all'interno della Chiesa, solidali con la sua vita, nutrite del suo insegnamento, unite ai suoi pastori. In questo caso, nascono dal bisogno di vivere ancora più intensamente la vita della Chiesa; oppure dal desiderio e dalla ricerca di una dimensione più umana, che comunità ecclesiali più vaste possono difficilmente offrire, soprattutto nelle metropoli urbane contemporanee che favoriscono la vita di massa e insieme l'anonimato. Esse possono soltanto prolungare, a modo loro, a livello spirituale e religioso - culto, approfondimento della fede, carità fraterna, preghiera, comunione con i Pastori - la piccola comunità sociologica, villaggio o simili. 
 Oppure esse vogliono riunire per l'ascolto e la meditazione della Parola, per i Sacramenti e il vincolo dell'Agape, gruppi che l'età, la cultura, lo stato civile o la situazione sociale rendono omogenei, coppie, giovani, professionisti, eccetera; persone che la vita trova già riunite nella lotta per la giustizia, per l'aiuto fraterno ai poveri, per la promozione umana. Oppure, infine, esse radunano i cristiani là dove la penuria dei sacerdoti non favorisce la vita normale di una comunità parrocchiale. Tutto questo è supposto all'interno delle comunità costituite della Chiesa, soprattutto delle Chiese particolari e delle parrocchie. 
  In altre regioni, al contrario, comunità di base si radunano in uno spirito di critica acerba nei confronti della Chiesa, che esse stimmatizzano volentieri come «istituzionale» e alla quale si oppongono come comunità carismatiche, libere da strutture, ispirate soltanto al Vangelo. 
 Esse hanno dunque come caratteristica un evidente atteggiamento di biasimo e di rifiuto nei riguardi delle espressioni della Chiesa: la sua gerarchia, i suoi segni. Contestano radicalmente questa Chiesa. In tale linea, la loro ispirazione diviene molto presto ideologica, ed è raro che non diventino quindi preda di una opzione politica, di una corrente, quindi di un sistema, anzi di un partito, con tutto il rischio, che ciò comporta, di esserne strumentalizzate. 
  Ecco invece la visione  di tale modello esposta  nel gennaio del  1999 dal papa Karol Wojtyla nell’esortazione apostolica La Chiesa in America, promulgata a Città del Messico a poco più di un anno dalla celebrazione del Sinodo delle Chiese americane del  dicembre 1997:
41. La parrocchia è un luogo privilegiato in cui è possibile per i fedeli fare l'esperienza concreta della Chiesa.  Oggi, in America come altrove nel mondo, la parrocchia attraversa talora alcune difficoltà nello svolgimento della propria missione. Essa ha bisogno di un rinnovamento continuo partendo dal principio fondamentale che « la parrocchia deve continuare ad essere primariamente comunità eucaristica » [dal documento conclusivo del Sinodo]. Tale principio implica che « le parrocchie sono chiamate ad essere accoglienti e solidali, luogo dell'iniziazione cristiana, dell'educazione e della celebrazione della fede, aperte alla varietà di carismi, servizi e ministeri, organizzate in modo comunitario e responsabile, capaci di coinvolgere i movimenti di apostolato già esistenti, attente alla diversità culturale degli abitanti, aperte ai progetti pastorali e sovraparrocchiali ed alle realtà circostanti [dal documento conclusivo del Sinodo].

 Una speciale attenzione meritano, per le loro problematiche specifiche, le parrocchie nei grandi agglomerati urbani, dove le difficoltà sono così grandi che le normali strutture pastorali risultano inadeguate e le possibilità di azione apostolica notevolmente ridotte. L'istituzione parrocchiale, tuttavia, conserva la sua importanza e va mantenuta. Per ottenere questo obiettivo, occorre « continuare la ricerca di mezzi con i quali la parrocchia e le sue strutture pastorali giungano ad essere più efficaci nelle zone urbane» [dal documento conclusivo del Sinodo]. Una via di rinnovamento parrocchiale, particolarmente urgente nelle parrocchie delle grandi città, si può forse trovare considerando la parrocchia come comunità di comunità e di movimenti. [Cfr IV Conferenza Generale dell'Episcopato Latino-americano, Santo Domingo, ottobre 1992: Nuova evangelizzazione, promozione umana e cultura cristiana, n. 58]. Appare perciò opportuno il formarsi di comunità e di gruppi ecclesiali di dimensione tale da permettere vere relazioni umane: ciò consentirà di vivere più intensamente la comunione, avendo cura di coltivarla non solo «ad intra» [=all’interno del gruppo o movimento], ma anche con la comunità parrocchiale alla quale tali raggruppamenti appartengono, e con l'intera Chiesa diocesana e universale. Sarà inoltre più facile, all'interno di un simile contesto umano, raccogliersi in ascolto della Parola di Dio, per riflettere alla sua luce sui vari problemi umani, e maturare scelte responsabili ispirate all'amore universale di Cristo [cfr Giovanni Paolo II, enciclica La missione del Redentore, 1990, 51]. L'istituzione parrocchiale così rinnovata « può suscitare una grande speranza. Può formare la gente in comunità, offrire aiuto alla vita familiare, superare la condizione di anonimato, accogliere le persone e aiutarle ad inserirsi nell'ambito del vicinato e della società» [dal documento conclusivo del Sinodo]. In tal modo, ogni parrocchia oggi, e particolarmente quelle operanti nelle città, potrà promuovere un'evangelizzazione più personale, e al tempo stesso incrementare le relazioni positive con gli altri operatori sociali, educativi e comunitari [dal documento conclusivo del Sinodo].
  Questa versione    del modello di  comunità di comunità depotenziato della sua forza riformatrice è quella che successivamente è stata adottata in Italia come modello di riorganizzazione della catechesi su base comunitaria. Esso, del resto, sembrava ben adattarsi, non tanto alle residue comunità di base sopravvissute nel clima di normalizzazione progressivamente instaurato dagli anni ’80, ma ai nuovi  movimenti che avevano preso a diffondersi nel laicato, su basi talvolta reazionarie, nel senso di reazione contro le sperimentazioni postconciliari basate su modelli comunitari di tipo democratico.
 Questo modello, pur essendo stata immaginato per rafforzare l’efficacia dell’azione di promozione della fede svolte nelle parrocchie, ne ha talvolta determinato la crisi, quando  i gruppi che in esse si erano insediati ne hanno tratto argomento per sostituire le articolazioni parrocchiali con le proprie, rivendicando la propria autonomia di proselitismo, iniziazione, formazione e di metodo di convivenza sociale. E’ ciò che è accaduto nella nostra parrocchia.
 2.  Creare un’istituzione è molto più semplice che costituire una comunità. Questo perché l’istituzione può fare a meno dei rapporti amicali che invece sono essenziali nella comunità. Questi ultimi si creano di solito tra le persone che partecipano a collettività di dimensioni limitate: più lo sono e più quel tipo di relazioni si fanno forti. Le comunità propriamente dette sono costituite da persone che si scelgono tra loro, quindi in base a relazioni di elezione reciproca. Le istituzioni di derivazione comunitaria, dal basso quindi, mantengono questo carattere solo se in qualche modo sono obbligate a rimanere legate alla loro base, ad esempio potendone subire le critiche e le verifiche, dovendo quindi rispondere  ad esse. Tuttavia più gli affari di una comunità si fanno complessi, più l’istituzione, pur di derivazione comunitaria, tende a divenire prevalentemente gerarchia, vale a dire un sistema di potere.
  Ma come mantenere la coesione di una collettività estesa quanto un miliardo circa di persone?
  Una delle vie è quella di costruire comunità più estese a partire da comunità più piccole, federandole. E’ quella appunto della  comunità di comunità sognata ai saggi del Concilio  e da coloro che ad essi si sono ispirati. Ma senza democrazia è difficile mantenere un ordine definito. Ci vuole un impegno più serio della base, che vada oltre episodiche convergenze e l’emotivo reciproco piacersi.
  Se si pensa che tutta questa gente, per rimanere unita, debba accettare innanzi tutto di sottomettersi ad una gerarchia, la soluzione appare invece più  semplice  e si tratta solo di capire da dove essa debba originare: dal basso o dall’alto. In un sistema feudale origina dall’alto e si costruisce procedendo verso il basso, per livelli decrescenti di potere. In democrazia origina dal basso e poi, a seconda della complessità dell’organizzazione, può ridiscendere verso il basso: i funzionari elettivi scaturiscono dal basso ma essi, a loro volta, possono creare al di sotto di loro un gerarchia che procede verso livelli inferiori di poteri e competenze. Ad esempio: il corpo elettorale elegge dei parlamentari, i quali legittimano un governo, che a sua volta nomina funzionari non elettivi di gradi discendenti, come prefetti, questori, commissari e via dicendo, per ogni settore dell’amministrazione. Nella nostra confessione religiosa la gerarchia origina dall’alto, perché è tipo feudale, strutturata nell’Undicesimo secolo, dunque in pieno Medioevo, ed è stata solo marginalmente toccata dal processo di riforma innescato dal Concilio Vaticano 2°. Questo taglia fuori dai processi di governo religioso le comunità di fedeli, le quali al più possono esprimere dei consiglieri  in alcuni ambiti. Se consideriamo  freddi  i rapporti istituzionali di tipo gerarchico, perché fondati su norme e non su rapporti amicali, e caldi quelli di tipo comunitario, perché fondati su affinità elettive, quindi su qualità, concezioni ed esigenze comuni per cui  ci si sceglie e si sta bene insieme, possiamo dire che le collettività  si raffreddano quanto più in esse prevale l’aspetto  gerarchico.
  La fede religiosa può diffondersi sia nelle collettività fredde  sia in quelle calde. La differenza è che nelle prime deve essere imposta dalla società, mentre nelle seconde si diffonde per comunicazione tra persone che si vogliono bene e si stimano (alcuni utilizzano l’immagine del contagio).
  Nei primi tre secoli della nostra era, la nostra fede si diffuse in collettività calde. Poi le nostre collettività di fede iniziarono a raffreddarsi, quando la religione divenne questione di stato, politica, e allora, venendo incorporata nell’ideologia di governo delle società civili, venne imposta alla gente, anche se poi quest’ultima, in genere, provava un vero afflato emotivo,  ci credeva, come si suol dire. A questa situazione poste termine, in un processo progressivo durato fino alla metà del Novecento, l’avvento delle democrazie di popolo contemporanee. Non si fu più obbligati  socialmente a manifestarsi religiosi per conseguire l’integrazione civile. Il principio della libertà di coscienza è tra quelli fondamentali di quelle democrazie. Esso fu a lungo duramente avversato dalla nostra gerarchia del clero. Ma i processi democratici si rivelarono incontenibili, globalizzandosi. Ai tempi nostri appaiono inumane e incivili le religioni che pretendono la fede dalla gente sotto minaccia di sanzioni criminali, ad esempio punendo con la morte l’apostasia o l’eresia. Questo tuttavia fu il costume delle nostre collettività religiose per circa cinque secoli, un tempo lunghissimo. Farne memoria realistica ci è, in genere, piuttosto penoso, per cui non mancano ciclicamente tentativi per minimizzarlo.
  I saggi dell’ultimo  Concilio si trovarono dunque a fare i conti con una situazione sociale in cui la fede non poteva più essere imposta e, diffondendosi per via di collettività piuttosto fredde, aveva sempre meno presa tra la gente. Dunque costruirono un’ideologia per riscaldare  quelle collettività, cercando di rivitalizzare la componente comunitaria.  La idearono intorno al modello che si trova rappresentato negli Atti degli Apostoli 2, 42-47:
“Essi ascoltavano con assiduità l’insegnamento degli apostoli, vivevano insieme fraternamente [nel testo greco: koinonìa], partecipavano alla Cena del Signore e pregavano insieme.
 Dio faceva molti miracoli e prodigi per mezzo degli apostoli: per questo ognuno era preso da timore. Tutti i credenti vivevano insieme e mettevano in comune [nel testo greco: koinà] tutto quello che possedevano. Vendevano le loro proprietà e i loro beni e distribuivano i soldi fra tutti, secondo le necessità di ciascuno. Ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio. Spezzavano il pane nelle loro case e mangiavano con gioia e semplicità di cuore. Lodavano Dio, ed erano benvisti da tutta la gente. Di giorno in giorno il Signore faceva crescere la comunità con quelli che giungevano alla salvezza.”
  Al centro di esso vi è l’idea di koinonìa, che è il vivere in comunità condividendo fraternamente ogni risorsa, ascoltando gli insegnamenti degli apostoli e partecipando alle liturgie della fede. Nel greco antico quel termine deriva dalla parola koinòs, che significa appartenente a più di uno  e  relativo a più di uno, ed è in relazione al verbo  koinonèo, che significa  condividere  e  partecipare.
  La concezione comunitaria ideata dai saggi del Concilio ruotava quindi intorno alle idee di  condividere   e di partecipare. Tuttavia essa appare appena abbozzata e dovette convivere con l’articolatissimo apparato gerarchico che la nostra organizzazione religiosa aveva ricevuto dai secoli passati, che fu mantenuto pur ancorandolo ad un diverso quadro teologico rispetto al passato. Non si riuscì a conciliare bene l’una e l’altro: rimangono quindi fondamentalmente divergenti in quanto retti da princìpi informatori antitetici.  Essi rimasero in forte dialettica anche nella fase post-conciliare, fino a quando, durante il regno del papa Wojtyla, dagli anni ’80 del secolo scorso, si sospese il processo di riforma, riscaldando per altra via le nostre collettività, mediante una sorta di culto della personalità intorno a colui che era ancora costituito come sovrano assoluto nella nostra confessione di fede, in un ingenuo neo-papismo costruito non più in base alla sacralità  del regnante ma alla sua umanità fascinosa, sempre più svelata e resa accessibile mediante eventi e mezzi di comunicazione di massa.
  Venuto meno il Wojtyla, che aveva improntato della sua personalità tre decenni della nostra vita religiosa, un tempo lunghissimo, lo spazio addirittura di una generazione, ci si è presto resi conto della situazione difficilissima in cui ci si era venuti a trovare, con un gerarchia che, al suo livello centrale romano, era divenuta sostanzialmente autoreferenziale e ingovernabile rendendo problematici i rapporti con i capi religiosi locali, e con  collettività religiose gelate, in quella che ho definito una sorta di grande glaciazione, nel quale ogni processo di riforma post-conciliare era stato sospeso e la stessa memoria dell’ultimo Concilio si era fatta sempre meno viva e affidabile, fatta eccezione per ristretti circoli di pervicaci affezionati. Sull’ideologia conciliare si era sovrapposta quella indotta dal Wojtyla e dai suoi teologi di riferimento, tra i quali colui che ne era stato il successore. Il senso di questa operazione è stato sostanzialmente, secondo alcuni, quello di una  correzione  di rotta mediante quella che i giuristi definiscono  interpretazione autentica, che si ha quando ci sono divergenze nell’intendere una certa norma di legge e allora il legislatore interviene nuovamente precisandone la reale portata. Ciò si è fatto con toni ultimativi, utilizzando anche certe espressioni sacrali che volevano significare tirare in ballo la suprema autorità, quella connotata dall’infallibilità, affermata, in una delle epoche più buie della nostra confessione di fede e in tempo di sfacelo del potere temporale dei papi, nel corso del Concilio Vaticano I, sospeso nel 1870 e mai più ripreso. Ma il nostro nuovo vescovo e padre universale, utilizzando la medesima autorità, ha inteso riaprire i processi di riforma a tutto campo, sia sotto il profilo della gerarchia istituzionale che sotto quello comunitario, cercando di indurre un riscaldamento dell’ambiente religioso, che in Italia non si è ancora prodotto venendo, anzi, così appare, sempre più vivamente contrastato.
  In questa nuova stagione si presenta centrale il problema della  democrazia, che fu presente ai saggi dell’ultimo Concilio ma che essi non ebbero modo di risolvere, appunto non avendo ritenuto di modificare l’apparato gerarchico organizzato nel Medioevo al modo di un impero assoluto. Perché senza democrazia, intesa non solo come sistema maggioritario di voto ma come complesso di valori  fondamentali, non è possibile una reale  partecipazione  del popolo, al di là di collettività molto piccole di tipo parafamiliare in cui le divergenze e i conflitti sono più rari per la presenza di relazioni amicali molto forti e il consenso è, per così, dire  intuitivo  e  spontaneo.  Senza democrazia non è possibile riscaldare  a sufficienza le gerarchie che occorrono per governare collettività di massa adunate intorno a una fede religiosa.
 Al centro della questione, quindi, non vi è tanto una questione di chi comanda, autocrati o gente eletta da una qualche base, ma mancanze molto gravi relative a  valori  rilevantissimi, come è platealmente emerso durante il processo giudiziario inscenato nel piccolo regno vaticano contro due giornalisti italiani per diffusione illecita di notizie riservate, dove è emersa l’intollerabile divergenza di quel processo dai principi del giusto processo  attuati nelle democrazie di popolo europee.
  La koinonìa che si vuole indurre nelle nostre collettività religiose richiede più partecipazione democratica per funzionare: quest’ultima non connotava le comunità idealizzate negli Atti degli apostoli perché allora si era in altri tempi e in un altro ambiente culturale, e soprattutto si era solo agli esordi in quel campo. Esse quindi non possono costituire un modello completo per vivere oggi  comunitariamente la fede. Occorre, in particolare, tenere conto dell’evoluzione bimillenaria delle nostre collettività di fede e della loro diffusione ormai globale, nonché di tutti gli errori che in questo processo sono stati compiuti, fino  a che, distaccandocene culturalmente e politicamente, si è arrivati a a condividere un disegno di pace universale basato sull’uguaglianza in dignità di tutti gli esseri umani, che comporta anche la libertà di coscienza e di determinazione, e sulla solidarietà fraterna che appare l’unica via per mantenere in vita le moltitudini umane che popolano il globo, con la complessità delle loro esigenze sociali.
3. Dunque ecco che nella sua esortazione apostolica La gioia del Vangelo, del 2013, il nostro vescovo e padre universale ha inteso riproporre l’idea  di comunità di comunità:
  28. La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione.
  Collegando la dimensione comunitaria alla partecipazione e alla creatività, e concependo la parrocchia come comunità viva, il  modello proposto dal papa Bergoglio riprende la dimensione riformatrice originaria dei saggi dell’ultimo Concilio, del resto secondo gli indirizzi generali dell’attuale papato.
  Nell’attuarlo in concreto occorre però, da noi a San Clemente papa, fare memoria dei problemi che la sua precedente versione ha creato alla parrocchia.
  Esso infatti da noi mi pare che sia stato inteso nel senso di concepire la parrocchia come una federazione condominiale  di gruppi, quindi come una struttura al loro servizio, mentre essi ottenevano una quasi completa autonomia di gestione al loro interno, determinandosi in particolare secondo gli indirizzi nazionali dei movimenti di cui erano articolazione. Uno di essi, poi, il Cammino Neocatecumenale, ha finito per prevalere su tutti, avendo anche l’apprezzamento del precedente parroco il quale in esso si era formato. La parrocchia è quindi giunta sostanzialmente per identificarsi quasi del tutto con quel movimento, i cui aderenti attualmente gestiscono quasi tutti i servizi parrocchiali, monopolizzando in particolare la catechesi di secondo livello e le catechesi per gli adulti. Esso ha un’organizzazione interna di tipo gerarchico/autoritario, per quello che ho potuto constatare dall’esterno. Vale a dire che i membri delle varie comunità in cui si articolano le collettività di quel movimento mi sembrano avere poche possibilità di determinare il corso delle attività, che per ciò che ne so si sviluppano secondo un metodo piuttosto rigido, a tappe iniziatiche, fissato a livello nazionale.  Insomma, c’è poco spazio per autonomia e creatività nel progettare le attività. Si tratta inoltre di un movimento che tende ad esaurire la socialità religiosa della persona: c’è poco tempo e spazio per rapporti con le altri componenti della parrocchia. E’ un’esperienza sociale di quelle che ho definito di tipo  chiuso, quindi concentrata su se stessa. Caratterizzando fortemente la parrocchia ha finito così per isolarla dal quartiere a cui essa è stata inviata.
  Paradossalmente non si sarebbe potuti uscire da questa situazione, che si era fatta piuttosto seria, senza l’intervento d’autorità della gerarchia del clero, in particolare della diocesi, in persona del cardinal vicario. In genere infatti si pensa che interventi di questo tipo siano diretti a contenere le dinamiche comunitarie, data la dialettica tra esse e il modello gerarchico-istituzionale, invece nel nostro caso è stata teso a ripristinarle,  per  aprire  ciò che si era chiuso, per ripristinare il pluralismo parrocchiale.
  Dobbiamo, ora, fare tesoro dell’esperienza.
  Dobbiamo coinvolgere tutta la gente di fede delle Valli e questo significa non progettare comunità che si esauriscano sostanzialmente nella cura e  perfezionamento dei propri appartenenti. Occorre passare dalle poche centinaia alle migliaia di persone di fede del quartiere. Questo richiede di abbandonare l’esclusività di metodi, cammini, programmazioni particolari. Serve un progetto parrocchiale e soprattutto occorre rendere possibile un’esperienza comunitaria più ampia di quella vissuta in un qualche gruppo particolare. Occorre riprendere a interessarsi delle questioni del quartiere.
  Si deve poter avere un’esperienza sociale di fede, in parrocchia, senza preliminarmente aderire a un qualche gruppo particolare che vi si  è insediato. E occorre riprendere a lavorare in particolare per la gente delle Valli, senza attirare in parrocchia persone di altre zone della città che la frequentino come potrebbero fare in qualsiasi altro quartiere, solo perché c’è questo o quel gruppo di tendenza.
  Bisognerà cercare di conoscere meglio la gente delle Valli e non essere condizionati, nel programmare le attività, da un certo metodo particolare e da finalità che non siano quelle generali della diocesi.
 Per rendere accogliente e praticabile la parrocchia per molta più gente di quella che oggi la frequenta assiduamente, occorrerà fare pratica del metodo democratico e dei suoi valori, che consentono la condivisione  e partecipazione di molta più gente rispetto a quella di comunità organizzate sul modello gerarchico/autoritario/familistico.
 E bisognerà riprendere a fare cultura, perché è così che si costruiscono linguaggi e modelli per condivisione e partecipazione.
  Lo spirito parrocchiale dovrà prevalere su quello di fazione. Ogni membro di articolazioni parrocchiali dovrà essere libero, ma anche sentirsi in dovere, di partecipare alle attività della parrocchia dirette al coinvolgimento della gente delle Valli.
  Bisognerà curare molto che in parrocchia non si manifestino i sorpassati modelli maschilistico autoritari del passato, dando ampio spazio alla creatività delle donne, né quelli impostati su altri pregiudizi e discriminazioni di vario genere, ad esempio verso i giovani e coloro che stanno vivendo situazioni familiari diverse da certi modelli ritenuti ideali.
 Nessuno dei gruppi insediati in parrocchia dovrà permettersi di attuare propri  scrutini su chi si avvicina alla parrocchia. Bisogna mandare in pensione doganieri e polizia di frontiera.
 Le parole d’ordine secondo le quali riorganizzare un’esperienza comunitaria a livello parrocchiale dovranno essere  apertura, partecipazione,  condivisione, solidarietà, dignità e libertà delle persone.  Proprio per la sua apertura  essa sarà anche creativa e varrà anche come  sperimentazione di modi nuovi per vivere insieme la fede.
 Mario Ardigò  - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli