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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

mercoledì 26 gennaio 2022

Materiali per un tirocinio alla democrazia (2016-2017)

 

 Materiali per un tirocinio alla  democrazia (2016-2017)

proposti Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

Ripubblico, raccolte in un unico documento, le riflessioni di politica svolte sul blog <acvivearomavalli.blogspot.it> dal settembre 2016 all'agosto 2017. Possono essere utili come materiale per un tirocinio alla democrazia. E'  possibile farne il copia/incolla in formato word e, in questo modo, trasferirle molto rapidamente con i vari dispositivi telematici oggi in uso. In gran parte si tratta di sintesi di pensieri altrui, filtrati attraverso la mia esperienza di vita. Vi invito a vagliare criticamente, in particolare alla luce del magistero se siete persone di fede, ciò che ho scritto. Ciò che vi propongo può essere preso come base per una discussione, ragionando di democrazia, ma ha necessità di essere sviluppato e ampliato e, dove occorre, corretto. Autorizzo il libero utilizzo del materiale offerto, esonerando dal menzionarne l'autore. Mi sono limitato infatti a restituire ciò che ho ricevuto: ho fatto solo da tramite. 

  Avverto che la mia posizione politica, non partitica, sulla questione democratica emerge chiaramente negli scritti che propongo. Il mio primo riferimento è stato sempre l'ambiente dossettiano bolognese, ma sono anche un ragazzo degli anni '70, formatosi nella FUCI di allora. Ho accostato anche il pensiero politico di altre fonti.

  Ho cercato di utilizzare il metodo del dialogo e della mediazione culturale che mi è stato insegnato in religione e di incoraggiare a impiegarlo nelle riflessioni politiche. Ho voluto stimolare una discussione critica, non polemizzare. Ho cercato di comprendere il punto di vista altrui, anche quando divergeva molto dal mio.

  Da ultimo: il mio lavoro non riflette il pensiero dei sacerdoti della parrocchia San Clemente papa, né quello dell'Azione Cattolica. Scrivo da associato all'Azione Cattolica, ma sotto la mia esclusiva responsabilità personale.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli. 

 

 

Indice sommario:

0.Introduzione

1.Prepararsi per un grande destino

2.Prendersi cura della casa comune

3. Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica o privata sulla base di valori condivisi

4. Illusione dell’«uomo forte»

5. Capire la politica

6. Nuovo inizio o prosecuzione della costruzione della casa comune?

7. Persecuzioni e persecutori

8.Laudato si’: pensare la globalizzazione in una visione di fede

9. Inequità planetaria e lotta religiosa contro un modello di sviluppo

10. Cammini di liberazione

11. Critica sociale, fede religiosa e azione sociale: sviluppi nella dottrina sociale

12. Nuova santità

13. La politica come campo d’azione della fede

14. Europeismo

15. Nazionalizzazione degli stati

16. Noi e i problemi europei

17. Un mandarino per Teo

18.  In una fase di transizione

19. L’evoluzione della storia animata da formazioni sociali

20. Francesco e il trumpismo

21. Critica e autocritica sociale, dialogo

22. Una nazione senza frontiere non è una nazione?

23. Il risorgente nazionalismo mette in pericolo il mondo

24. La grande storia ci si sta per rovesciare addosso

25. Religione tanto più coinvolgente quanto più inutile?

26. Noi, la pace e la religione

27. Antipapa?

28. Il neo-nazionalismo: un problema di corruzione spirituale della  società

29. Economia e comunione

30. Pace, perdono  e indole personale

31. Un mondo sta finendo

32. Impegno religioso e impegno politico: la particolarità italiana

33. Consapevolezza storica e partecipazione responsabile

34. Nuove modernità

35. Crisi della parrocchia e crisi della politica

36. La religione come problema sociale

37. Prepararsi a lavorare in società

38. I guai politici delle religioni tradizionali

39. Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica

40. La radice politica dei problemi religiosi

41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno

42. L’immaginazione al potere?

43. Scuola popolare di pensiero sociale

44. Ribelli

45. Il Cielo in una stanza

46. La “Politica” con la maiuscola

47. La questione democratica

48. Informazioni sulla democrazia.

49. Pensare il popolo

50. Costruire il popolo

51. Processi democratici nella costruzione di un popolo: la festa

52. Un lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà

53. Imparare la democrazia

54. Democrazia e virtù

55. La salvezza dell’umanità come problema religioso e politico

56. Educare alla democrazia globale

57. Il contributo della religione ad una nuova democrazia globale

58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare i mondi vitali

59. Festa della Repubblica

60. Il lavoro dell’istituzione

61. Politica e conflitti sociali

62. La giustizia come metro dei sistemi sociali

63. Non rassegnarsi

64. Dignità

65.Non siamo formiche

66. Magistero costituzionale

67. Religione e democrazia da poco sono tra loro contemporanee

68. Dialogo come metodo e mentalità

69. Interpretare il mondo contemporaneo

70. Giustizia sociale come conversione. Papa Francesco: lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”.   Note sul discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017

71. Le culture, veri miracoli dell’umanità

72.Partire da lontano per capire i vicini

73. Come si è popolo in religione?

74. Popolo sognato

75. Grandi orizzonti

76. Noi  e il mondo

77. Che portiamo al mondo?

78.  Costruire democraticamente le basi della convivenza in religione

79. Sperimentare nuove forme di democrazia

80. Capire la democrazia

81. Comprendere gli esseri umani

82. Fare politica in spirito di carità

83. Noi popolo

84. Serve un governo del popolo?

85. Diventare popolo?

86. La società costruita

87. Pensare come popolo

88. La felicità di tutti

89. La politica e i valori

90. Cambiare le persone al comando o le politiche?

91. Partecipare al governo democratico

92. Vivere la politica democratica

93. Fare la propria parte

94. La dottrina sociale: una grande opportunità

95. Prepararsi alla cittadinanza

96. Fare politica

97. Informarsi, conoscere, capire

98. Usare l'intelligenza

99. Uguali in dignità

100. Veramente uguali

101. Populismo

 

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0.Introduzione

 

 La formazione della persona di fede dovrebbe comprendere anche un  tirocinio alla democrazia, come parte del tirocinio alla carità in senso religioso. Non mi riferisco ad un insegnamento di tipo dogmatico, quindi dei principi generali che Papa e vescovi ci invitano a seguire in quel campo. Essi, nel loro complesso, costituiscono un corpo molto esteso e sistematico, vale a dire ordinato per certi fini, che viene chiamato “dottrina sociale”. Intendo invece una pratica di democrazia a partire dalle realtà sociali più vicine alle persone, per arrivare e quelle che più vaste, a livello nazionale  e internazionale. Di solito ci si trova immersi in vari tipi di società, le prime delle quali sono quelle dei giochi infantili e delle scuole primarie. E’ proprio da questo livello che occorre cominciare a imparare a praticare la democrazia e, più in generale, a fare politica. E’ un lavoro educativo che però, in genere, nella formazione di primo e secondo livello, diciamo per intenderci per la preparazione alla Prima Comunione e alla Cresima, non si fa. E più avanti, quando si fa, la si fa appunto come insegnamento dogmatico, di norme generali da imparare e mettere in pratica. Ma per imparare certi principi di azione sociale occorre convincersene e per metterli in pratica, nel dettaglio delle nostre vite, occorre farne tirocinio, come per ogni sapienza che si apprende.

 Come organizzare un tirocinio alla politica democratica in una parrocchia? La parrocchia è un’istituzione politica, nel senso che raggruppa una società che richiede di essere governata. Per farlo democraticamente, occorre fare pratica di partecipazione. Fin dove si può farlo? Non è il parroco che decide tutto? Effettivamente il parroco in genere ha l’ultima parola. Questo dipende dai diversi aspetti della parrocchia, che è una società di tipo comunitario, in cui quindi conta molto la partecipazione, ma anche un’istituzione amministrativa che si occupa, ad esempio, di un patrimonio immobiliare e di compiti specificamente notarili, nell’esercizio dei quali il sacerdote può anche assumere la veste di pubblico ufficiale, in particolare nella celebrazione dei matrimoni detti concordatari perché hanno anche effetti civili. Ad ogni funzione sono collegate specifiche responsabilità. Per le norme vigenti del diritto canonico e del diritto statale alcune responsabilità sono proprie del parroco e dei sacerdoti che con lui collaborano. Ma vi sono spazi di partecipazione democratica molto ampi, alcuni previsti espressamente dalle norme del diritto canonico, vale a dire da quello della Chiesa, ma altri che possono essere liberamente strutturati  da una comunità che voglia farlo impegnandosi.

  La partecipazione democratica è strettamente legata all’impegno, nel senso che non si partecipa veramente se non impegnandosi, facendosi carico e assumendosi responsabilità. Ci si assume una responsabilità quando si accetta di rendere conto  alla comunità di ciò che si è fatto e di come lo si è fatto. Democrazia e impegno sono così strettamente connessi perché la democrazia non è solo un metodo di voto per adottare delibere collettive, con maggioranze più o meno ampie, ma anzitutto un sistema di valori. Questi ultimi, in democrazia, sono tutti orientati verso la  giustizia. Dall’economista bolognese Stefano Zamagni, prendo la definizione di giustizia secondo tre aspetti:

-giustizia commutativa: negli scambi contrattare un prezzo equo; non approfittare a danno degli altri di condizioni di mercato loro eccessivamente sfavorevoli;

-giustizia distributiva: nella società fare in modo che a nessuno manchi l’essenziale;

-giustizia partecipativa: ognuno faccia il suo  dovere in società; nessuno si chiami fuori; ognuno si metta in gioco nell’interesse collettivo.

  E’ chiaro che la democrazia non è faccenda che si può risolvere con un clic.

  Ma da dove cominciare per un tirocinio alla democrazia? Direi che occorre organizzare degli incontri nei quali:

- ragionare di democrazia;

-individuare gli spazi di democrazia che ci sono nelle società in cui ci si è trovati inseriti;

-progettare forme di partecipazione democratica;

-realizzare forme di partecipazione democratica, programmando verifiche periodiche.

 Il materiale che segue serve appunto per ragionare di democrazia. Non è un manuale. Non è dogmatica di dottrina sociale. Si tratta di una raccolta di miei riflessioni, già pubblicate nel blog acvivearomavalli.blogspot.it , nelle quali confluiscono un po’ di mia vita vissuta, un po’ di riferimenti storici, e, in mezzo, riferimenti ai principi. I riferimenti storici di solito mancano nelle lezioni sulla dottrina sociale. Questo perché ci si sente a disagio nell’ammettere che in essa c’è stato uno sviluppo storico, che, quindi, è cambiata nel tempo, in seguito alle esperienze concrete di partecipazione sociale. Il cambiamento più rilevante ha riguardato proprio la democrazia, che molto lentamente è stata individuata come il regime politico più degno per le persone umane, in particolare in un processo che si è sviluppato prima alla base e poi nel magistero, quanto a quest’ultimo tra il 1941 e il 1991.

   Ognuna delle riflessioni che seguono può essere lo spunto per iniziare a ragionare di democrazia, in uno degli incontri di cui dicevo. Va però considerata una proposta aperta, innanzi tutto per vagliarne i fondamenti, l’attualità, l’accettabilità sotto vari profili e quindi anche per contestarla, qualora occorra. E’ solo così che si migliora,: individuando con l’aiuto degli altri gli errori e imparando a non ripeterli.

  Per ragionare di democrazia è indispensabile avere sotto mano il libro di testo di storia dell’ultimo anno delle scuole medie frequentate, inferiori o superiori. A chi non l’avesse più, consiglio l’ultima edizione del volume 3 del corso di storia Nuovi Profili Storici  di A.Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, editori Laterza, €40,90.

  Tutti i documenti della dottrina sociale sono pubblicati sul sito <www.vatican.va>. Per ricercarli velocemente si può impostare una ricerca sul motore di ricerca Google,  inserendo il nome del documento che si ricerca (di solito in latino, ad esempio pacem in terris) e  la parola vatican).

 

1.Prepararsi per un grande destino

 

Aldo Moro (1916-1978. Esponente dell’Azione Cattolica, professore di diritto, politico, membro dell’Assemblea Costituente, a lungo parlamentare, ministro e presidente del Consiglio dei ministri, assassinato dai banditi delle brigate rosse nel 1978) scrisse nel 1943, per i suoi studenti dell’Università di Bari:

“Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta, Ciò vuol dire che gli uomini dovranno sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare.

  Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. E’ un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura dissolvano quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino.

[in: Aldo Moro, Lo Stato - Il Diritto, Cacucci Editore, 2006, €15,00, un testo che, a parte alcuni capitoli di impostazione filosofica, è prettamente centrato sulla dottrina giuridica in materia di diritto pubblico e, in questo, non è aggiornato ai nostri tempi].

 

  Leggendo l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, ritrovo lo stesso impegno verso un grande destino di cui scriveva Moro nel 1943. Ci sono degli ideali e delle prospettive di azione collettive. Si lavora nel mondo, si cerca di determinarne l’evoluzione storica, non si è indifferenti al dolore degli altri e la forza della fede riesce talvolta a dissolvere l’ansia, a ridarci la pace, a lenire l’insoddisfazione: perché lo vediamo bene che il dolore umano non sarà mai pienamente confortato. Di quella pace, che significa giustizia, rendere a ciascuno il suo, al Cielo e agli esseri umani, avremo sempre fame e sete: è il nostro destino. Ma pensiamo ancora che sia un grande  destino?

  Uno può pensare a un proprio  futuro felice. Ma tutto passa e anche noi. Se si ragiona così, la vita è fatta di brevi felicità e di molto dolore. E il dolore va preso sul serio, questo posso testimoniarlo, perché non c’è un limite alla capacità di soffrire, ed è la morte. Dicono che ci viene assegnato solo il dolore che possiamo sopportare, ma io questo non l’ho potuto constatare. Così, il destino personale è quello che è. E’ solo quando pensiamo a un destino collettivo, ad esempio che riguarda la nostra discendenza, che allora esso può essere grande. Questa contemplazione di un destino grande dà poi una felicità più duratura. “Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. E’ dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra”[Laudato si’, n.159]. E’ per partecipare a questo lavoro collettivo, convinti di quel grande destino, che ci si riunisce, si dialoga, si lavora insieme, anche in una collettività come quella parrocchiale. E’ anche una via verso la vera felicità. Ed è una via con un significato religioso, come ci ha spiegato il nostro vescovo nel documento che ho citato. E’ una via che ci viene indicata, specialmente a noi laici di fede, ma che qualche volta siamo esitanti a iniziare a percorrere.  Trascuriamo di parlarne nella formazione alla fede e, allora, guardate un po’!, sembra quasi che nemmeno si sappia più di che parlare. E non ne parliamo neppure ai nostri giovani. Noi adulti siamo un po’ sfiduciati, come scriveva Moro: “in una posizione di più o meno acuto pessimismo”.Ecco che allora il nostro catechismo talvolta appare un po’ troppo miserello per chi sta aprendosi alla società, per parteciparvi attivamente, e non è più soddisfatto dai discorsi per bambini.

  Ma soprattutto, per il lavoro che c’è da fare non basta il catechismo! E infatti di quella specie di rivoluzione culturale invocata nella Laudato si’non mi sembra rimanga traccia nei discorsi che facciamo ai giovani. E forse ci siamo già dimenticati di quel documento, che è qualcosa di più delle ricorrenti produzioni clericali del passato, che una persona non faceva nemmeno tempo a leggere, non dico a studiare e a capire, che già ne arrivava un’altra.  O, quello che è ancora peggio, cerchiamo di pasticciarne versioni riduttive, in modo che, in definitiva, confermi le nostre opinioni di sempre. E’ quello che talvolta facciamo anche con le Scritture. Le apriamo a caso, e, guarda un po’!, ci troviamo sempre confermato il nostro pensiero. La scorsa domenica, alla Messa delle nove, il celebrante ha accennato a Scritture esigenti, che mettono in crisi.  E’ bello avere fra le mani le Scritture, ma siamo consapevoli di ciò che veramente sono e dicono? Non sono il Libro delle Giovani Marmotte.

 Ne parlò, in un’omelia dell’8 giugno 2014, il vescovo di Palestrina, Domenico Sigalini:

«Non è scritto per nessun cristiano il Libro delle Giovani Marmotte. Non so se avete letto Paperino. Quando mancava Paperino, non sapevano che fare quelle oche lì; allora c'era un libro nel quale andavano a leggersi come fare un uovo fritto, lo prendi così, lo spacchi cosà, come fanno i vostri mariti quando non ci siete voi a casa. Telefonano "Come faccio a fare questo?", eh?  Il Libro delle Giovani Marmotte, dove c'è scritto tutto quello che devi fare quando manca il capo. Non abbiamo ilLibro delle Giovani Marmotte perché manca Gesù, dove c'è scritto tutto, già definito, tutto quello che si deve fare. Quante volte voi mamme e papà avete dovuto tribolare per decidere cosa fare nella vostra famiglia, pur essendo cristiani, pur sapendo il Vangelo, pur sapendo tutti i Comandamenti! Perché la nostra vita non è mai all'altezza del Vangelo, se non c'è lo Spirito Santo che ci illumina. "Prendi questa decisione!", "Prendi quest'altra". Siamo sempre aperti, non abbiate in tasca nessuno la verità! La verità è sempre Gesù ed è lo Spirito Santo, che ci aiuta ad essere più docili. C'è solo lo Spirito Santo. La nostra docilità e la nostra umanità, affidata tutta a Dio e soltanto a Dio.»

  Quanti saggi si sono amorevolmente dedicati a cercare di comprendere tutti i sensi delle Scritture! Una letteratura sterminata e ancora inesauribile. Perché, come si dice, sono Parola viva. Ed ecco che invece talvolta pretendiamo che ci si appaghi di certi nostri predicozzi incolti, e addirittura ci inquietiamo quando gli altri obiettano insoddisfatti.

  E che succede se noi teniamo la Parola viva in cassaforte senza farla scendere veramente nel nostro mondo? E’ parola reclusa, prigioniera tra le nostre mani. E, invece, che potenza esprime quando c’è chi se ne fa veramente mediatore, con l’antica sapienza che ci è stata tramandata e con l’umiltà devota di chi ne riconosce la santità e la rispetta! Come quando il celebrante, nella Messa delle nove di domenica scorsa  ha iniziato ad introdurci al senso di questo versetto della lettera ai Galati “28 Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”  (Gal 3,27-29)"Altro che bomba atomica!", ha concluso: ed è così! Vedete che cosa abbiamo tra le mani!

 Dobbiamo fare reagire il nostro mondo con la nostra fede: occorre che portiamo il nostro mondo nelle cose della fede. E’ il metodo seguito nella Laudato si’. C’è tutto un mondo in quel documento, alla lettera. C’è un’ecologia, un discorso sull’ambiente, che va molto oltre la natura, ma comprende anche le società umane. Di tutto dovremmo prenderci cura  religiosamente. Ma come farlo se nessuno ce lo insegna, in religione? E, in particolare, non ce lo insegna quando siamo più disposti ad apprendere, nel corso dell’adolescenza. E' cosa che va molto oltre il catechismo come lo si intende in genere, ma che riguarda anche il catechismo. Ma che non molti catechisti mi pare sanno trattare. Dopo la Laudato si’ tutti quelli che si occupano di formazione religiosa degli adolescenti e dei giovani dovrebbero fare un esame di coscienza e dirsi se sono in grado o non sono in grado di fare quel lavoro che ci si attende anche da loro. E se riconoscessero di non essere in grado, con quale presunzione poi potrebbero voler monopolizzare il lavoro di formazione dei più giovani riducendolo a catechismo immiserito? Lascino spazio ad altre forze, in attesa di prepararsi adeguatamente. E, soprattutto, lascino spazio ai sacerdoti, si facciano guidare da loro.

 I più giovani sono più generosi di noi adulti. E’ perché sono aperti al nuovo. E lo sono perché devono farsi largo, progettare un futuro in cui ci sia posto anche per loro e per quelli che amano. Non hanno tempo da perdere: lo sanno per istinto naturale! Se noi riduciamo tutto a catechesi miserelle, senza mettere in campo quel grande destino di cui parlano Moro e Bergoglio, poi li perdiamo. Che se ne fanno di una religione così? E io non posso rimproverarli. Farei anch’io come loro.

  Di solito sono restio a citare discorsi di papi. Siamo stati sommersi dal profluvio esorbitante della loro produzione letteraria. Quasi non abbiamo avuto il tempo di occuparci d’altro (anche se spesso lo abbiamo fatto distrattamente). Ma, per dare un’idea di quel grandedestino che ho evocato, concludo trascrivendo di seguito l’omelia pronunciata da papa Francesco a Lampedusa, dopo fatti  tragici, l’8 luglio 2013. L’ho trovata citata nell’ultimo libro di Zygmunt Bauman che è stato pubblicato in italiano: Stranieri alle porte (anche in formato e-book - ve lo consiglio).

« “Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Così il titolo nei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà. Grazie!

Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto e il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco, signora Giusy Nicolini. Grazie tante per quello che lei ha fatto e fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno oggi, alla sera, iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie.

Questa mattina alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti. «Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello. Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza; tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.

«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi, abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E alcuni non sono riusciti ad arrivare.

«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno. Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.

Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere. Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo. «Chi ha pianto?», chi ha pianto oggi nel mondo?.

Signore in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo, Padre, perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore; Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».

 

2.Prendersi cura della casa comune

 

L’enciclica Laudato si’,  dell’anno scorso, ha come sottotitolo: “sulla cura della casa comune”. Si tratta di un testo che non ha precedenti nella dottrina sociale. Questo risulta in modo evidente in particolare dalle note di citazione, che fanno pochi riferimenti a precedenti documenti analoghi. Vi sono invece molte citazioni di documenti di conferenze episcopali. Vi sono citazioni di documenti dei papi regnanti dagli anni ‘70, ma con molti  testi diversi dalle encicliche, contenuti in discorsi e messaggi. Di documenti conciliari vi sono tre  citazioni e riferimenti tratti tutti dalla Costituzione La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (nota 50, sull’autonomia delle realtà terrene; nota 100, sull’uomo quale autore, centro e fine di tutta la vita economico-sociale; nota 122, sul concetto di bene comune come l’insieme delle condizioni delle vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente). Ma è la prospettiva che viene proposta che è molto diversa da quella dei precedenti insegnamenti della dottrina sociale e anche dalla teologia francescana, a cui pure si fa riferimento come principio ispiratore. Non basta rispettare e contemplare la natura, e riconoscervi l’opera del Creatore: occorre averne cura. Non si tratta solo di soggiogare  e sfruttare  senza inaridire le risorse, lasciando ciò che serve alle generazioni successive: occorre anche mantenere, e ove occorre ristabilire, l’armonia del creato, di cui gli stessi esseri umani sono parte. Occorre un’azione comune, collettiva, che non è più riferita, come nei precedenti documenti che trattavano il tema, solo ai governanti, ma a tutti.  Questo richiede una conversione su larga scala, la giustizia sociale tra le generazioni, un nuovo spirito civico e nuove politiche. E’ in questione uno stile di vita. Ma anche il sistema economico che regge le società contemporanee. Si parla di ecologia, parola che significa studio dell’ambiente, ma l’ambiente  a cui si fa riferimento non è solo quello naturale, ma in primo luogo quello sociale. Perché sono gli esseri umani ad essere chiamati a prendersi cura della creazione. Si è chiamati ad una rivoluzione culturale:

 

114. Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane.

 

  Passare da una civiltà della crescita illimitata e dello spreco ad una della sobrietà e della cura dell’ambiente richiede un lavoro specificamente politico, che nella Laudato si’  è specificamente indicato come compito di tutti.

 

178. Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri. 179. […

 

 ] Poiché il diritto, a volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni  ambientali. 181. […] Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.

 

 Una politica in cui il popolo abbia parte  è una politica democratica. E’ la prima volta che in un’enciclica vi è un così forte appello al popolo per una politica democratica. In passato appelli del genere erano rivolti ai governanti. Si tratta di un portato della difficile accettazione dei processi democratici da parte della dottrina sociale, che si è avuta compiutamente piuttosto recentemente, solo con l’enciclica Il centenario, del 1991, di Karol Wojtyla. Questo documento fu pubblicato in un anno in cui tutto iniziò a cambiare molto velocemente in Europa: fu l’anno della dissoluzione del comunismo sovietico in Russia. In Europa il processo politico era iniziato nel 1989. Si trattò di sviluppi che in Occidente non si erano previsti e che, quindi, sorpresero non poco.  Si produsse, nell’Europa Orientale dominata dal comunismo sovietico, una rivoluzione di sistema. Molto più, quindi, di una rivoluzione politica, che comporta un cambio di chi comanda in politica. A quell'epoca si volle fondare, progettare e stabilire un nuovo sistema sociale, economico e politico insieme. E allora il Wojtyla condusse i fedeli verso la democrazia, verso quale, fino ad allora, vi erano state sempre molte riserve, e ancora per certi versi vi sono, tanto che essa viene poco praticata nell’organizzazione religiosa e viene riservata a quella civile.

  Wojtyla fu tra i pochi, e il solo tra i grandi della Terra, a prevedere il cambiamento dei sistemi politici integrati dell’Europa orientale, che tenevano sostanzialmente prigioniere le Chiese di quelle regioni, e in particolare la Chiesa polacca nella quale egli si era formato. Egli intuiva la fragilità di quei governi nazionali. Ma, con il senno del poi, possiamo riconoscere che non aveva veramente capito i moventi della rivoluzione in corso. Egli si illudeva che fossero spirituali, che i popoli dell’Europa orientale volessero rientrare nuovamente nel consesso delle genti della fede che era alle radici della cultura civica europea.

 Furono strani moti rivoluzionari, quelli che cambiarono l’Europa in quegli anni. Ci fu poca violenza. Non ci fu una classe contro l’altra. Non insorsero i ceti più poveri. Si osservò che le piazze si riempirono di giovani e di professionisti, di gente dei ceti più elevati della società. I governi, dinanzi a quelle piazze, e a volte solo addirittura alla minaccia di raduni di piazza, mollarono tutto, come convinti della propria inesistenza, come fu scritto. E’ stato osservato (Zygmunt Bauman) che fu l’anelito al consumismo, alla libertà di creare e di soddisfare sempre nuovi bisogni, che motivò gran parte delle folle che manifestarono in piazza. Nella Germania orientale, dove, nel novembre 1989 si produsse l’evento che viene denominato Crollo del muro di Berlino, e che, in realtà, non comportò alcun crollo, ma solo l’apertura, su ordine del Governo della Repubblica Democratica Tedesca, della frontiera che all’epoca divideva in due la città di Berlino, non furono assaltati i palazzi della politica, ma la gente si accalcò alla frontiera per andare in Occidente, vedere che c’era, fare acquisti, incontrare parenti che da decenni non vedeva, però poi facendo ritorno a casa attraverso la medesima frontiera.

  Nei sistemi economici e politici comunisti era vietato non lavorare e tutti avevano una casa. Tutti potevano studiare e curarsi gratuitamente. Tutti avevano a basso costo di che vivere. C’era tempo libero e venivano organizzati gratuitamente svaghi e vacanze. Ma lo stato pretendeva di controllare i bisogni  della gente, di decidere quali erano meritevoli di soddisfazione  e quali no. E non riusciva neppure a soddisfare tutti i bisogni che riconosceva come degni. Per cui nei negozi di stato c’era poca roba e, quando c’era, occorreva spesso fare lunghe file per acquistarla. C’era il costume di comprare, ai bassi costi che venivano praticati dallo stato, anche cose che non servivano al momento, ad esempio scarpe di una taglia diversa da quella propria, per farne poi baratto. Tutti i maggiori sforzi dello stato venivano dedicati all’industria pesante, non a quella che produceva beni di consumo, per sorreggere i bisogni dell’apparato militare. Infatti i governi di quel mondo vivevano in un perenne clima di assedio, come agli esordi della rivoluzione bolscevica (quella che poi produsse lo stato sovietico russo), nel 1917. E nell’industria si aveva di mira innanzi tutto lo sviluppo sempre più rapido e imponente, non la sostenibilità ambientale. Fu il desiderio di più beni di consumo la molla principale che indusse le stesse classi dirigenti dei sistemi comunisti dell’Europa orientale a cambiare politica, producendo una rivoluzione di sistema. A tutto ciò gli strati meno ricchi, meno colti e più anziani delle popolazioni, infatti anche in quelle società l’egualitarismo non era completo, rimasero sostanzialmente estranei. Furono i più giovani  e i ceti colti il motore di quelle rivoluzioni.

  Un indizio significativo della dinamica che ho descritto può essere visto in un fatto di cronaca avvenuto proprio a Roma.  Nel 1991, venne in visita di stato in Italia il nuovo presidente della Russia, Boris Eltsin. Sua moglie, mentre il marito si intratteneva in colloqui politici, fu portata in visita per la città e, in particolare, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, che è in una zona della città non particolarmente elegante, si tratta infatti di un quartiere popolare come il nostro, anche se situato in centro. Uscendo dalla Basilica, la signora Eltsin vide lì di fronte un supermercato popolare, che ancora c’è, volle entrare, lo girò tutto e fece anche acquisti, sotto lo sguardo sbalordito delle commesse. Ne fu entusiasta. Fu criticato e preso in giro questo suo ingenuo entusiasmo per un supermercato popolare. Fu osservato che non aveva mostrato lo stesso entusiasmo durante la visita allo storico chiesone. Era questo profluvio di merce che c’era nei supermercati occidentali il sogno degli europei orientali. 
[Cronaca dell'evento all'indirizzo WEB:

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/04/25/quella-prima-volta-di-eltsin-in-italia.html ]

  Ora tutta l’Europa sta di fronte alla sostenibilità del suo modello di sviluppo consumistico, quello che è stato uno dei moventi più importanti delle rivoluzioni nell’Europa orientale. Non ce n’è per tutti. L’induzione di sempre nuovi bisogni genera spreco di risorse. Per cui mentre c’è chi non ha di che vivere, ci sono quelli che consumano molto di più di ciò che ragionevolmente sarebbe loro sufficiente per stare molto bene. Tutto è concentrato nella soddisfazione dei bisogni individuali di chi  è riuscito a integrarsi nel sistema economico, mentre per i bisogni sociali, ad esempio per i servizi pubblici e per le pensioni sembra che, nelle nostre società straricche dell’Occidente, manchino sempre le risorse. Il sistema economico non è stabile, perché, per sostenersi, ha necessità di crescere  sempre. Ma può crescere solo soddisfacendo i bisogni dei sempre meno che hanno di che pagare certi prezzi. Così, sembra che più aumenta la capacità di soddisfare bisogni più diminuisca il numero di chi può pagare e, dunque, più sia in pericolo la crescita costante.  Il lavoro diventa precario perché la sua stabilità è uno di quei costi per i quali non si trovano mai le risorse. Divenendo precario viene retribuito meno, e quindi diminuisce la capacità di spesa delle masse. Quindi diminuiscono i consumi e la gente si indebita per consumare. E’ stato osservato che il debito privato impone un pesante servaggio alle persone, così come l’entità del debito pubblico ,ora che la si vuole tenere sotto controllo, limita la spesa sociale con decremento del benessere collettivo. E’ un modello di sviluppo squilibrato e fondamentalmente irrazionale, tanto che riesce difficile anche ad istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea tenerlo sotto controllo. Nelle crisi, poi, ognuno pensa che la soluzione sia di liberarsi dall’onere della solidarietà verso gli altri. Ci si rinchiude nuovamente nei confini nazionali, e, all’interno di essi, dentro  quelli regionali o comunali, e infine nel proprio privato. Ognuno vuole tenersi il suo. Spendere ciò che produce. Il grido che sorge dalle masse è, in fondo: “Meno tasse!”. Chi oggi si adatterebbe ad uno stile di vita più sobrio? Chi rinuncerebbe al miraggio della crescita costante?

 Scrive Bergoglio nella Laudato si’:

 

222. La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo. Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione di piaceri.

 

 Vedete come ragionando sulla Laudato si’  ci si  è messa di mezzo tanta storia recente? E come  sono venuti in primo piano argomenti politici? Siamo invitati a costruire un nuovo modello di sviluppo, a realizzare nell’Europa finalmente (ma per quanto ancora?) unita un nuovo modello di civiltà, una rivoluzione sistemica analoga a quelle che cambiarono il nostro continente a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. 

  E' perché lo vuole, lo ordina, un papa?

 Le encicliche sociali sono state sempre un lavoro collettivo, anche se poi è il sovrano religioso che le firma. Ci sono sempre stati molti redattori. Per la Laudato si’,  per ciò che si è saputo, non è andata proprio così. C’è effettivamente proprio il pensiero, e addirittura il lessico, del Papa. Ma le idee che Bergoglio propone non sono in gran parte sue originali, bensì sono state sviluppate in tutto il mondo da un movimento politico - religioso molto vasto, come dimostrano le tante citazioni da testi di Conferenze episcopali. C’è insomma, un popolo che reclama un nuovo modello di sviluppo. Noi, da che parte stiamo?

 Si tratta, come  è chiaro, di un lavoro che coinvolge innanzi tutto la sfera di azione dei laici di fede. La cura della casa comune  compete in primo luogo a loro.

 Ecco dunque l’esigenza di una specifica formazione, che va molto oltre quella catechistica e che deve essere potenziata in particolare a partire da quella post Cresima. C’è necessità di studiare e di fare esperienze. Di incontrare gente, anche al di fuori dell’Italia. Conoscere per progettare il cambiamento. Di imparare a praticare il metodo democratico nella discussione e nelle decisioni. Perché bisogna decidersi in masse e solo la democrazia consente di farlo. Un’organizzazione che bisognerebbe creare anche a livello parrocchiale: è da qui che la gente di fede deve essere educata ad andare oltre, in particolare a ragionare su scala europea e mondiale. A essere consapevole della prospettiva storica dei problemi.

 Nella nostra parrocchia siamo ancora ai primi passi e la dispersione della biblioteca parrocchiale non aiuta.

 

3. Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica o privata sulla base di valori condivisi

 

   Se consideriamo la storia recente dell’umanità, possiamo constatare facilmente che qualsiasi sistema di potere che abbia voluto correggere la società introducendo limiti basati sull’idea di giustizia sociale, quindi di valori e diritti fondamentali delle persone incomprimibili dai sovrani e dall’economia, ha dovuto far ricorso a livelli vari di violenza politica, per costringere la gente ad adattarsi ai nuovi comandi. Anche la dottrina sociale della nostra fede non ha fatto eccezione. I livelli più intensi di violenza politica a fini di giustizia sociale furono senz’altro espressi dal comunismo sovietico. Ma anche la legislazione sociale democratica è stata presidiata sia dal potere giudiziario che da quello amministrativo, anche con misure coercitive. La legge, anche in un regime democratico sociale,  è tale se ci sono autorità che riescono a farla rispettare.

  Se noi guardiamo all’esperienza politica sovietica, ci rendiamo conto che la rivoluzione che essa espresse fu violenta all’origine, e  quindi fu attuata  anche mediante la soppressione e incarceramento di avversari ideologici, comprese persone che appartenevano ad diversi filoni del socialismo rivoluzionario, ma che la violenza politica, con assassinii su larga scala intesi addirittura come decimazioni  di etnie che si ritenevano resistere al potere centrale organizzato dal partito comunista sovietico, si intensificò nel corso del dominio assoluto espresso da Giuseppe Stalin, nativo della Georgia,  dal 1924 al 1953. Questi assassini politici sono apprezzabili addirittura nelle indagini demografiche perché portarono a un decremento della popolazione inspiegabile con altre cause (ad esempio epidemie, guerre ecc.). Fin dall’inizio della rivoluzione sovietica fu organizzato un sistema di deportazione e di lavoro forzato dei condannati politici in appositi campi, chiamati Gulag. Esso rimase in vigore fino al 1987, venendo soppresso durante il dominio politico di Mikhail Gorbaciov, dal 1985 al 1991, durante il quale il sistema politico sovietico si dissolse a seguito di processi democratici inaspettati in Occidente. Durante il dominio politico degli ucraini Nikita Krusciov, dal 1955 al 1964, e Leonida Breznev, molto più lungo,  dal 1964 al 1982, lo sterminio sistematico di coloro che venivano individuati come nemici politici cessò, ma non cessò la persecuzione politica, amministrativa e giudiziaria, punendo i dissidenti anche con l’esilio in Occidente e la revoca della cittadinanza.

  Della violenza politica sovietica fecero le spese molti gruppi sociali, considerati nemici politici, e anche esponenti di alto livello dello stesso partito comunista. In particolare furono colpite le Chiese cristiane e i loro fedeli. La manifestazione della fede cristiana spesso portava all’emarginazione sociale e politica. Nell’Unione sovietica e in altre nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio la religione non era proibita, ma veniva promossa una propaganda di ateismo: le religioni e il clero venivano considerati infatti come strumenti di oppressione della classe operaia e di quella contadina.  

  Con tutto ciò l’Unione Sovietica e le nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio ebbero Costituzioni molto avanzate, con affermazione di diritti sociali che nel resto d’Europa cominciarono ad essere proclamati, in genere, dopo la Seconda guerra mondiale (se si eccettua la costituzione della repubblica tedesca detta di Weimar, corrente tra il 1919 e il 1933).

Ecco, ad esempio il catalogo dei diritti fondamentali contenuto  nella Costituzione sovietica del 1936, fatta approvare da Stalin, quando l’Italia era ancora sotto il dominio del fascismo mussoliniano:

 

118. I cittadini dell’URSS hanno diritto al lavoro, cioè diritto di ricevere un lavoro garantito e retribuito secondo la quantità e la qualità [delle loro prestazioni].

Il diritto al lavoro è assicurato dall’organizzazione socialista dell’economia nazionale,

dall’aumento incessante delle forze produttive della società sovietica, dall’eliminazione della possibilità di crisi economiche e dalla liquidazione della disoccupazione.

119. I cittadini dell’URSS hanno diritto al riposo.

Il diritto al riposo è assicurato dalla riduzione della giornata lavorativa fino a 7 ore per l’immensa maggioranza degli operai, dall’istituzione di congedi annuali per gli operai e gli impiegati con mantenimento del salario, e dalla predisposizione di un’ampia rete di sanatori, case di riposo e club, posta al servizio dei lavoratori.

120. I cittadini dell’URSS hanno diritto all’assistenza materiale durante la vecchiaia, nonché in caso di malattia e di perdita della capacità lavorativa.

Questo diritto è assicurato dall’ampio sviluppo dell’assicurazione sociale degli operai e degli impiegati a carico dello Stato, dall’assistenza medica gratuita ai lavoratori, e dall’ampia rete di stazioni di cura messa a disposizione dei lavoratori.

121. I cittadini dell’URSS hanno diritto alla istruzione. Questo diritto è assicurato dall’istruzione elementare, generale ed obbligatoria, dal carattere gratuito  dell’istruzione, compresa l’istruzione superiore, da un sistema di borse di studio statali per l’immensa maggioranza degli studenti delle scuole superiori, dall’insegnamento scolastico nella lingua materna e dall’organizzazione dell’insegnamento professionale, tecnico e agronomico gratuito per i lavoratori nelle officine, nei  sovchoz, nelle stazioni di macchine e trattori e nei kolchoz.

122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica.

La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto dell’uomo al lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale e all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla donna, con mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità, di nidi e di giardini d’infanzia.

123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge irrevocabile.

Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.

124. Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.

125. In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di consolidare il regime socialista, ai cittadini dell’URSS è garantita dalla legge:

a) la libertà di parola;

b) la libertà di stampa;

c) la libertà di riunione e di comizi;

d) la libertà di cortei e manifestazioni di strada.

Questi diritti dei cittadini sono assicurati mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni le tipografie, le scorte di carta, gli edifici sociali, le strade, i mezzi di comunicazione e le altre condizioni materiali necessarie per il loro esercizio.

126. In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di sviluppare l’autonomia organizzativa e l’attività politica delle masse popolari, è assicurato ai cittadini dell’URSS il diritto di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, consorzi cooperativi, organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa, associazioni culturali, tecniche e scientifiche, mentre i cittadini più attivi e più coscienti provenienti dalle file della classe operaia e da altri strati di lavoratori si riuniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, che è il reparto d’avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento e lo sviluppo del regime socialista, e che rappresenta il nucleo direttivo di tutte le organizzazioni dei lavoratori, sia sociali che statali.

127. Ai cittadini dell’URSS è assicurata l’inviolabilità della persona. Nessuno può essere sottoposto ad arresto se non in base a sentenza(postanovlenie) di un tribunale o con la conferma del procuratore.

128. L’inviolabilità del domicilio dei cittadini e il segreto della corrispondenza epistolare sono tutelati dalla legge.

129. L’URSS accorda il diritto di asilo ai cittadini stranieri perseguitati per avere difeso gli interessi dei lavoratori, o per la loro attività scientifica, o per avere partecipato a lotte di liberazione nazionale.

130. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto ad osservare la Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ad eseguire le leggi, ad osservare la disciplina del lavoro, a comportarsi con onestà nei confronti del dovere sociale e a  rispettare le regole della convivenza socialista.

131. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto a salvaguardare e a consolidare la proprietà sociale socialista, come base sacra e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza e della potenza della patria, fonte di vita agiata e civile per tutti i lavoratori.

Coloro che attentano alla proprietà sociale, socialista, sono nemici del popolo.

 

  E’ chiaro che, tuttavia, la gran parte dei diritti di incolumità sociale e libertà rimasero solo proclamazioni formali nei sistemi sovietici e in quelli che ad essi si ispiravano, perché nei fatti veniva repressi e negati. Nell’Europa occidentale cominciarono ad essere proclamati e attuati nel secondo dopoguerra, dopo la caduta dei regimi nazifascisti. Un esempio di ciò è  stata storicamente la Repubblica italiana.

  In particolare, nei sistemi sovietici e di ispirazione sovietica, non era ammessa l’iniziativa economica privata, se non su minima scala. I regimi comunisti si proponevano di selezionare i bisogni degni di essere soddisfatti e di soddisfarli con una propria organizzazione produttiva. In realtà non si riuscì mai a conseguire questo scopo e la vita nelle nazioni governate da regimi comunisti appariva significativamente più misera di quella delle popolazioni degli stati Occidentali. Anche l’arte e la scienza ne risentirono. Il penetrante controllo politico ne limitò l’efficacia e l’originalità.

  L’attuazione dei diritti sociali fondamentali nell’Europa Occidentale si sviluppò con procedure democratiche dal secondo dopoguerra, dalla metà degli anni ‘40. Questo consentì di ottenere risultati importanti con il minor grado di coercizione possibile. Infatti in democrazia si fa conto sull'adesione volontaria alle decisioni collettive, a prescindere da sanzioni. La nuova Europa dei nostri tempi, che affratella anche nazioni che si liberarono dai regimi comunisti a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, segue ancora questo metodo. La democrazia comporta che non possano esistere poteri pubblici o privati illimitati: ogni potere deve averne un altro che lo limiti e lo controlli. Il problema dei nostri tempi è l’eclissi dei diritti sociali sotto l’aggressione dei sistemi di potere privati globalizzati, in grado di condizionare interi stati. Gli stati e le istituzioni sovranazionali, come l’Unione Europea, non si trovano a dover combattere poteri che loro esplicitamente  si oppongano, ma si trovano a dover soggiacere ad un sistema economico e sociale al quali essi stessi partecipano, trovandone risorse per i programmi pubblici. I problemi economici appaiono quindi come provocati da una sorta di fenomeni naturali, come i terremoti, contro i quali c’è poco da fare, in particolare per indirizzare a fini sociali, come la nostra Costituzione ancora prevede, l’iniziativa economica privata, che è libera, ma anch’essa, in quanto potere privato, ha dei limiti, in particolare nella sicurezza, libertà e dignità umana e nei programmi e controlli pubblici perché possa essere indirizzata e coordinata  a fini sociali  (così è scritto nell’art.41 della Costituzione). Possiamo dire che questi obiettivi siano raggiunti, oggi, in Italia?

  Mantenere una via democratica all’affermazione dei diritti fondamentali sociali nelle società avanzate Occidentali contemporanee è il grande problema dei nostri tempi.

 La dottrina sociale è piena di proclamazione di grandi diritti sociali, come gli articoli della costituzione sovietica che ho sopra trascritto, ma renderli vivi tra la gente richiede che ci si addestri nel metodo democratico, perché è esso che fa funzionare i poteri pubblici nell’Europa di oggi: non c’è da attendersi da nessun uomo forte che produca il risultato a cui si mira. I governi, anzi, appaiono deboli di fronte alle temperie economiche globali che minacciano i diritti fondamentali della gente. Ecco dunque che devono essere incalzati dalla gente, appunto con metodo democratico.

 E’ quanto siamo invitati a fare nella Laudato si’:

178. Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri.

179. [… ] Poiché il diritto, a volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni  ambientali.

181. […] Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.

 Ecco perché la formazione e soprattutto il tirocinio alla democrazia dovrebbe rientrare in quella alla vita di fede, in particolare per il laico.

 

4. Illusione dell’«uomo forte»

 

  C’è sempre, nell’esperienza sociale, la tentazione di affidare la realizzazione del bene comune all’azione di un “uomo forte”. C’è  in politica, come in religione e in tutti gli altri campi della vita umana in cui certi risultati possono ottenersi solo con un lavoro collettivo.

  Che cos’è il bene comune? Se ne sono date molte definizioni. Si parte sempre, però, dall’idea che gli esseri umani per essere felici dipendono dagli altri. La loro felicità dipende dall’ambiente in cui sono inseriti. E non basta l’appagamento dei bisogni: è esperienza comune che anche i ricchi soffrono. Tanto più che nell’era contemporanea l’economia delle società più ricche sembra dipendere dalla creazione incessante di nuovi bisogni e, quindi, su un costante loro inappagamento. E infatti nelle straricche società occidentali l’esperienza della gioia, del sentimento di appagamento interiore, è rara. Si può concludere che viviamo in un ambiente sociale che non favorisce la felicità, che è difficile da raggiungere nonostante ognuno nella propria vita si sforzi di farlo. Bisognerebbe introdurre delle modifiche, ma trattandosi lavorare su una società,  c'è da fare un lavoro collettivo. Ci siamo però disabituati a svolgerlo: esso  è propriamente la politica. Ognuno tende a fare per sé, a sviluppare una propria idea di società che gli consentirebbe di essere felice. Così ci sono moltissime idee di società felici, ma poi la società corre come abbandonata a sé stessa, perché non ci si riesce a mettere d’accordo su come modificarla. Bisognerebbe infatti tener conto anche delle aspirazioni alla felicità altrui.  Ma c’è sempre il sospetto che ciascuno voglia fare solo gli affari propri. E spesso esso risulta fondato. Così manca la fiducia nel prossimo e quindi la possibilità di svolgere un lavoro comune. E’ difficile fare unità dalla molteplicità delle nostre vite. E’ in questo momento che sorge la tentazione dell’ “uomo forte”: una persona a cui affidare tutte le nostre speranze e che, con autorità non più contestabile, ponga fine alle discordie e decida una linea. Trattandosi di una persona sola, sia pure con molta autorità, pensiamo che sia più facile liberarsene, quando non ci andrà più bene. Nell’immaginazione comune i molti prevalgono sui singoli. Temiamo di più i molti, per di più anarchici, senza una forza che li tenga a bada e ci protegga da loro, che la singola autorità personalizzata. Questo però è un grave errore. Prendendo consapevolezza della storia dell’umanità possiamo facilmente convincerci che nulla è più stabile, nelle società umane, dei poteri molto personalizzati, come erano quelli dei monarchi assoluti che dominarono l’Europa fino al faticoso emergere delle democrazie, dalla fine del Settecento. O come furono i despoti sovietici che ho ricordato in un post  di due giorni fa: Giuseppe Stalin, Nikita Krusciov, che pure dichiarò di voler liberare la politica da quello che chiamò il culto della personalità, Leonida Breznev (del fondatore del comunismo sovietico,Lenin, non possiamo dire se sarebbe divenuto un despota, perché regnò solo per sette anni, mentre l’ultimo capo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov non volle più essere un despota, ma, a quel punto, il sistema sovietico si dissolse). O, in Italia, il capo del Governo in epoca fascista, Benito Mussolini, che chiamammo Duce, il condottiero di un’intera nazione, un padre  della patria, in tutti i sensi il modello a cui noi italiani pensiamo subito quando parliamo di  “uomo forte”. Egli ebbe nelle sue mani l’Italia per un ventennio. E anche in religione, nella nostra fede, noi facciamo molto conto su “uomini forti”: le nostre collettività religiose sono infatti organizzati, almeno formalmente, sotto il potere assoluto di un’unica persona, la cui autorità è stata storicamente costruita come quella di un imperatore religioso: questo sistema di governo dura ormai da mille anni.

   Nei giorni passati si è evocata, a proposito dei possibili effetti della riforma costituzionale che tra poco sarà oggetto di un referendum, l’esperienza politica dispotica del capo di stato Augusto Pinochet, che dominò il suo popolo dal 1973 al 1990.  Ma il paragone con l’esperienza cilena è improprio ed esagerato, se riferito all’attuale situazione politica italiana, che si muove ancora saldamente entro procedure democratiche. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’90, di fronte all’apparente disgregazione e dispersione della politica nazionale, si seguì la via di personalizzare  molto il confronto politico, creando quelli che vengono definiti partiti personali, quelli che fanno riferimento ad un preciso capo politico, del quale spesso viene inserito in nome nel simbolo di partito. I maggiori partiti politici nazionali sono attualmente organizzati come partiti personali. Se si pensa a quelle formazioni non viene in mente un preciso programma politico, ma la persona del capo di riferimento. E’ questo il metodo migliore per capire se un partito è o non è personale. I capi dei partiti personali  reclamano poi mano libera, e chiedono la fiducia  in questo la fiducia di chi li vota. Così spesso i cittadini elettori sono posti nelle condizioni di coloro che firmano cambiali completamente in bianco.

  Tutti i capi dei partiti personali  parlano di riforme. Quali saranno precisamente? Non lo dicono. Ci assicurano che ci cambieranno la vita in meglio. Ma come facciamo a valutarne l’affidabilità senza che ci vengano esposte nel dettaglio? Quando però viene fatto, emergono tanti problemi e soprattutto ciascuno capisce che, quando ci viene detto che le riforme sono necessarie  ma  dolorose, non è solo agli altri che recheranno dolore. Rimanendo sul vago questo problema viene superato. Ognuno pensa al  bene comune  che ha in mente, e non viene contraddetto dagli aspiranti riformatori,  i quali spesso sono in buona fede perché neppure loro hanno in testa un preciso progetto di riforme, e può prevedere che il dolore  sarà solo a carico di altri.

  E’ stato osservato che la recente riforma costituzionale riduce di molto il peso del Senato nelle decisioni che il Parlamento deve prendere inseduta comune, vale a dire riunendo deputati e senatori e facendoli votare. E questo perché il Senato passa da trecentoquindici membri, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della Repubblica) e quelli di nomina presidenziale (per aver “illustrato” la Patria), a cento membri, compresi nomina presidenziale, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della Repubblica). Tenendo conto che il sistema elettorale per la Camera di deputati assegna al partito che riesca a conseguire il 40% dei voti validi degli elettori o riesca a vincere il ballottaggio tra i due più forti partiti di minoranza una solida maggioranza assoluta, e tenuto conto dell’analogo effetto che viene prodotto dai sistemi elettorali regionali e comunali e dunque sulla composizione dei consigli regionali (che, secondo la riforma costituzionale, nomineranno i senatori) e sulla scelta dei sindaci (tra i quali verranno scelti alcuni senatori), possiamo prevedere che probabilmente, quando il Parlamento deciderà in seduta comune, il partito che esprime il Governo avrà la possibilità di far approvare le sue scelte. Il Parlamento, secondo la riforma costituzionale, nominerò  in seduta comune il Presidente della Repubblica  e un terzo (otto membri) dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. Poiché può prevedersi che, nell’attuale scenario politico, i partiti che avranno la possibilità di vincere le elezioni politiche saranno partiti personali, ecco che si può temere che il capo del partito personale  vincitore avrà la possibilità di far approvare le sue scelte personali  in materia. Dunque che la più importante istituzione di garanzia costituzionale, la Presidenza della Repubblica, finisca ad essere assegnato a persona di fiducia del capo del partitopersonale. E che l’influenza del medesimo capo politico sulla magistratura, dalla quale dipende l’attuazione dei diritti dei cittadini, in modo che non rimangano solo sulla carta come begli enunciati formali, aumenti di molto rispetto alla situazione attuale, incidendo sull’indipendenza dei giudicanti dal potere di governo. Anche sotto questo profilo la riforma costituzionale va verso un maggior poterepersonale  di governo. Del resto è proprio questa la soluzione che i capi politici contemporanei propongo in Italia: un potere personale, di un uomo  forte (i capi personali  dei maggiori partiti politici sono attualmente uomini), per superare lo stallo che in politica è determinato che non ci si riesce a mettere d’accordo, quindi dal fatto che, in definitiva, la gente non sa più fare politica. Infatti la politica non è fatta solo di  chiacchiere, in cui ognuno dice la propria  e rimane della propria opinione, che risulta poi incomponibile con quella degli altri, ma si costruisce sul dialogo,  che significa tener conto anche delle ragioni degli altri e proporsi di arrivare ad un’intesa. Dal dialogo  poi scaturiscono decisioni  condivise.

 Un’ultima considerazione: gli  uomini forti  degradano rapidamente. Un potere senza sufficienti e autorevoli contrappesi, innanzi tutto nella politica democratica espressa dalla base dei cittadini, tende all’abuso e all’eccesso. Per ricordare l’esempio sovietico, viene riferito  che Leonida Breznev, il quale dominò un immenso impero socialista  per circa un ventennio, sviluppò una passione personale per le automobili più costose prodotte in Occidente, che amava guidare personalmente: ne aveva una vasta collezione e, personalmente, non vi trovava alcuna contraddizione con gli ideali socialisti proclamati. E’ questa una dinamica che si riscontra, in genere, nella gran parte degli uomini forti, papi compresi (se si eccettua quelli, molto più sobri in questo, degli ultimi due secoli). L’orgoglio di uomo forte  grida veramente sfacciato, ad esempio, dal frontone del grande chiesone vaticano.  Leggere per credere. Dice sostanzialmente: "L'ho fatto io!".

 

5. Capire la politica

 

   In Italia le masse delle persone di fede sono state protagoniste della politica dalla fine del Settecento e, sotto certi aspetti, lo sono ancora. La differenza rispetto al passato è che lo sono in modo molto meno consapevole e convinto. Del resto è un problema che riguarda più in generale la democrazia italiana, come anche quella europea. Ognuno è spinto nel proprio privato e i capi politici pensano di poter influire sulla gente, raccogliendone il consenso, non innescando processi collettivi, ma raggiungendo le persone, ad una ad una, in quei piccoli mondi separati in cui si sono recluse. Questo impedisce di ragionare insieme sulle cause sociali dei problemi della gente. Si tratta di un atteggiamento deresponsabilizzante, sia per i capi politici sia per le masse. E' l'antipolitica, il contrario della politica: politica è ragionare e programmare insieme agli altri, consapevoli di vivere in quella che è stata definita recentemente, con un bella immagine, la "casa comune". Le soluzioni proposte dalla politica ne risentono. Si cerca di venire in contro al privato della gente, senza tener conto della coerenza dell’insieme, in particolare della sostenibilità economica delle misure progettate. Si cerca di sollecitare dai cittadini atteggiamenti fideistici, insomma l’accettazione di cambiali sociali in bianco. Si propone come positivo il cambiamento per il cambiamento, come se la direzione del cambiamento non fosse importante, soprattutto quando si tratta di riformare le fondamenta dello stato. Si propone una riduzione della classe politica che, a ben vedere, comporta anche un suo degrado, meno autonomia di giudizio, meno collegamenti con i cittadini elettori. Si tace che si cerca di ottenere la coerenza dell’azione di governo sostituendo una classe politica pluralista, rappresentativa delle varie componenti della società, con una di stretta osservanza partitica, scelta da capi autoreferenziali. E i maggiori partiti nazionali sono oggi partiti personali,  vale a dire centrati sulla figura di un capo carismatico, e i loro capi non sono parlamentari. In un certo senso quello che negli anni ’70 fu una anomali limitata, una politica extraparlamentare, oggi è diventata la normalità.  L’eclisse del Parlamento, che molti studiosi segnalano,  è la manifestazione di una grave crisi della politica nazionale, la presa d’atto che non sembra non essere più  possibile fondare una nuova politica democratica, che coinvolga nuovamente la partecipazione informata, consapevole, responsabile delle masse.

  Capire la politica richiede uno sforzo e, innanzi tutto, la volontà di essere parte dei processi democratici. Una vita di fede persa dietro fantasie neobibliche e spiritualismi vari, centrata su neocomunità fortezza timorose di tutto ciò che si muove intorno a loro nella società e pronte a vedervi l’azione del demonio, non è l’ambiente giusto. Non basta l’invito autorevole a informarsi personalmente.  Come e dove farlo? Bisogna creare le occasioni sociali per approfondire questioni che sono tanto rilevanti anche per la vita di fede. Se non se ne è capaci anche la fede può essere facilmente strumentalizzata al servizio della politica egemone. Si vorrebbe, secondo la fede, aiutare gli altri e invece si finisce per respingerli, convinti del proprio buon diritto di farlo per salvare una qualche propria identità. E sempre risorge la malattia clericale, che si sviluppa nel clerico-moderatismo, che storicamente è stato, in Italia, l’ambiente favorevole per ogni tendenza politica reazionaria e dello stesso fascismo storico. Così il cambiamento per il cambiamento rischia di riproporre un tremendo passato, che appare nuovo  solo perché si è persa la memoria storica.

 

6. Nuovo inizio o prosecuzione della costruzione della casa comune?

 

   Ci sono scadenze, come quella dell’annuale consegna delle tessere di Azione Cattolica, che sembrano segnare un nuovo inizio nella vita di un gruppo, come anche, su scala via via più grande, di un’associazione, di una Chiesa, di una nazione, di un’era storica.

 Ci fu, tra il 1962 e il 1965, il Concilio ecumenico Vaticano 2°, qui a Roma, e presto ci si divise tra coloro che sottolineavano le  novità, che vi furono e furono molte, e gli elementi di continuità con le idee e il lavoro del passato. Questo dibattito finì presto per degenerare in polemica, spingendo e persone a schierarsi. Sembrò allora che le novità avessero prodotto un pericoloso disordine e i fautori della continuità si assunsero il ruolo di difensori  di un ordine bimillenario minacciato. Questo sviluppo interferì pesantemente con quel  rinnovamento, spesso indicato con il termine attenuato di  aggiornamento, che era stato al centro dei lavori di quel concilio. A rinnovarsi doveva essere la Chiesa, in un modo nuovo di confrontarsi con il mondo intorno a lei. Si passava dalla polemica ideologica, che aveva caratterizzato l’impostazione dal Settecento in avanti, in particolare nel duro contrasto con i processi democratici e con il socialismo, alla condivisione di gioie, speranze, tristezze e angosce dell’umanità contemporanea: una reale e intima solidarietà con il genere umano e la sua storia (questo l’inizio di uno dei più importanti documenti dell’ultimo concilio, la costituzione pastorale La gioia e la speranza, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo).  Una delle più importanti caratteristiche del movimento che il Concilio Vaticano 2° volle imprimere al lavoro della Chiesa nella società fu il pressante appello alla collaborazione dei laici, vale a dire dei fedeli che non sono diaconi, preti e vescovi, né sono inseriti in un ordine religioso (frati e suore, monaci e monache). L’Azione Cattolica italiana, dalla fine degli anni ’60, con la riforma attuata sotto la presidenza di Vittorio Bachelet (dal 1964 al 1973), ha fatto della formazione dei laici per questo impegno il suo campo principale di attività, accanto agli altri che storicamente le erano stati propri, vale a dire l’impegno civile per la promozione dei valori di fede nella società e il sostegno alla vita di fede.

  In Italia si esce da un lungo confronto sui temi politici della riforma delle istituzioni fondamentali dello stato. Accostando gli insegnamenti contenuti nell’enciclica Laudato si’,  di papa Francesco, diffusa lo scorso anno, se ne poteva comprendere il valore anche religioso: si trattava infatti di occuparsi della casa comune, che è l’ambiente naturale, urbanistico, sociale, civile e politico che rende possibile ai nostri giorni la vita di un’umanità mai così numerosa. Si è capito subìto bene che non si trattava di decidersi per il Sì o per il No sulla base di impressioni emotive e superficiali, così come accade in genere in certi concorsi artistici, come il Festival di Sanremo. E’ stato necessario approfondire, informarsi personalmente, cercare un aiuto dove non si arrivava con le proprie forze, e dialogare  confrontando le rispettive opinioni. La decisione aveva un valore religioso, riguardando questioni di sopravvivenza di una vasta collettività, ma la cultura religiosa non bastava per affrontarla. E’ stato necessario  formarsi  prima di decidere. A questo lavoro serve appunto l’adesione ad un gruppo di Azione Cattolica. Nell’organizzazione dell’Azione Cattolica, che, strutturata come federazione di gruppi parrocchiali e diocesani, ha dimensioni nazionali e internazionali, c’è quello che serve per svolgerlo. Ad esempio, lo scorso anno si è ideato un ciclo per la formazione alla politica dei più giovani, a livello parrocchiale, diocesano e nazionale, a cominciare dai piccolissimi. Si è insegnato a gestire un Comune, facendone fare tirocinio. Ne potete trovare l’esposizione alla pagina WEB <http://acr.azionecattolica.it/noi-la-parola>.

  Penso che le persone del nostro quartiere si siano rese conto della necessità di questa specifica formazione, che è, in particolare, auto-formazione, attraverso il dialogo. Ma probabilmente molti non sanno che ciò di cui hanno bisogno c’è già ed è appunto l’Azione Cattolica. Penso che la gente abbia un’idea un po’ vaga di ciò che è l’Azione Cattolica. Probabilmente fanno fatica a distinguerla da altre associazioni e movimenti che animano la vita di fede in Italia. Riprendendo una metafora dell’antico filosofo greco Platone (vissuto tra il quinto e il quarto secolo dell’era antica) riproposta dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nel corso del dibattito sui temi del recente referendum costituzionale, le comunità possono essere organizzate intorno a pastori  e a tessitori. Nelle prime si segue un pastore, un  cammino  da lui organizzato. Nelle seconde si creano rapporti civili e poi, sulla loro base,  si costruisce  la casa comune, una città. All’Azione Cattolica si attaglia meglio l’esempio del  costruire una realtà civica. Si costruisce secondo un progetto  ed esso è frutto del pensiero di chi partecipa al lavoro. Si lavora democraticamente, l’unico metodo per consentire a tutti di partecipare. Il lavoro in AC è quindi anche tirocinio alla democrazia.  Al centro di questo impegno c’è il  prendersi cura  dell’ambiente naturale, urbanistico, sociale, civile e politico.   Esso è impregnato di valori di fede, come un biscotto inzuppato nel vino (riprendo questa immagine da una poesia udita in gioventù, ma di cui non ho mai saputo l’autore), appunto per quella condivisione di gioie, speranze, tristezze e angosce dell’umanità contemporanea che caratterizza la vita di fede secondo la visione dei saggi dell’ultimo Concilio.

 E costruendo,  innanzitutto progettando, ci si rende facilmente conto che  non si riparte mai veramente da capo, che ogni nuovo inizio  è in realtà una prosecuzione di un lavoro comune. Questo è talvolta tanto difficile da accettare negli ambienti di fede. Ma è la base perché il lavoro di costruttori sia valido: consente infatti di imparare dagli errori del passato. A volte invece sembra che tutto ciò che c’è stato tra i primi tempi, tra i tempi apostolici, dal primo secolo della nostra era, e i nostri tempi sia senza valore, che si possa disinvoltamente ripartire per nuovi cammini disinteressandosi a tutto ciò che c’è stato prima. Così poi si finisce per ripetere all’infinito gli stessi sbagli del passato, ad esempio le stesse intolleranti divisioni e incomprensioni, la stessa presunzione di bastare a sé stessi. In Azione Cattolica non facciamo così: ad esempio quest’anno facciamo memoria della lunga storia associativa che dura da 150 anni, in un percorso non lineare, ma con molte svolte, non di rado drammatiche, dure, specialmente a cavallo tra Ottocento e Novecento,  attraverso le quali però complessivamente si è cresciuti, costruendo  realtà nuove.

 

7. Persecuzioni e persecutori

 

  La persecuzione religiosa è strettamente legata alla negazione della libertà religiosa. Quest’ultima si può presentare in un quadro sociale e politico che tollera  scelte religiose diverse da quelle della maggioranza della popolazione o da quelle fatte dallo stato o in quadro legislativo che riconosce il diritto  a scegliere e a praticare in privato e in pubblico una determinata religione. Storicamente, nelle società europee o comunque di cultura europea si è passati dalla  tolleranza  all’affermazione del  diritto alla libertà religiosa. Attualmente la comunità mondiale degli stati riunita nell’Organizzazione delle Nazioni Unite riconosce la libertà religiosa come diritto umano fondamentale. Si legge infatti nell’art.18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite:

“Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.”

 L’anno precedente, l’Assemblea Costituente della Repubblica italiana aveva approvato nella Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948 l’art.19 che dispone: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.

  Norme analoghe si trovano nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, che dal 2009 ha la stessa forza normativa dei trattati istitutivi dell’Unione Europea.

 Il  diritto di libertà religiosa  comporta il principio della laicità delle istituzioni pubbliche, che comporta il divieto di discriminazione su base religiosa e il divieto di imposizione normativa della pratica di una determinata religione, quindi il divieto di stabilire una  religione di stato.

  All’inizio della loro storia le nostre prime comunità religiose, formate di collettività poco numerose sparse per tutto l’impero mediterraneo ai margini del quale la nostra fede era nata, subirono forme di persecuzione propriamente religiosa da parte dell’ebraismo loro contemporaneo, nella fase di distacco della nostra fede da esso. Successivamente subirono forme di persecuzione da parte delle autorità pubbliche dell’impero romano, le quali inizialmente si muovevano essenzialmente su denuncia di privati: questo dimostra una certa frizione tra le nostre prime collettività religiose e le società in cui erano immerse. Successivamente le autorità pubbliche dell’impero romano promossero cicli di repressione, essenzialmente per motivi politici, anche se gli storici riconoscono che il numero delle persone colpite è ampiamente sovrastimato dalla tradizione religiosa. A seguito di un processo storico che è ancora piuttosto oscuro, ad un certo punto la nostra fede nel Quarto secolo si affermò come ideologia politica dell’antico impero romano e gli altri culti religiosi vennero vietati. A quel punto i cristiani divennero persecutori dell’ebraismo, dei preesistenti culti pagani e anche delle correnti religiose basate su teologie non ammesse dallo stato. La teologia divenne un affare di stato e tutti i Concili ecumenici del primo millennio furono convocati e, in genere, anche presieduti dagli imperatori romani. Nel secondo millennio venne istituito un sistema poliziesco giudiziario diretto dai papi romani per la repressione delle correnti religiose ritenute erronee. Esso venne progressivamente smantellato solo a partire dal Settecento, con l’affermazione in Europa del principio della laicità dello stato. Non è disponibile una contabilità precisa degli imprigionati, torturati e uccisi da quel sistema repressivo: i clericali tendono a ridurne il numero, gli anticlericali a sovrastimarlo. Molti riformatori religiosi furono da esso inquisiti, così come diverse forme di spiritualità popolare. Ne furono vittime, ad esempio, la mistica Giovanna d’Arco (giustiziata, arsa viva,  nel 1431 e proclamata santa nel 1920), il monaco e riformatore religioso Girolamo Savonarola (giustiziato arso vivo, nel 1498) e il filosofo Giordano Bruno (giustiziato, arso vivo in piazza Campo de’ Fiori a Roma, nel 1600).

   Nel 1864 il Sillabo, un documento in cui il papa Mastai Ferretti, regnante con il nome di Pio 9°, elencò le affermazioni erronee correnti nella società contemporanea, era condannata l’idea di libertà religiosa. Da allora, in un processo durato circa un secolo, si produsse un mutamento nella dottrina ufficiale, essenzialmente per l’azione delle correnti cattolico-democratiche. Infine, nel corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), il 7-12-1965 venne approvata la Dichiarazione Della dignità umana che riconobbe, anche nella dottrina della nostra fede la libertà religiosa, in quanto espressione della  dignità umana:

Oggetto e fondamento della libertà religiosa

2. Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società.

A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell'immunità dalla coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano l'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito.

   Questo principio si affermò piuttosto faticosamente nelle nostre collettività di fede, in cui ancora permangono manifestazioni delle antiche concezioni.

  Durante la solenne liturgia della Giornata del perdono, il 12-12-2000, durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000, il papa Karol Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo 2°, ci guidò a fare memoria delle persecuzioni dei quali i cristiani erano stati responsabili, a pentircene, e a fare solenne proposito di non ripeterle:

“II. CONFESSIONE DELLE COLPE NEL SERVIZIO DELLA VERITÀ 

Un Rappresentante della Curia Romana: 

Preghiamo perché ciascuno di noi, 
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale, 
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici 
nel pur doveroso impegno di difesa della verità, 
sappia imitare il Signore Gesù, 
mite e umile di cuore. 

Preghiera in silenzio. 

II Santo Padre: 

Signore, Dio di tutti gli uomini, 
in certe epoche della storia 
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza 
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore, 
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa. 
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori 
e accogli il nostro proposito 
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità, 
ben sapendo che la verità 
non si impone che in virtù della stessa verità. 
Per Cristo nostro Signore. 

R. Amen. 

R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie, eleison. 

Viene accesa una lampada davanti al Crocifisso.”

   La decisione del Wojtyla venne aspramente criticata negli ambienti religiosi, anche se aveva avuto l’adesione della Commissione Teologica Internazionale. Tuttora non è condivisa da molti della nostra fede. Si sostiene che non possiamo pentirci per ciò che si è fatto nel passato da parte di altri. E che, nel valutare la vita di questi ultimi, occorre tener conto del contesto sociale, culturale e storico in cui operavano.  In realtà Wojtyla volle guidarci in quello che definì purificazione della memoria, che significa fare memoria veritiera  dei fatti del passato per distaccarci dal male che in essi vi è, anche se compiuti da persone della nostra fede: perché il passato cattivo non sia di esempio per il futuro.

  Fino agli anni ’80, in Italia, ma anche in Europa, il problema della libertà religiosa e della laicità dello stato consisteva essenzialmente nel non discriminare chi apparteneva ad una confessione religiosa della nostra fede diversa da quella maggioritaria in una certa nazione e chi faceva la scelta di non seguire alcuna fede religiosa.  Dagli anni ’90, con le correnti migratorie da varie parti del mondo, e anche da popoli in erano maggioritarie fedi non cristiane, in particolare l’Islam, l’Induismo e il Buddismo, si produsse un contesto multi-etnico che fu anche multi-religioso che mise a dura prova il principio fondamentale della laicità dei pubblici poteri. Si sostenne che la religione maggioritaria avesse diritto di manifestarsi in forme più intense delle altre religioni negli spazi pubblici,  benché, con l’Accordo di revisione del Concordato lateranense del 1984, Repubblica Italiana e Santa Sede avessero convenuto che non fosse più in vigore il principio della religione cattolica come unica religione  dello stato,  proclamato dallo Statuto Albertino, la costituzione  del Regno d’Italia che ebbe vigore dal 1848 al 1946:

Art. 1. - La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.

  Manifestazioni di queste pretese si sono avute nella questione dell’esposizione del Crocifisso negli uffici pubblici, in particolare nelle aule scolastiche e nelle aule giudiziarie, nella questione dell’allestimento di presepi negli edifici pubblici, in particolare nelle scuole pubbliche, nella questione delle visite pastorali dei vescovi negli uffici pubblici, in particolare nelle scuole pubbliche.

  Spesso si respingono le critiche di lesione del principio della laicità delle istituzioni pubbliche osservando che si potranno cambiare certe consuetudini quando anche nelle nazioni in cui sono maggioritarie religioni che da noi sono ancora minoranza si farà lo stesso. Ma le norme che sanciscono il diritto di libertà religiosa e il principio di laicità delle istituzioni pubbliche non prevedono la condizione di reciprocità, in quanto sono relative a diritti fondamentali degli esseri umani.

 Manifestazioni di intolleranza religiosa sono frequenti anche nelle nostre collettività di fede, quando si pretende che una certa via, un certo metodo, un certo cammino, siano gli unici che possono essere seguiti, a pena di esclusione. In questo campo compete all’autorità religiosa di correggere certe impostazioni, rendendole conformi alla dottrina corrente. Ma questo servirà a poco se l’idea di libertà religiosa non corrisponderà ad una conquista cultura delle persone della nostra fede, seguendo il percorso di purificazione della memoria  indicato dal Wojtyla. Viene prima la  carità o la verità? Papa Ratzinger vi ha dedicato una enciclica, la Carità nella Verità, del 2009, che in certe parti appare in dialettica con la precedente enciclica Lo sviluppo dei popoli, del papa Montini, del 1967. La carità, intesa come  agàpe, benevolenza universale per cui si vuole far partecipare tutti ad un lieto convito, è criterio per distinguere ciò che è verità? La questione appare ancora aperta. Alcuni infatti sostengono che per esigenze di carità si sta modificando la dottrina tradizionale. Altri replicano che secondo carità quella dottrina tradizionale viene meglio intesa.

  Al di fuori del contesto europeo e delle nazioni di cultura europea le persone della nostra fede subiscono persecuzioni, a volte per motivi essenzialmente politici, ma spesso anche per motivi propriamente religiosi. Infatti in molte parti del mondo, anche in nazione che formalmente accettano i principi umanitari proclamati dalle Nazioni Unite, la libertà religiosa è molto limitata e a volta si limita a una  tolleranza  religiosa. Ciò accade in molte nazioni a maggioranza islamica, specialmente in quelle che non riconoscono il principio della laicità delle istituzioni pubbliche. La situazione si è molto aggravata con l’affermazione politica del fondamentalismo islamico globalizzato, un movimento rivoluzionario politico a sfondo religioso. Si teme che l’immigrazione dalle nazioni a maggioranza islamica porti prima o poi a limitazioni nella libertà religiosa della nostra fede. In realtà l’Islam diffuso in Europa e nelle nazioni di cultura europea, in particolare in America, sta assimilando i nostri principi umanitari, anche se il mutamento culturale, intendendo la cultura come il complesso dei costumi, linguaggi, miti, relazioni sociali di un popolo, sarà molto più lento e faticoso. In particolare il fattore principale di progresso in quel campo religioso appare quello dell’affermazione dei diritti delle donne: purtroppo in materia stiamo vivendo una fase storica in cui nella nostra fede alcune correnti spirituali riprendono a criticarla, facendosi portatrici di ideologie maschiliste e paternaliste.

  Come fare per sostenere le persone della nostra fede nella repressione che è in atto in altre nazioni, con altre religioni maggioritarie? La via principale è quella delle istituzioni internazionali. C’è poi quella del diritto di asilo, a cui hanno diritto, secondo il nostro ordinamento, tutti i perseguitati. E, infine, quello del sostegno al lavoro culturale che in quelle nazioni si sta svolgendo per modificare la situazione: lo si fa mandando personale religioso, volontari, aiuti materiali. Ma il dialogo interreligioso qui da noi in Europa, già molto intenso,  sarà fondamentale per creare le condizioni culturali per nuove forme di coesistenza anche in quelle nazioni.

 

8.Laudato si’: pensare la globalizzazione in una visione di fede

 

  Se la religione ha tante controindicazioni, come dimostra la lunga e tragica storia della nostra confessione, perché non farla finita?

  Storicamente lo si è tentato nei vari regimi comunisti che hanno avuto corso nel mondo, a partire dalla rivoluzione sovietica del 1917. Le religioni propagandavano falsi miti per mantenere la sottomissione della masse lavoratrici a oligarchie dominanti? Vietiamole o, almeno, contrastiamole impendendone la propaganda, controllandone i ministri, opponendo loro un ateismo militante! Tutto questo non ha funzionato, le religioni sono sopravvissute anche in quei regimi. Fondamentalmente perché rispondono a una necessità dello spirito umano. Inoltre, nell’esperienza storica, si è capito che le religioni possono essere riformate e che, anzi, ne è necessaria una riforma costante, un  aggiornamento. In particolare questo può dirsi della nostra religione, che è fondata sull’idea di un far nuove tutte le cose, di  un mondo di prima che è destinato a cedere il passo  a un mondo nuovo.

  Molte grandi anime sono state  e sono religiose, vivono quindi una vita di fede seguendo certe modalità espressive del proprio tempo. Infatti una religione, ma ance la fede che ne è all’origine, non si inventa. Quindi si deve sempre fare i conti con la storia, che è fatta di bene e di male, perché è animata da esseri umani e negli esseri umani c’è il bene e c’è il male. Ogni vita umana dalla sua notte va verso la luce, scrisse il poeta francese Victor Hugo (1802-1885). E spesso la vita di fede   è descritta come un andare verso la luce. Anzi nelle nostre Scritture si legge che l’Onnipotente stesso è luce. Da adolescente, quando ebbi problemi con la fede che mi era stata insegnata da piccolo, un sacerdote amico di famiglia mi scrisse che sperava che un giorno mi sarei aperto alla luce.

  Nella vita umana c’è più di quello che appare. La realtà sociale, economica, politica, l’urbanistica: tutto questo non esaurisce l’esperienza umana. Si studiano le biografie dei grandi e si scopre che in genere  anche loro ne erano convinti.  E non è vero che la fede religiosa sia per gli incolti, perché essa ha espresso ed esprime un grande pensiero. La nostra fede evoca l’unità del genere umano. La si intuisce, ma le vie per realizzarla sono tante: come raggiungere l’unità percorrendole? Non sarebbe meglio progettare un’unica via? Questa è stata la tentazione di sempre nelle religioni. Finora tutti i programmi religiosi totalitari non hanno funzionato. Se però ci si incontra e ci si parla cercando di realizzare l’agàpe, il benevolo convito che non esclude nessuno, spesso ci si intende e, pur nella diversità delle esperienze, si possono condividere certe finalità di bene.

  Chi ha vissuto la fede religiosa e poi l’ha abbandonata in genere, prima o poi, al di là di certe baldanzose proclamazioni, vive questa esperienza come un senso di vuoto e di mancanza. Recuperare una fede perduta da tempo può essere difficile, a volte non c’è più abbastanza vita per farlo. Ma è anche più difficile per chi la fede non l’ha mai vissuta e, avvicinandola da fuori, se ne sente attratto. La fede non è solo emotività superficiale, comporta una sapienza che si apprende. Altrimenti rimane solo a livello spettacolare, come quando si va a teatro o al cinema e si provano delle emozioni. La nostra Chiesa dovrebbe appunto servire a condurre le persone verso la fede. Lo si fa costruendo relazioni che si vorrebbero progressivamente estese a tutto il genere umano, che non comprende solo i viventi di oggi ma anche quelli a venire e anche la storia di coloro che li hanno preceduti. La fede è portata ai popoli, con la loro storia  e il loro futuro. Non è medicina dell’anima ad uso individuale: assunta così non funziona più. Dà sempre una prospettiva che supera la vita personale. Ti trae dall’angoletto della società in cui sei in qualche modo incastrato e ti proietta verso la grande storia dell’umanità. Questo è vero anche per l’esperienza delle famiglie, che alcuni vorrebbero limitata a mamma, papà e figli. L’esperienza della famiglia è sempre sociale: del resto come pensare un avvenire ai propri figli senza interpretare il futuro della società in cui si è immersi? Ed in effetti storicamente incontriamo nelle società umane molti modelli di famiglia, come anche molti modelli di persona umana: ce ne parlano gli antropologi, anche se spesso non li stiamo ad ascoltare e preferiamo pensare che si debba tendere a un unico tipo di famiglia e a un unico tipo di persona umana perché sono quelli naturali. Quindi vivere la fede è anche pensare una società e ai tempi nostri c’è l’opportunità di pensarla molto in grande, tanto da comprendere tutti i popoli della terra. Infatti siamo nell’era della globalizzazione, che significa appunto una rete di relazioni umane a livello mondiale per cui ci scopriamo tutti interdipendenti, senza che nessun popolo della Terra possa dire di bastare a sé stesso. Un esempio di come pensare la globalizzazione in una visione di fede è costituito dall’enciclica Laudato si’ , diffusa nel 2015 dal papa Francesco. La sua caratteristica principale è quella di affidarsi religiosamente a un compimento beato della nostra storia, quindi anche delle opportunità offerte dalla globalizzazione, con i suoi tanti sovvertimenti e rimescolamenti sociali contro i quali molti profeti di sventura vorrebbero prevenirci:

243. Alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1 Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine. Sì, stiamo viaggiando verso il sabato dell’eternità, verso la nuova Gerusalemme, verso la casa comune del cielo. Gesù ci dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). La vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati.

 

9. Inequità planetaria e lotta religiosa contro un modello di sviluppo

 

  L’esortazione apostolica La gioia del Vangelo,  del 2013, e l’enciclicaLaudato si’¸ del 2015, del Papa regnante, l’argentino Jorge Mario Bergoglio, in religione Francesco,  sono espressioni di una medesima linea di pensiero. Si tratta di documenti senza precedenti nella dottrina sociale.  Al centro di essi vi è l’analisi, anche religiosa, di una condizione di sofferenza umana definita con il neologismo inequità.

  Questa parola appare per la prima volta in italiano nel testo nella nostra lingua dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium diffuso da Libreria Editrice Vaticana.  Deriva dallo dallo spagnolo. Nel testo inglese del documento  è reso con inequality (=ineguaglianza - nell'inglese il termine è spesso implicitamente associato all'idea di ingiustizia). Nel testo spagnolo, lingua nella quale il documento è stato verosimilmente pensato, si legge inequidad, da cui verosimilmente il neologismo italiano: in un dizionario spagnolo si definisce "El concepto de inequidad se ha considerado sinónimo del concepto de desigualdad. Es fundamental diferenciar estos dos conceptos. Mientras desigualdad implica diferencia entre individuos o grupos de población, inequidad representa la calificación de esta diferencia como injusta…"; quindi "disuguaglianza ingiusta".

 All’origine di questa  disuguaglianza ingiusta,  ed  ingiusta  in quanto fonte di sofferenza umana, vi è un modello di sviluppo economico che degrada insieme sia l’ambiente naturale, ormai fortemente pervaso della presenza e delle attività umane e quindi da esse condizionato, e l’ambiente sociale. Questo modello di sviluppo è espressione di unantropocentrismo deviato.  In quest’ottica è completamente ripensato il tema del relativismo pratico, che presentato dal Ratzinger come il rifiuto personale di valori assoluti e in particolare di quelli religiosi della nostra fede proclamati dalla dottrina, quindi dei dogmi  di fede, viene presentato ora come patologia sociale che spinge una persona ad approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto (Laudato si’,n.123). Esso deriva dall’onnipresenza di un paradigma tecnocratico, secondo cui tutto, in particolare il bene delle persone umane, diviene irrilevante se non serve ai propri interessi immediati (Laudato si’,n.123). In quest’ottica si diviene insofferenti delle leggi, che vengono considerate solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare (questa ideologia consiglia infatti la deregolamentazione, in particolare del mercato del lavoro). Il senso del lavoro viene quindi stravolto. In particolare la finalità dell’economia  è diventata quella del riduzione dei costi  di produzione in ragione della diminuzione del costo del lavoro e della diminuzione dei posti di lavoro, che sempre più vengono sostituiti dalle macchine (Laudato si’,  n.128).

  A fronte di questa situazione di sofferenza umana, troviamo sia nellaGioia del Vangelo  sia nella Laudato si’ l’appello a un impegno di lottaper contrastare quel modello di sviluppo fondato su un antropocentrismo deviato.

 Laudato si’, 13: “Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più poveri del mondo. I giovani esigono da noi un cambiamento. Essi si domandano com’è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi.

Laudato si’, 55: “A poco a poco alcuni Paesi possono mostrare progressi importanti, lo sviluppo di controlli più efficienti e una lotta più sincera contro la corruzione. E’ cresciuta la sensibilità ecologica delle popolazioni, anche se non basta per modificare le abitudini nocive di consumo, che non sembrano recedere, bensì estendersi e svilupparsi. E’ quello che succede, per fare solo un semplice esempio, con il crescente aumento dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria: i mercati, cercando un profitto immediato, stimolano ancora di più la domanda. Se qualcuno osservasse dall’esterno la società planetaria, si stupirebbe di fronte a un simile comportamento che a volte sembra suicida.

Laudato si’,  244: “ Nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio, perché «se il mondo ha un principio ed è stato creato, cerca chi lo ha creato, cerca chi gli ha dato inizio, colui che è il suo Creatore». Camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza.

Laudato si’Preghiera finale per la nostra terra:

Dio Onnipotente,
che sei presente in tutto l’universo
e nella più piccola delle tue creature,
Tu che circondi con la tua tenerezza 
tutto quanto esiste,
riversa in noi la forza del tuo amore
affinché ci prendiamo cura 
della vita e della bellezza.
Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e sorelle
senza nuocere a nessuno.
O Dio dei poveri,
aiutaci a riscattare gli abbandonati 
e i dimenticati di questa terra
che tanto valgono ai tuoi occhi.
Risana la nostra vita,
affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo,
affinché seminiamo bellezza
e non inquinamento e distruzione.
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.

  Questo appello non viene proposto dall’autore di quei documenti tanto come maestro di teologia e di fede quanto come persona religiosa compartecipe di una situazione di sofferenza umana e desiderosa, anche per moventi religiosi, di intervenire su di essa per apportare cambiamenti. Ecco perché, di fronte ai sofferenti dei campi di battaglia di una società basata sull’inequità, viene proposto un modello di impegno religioso basato sull’idea dell’ospedale da campo, il luogo di soccorso d’emergenza più vicino ai sofferenti, e su quella di essere in uscita. In altri tempi forse si sarebbe proposti di mandare più predicatori.

 L’appello di Bergoglio cade in una società religiosa italiana che ancora non è uscita dalla lunga glaciazione indotta dai suoi predecessori, timorosi che quel tipo di impegno di fede che oggi viene proposto conducesse alla frammentazione e alla dissoluzione delle nostre collettività di fede. Con molta fatica, e con forti resistenze, si inizia, non dico a recepirlo, ma a confrontarsi con esso. Il pensiero di Bergoglio si è formato in una società molto lontana dalla nostra, in ogni senso: l’America Latina, un continente europeizzato che però si trova ai margini del modello di sviluppo dominante in Occidente. L’Italia è invece al suo centro e adotta l’ideologia dei potenti della Terra, di quelli che nella Laudato si’  sono criticati come oppressori dei poveri e dei lavoratori e, insieme, come responsabili del degrado dell’ambiente naturale, in particolare di quello abitato dai più poveri.  E’ stato sostanzialmente questo il senso di alcune delle principali  riforme attuate e progettate da noi, in particolare nel campo delle regole del lavoro. In questo senso il pensiero del Bergoglio non trova ancora terreno fertile da noi. Infatti in genere si dà per scontato che quel modello di sviluppo criticato nella Gioia del Vangelo  e nella Laudato si’ sia inevitabile, naturale, per quanto fonte di sofferenza umana. Lo vediamo, ad esempio, in certi atteggiamenti verso i cosiddetti immigrati economici.

 

10. Cammini di liberazione

 

 Quando si parla dell’enciclica Laudato si’, diffusa nel 2015 dal Papa, spesso la si inquadra nei discorsi sull’ecologia correnti, nei quali ci si lamenta del degrado dell’ambiente naturale e della cattiva sorte degli animali che ci sono più simpatici, un po’ sulla falsariga del testo della canzone Ragazzo della via Gluck,  interpretata da Celentano dal  ‘68.

 

 
Questa è la storia
di uno di noi, 
anche lui nato per caso in via Gluck, 
in una casa, fuori città, 
gente tranquilla, che lavorava. 
Là dove c'era l'erba ora c'è 
una città, 
e quella casa 
in mezzo al verde ormai, 
dove sarà? 

Questo ragazzo della via Gluck, 
si divertiva a giocare con me, 
ma un giorno disse, 
vado in città, 
e lo diceva mentre piangeva, 
io gli domando amico, 
non sei contento? 
Vai finalmente a stare in città. 
Là troverai le cose che non hai avuto qui, 
potrai lavarti in casa senza andar 
giù nel cortile! 

Mio caro amico, disse, 
qui sono nato, 
in questa strada 
ora lascio il mio cuore. 
Ma come fai a non capire, 
è una fortuna, per voi che restate 
a piedi nudi a giocare nei prati, 
mentre là in centro respiro il cemento. 
Ma verrà un giorno che ritornerò 
ancora qui 
e sentirò l'amico treno 
che fischia così, 
"wa wa"! 

Passano gli anni, 
ma otto son lunghi, 
però quel ragazzo ne ha fatta di strada, 
ma non si scorda la sua prima casa, 
ora coi soldi lui può comperarla 
torna e non trova gli amici che aveva, 
solo case su case, 
catrame e cemento. 

Là dove c'era l'erba ora c'è 
una città, 
e quella casa in mezzo al verde ormai 
dove sarà. 

Ehi, Ehi, 

La la la... la la la la la... 

Eh no, 
non so, non so perché, 
perché continuano 
a costruire, le case 
e non lasciano l'erba 
non lasciano l'erba 
non lasciano l'erba 
non lasciano l'erba 

Eh no, 
se andiamo avanti così, chissà 
come si farà, 
chissà...

 

 La lirica riprendeva ragionamenti di critica sociale e politica che all’epoca si facevano, e che potremmo considerare di impostazione rivoluzionaria, ma rimane ad un livello molto più superficiale, del contrasto erba - cemento e vita rurale - vita di città. D’altra parte era destinata al grande pubblico. Bene, nella Laudato si’  c’è molto di più.

  E’ dagli anni ’60 che i Papi scrivono moltissimo. Ma scarseggiano i lettori e, ancor più, i lettori attenti. D’altra parte, a volersi impegnare nello studio dei loro testi, non rimarrebbe tempo per molto altro, almeno per gran parte della gente comune. Una critica che si fa ai Papi contemporanei è che hanno lasciato ben poco spazio alla riflessione e al dialogo, e soprattutto alla ricerca mediante il dialogo, mettendo sempre di mezzo questi loro documenti lunghi e complessi, che, provenendo da un’autorità religiosa e pretendendo quindi di essere obbediti oltre che studiati, tendono a troncare le discussioni. Direi però che la Laudato si’  è un documento di altro tipo, che apre il dibattito invece che chiuderlo. Vi è scritto infatti che vuole aprire   un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione [Laudato si’, 64].

  In genere sono piuttosto insofferente verso il modo di presentare la vita religiosa come un cammino, anche se si tratta di una metafora utilizzata fin dai tempi antichi. Sì, si cammina, ma dove si va? In genere i traguardi sono piuttosto vaghi. E così, appunto, questo camminare mi appare un vagare  senza una vera meta, un cammino  che non finisce mai e che soprattutto è progettato per non finire mai. L’idea è quella della sequela, che mi attira se si tratta di seguire il Maestro, molto meno se si tratta di seguire senza tante storie altri sedicenti maestri. Se però si prende come riferimento per questo camminare  la liberazione è diverso, perché la liberazione  è una meta.  Ed è diverso  soprattutto se in questo impegnativo camminare  ci si apre al dialogo, per cui non si tratta solo di essere condotti  e di  seguire, ma anche di decidere, insieme a molti altri, dove  andare e che cosa fare.  Perché in questo lavoro occorre fare innanzi tutto  il punto della situazione ed è bene farlo avendo quanti più punti di vista possibile. Lo studio delle Scritture e la teologia non bastano. In passato, alle origini della dottrina sociale, si è pensato invece che fossero sufficienti e che quindi, siccome nella nostra confessione ne abbiamo un interprete autorevole assistito da potenze soprannaturali, un Papa potesse legiferare in materia sociale e politica, stabilendo come organizzare una società. Non è questa la pretesa della Laudato si’.

  Che l’enciclica non rientrasse  nella letteratura propriamente ecologica  lo si poteva capire già dal sottotitolo: “Enciclica sulla cura della casa comune”. La casa è dove si abita. Nella parola ecologia la casa  c’è, perché essa contiene il termine del greco antico òikos che significa casa  (ma anche ambiente): però è stata inventata in Germania a fine Ottocento e si riferiva allo studio delle dinamiche degli ambienti naturali. E’ dagli anni ’60 del secolo scorso che ha assunto un senso anche politico, come critica di un modello di sviluppo (ne può essere considerato un indizio la canzone di Celentano che ho trascritto sopra). La Laudato si’  si muove appunto su questa linea. Essa infatti contiene una marcata critica politica, in particolare dell’Occidente capitalistico, il modello economico e sociale dominante a livello globale. Le reazioni più negative sono venute dagli Stati Uniti d’America, che possiamo considerare ancora il centro di quel modello di sviluppo: il Papa è stato invitato a farsi gli affari propri e a limitarsi ai discorsi religiosi.  Penso che la situazione si aggraverà ulteriormente nell’era apertasi dopo le ultime elezioni presidenziali statunitensi.

  Il discorso sviluppato nella Laudato si’  è centrato sulle società umane, non sulla natura. In questo si distacca marcatamente dall’ecologismo politico che tende a considerare l’umanità una specie di malattia del pianeta. Gli esseri umani, come tutti gli altri esseri viventi, sono  di casa  sul questa Terra. Tutti i viventi sono  uniti da legami invisibili e formano una sorta di famiglia universale (Laudato si’, 89), ma questo non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore peculiare che implica al tempo stesso una tremenda responsabiltà (Laudato si’, 90): non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nel tempo stesso nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani (Laudato si’, 91).

  Questa idea che tutti i viventi, gli umani e i non umani, costituiscano una famiglia, non è realistica. La natura è costituita in modo che i viventi si mangino tra loro e quindi siano costantemente in lotta mortale gli uni con gli altri. Questa è la principale obiezione a coloro che vorrebbero che gli umani rinunciassero a nutrirsi degli altri animali. In questo modo si pongono gli umani al di sopra della natura di cui invece sono parte. Si divinizzano gli umani. Lo si può fare nel quadro di un discorso religioso, ma non di uno propriamente ecologico. Se però, religiosamente, si vuole intendere che gli umani, come viventi di un tipo molto particolare, dotati di spirito e ragione, e anche di una potenza tecnologica che li ha portati a dominare (fino ad un certo punto) gli ambienti da loro abitati, sentono una particolare responsabilità anche verso gli altri viventi e si propongono di fare del mondo, quindi anche degli ambienti naturali, la casa di tutti i viventi, nel senso innanzi tutto di porsi dei limiti  allo sfruttamento delle risorse naturali, e quindi anche di ogni tipo di vita umana e non umana, allora il discorso della famiglia universale  diviene accettabile. Ma a quel punto in questione non è tanto l’ecologia, ma un modello di sviluppo delle società umane. E infatti l’enciclica è piena di raccomandazioni su come migliorare l’organizzazione sociale e politica, a partire però da una conversione personale ad uno stile di vita definito sobrio. Esso richiede la costruzione di una spiritualità personale. Questo è un apporto caratteristico dell’enciclica ed ha un’origine religiosa. Di solito i modelli di sviluppo sono collegati a politiche e queste ultime a interessi confliggenti che, ad un certo punto, possono trovare un accomodamento in un equilibrio precario di rapporti di forza sociale,  ma sono sempre in balìa degli egoismi collettivi. Da qui il senso di precarietà e insicurezza dell’insieme, tanto maggiore nel mondo globalizzato contemporaneo nel quale, per le dimensioni gigantesche dei fenomeni sociali, ne sembra impossibile il governo razionale. Tuttavia una rivoluzione culturale  (Laudato si, 114) che portasse a nuovi stili personali di vita per via di conversione potrebbero avere anche una efficacia propriamente economica e politica, come quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti  e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione (Laudato si’i,  206). L’esperienza corrente è invece quella di una manipolazione dei consumatori da parte delle imprese, in particolare di quelle maggiori che hanno raggiunto un potere tale da poter condizionare addirittura le politiche degli stati, per creare meccanismi consumistici compulsivi, per cui le persone finiscono per essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue (Laudato si’,  203).

 

 

11. Critica sociale, fede religiosa e azione sociale: sviluppi nella dottrina sociale

 

La dottrina sociale fin dall’origine ha espresso anche una marcata critica sociale. Il primo documento del genere dell’era contemporanea viene considerata l’enciclica Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci ed era in polemica con il socialismo. Considerava necessarie le diseguaglianze sociali, quelle che nell’enciclica Laudato si’ vengono definite con il neologismo inequità, vale a dire diseguaglianze ingiuste. Leggiamo infatti nel documento del Pecci:

 

1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso

14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell'oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.  

 

  L’enciclica Le novità  non è stata il primo documento della dottrina sociale, che si  è sviluppata fin dalle origini e in modo sempre più imponente man mano che, dal Quarto secolo della nostra era, cresceva la rilevanza politica della nostra fede (questa non è stata  una caratteristica solo dell’Islam) e la conseguente potenza politica dell’apparato religioso.

 Nell’Ottocento troviamo un altro importante documento della dottrina sociale, quello definito Sillabo (=elenco, dalla prima parola dell’espressione Elenco dei principali errori della nostra epoca), allegato all’enciclica Con quanta cura (e pastorale vigilanza), diffusa nel 1864 dal papa Giovanni Maria Mastai Ferretti, nel quale si condannavano alcune delle principali idee del liberalismo, tra le quali la libertà di coscienza in materia religiosa, inserita tra le mostruose, false e perverse opinioni.  Lo potete leggere alla pagina WEB

https://w2.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/epistola-encyclica-quanta-cura-8-decembris-1864.html

 L’enciclica Le novità  segna però l’inizio di un nuovo filone della dottrina sociale,  nel quale, criticando principalmente il socialismo, se ne recepiscono alcune idee di giustizia sociale. In uno sviluppo durato più di un secolo, si è arrivati quindi a ribaltare la posizione del magistero sulle diseguaglianze sociali, che ora vengono definite non solo ingiuste, ma anche peccaminose  dal punto di vista religioso.  I ragionamenti sulle cause sociali delle diseguaglianze ingiuste sono stati molto approfonditi nel magistero del papa Karol Wojtyla, in particolare a partire dall’esortazione apostolica post-sinodaleRiconciliazione è penitenza,  del 1984), e dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa),  diffusa nel 1987. Sono documenti che potete leggere sul Web ai seguenti indirizzi:

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_02121984_reconciliatio-et-paenitentia.html

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_30121987_sollicitudo-rei-socialis.html

  Nella discussione dell’assemblea del Sinodo dei vescovi del 1983 emerse la discussione sui peccati sociali,  vale a dire quelli che riguardano i rapporti sociali e dipendono anche dall’organizzazione delle società, con le loro strutture sociali,  ad esempio i peccati contro  la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona, quelli contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l'integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l'onore del prossimo, ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l'ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini, quelli dei dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s'impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico, quelli dei lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all'intera società, e infine quelli che si manifestano nei  rapporti tra le varie comunità umane.

  Nell’esortazione post-sinodale Riconciliazione e penitenza  ci si preoccupò che l’idea di peccato sociale non andasse a sminuire la responsabilità delle persone per il peccato personale, osservando che, anche denunciando come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, si dovesse avere consapevolezza che anche in tali casi il  peccato sociale deriva dall'accumulazione e dalla concentrazione di molti peccati personali. Si tratta infatti dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce l'iniquità o la sfrutta. Tuttavia il discorso venne ripreso e sviluppato molto nella successiva enciclica La sollecitudine sociale, introducendo il concetto di strutture di peccato,  vale a dire la somma   dei fattori sociali  negativi, derivanti in particolare dall’organizzazione civile e politica delle società, che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e all'esigenza di favorirlo, orientando le persone verso il peccato sociale. Esse, rafforzandosi e diffondendosi,  diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini. Negli anni ’80 si viveva ancora, in particolare in Europa in un mondo diviso in blocchi politici con ideologie molto marcate, quello degli stati con organizzazione dell’economia capitalista e quello degli stati con organizzazione  dell’economia socialista. Wojtyla nell’enciclica citata ne parlò come di due forme diverse di imperialismo, di ostacoli da superare in quanto caratterizzate da strutture di peccato, in particolare mediante decisioni di ordine politico, orientate da determinazioni essenzialmente morali, le quali, per i credenti, specie se cristiani, si devono ispirare ai principi della fede con l'aiuto della grazia divina. Questa impostazione aprì la strada ad una critica sociale molto più ampia che nel passato, diretta in particolare ad una riorganizzazione sociale e politica che negli anni ’80 si palesò sempre più urgente soprattutto per la crisi terminale, intuita da pochi ma molto chiaramente dal Wojtyla, dell’imperialismo sovietico, e quindi della metà orientale dell’Europa di allora. Questi ragionamenti sfociarono in uno dei più grandi e innovativi documenti della dottrina sociale, vale a dire l’enciclica Il Centenario, diffusa dal Wojtyla nel 1991 in occasione del centenario dall’enciclica Le novità, nel quale, tra l’altro, è contenuta per la prima volta l’accettazione incondizionata della democrazia come unico sistema politico rispettoso della dignità umana. Questo filone del magistero conteneva anche un forte appello al laicato di fede all’impegno sociale, richiamandosi al precedente dell’enciclica Lo sviluppo dei popoli, diffusa nel 1967 dal papa Giovanni Battista Montini. Critica sociale e azione sociale dovevano andare di pari passo, in questo recependo l’insegnamento del socialismo storico. Questo pur considerando che il Wojtyla, formatosi da capo religioso nell’ambiente del totalitarismo comunista polacco, fu sempre marcatamente anti-socialista, nel filone della prima dottrina sociale ottocentesca.

 Grosso modo si possono distinguere queste fasi nella critica sociale espressa dalla nostra dottrina sociale:

- dal Quarto secolo e per tutto il primo millennio della nostra era: consolidamento dell’affermazione della nostra fede come ideologia politica prevalente tra i popoli intorno al Mediterraneo e poi anche nel nord Europa e lotta di stato contro i dissenzienti teologici e religiosi, dall’Ottavo secolo affermazione progressiva del papato romano come principato vassallo degli imperatori germanici in polemica con l’imperatore bizantino;

- nel secondo millennio e fino al Settecento: consolidamento della posizione del papato romano, come impero religioso feudale,  nei confronti dell’impero germanico, dei nascenti stati nazionali europei, e dell’impero bizantino fino alla metà del Quattrocento, nonché nei confronti della società civile, mediante un esteso e pervasivo sistema poliziesco-giudiziario;

- dal Settecento e fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965): polemica del papato contro liberalismo, democrazia, socialismo, e stati costruiti su queste ideologie, con sollevazione crescente delle masse cattoliche utilizzate come corpo politico in difesa del papato;

- dal Concilio Vaticano 2°: critica ideologica e politica basata su principi religiosi di giustizia sociale con coinvolgimento attivo delle massa cattoliche nei processi democratici, per determinare politiche per il rivolgimento delle strutture sociali di peccato: processi di riforma religiosa e sociale che coinvolgono anche ruolo, funzioni e poteri del papato romano.

 Fino all’enciclica Laudato si’ la critica sociale su base religiosa espressa dalla dottrina sociale era caratterizzata dalla pretesa di autosufficienza: si riteneva sostanzialmente che nelle Scritture e nelle tradizione teologica vi fosse tutto ciò che occorreva per proclamare giusti principi di organizzazione sociale e questo nonostante i sempre più estesi riferimenti alla situazione storica e sociale e all’impiego di nozioni tratte dalle scienze sociali. L’enciclica Laudato si’ è invece caratterizzata da un’analisi che parte dalle considerazioni delle scienze naturali e sociali, applicandovi poi i ragionamenti teologici della nostra fede. Questo  metodo in particolare è evidenziato dalla menzione di due autori: il filosofo e teologo tedesco Romano Guardini (1885-1968), e in particolare del  suo lavoro dal titolo La fine dell’epoca moderna, del 1965, e dello scienziato teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Ciò crea una base per un’ampia condivisione, anche al di là degli ambienti religiosi,  degli impegni sociali e politici conseguenti, la base per un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione [Laudato si’, 64].

 

12. Nuova santità

 

  Dopo le innovazioni introdotte dai provvedimenti presi nel corso del Concilio ecumenico Vaticano 2° (1962-1965) prese forza, fu accreditata, l’idea di nuove forme di santità, in particolare dei laici.  Si parla di santità e si vuole intendere nuovi modelli di vita religiosa. Si può prendere come esempio di questa evoluzione il caso della santità della francese Giovanna D’Arco, giustiziata a Rouen nel 1431 a 19 anni dopo un processo per eresia seguìto ad avventure militari della ragazza durate circa due anni, motivate da intenti politici a sfondo religioso. Giovanna, guidata da voci celesti, volle far incoronare  re di Francia Carlo di Valois, figlio del defunto re Carlo 6° e pretendente al trono dopo la morte dei fratelli maggiori che lo precedevano nella linea di successione, osteggiato dagli inglesi che all’epoca controllavano parte della Francia. Ella, donna laica, divenne condottiera di milizie e riuscì nel suo intento, cadendo infine prigioniera dei suoi nemici nel 1430.

  Se si leggono la bolla del papa Benedetto 15°, Giacomo Della Chiesa, mediante la quale fu proclamata santa nel 1920

http://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/bulls/documents/hf_ben-xv_bulls_19200516_divina-disponente.html

e la presentazione che ne fece papa Joseph Ratzinger, Benedetto 16°, nel 2011 (di seguito ho trascritto il testo del discorso):

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110126.html

si nota una completa rivisitazione della figura della santa.

 In particolare papa Ratzinger ne fece un modello di impegno laicale in politica e, soprattutto, di impegno femminile, mentre nel documento di Della Chiesa era centrale il suo patriottismo nazionalistico non ben raccordato con la pietà religiosa esemplare. Questa evoluzione  è stata possibile, credo, per il fatto che, almeno formalmente, il papato, con il papa regnante nel 1431, Eugenio 4°, non fu coinvolto nella condanna di Giovanna: l’appello della ragazza al Papa fu infatti respinto dai giudici di Rouen. Nelle parole di Ratzinger appare centrale l’opera di liberazione del suo popolo da parte della ragazza, la quale, a soli diciassette anni, si mostrò come una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e scoraggiati, in un contesto di lacerazione all'interno della Chiesa e di continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e Inghilterra. Secondo Ratzinger “Uno degli aspetti più originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra esperienza mistica e missione politica.

 Il modello di santità di Giovanna d’Arco,  a prescindere dall’accentuazione del ruolo politico della figura della giovane, è sicuramente divergente da quello tradizionalmente femminile ed è caratterizzato da una marcata autonomia di decisione e dal saper tener testa ad un mondo condotto interamente dagli uomini, che si trattasse del pretendente al trono di Francia e poi re, o delle milizie e dei loro capi militari, o dei giudici ecclesiastici. Contrasta anche con il modello di secondo piano che le correnti religiose neo-fondamentaliste vogliono riservare alle donne, riconducendole nelle prigioni domestiche, a ruoli di semplice cura.

  La questione sui nuovi modelli di santità, vale a dire di vita religiosa, impegna ancora le discussioni di fede, perché certe idee hanno sostenitori e detrattori. Essa è collegata al discorso sull’aggiornamento, in realtà sulla riforma  della vita religiosa, per renderla efficace ai tempi nuovi. L’allontanamento dei giovani dalle parrocchie può essere considerato come un segno che questo lavoro non si è fatto bene.

 I più anziani hanno molti pregiudizi sui giovani e vedono nei loro comportamenti innanzi tutto quelli diretti a procurarsi piaceri immediati ed effimeri. Ma la ragione della separazione tra mondo giovanile e mondo religioso, che è piuttosto evidente, sta in realtà nel fatto che la vita religiosa, come è proposta prevalentemente, appare, ed effettivamente è, inutile, e addirittura controproducente, per un giovane. Contrasta infatti con le esigenze dei giovani del difficile inserimento nel mondo loro contemporaneo. Volendo preservarli da influenze nocive, si pretende di rinchiuderli. E, in definitiva, una certa quota di coloro che in religione pontificano sui mali giovanili, probabilmente al tempo di Giovanna sarebbero stati con i giudici che la condannarono ad essere arsa viva, quindi annientata totalmente, resa un nulla. Del resto i meno giovani, se fanno memoria veritiera del loro passato, di quando erano giovani, in particolare nella fascia 18-30, possono convincersi facilmente dell’inefficacia del modello di vita di fede proposto spesso ai più giovani.

 Da giovane sono vissuto in ambienti religiosi che seguivano tutt’altra impostazione. Ci preparavano al governo della società. Ciò che un tempo veniva riservato alle organizzazioni laicali intellettuali  dovrebbe divenire invece patrimonio comune del laicato. La formazione alla cittadinanza democratica dovrebbe essere integrata in quella religiosa, perché il compito principale del laico di fede, e anche il suo modo di promuovere i valori di fede nella società, si  fa con gli strumenti democratici. E’ la via di liberazione che si apre ai laici di fede nelle società democratiche, in particolare in quelle Europee. Invece, talvolta, questi discorsi vengono considerati solo un espediente per  interessare i più giovani e portarli in chiesa.

  Uno strumento molto importante, per sostenere il lavoro di cui ho trattato, è l’enciclica Laudato si’, che possiamo considerare una specie di manuale  in questo campo. Essa è stimolo ad approfondire, non esaurisce i temi trattati, e, innanzi tutto, è appello all’azione civile a sfondo religioso.

  Possiamo considerare l’incoronazione di Carlo 7°  a re di Francia, nel 1429, a Reims, il risultato di un riuscito processo di liberazione, in senso moderno? La guerra tra inglesi e francesi per il dominio in Francia, nel Quattrocento, fu un conflitto dinastico o una vera guerra di liberazione? In definitiva  i modelli di governo della società non cambiarono veramente sotto Carlo 7° rispetto a prima. All’epoca, va osservato, non si era consumato ancora lo scisma tra la Chiesa d’Inghilterra e il papato, dunque dal punto religioso non vi erano ragioni di contrasto tra inglesi e francesi.  La liberazione di cui si tratta nell’enciclica Laudato si’ va più in profondità e, in particolare, non si basa su progetti nazionalistici. Richiede una critica del modello corrente di sviluppo e modelli nuovi di impegno civile a sfondo religioso. Ma certi modelli vanno ancora costruiti e probabilmente individuati tenendo conto anche di esperienze religiose al di fuori della nostra confessione. Qualche giorno fa, ad esempio, Bergoglio ha fatto riferimento a Ghandi e a Martin Luther King, due modelli di vita di forte impegno politico di liberazione con moventi a sfondo religioso. Ma in Italia abbiamo molte figure storiche di politici di fede, impegnati nei processi democratici, che possono essere prese come riferimento. Il problema è naturalmente che esse vissero in ambienti ecclesiali in cui furono spesso fortemente avversate dai clericali di ogni orientamento, reazionario, conservatore, moderato e, da ultimo, sono svalutate dai neo-fondamentalismi, tacciate a volta di protestantesimo come, all'inizio del Novecento, lo furono di modernismo. E l’impegno democratico nella società civile non è compatibile sia con il clericalismo, che si conferma una piaga della vita religiosa, così come, sotto altri aspetti, con ogni tipo di fondamentalismo.

 

 Trascrivo di seguito il discorso del papa Benedetto 16° dal quale ho tratto le meditazioni su Giovanna d’Arco che precedono,

da:

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110126.html

 

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 26 gennaio 2011

 

Santa Giovanna d'Arco

 

Cari fratelli e sorelle,

  oggi vorrei parlarvi di Giovanna d'Arco, una giovane santa della fine del Medioevo, morta a 19 anni, nel 1431. Questa santa francese, citata più volte nel Catechismo della Chiesa Cattolica, è particolarmente vicina a santa Caterina da Siena, patrona d'Italia e d'Europa, di cui ho parlato in una recente catechesi. Sono infatti due giovani donne del popolo, laiche e consacrate nella verginità; due mistiche impegnate, non nel chiostro, ma in mezzo alle realtà più drammatiche della Chiesa e del mondo del loro tempo. Sono forse le figure più caratteristiche di quelle “donne forti” che, alla fine del Medioevo, portarono senza paura la grande luce del Vangelo nelle complesse vicende della storia. Potremmo accostarle alle sante donne che rimasero sul Calvario, vicino a Gesù crocifisso e a Maria sua Madre, mentre gli Apostoli erano fuggiti e lo stesso Pietro lo aveva rinnegato tre volte. La Chiesa, in quel periodo, viveva la profonda crisi del grande scisma d'Occidente, durato quasi 40 anni. Quando Caterina da Siena muore, nel 1380, ci sono un Papa e un Antipapa; quando Giovanna nasce, nel 1412, ci sono un Papa e due Antipapa. Insieme a questa lacerazione all'interno della Chiesa, vi erano continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e Inghilterra.

Giovanna d'Arco non sapeva né leggere né scrivere, ma può essere conosciuta nel più profondo della sua anima grazie a due fonti di eccezionale valore storico: i due Processi che la riguardano. Il primo, il Processo di Condanna (PCon), contiene la trascrizione dei lunghi e numerosi interrogatori di Giovanna durante gli ultimi mesi della sua vita (febbraio-maggio 1431), e riporta le parole stesse della Santa. Il secondo, il Processo di Nullità della Condanna, o di “riabilitazione” (PNul), contiene le deposizioni di circa 120 testimoni oculari di tutti i periodi della sua vita (cfr Procès de Condamnation de Jeanne d'Arc, 3 vol. e Procès en Nullité de la Condamnation de Jeanne d'Arc, 5 vol., ed. Klincksieck, Paris l960-1989).

  Giovanna nasce a Domremy, un piccolo villaggio situato alla frontiera tra Francia e Lorena. I suoi genitori sono dei contadini agiati, conosciuti da tutti come ottimi cristiani. Da loro riceve una buona educazione religiosa, con un notevole influsso della spiritualità del Nome di Gesù, insegnata da san Bernardino da Siena e diffusa in Europa dai francescani. Al Nome di Gesù viene sempre unito il Nome di Maria e così, sullo sfondo della religiosità popolare, la spiritualità di Giovanna è profondamente cristocentrica e mariana. Fin dall'infanzia, ella dimostra una grande carità e compassione verso i più poveri, gli ammalati e tutti i sofferenti, nel contesto drammatico della guerra.

  Dalle sue stesse parole, sappiamo che la vita religiosa di Giovanna matura come esperienza mistica a partire dall'età di 13 anni (PCon, I, p. 47-48). Attraverso la “voce” dell'arcangelo san Michele, Giovanna si sente chiamata dal Signore ad intensificare la sua vita cristiana e anche ad impegnarsi in prima persona per la liberazione del suo popolo. La sua immediata risposta, il suo “sì”, è il voto di verginità, con un nuovo impegno nella vita sacramentale e nella preghiera: partecipazione quotidiana alla Messa, Confessione e Comunione frequenti, lunghi momenti di preghiera silenziosa davanti al Crocifisso o all'immagine della Madonna. La compassione e l’impegno della giovane contadina francese di fronte alla sofferenza del suo popolo sono resi più intensi dal suo rapporto mistico con Dio. Uno degli aspetti più originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra esperienza mistica e missione politica. Dopo gli anni di vita nascosta e di maturazione interiore segue il biennio breve, ma intenso, della sua vita pubblica: un anno di azione e un anno di passione.

  All'inizio dell'anno 1429, Giovanna inizia la sua opera di liberazione. Le numerose testimonianze ci mostrano questa giovane donna di soli 17 anni come una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e scoraggiati. Superando tutti gli ostacoli, incontra il Delfino di Francia, il futuro Re Carlo VII, che a Poitiers la sottopone a un esame da parte di alcuni teologi dell'Università. Il loro giudizio è positivo: in lei non vedono niente di male, solo una buona cristiana.

Il 22 marzo 1429, Giovanna detta un'importante lettera al Re d'Inghilterra e ai suoi uomini che assediano la città di Orléans (Ibid., p. 221-222). La sua è una proposta di vera pace nella giustizia tra i due popoli cristiani, alla luce dei nomi di Gesù e di Maria, ma è respinta, e Giovanna deve impegnarsi nella lotta per la liberazione della città, che avviene l'8 maggio. L'altro momento culminante della sua azione politica è l’incoronazione del Re Carlo VII a Reims, il 17 luglio 1429. Per un anno intero, Giovanna vive con i soldati, compiendo in mezzo a loro una vera missione di evangelizzazione. Numerose sono le loro testimonianze riguardo alla sua bontà, al suo coraggio e alla sua straordinaria purezza. E' chiamata da tutti ed ella stessa si definisce “la pulzella”, cioè la vergine.

  La passione di Giovanna inizia il 23 maggio 1430, quando cade prigioniera nelle mani dei suoi nemici. Il 23 dicembre viene condotta nella città di Rouen. Lì si svolge il lungo e drammatico Processo di Condanna, che inizia nel febbraio 1431 e finisce il 30 maggio con il rogo. E' un grande e solenne processo, presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon e l'inquisitore Jean le Maistre, ma in realtà interamente guidato da un folto gruppo di teologi della celebre Università di Parigi, che partecipano al processo come assessori. Sono ecclesiastici francesi, che avendo fatto la scelta politica opposta a quella di Giovanna, hanno a priori un giudizio negativo sulla sua persona e sulla sua missione. Questo processo è una pagina sconvolgente della storia della santità e anche una pagina illuminante sul mistero della Chiesa, che, secondo le parole del Concilio Vaticano II, è “allo stesso tempo santa e sempre bisognosa di purificazione” (LG, 8). E’ l'incontro drammatico tra questa Santa e i suoi giudici, che sono ecclesiastici. Da costoro Giovanna viene accusata e giudicata, fino ad essere condannata come eretica e mandata alla morte terribile del rogo. A differenza dei santi teologi che avevano illuminato l'Università di Parigi, come san Bonaventura, san Tommaso d'Aquino e il beato Duns Scoto, dei quali ho parlato in alcune catechesi, questi giudici sono teologi ai quali mancano la carità e l'umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio. Vengono alla mente le parole di Gesù secondo le quali i misteri di Dio sono rivelati a chi ha il cuore dei piccoli, mentre rimangono nascosti ai dotti e sapienti che non hanno l'umiltà (cfr Lc 10,21). Così, i giudici di Giovanna sono radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima: non sapevano di condannare una Santa.

  L'appello di Giovanna al giudizio del Papa, il 24 maggio, è respinto dal tribunale. La mattina del 30 maggio, riceve per l'ultima volta la santa Comunione in carcere, e viene subito condotta al supplizio nella piazza del vecchio mercato. Chiede a uno dei sacerdoti di tenere davanti al rogo una croce di processione. Così muore guardando Gesù Crocifisso e pronunciando più volte e ad alta voce il Nome di Gesù (PNul, I, p. 457; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 435). Circa 25 anni più tardi, il Processo di Nullità, aperto sotto l'autorità del Papa Callisto III, si conclude con una solenne sentenza che dichiara nulla la condanna (7 luglio 1456; PNul, II, p 604-610). Questo lungo processo, che raccolse le deposizioni dei testimoni e i giudizi di molti teologi, tutti favorevoli a Giovanna, mette in luce la sua innocenza e la perfetta fedeltà alla Chiesa. Giovanna d’Arco sarà poi canonizzata da Benedetto XV, nel 1920.

Cari fratelli e sorelle, il Nome di Gesù, invocato dalla nostra Santa fin negli ultimi istanti della sua vita terrena, era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore, il centro di tutta la sua vita. Il “Mistero della carità di Giovanna d'Arco”, che aveva tanto affascinato il poeta Charles Péguy, è questo totale amore di Gesù, e del prossimo in Gesù e per Gesù. Questa Santa aveva compreso che l’Amore abbraccia tutta la realtà di Dio e dell'uomo, del cielo e della terra, della Chiesa e del mondo. Gesù è sempre al primo posto nella sua vita, secondo la sua bella espressione: “Nostro Signore servito per primo” (PCon, I, p. 288; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 223). Amarlo significa obbedire sempre alla sua volontà. Ella afferma con totale fiducia e abbandono: "Mi affido a Dio mio Creatore, lo amo con tutto il mio cuore" (ibid., p. 337). Con il voto di verginità, Giovanna consacra in modo esclusivo tutta la sua persona all'unico Amore di Gesù: è “la sua promessa fatta a Nostro Signore di custodire bene la sua verginità di corpo e di anima” (ibid., p. 149-150). La verginità dell'anima è lo stato di grazia, valore supremo, per lei più prezioso della vita: è un dono di Dio che va ricevuto e custodito con umiltà e fiducia. Uno dei testi più conosciuti del primo Processo riguarda proprio questo: “Interrogata se sappia d'essere nella grazia di Dio, risponde: Se non vi sono, Dio mi voglia mettere; se vi sono, Dio mi voglia custodire in essa” (ibid., p. 62; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2005).

  La nostra Santa vive la preghiera nella forma di un dialogo continuo con il Signore, che illumina anche il suo dialogo con i giudici e le dà pace e sicurezza. Ella chiede con fiducia: “Dolcissimo Dio, in onore della vostra santa Passione, vi chiedo, se voi mi amate, di rivelarmi come devo rispondere a questi uomini di Chiesa” (ibid., p. 252). Gesù è contemplato da Giovanna come il “Re del Cielo e della Terra”. Così, sul suo stendardo, Giovanna fece dipingere l'immagine di “Nostro Signore che tiene il mondo” (ibid., p. 172): icona della sua missione politica. La liberazione del suo popolo è un’opera di giustizia umana, che Giovanna compie nella carità, per amore di Gesù. Il suo è un bell’esempio di santità per i laici impegnati nella vita politica, soprattutto nelle situazioni più difficili. La fede è la luce che guida ogni scelta, come testimonierà, un secolo più tardi, un altro grande santo, l’inglese Thomas More. In Gesù, Giovanna contempla anche tutta la realtà della Chiesa, la “Chiesa trionfante” del Cielo, come la “Chiesa militante” della terra. Secondo le sue parole, ”è un tutt'uno Nostro Signore e la Chiesa” (ibid., p. 166). Quest’affermazione, citata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 795), ha un carattere veramente eroico nel contesto del Processo di Condanna, di fronte ai suoi giudici, uomini di Chiesa, che la perseguitarono e la condannarono. Nell'Amore di Gesù, Giovanna trova la forza di amare la Chiesa fino alla fine, anche nel momento della condanna.

Mi piace ricordare come santa Giovanna d’Arco abbia avuto un profondo influsso su una giovane Santa dell'epoca moderna: Teresa di Gesù Bambino. In una vita completamente diversa, trascorsa nella clausura, la carmelitana di Lisieux si sentiva molto vicina a Giovanna, vivendo nel cuore della Chiesa e partecipando alle sofferenze di Cristo per la salvezza del mondo. La Chiesa le ha riunite come Patrone della Francia, dopo la Vergine Maria. Santa Teresa aveva espresso il suo desiderio di morire come Giovanna, pronunciando il Nome di Gesù (Manoscritto B, 3r), ed era animata dallo stesso grande amore verso Gesù e il prossimo, vissuto nella verginità consacrata.

  Cari fratelli e sorelle, con la sua luminosa testimonianza, santa Giovanna d’Arco ci invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa. Grazie.

 

13. La politica come campo d’azione della fede

 

[da: Guido Formigoni, Alla prova della democrazia - Chiesa cattolici e modernità nell’Italia del 900, edizioni Il Margine, 2008, p.1]

 

 Studiando l’approccio del mondo cattolico italiano all’idea di nazione e ai miti nazioni tra Otto e Novecento, colpisce una sorta di straordinaria prevalenza più che secolare e quasi onnivora di una cultura  “guelfa”, che valorizzava fortemente l’idea e il mito nazionale alla luce delle sue radici “cattoliche”. Esistenza e sviluppo della nazione italiana venivano infatti largamente interpretati, per un lungo periodo di tempo, mettendo l’accento sui legami costitutivi tra fede e civiltà. L’Italia era “nazione cattolica” per eccellenza: questo elemento culturale e naturalmente anche “ideologico” (in quanto si trattava di una interpretazione della realtà con caratteri prescrittivi e operativi) correva in modo amplissimo lungo tutta questa storia.

[…]

 La Conciliazione del 1929 fu largamente presentata come inveramento finale dell’antica visione guelfa della nazionalità […]

  All’ombra di questa visione, propria del papa lombardo [Achille Ratti, in religione Pio 11°] va riletto l’accentuato processo di “nazionalizzazione della fede” che si dispiegò tra gli anni ’20 e ’30. Prese forma una sorta di coscienza religiosa nuova, segnata da elementi che mi pare possano essere definiti di vero e proprio “nazional-cattolicesimo”. Cioè di un’interpretazione e un’esperienza simbolica e organizzata della fede che trovava sul terreno della cultura e della mitologia nazionale un riconoscimento decisivo e centrale. Si trattò di un percorso (ancora per molti versi da studiare analiticamente) che si intrecciò in modo problematico e ambiguo con l’età dei nazionalismi di massa, della modernizzazione industriale e della politica totalitaria, fino ad uscirne lacerato al suo interno, ma serbando una grandissima capacità di rilancio.”

 

  Qualche tempo fa, papa Jorge Mario Bergoglio, in religione Francesco ,menzionò la frase “la politica è la più alta forma di carità”, attribuendola a Montini, ma aggiungendo di non essere riuscito a trovare la fonte della citazione. Chi ci è riuscito? In effetti qualcosa di molto simile lo disse il papa Achille Ratti - Pio 11°. Egli concluse nel 1929, la Conciliazione con il Regno d’Italia sotto regime fascista. E’ in questo contesto che vide nella politica nazionale italiana un’opportunità religiosa. E spinse le masse dei fedeli, in particolare l’Azione Cattolica,  su quella via. Oggi quella storia è ritenuta disonorevole e ci sorvola sopra. Eppure è stata gravida di conseguenze: l’ibridazione dell’ideologia politica a sfondo religioso con il nazionalismo fascista fu molto profonda  e si ancora avverte distintamente  dietro la visione di settori potenti del movimento cattolico. Si tratta di concezioni profondamente ostili alla democrazia, come lo fu il fascismo storico.

 Eppure, la sfida dei tempi nuovi che stiamo vivendo richiede di saper agire sapientemente nei processi democratici, gli unici che sono in grado di produrre civiltà di integrazione delle differenze culturali che sono espresse dai popoli che sempre più si mescolano, non accettando i confini in genere arbitrari imposti dagli stati nazionali.

  Ma di democrazia si fa poco tirocinio nelle istituzioni e altre formazioni religiose.

 Perché appunto in genere prevale lo spirito guelfo, di cui ha scritto Formigoni. Nel Duecento / Trecento in Italia  i guelfi  erano quelli che appoggiavano la politica del papato. Nell’Ottocento si parlò di neo-guelfi  per coloro che, nella questione dell’unità nazionale, pensavano a un ruolo politico del papato per costituire una federazione tra gli stati italiani di allora.

 Il papato ha sempre fatto politica: alle origini politica ecclesiastica, e poi, dal Quarto secolo,  anche la politica civile. Nel primo millennio della nostra era, ha agito con un ruolo minore rispetto agli imperatori civili, dei quali, politicamente, era un feudatario. Dal secondo millennio ha fatto politica come imperatore religioso, rivendicando la supremazia sugli altri monarchi europei. Nell’Ottocento, vistosi insidiare il suo stato nell’Italia centrale e capendo di non avere più l’appoggio delle altre monarchie europee, in crisi di trasformazione da fine Settecento a seguito dello sviluppo dei processi democratici (oggi le residue monarchie europee, regnano ma non governano), cercò di organizzare le masse cattoliche a difesa dei suoi interessi politici di sovrano territoriale, non bastandogli più per questo la sua autorità religiosa. Il papato fu, con l’impero d’Austria, il maggiore avversario dell’unità nazionale italiana. Spinse le masse cattoliche ad una lotta ideologica e politica contro il nazionalismo liberale dell’epoca e, poi, contro le istituzioni del Regno d’Italia. La legge contro il terrorismo, promossa da Francesco Crispi nel 1866, fu attuata ampiamente anche contro i movimenti cattolici, come ho ricordato in un post  di qualche giorno fa, parlando di precursori  dell’Azione Cattolica. In questo contesto il papato osteggiò apertamente i processi democratici, arrivando a comminare la scomunica religiosa a Romolo Murri, tra gli ideatori e i primi fautori di una democrazia cristiana, non intesa come partito politico, ma come forma istituzionale dello stato che consentisse la partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica italiana, all’epoca proibita.

  La Conciliazione del 1929 con il Mussolini, consentì al papato di recuperare un simulacro di stato nella città di Roma e soprattutto uno straordinario potere di influenza ideologica sulla masse popolari italiane. Da qui derivarono gran parte dei problemi che travagliarono la partecipazione dei laici di fede alla politica democratica dopo la caduta del fascismo, dalla metà degli scorsi anni Quaranta.

 Il papato, fino all’elezione di papa Francesco, non accettò mai di ritirarsi dalla politica italiana. La ripresa neoguelfa  fu evidentissima durante il lungo regno religioso di Karol Wojtyla, anche se, a quei tempi, svolse un ruolo sempre più rilevante la Conferenza episcopale italiana, e soprattutto il suo presidente.

  Il papato ha cercato sempre di mantenere un dominio politico sulla società italiana, fino a che i movimenti di massa suscitati dal papato come strumenti neoguelfi hanno iniziato a lottare per la conquista del papato, sviluppando politiche autonome. Ora lo stesso papato è in crisi e si pensa di trasformarlo. Il papa Francesco ne interpreta una specie di nuovo modello. Questa è la storia ecclesiastica recente.

  Di questa evoluzione in genere non si tratta nella formazione religiosa di secondo e terzo livello, che dovrebbe comprendere anche elementi di storia nazionale ed ecclesiastica. L’ingenuo papismo che viene in genere proposto in religione maschera una vera e propria ideologianeoguelfa,  spesso declinata però ora in un modo particolare, nel senso che sembra non essere preso come riferimento  questo  papa, quello che ha deciso di spogliarsi dei simboli imperiali del suo ufficio che sono solo pesanti incrostazioni del millennio appena trascorso, e vive in un albergo invece che nella reggia che gli era destinata, ma unpapa idealefuturo,   un papa a venire, che ancora non c’è ma che ciascuno spera possa essere conforme ai suoi progetti, tanto che molti si industriano per generarlo. Sotto questo profilo Francesco,  nonFrancesco 1°  come dovrebbe essere il nome di un imperatore religioso, è stato una bella sorpresa.

  Che fare, allora?

 I tempi sono quelli che sono  e non sono un granché, ma possiamo consolarci ricordandoci che ce ne sono stati di peggiori, come, ad esempio, all’epoca della Conciliazione con il fascismo, in particolare nei passati anni Trenta.

  Occorre far fare tirocinio democratico in religione, visto che si concorda che “la politica è una delle più alte forme di carità”, ciò che richiede di fare memoria della storia, in particolare di quella recente e contemporanea. La consapevolezza storica è alla base dei processi democratici. Da dove cominciare? La parrocchia può essere un buon inizio. Anche l’Azione Cattolica, e in particolare il nostro gruppo parrocchiale, può essere un buon inizio, perché dagli anni Sessanta si occupa anche di tirocinio democratico. Ma occorre sviluppare processi democratici, ad esempio , n parrocchia, rendendo realmente rappresentativo il Consiglio pastorale. Un altro dei principi cardine della democrazia è la partecipazione politica alle scelte economiche che si fanno nelle istituzioni, attraverso la pubblicazione e approvazione di conti consuntivi e preventivi e dello stato patrimoniale. Altrimenti le istituzioni che ambiscono ad essere comunitarie si burocratizzano e uno si disinteressa del bilancio della parrocchia come si disinteressa di quelli delle ASL. Poi però può accadere che la biblioteca parrocchiale sia da ricostituire da capo (è la situazione che ha trovato il nuovo parroco, ho sentito) e questo  per qualche motivo che non è stato spiegato (servivano fondi per urgenze parrocchiali, si voleva impiegare altrimenti la stanza della biblioteca?), e che quindi adesso i giovani non abbiano di che studiare. Avessi potuto partecipare democraticamente alla decisione mi sarei opposto con tutte le mie forze. E’ tutto uno stile da costruire, perché in questo campo in religione, da noi,  non si è molto avanti e anche nella politica nazionale si manifestano molti problemi. Ma l’Italia non si salverà senza un nuovo spirito civico: storicamente i laici di fede, in particolare nel secondo dopoguerra, sono stati protagonisti in questo campo, naturalmente sempre con la palla al piede del clerico-fascismo, il nome meno gentile di quello che Formigoni definisce come il sempre persistente neo-guelfismo.

 

14. Europeismo

 

 Quando si inizia a parlare di Europa  e di europeismo spesso le persone che incontro attaccano con le critiche, riprendendo superficialmente i discorsi che sentono fare da diversi politici nazionali, come se gran parte dei problemi che ci sono in Italia derivassero dall’Europa, concepita secondo la mentalità fascista (scrivo le cose come sono!), come un coacervo di nazione d’oltralpe che ce l’hanno con noi. In realtà di Europa  si sa poco, in particolare della sua storia e di come è diventata cercando di superare gli  stati nazionali, i quali (quelli sì) erano stati protagonisti della sanguinosa, tragica, storia europea. Ecco un primo punto da tenere presente: l’idea di una unificazione istituzionale  tra i popoli europei scaturiva dalla volontà di stabilire una pace europea, dopo secoli di conflitti. In effetti il progressivo processo di unificazione istituzionale europea, vale a dire, innanzi tutto, prima ancora della creazione di un governo  europeo, la creazione di norme europee, che favorissero la cooperazione europea e l’avvicinamento  delle società europee, ci ha dato un lungo periodo di pace, che dura tutt’oggi.  L’ultima guerra mondiale finì in Europa nella primavera del 1945 e non era scontato che non potesse riprendere. Solo sei anni dopo, a Parigi, nel 1951, venne concluso il primo degli accordi internazionali che diede inizio al processo di unificazione istituzionale europea: il trattato che istituì la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, più nota con la sigla CECA. Lo conclusero sei stati nazionali: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi (Olanda). Notate qualcosa? In questo gruppo c’erano stati nazionali che si erano combattuti durante la Seconda guerra mondiale: Germania e Italia da una parte, Belgio, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi dall’altra. Le ultime due guerre mondiali (1914/1918 e 1939-1945) erano originate sulla frontiera tra Francia e Germania. Oggi il problema della pace europea non scalda i cuori, e invece dovrebbe. Negli anni ’40 era diverso, perché sia aveva l’esperienza diretta di due guerre mondiali che avevano provocato tante sofferenze ai popoli europei e, in particolare, tra le classi popolari, operai e contadini, che fornivano i  militari di truppa, in particolare la fanteria, votata allo sterminio. L’idea di unificazione europea era rivoluzionaria durante il regime fascista (1922-1945). E infatti uno dei documenti più citati, ma poco conosciuto, dell’europeismo italiano, il Manifesto di Ventotene, che ho pubblicato ieri, venne scritto nell’Isola di Ventotene, da  tre pregiudicati sottoposti alla misura di polizia del confino per ragioni politiche, che era molto di più dell’obbligo di soggiorno che si applica oggi alle persone pericolose. Comportava infatti una serie di gravi limitazioni che, in definitiva, obbligavano i confinati a stare sempre tra di loro. Quei confinati si chiamavano Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Il più noto dei tre è Spinelli, che nel 1941 aveva 34 anni. Gli altri due ne avevano 44 e 32.  Li possiamo considerare tre rivoluzionari, perché volevano cambiare totalmente il mondo in cui si erano trovati a vivere.

  Come c’entra l’europeismo con la fede religiosa? C’entra per vari motivi. Innanzi tutto l’ideale di una pace  tra i popoli è diventato dalla metà del secolo scorso molto importante nella nostra dottrina sociale. E l’unificazione europea è stata una via verso la pace. E poi perché l’ideologia dell’unificazione europea è vista con sospetto, tra noi in religione, nonostante che i laici di fede siano stati protagonisti in quel processo politico. In effetti negli ultimi decenni essa ha surclassato quella religiosa come potenza di pace, in particolare, più recentemente, nelle politiche contro la discriminazione sociale che sta attuando. Le organizzazioni religiose sono in genere andate a rimorchio, spesso riottosamente, come quando si cerca di contrastare le discriminazioni a sfondo sessuale. Si tende allora a pensare che la rivoluzione che si sta attuando nel processo di unificazione europea sia antireligiosa, e non è così, come si potrebbe facilmente capire se si trovasse il tempo di approfondire.

 

15. Nazionalizzazione degli stati

 

[Dal Manifesto di Ventotene, 1941, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

La sconfitta della Germania non porterebbe automaticamente al riordinamento dell'Europa secondo il nostro ideale di civiltà.

  Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti, i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali
cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l'ondata dei sentimenti e delle passioni internazionalistiche
, e si daranno ostinatamente a ricostruire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d'accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell'equilibrio delle potenze nell'apparente immediato interesse del loro impero.

  Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali: i quadri superiori delle forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società
conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie
; ed al loro seguito tutto l'innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che son anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l'edificio scricchiola e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno
avuto fin'ora e le esporrebbe all'assalto delle forze progressiste.

  Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.

  Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse
popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
  Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.

 

  L’europeismo che si sviluppa dagli anni ’30 del Novecento è di tipo rivoluzionario, perché progetta di cambiare profondamente la politica e istituzioni esistenti all’epoca in un’Europa dominata da stati totalitari  fascisti, al seguito del cancelliere tedesco Adolf Hitler  (1889-1945)  e del presidente del Consiglio del Regno d’Italia Benito Mussolini (1883-1945), mentre in Russia, una parte importante dell’Europa, dominava il totalitarismo sovietico di ispirazione comunista, nella versione imposta dal segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica Iosif Stalin (1879-1953),  anch’esso un sistema politico-istituzionale totalitario. Un sistema politico è totalitario quando il potere cala dall’alto,   non ammette dissenso e pretende di regolare tutti gli aspetti della vita del popolo che domina. Quindi l’europeismo di quell’epoca fu democratico perché si oppone ai totalitarismi che c’erano allora in Europa. Anche  il nazionalsocialismo tedesco, il movimento politico fondato da Adolf Hitler, e il comunismo sovietico nella versione di Josif Stalin avevano progetti di dominio europeo, ma non consideriamo Hitler e Stalin come europeisti  in quanto associamo l’europeismo alla democrazie e quei due uomini politici non erano democratici.

  Nel brano del Manifesto di Ventotene  che ho sopra riportato si legge un’aspra critica alle  forze conservatrici, accusate di aver provocato la lunga situazione di conflitto europeo protrattasi dal 1914 al 1945 dominando gli stati nazionali. Tra di esse vengono le “alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società
conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie”
. Questa visione può ritenersi strettamente collegata alla storia italiana, in cui, nel 1929, il papato aveva concluso accordi di pacificazione  con il  Regno d’Italia dominato dal regime fascista, tanto che essi furono sottoscritti per l’Italia, nel palazzo romano del Laterano personalmente da Benito Mussolini. In esecuzioni di quegli accordi al papato fu riconosciuta la sovranità, al modo di uno stato, su un quartiere della città di Roma, importanti indennizzi finanziari, e, soprattutto, la possibilità di una rinnovata egemonia religiosa sugli italiani, in particolare con la possibilità di controllare l’istruzione religiosa nella scuola statale.

 Al centro della critica politica del Manifesto di Ventotene  vi è l’evoluzione degli stati nazionali europei  che li avevi portati a combattersi incessantemente.

 Che cosa è lo stato nazionale.

 Questa espressione è composta di due parole: stato e nazione.

 Bisogna capire questo: storicamente lo stato, come istituzione politica di vertice, in Europa non nasce come nazionale.

  Il concetto di nazione  in senso politico   si sviluppa sostanzialmente tra il Settecento e l’Ottocento. Nell’Ottocento si produce una nazionalizzazione  politica degli stati europei. L’ideologia politica dello stato nazionale  emerge in quell’epoca.

 La costruzione degli stati nazionali  in Europa è però di molto precedente: la si fa risalire al Duecento. Qualche giorno fa ho ricordato la figura di Giovanna d’Arco, vissuta nel Quattrocento, e vediamo la santa in una guerra sostanzialmente volta alla consolidamento di uno stato nazionale, contrastando il dominio che all’epoca ancora esercitava in Francia la monarchia inglese.

 Che cos’è lo stato? Uno stato è un’organizzazione politica che domina su una popolazione stanziata su un territorio e che non ammette sopra di sé poteri superiori, salvo che sul base consensuale, quindi sulla base di accordi. 

 Che cos’è la nazione: è un popolo che ha una storia e una cultura comuni, quindi legato storicamente da relazioni più intense che con i popoli intorno, ciò che si può manifestare con una lingua o una religione prevalenti e altri costumi sociali, che possono riguardare vari ambiti, in particolare l’industria, il commercio, la famiglia, ma anche in un passato di coalizioni militari per la difesa di interessi comuni. Nell’Ottocento, che possiamo considerare il secolo in cui originarono i nazionalismi europei, si aveva però chiaro che la nazione preesiste ma anche si costruisce: si ricorda in merito la frase di Massimo D’Azeglio (1798-1866), verso il  termine del processo di unificazione nazionale italiana, dopo la costituzione del Regno d’Italia nel 1861, “la nazione è fatta, bisogna fare gli italiani”.

  Il processo di nazionalizzazione degli stati europei, nel senso di affermazione dell’ideologia nazionalista di quegli stati, si sviluppa tra l’Ottocento e il Novecento è sbocca nei totalitarismi europei del Novecento e nei conflitti mondiali  tra il 1914 e il 1945. Quei conflitti divennero mondiali  innanzi tutto perché coinvolsero un mondo ancora dominato in gran parte da potenze europee.  Coinvolsero anche il Giappone che, all’epoca, agiva politicamene al modo dei nazionalismi europei.

 

16. Noi e i problemi europei

 

16.1 Perché e, soprattutto, per chi scrivo queste note?   Scrivo principalmente per persone di fede che vogliono fare tirocinio di democrazia.  Faccio il lavoro che una volta si attendeva dai più anziani: spiegare il senso delle cose sulla base di un’esperienza personale e tramandare conoscenze e tradizioni. E’ ciò che dovrebbe essere di routine nella formazione religiosa di secondo e terzo di livello, ma non mi pare che in genere si riesca a farlo. Il tempo in cui si riesce ad avere la disponibilità della gente è poco. Si prova a raccontare un po’ di storia sacra e si spera di poter completare in seguito. Molti però si allontanano prima che si possa approfondire. Allora può avvenire che il fedele non sia preparato a fare quello che da lui ci si attende oggi in religione, vale a dire di cercare di fare dell’umanità un’unica famiglia. Non è cosa che possa riuscire incollando  progressivamente famiglia a famiglia, fino a fare di tutta l’umanità un’unica tribù. L’unificazione pacifica della  famiglia umana, questa è l’espressione che ricorre in religione per definire quell’obiettivo strategico, richiede di fare politica, che appunto è l’arte di governare le società umane in modo che la gente, tentando di fare i propri interessi, non metta mano alle armi e cominci ad ammazzarsi. E, ormai, si tratta di fare politica a livello continentale, vale a dire almeno europeo, perché, a causa delle vaste  interconnessioni che si sono create in tutti i campi nell’umanità contemporanea, anche i problemi si presentano su quella scala. Ce se ne accorge subito quando si tenta di far fronte a problemi continentali con le risorse di un singolo stato nazionale. Se, ad esempio, consideriamo l’ultima fase di recessione economica, iniziata dal 2008 negli Stati Uniti d’America e ancora in corso, capiamo bene che essa avrebbe travolto gli stati nazionali europei se non ci fosse stata una reazione a livello europeo, resa possibile dall’esistenza di istituzioni europee forti. Analogamente accade nella questione delle  migrazioni verso l’Europa di popoli dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa orientale. Nessuno stato nazionale ha la forza di farvi fronte da solo e, in particolare, non può farlo chiudendo le frontiere, vale a dire immaginando di chiudere le porte  di uno stato come si fa quando la sera si danno le mandate alle porte di casa. Perché la storia, anche recente, insegna che si possono impedire migrazioni dall’interno verso l’esterno, ma non nella direzione contraria. Vale a dire che è possibile impedire a cittadini, quindi a persone radicate in un sistema politico-istituzionale nel quale hanno riconosciuta un’identità, di andarsene all’estero, ma nessuno è mai riuscito a impedire del tutto  ad apolidi, vale a dire a persone che hanno perso o rifiutato quell’identità politico-istituzionale, di entrare in un territorio governato da un diverso sistema politico istituzionale, anche se molto deciso ad ostacolarli con misure di polizia e addirittura militari, e ciò in particolare in tempi di crisi economica, nelle migrazioni da posti dove si vive male, e addirittura malissimo, a posti dove si vive meglio. I politici che predicano cose diverse valgono poco, perché non tengono conto della lezione della storia e quindi sono come guide cieche.

  Ho scritto di lezione della storia. Questo è molto importante: per fare politica occorre conoscere almeno un po’ di storia, perché in politica non si parte mai da zero. E’ come quando in stazione si sale su un treno e bisogna informarsi su dove va e prendere quello che va dove vogliamo andare. E, innanzi tutto,  decidere dove si vuole andare.

  Si parla di ricorsi storici: date certe condizioni, eventi storici si ripetono simili. Questo  è un altro buon motivo per informarsi di storia.

  Quando a scuola, da ragazzi, ci si annoia nelle lezioni di storia, forse è perché non si ha ben chiara l’importanza che essa ha e avrà sempre più, da adulti,  per la propria vita. Certo, è acqua passata, ma conta, perché l’umanità la prende come riferimento per dare un senso a ciò che fa e decide. Essa è tanto importante da essere ritenuta costitutiva del concetto di nazione, che sta dietro sistemi politico-istituzionali molto vasti e potenti, tanto da determinare gran parte di ciò che i singoli esseri umani possono essere, diventare, fare. Ad esempio il Regno d’Italia, costituito nel 1861  e sostituito  nel 1946 all’esito di un referendum popolare dalla Repubblica italiana, era uno stato nazionale. E la nostra  Repubblica, lo è? Che ne pensate?

16.2 La domanda è“La Repubblica italiana è un nazione?”.  Non ho chiesto  se l’Italia  sia una nazione, ma se lo fosse la nostra Repubblica. C’è una differenza ed essa consiste nella mitologia  che c’è dietro l’idea di nazione.

  Un mito  è un storia semplificata e  piuttosto fantasiosa, e per questo in genere anche affascinante, che spiega  il senso  che si vuole dare a un storia che spesso senso coerente non ha o se lo ha è molto più complesso di quello che si preferirebbe fosse. Diversi miti sono contenuti nelle scritture sacre delle religioni. Li troviamo anche nelle nostre. Definiscono più quello che si vorrebbe essere, e in definitiva diventare, più che quello che si è veramente stati e si è. L’idea di Italia che fu alla base del nostro nazionalismo ottocentesco, il quale produsse  un movimento politico e militare di popolo e varie guerre fra stati, conteneva molti miti. Se, invece che all’Italia,  mi riferisco alla Repubblica italiana mi impegno a osservare ciò che è, facendo a meno di quei miti.

  Un ampio utilizzo della mitologia fu invece fatto dal regime fascista storico, che dominò il Regno d’Italia dal 1922 al 1945. Lo costruì scegliendo arbitrariamente nella storia italiana alcuni eventi e strumentalizzandoli per indicare, in realtà, ciò che voleva che l’Italia divenisse. Il fascismo storico pensò sé stesso come erede legittimo della  romanità, e in particolare di quella espressa dall’antico impero romano stanziato in Italia, quello che visse nell’era che si definisce classica,  centrato su Roma (la storia dell’impero romano dalla fine del  terzo secolo della nostra era fu invece sempre più centrata su Bisanzio, in Oriente). Riteneva di essere veicolo di civilizzazione e in questo integrò nella sua ideologia la nostra confessione religiosa: questa fu la base ideologica della Conciliazione conclusa tra il Regno d’Italia e la Santa Sede (che significa il papato romano), ma mediata dal fascismo italiano: per quest’ultimo e l’organizzazione ecclesiastica quei patti furono ben più di un accordo di compromesso. Religione e partito politico totalitario si rafforzarono a vicenda, cessò l’ostilità del regime verso la religione e quella del potere ecclesiastico verso il regime, sulla base di una precisa delimitazione di campo d’azione, sia pure con iniziali recrudescenze di conflitti verso quelle organizzazioni di stampo religioso che non rispettavano i confini posti da quegli accordi. Questa è oggi una memoria dolorosa, spiacevole, in religione e in genere si preferisce costruire sopra quei fatti, avvertiti ora come disonorevoli, un mito  resistenziale delle nostre organizzazioni religiose coeve al fascismo che non corrisponde alla realtà se non in minima parte. Negli anni ’30 la  nostra religione, in Italia, si fascistizzò e la religione fu integrata nel nazionalismo fascista. Le guerre coloniali del regime, in Libia e in Etiopia, vennero presentate anche come imprese di civilizzazione religiosa e questo nonostante che in Etiopia si combattesse contro cristiani di antichissima tradizione. Non ci fu all’epoca una reale opposizione dei nostri capi religiosi, in particolare del papato. Il fascismo storico immaginò una nazione imperiale cristiana e in questo non trovò reali smentite da parte di quello che, allora come oggi, concepiva sé stesso come un impero religioso e storicamente aveva tenuto a marcare nettamente i confini per difendersi dalle ingerenze dei poteri civili. La Conciliazione  fu definita come opera della Provvidenza e ci si condusse poi di conseguenza per circa una decina d’anni. Poi cominciarono effettivamente le prese di distanza.

  L’idea di nazione  che stava dietro i moti di unificazione nazionale era più simile a quella che ai tempi nostri ne abbiamo e derivava dal pensiero di Giuseppe Mazzini (1805-1872). Si pensava che vi fosse un  popolo umiliato da potenze straniere perché diviso e che si dovesse elevarlo alla sovranità, innanzi tutto facendone un unico stato. Nel pensiero di Mazzini questo doveva avvenire realizzando anche una democrazia, quindi un sistema politico istituzionale che consentisse un’ampia partecipazione popolare alle decisioni di governo. Mazzini aveva un’idea religiosa di questa democrazia di popolo: la pensava fondata su principi supremi di origine divina. In questo contesto il moto democratico avrebbe dovuto coinvolgere, e liberare, tutti i popoli europei e affratellarli.  Questa ideologia si manifesta chiaramente nelle parole del nostro inno nazionale Fratelli d’Italia.

 L’idea di nazione  del fascismo era diversa e ne ho scritto sopra.

 L’idea di nazione  che  prevalse tra le forze politiche che, dopo aver vinto la guerra di resistenza contro il fascismo, progettarono la nostra Repubblica era simile a quella del Mazzini, ma con molto di più. Infatti andava oltre  il concetto di nazione che era stato alla base del movimento per l’unificazione nazionale italiana e, rovesciando l’ideologia nazionalista fascista, prevedeva un ordinamento politico istituzionale in cui non si distinguesse tra le persone sulla base della razza, della lingua e della religione (art. 3 della Costituzione), tre elementi che si erano ritenuti fondamentali per definire la nazione.

  Di fatto, la Repubblica italiana iniziò la sua vita come stato nazionale, nel senso di stato che comprendesse tutti gli italiani di stirpe, lingua, cultura e religione, come aveva voluto essere quello fascista, ma senza più l’ambizione imperiale, anzi con l’impegno di limitare le proprie pretese nazionalistiche se ciò fosse necessario per un assetto internazionale pacifico sulla base di accordi con gli tri stati. Molti dei miti  del fascismo sopravvissero nell’era della repubblica democratica. In particolare quello che integrava nell’ideologia nazionale la nostra religione. Ma progressivamente ad essi si sostituì una realtà molto diversa basata su sviluppi caratteristici del nuovo mondo in cui l’Italia si era trovata a vivere dopo l'affrancamento dal fascismo. Nell’ideologia nazionalista, come è vissuta oggi in concreto dalla gente, l’etnia, quindi la stirpe, e la religione hanno molto meno importanza di un tempo, sono molto meno caratterizzanti. Ci si è molto mescolati tra le genti delle varie regioni italiane, che in gran parte corrispondono alle ripartizioni territoriali degli stati precedenti all’unificazione nazionale. La lunga pratica della libertà di coscienza ha permesso scelte diverse in materia religiosa, in particolare anche di ateismo o  di indifferenza religiosa, senza che ciò sia più sentito come squalificante sul piano civile. Hanno avuto invece un potentissimo ruolo nella costruzione di una nuova identità nazionale l’istruzione pubblica di massa e il sistema radiotelevisivo pubblico, quindi poi l'affermarsi dell'italiano scolastico sui dialetti, la vasta partecipazione ad un mercato del lavoro su scala nazionale resa possibile dall’espansione economica vissuta in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e, soprattutto, il consumismo popolare, che ha creato modi di vivere, e di desiderare, quindi anche prospettive  di vita, molto simili in tutte le regioni d’Italia. La nostra Repubblica però sta ancora diventando  una nazione come non c’è mai stata prima: la costruzione nazionale è quindi ancora in divenire. L’integrazione europea ha poi consentito ai più giovani di iniziare a costruirsi un’identità civica continentale,  con sempre più fitte relazioni con le genti europee di altre lingue e culture. Ed è sbagliato, quando ci riferisce ai nostri giovani che studiano o lavorano in altri stati dell’Unione Europea, parlarne come di migranti, come gli italiani che emigrarono in massa alla volta dell’America e dell’Australia dalla fine dell’Ottocento fino più o meno agli anni ’30 del secolo scorso, ma anche quelli che emigrarono nel Nord Europa in epoca più recente. I giovani di oggi girano l’Europa da cittadini europei, partecipi di una cultura politica, istituzionale, economica e sociale sovranazionale nella quale sta producendosi una nuova nazionalità europea, simboleggiata dalla bandiera a dodici stelle in campo azzurro dell’Unione Europea.

 Su questo nuovo contesto nazionale ed  europeo si è abbattuta la fase di recessione economica che stiamo attualmente vivendo, derivata fondamentalmente dalla globalizzazione dell’economia, e stanno incidendo in maniera sempre più rilevante le migrazioni  di popoli dall’Europa orientale, dall’Africa, dall’Asia  e dall’America Latina, non attirati tanto dal nostro benessere economico, ma innanzi tutto dalla possibilità concreta di una vita libera, sicura e dignitosa.  Si tratta di popoli che prendono sul serio le nostre dichiarazioni di principio su grandi valori umani. A fronte di questo c’è chi propone di tornare al vecchio nazionalismo di tipo clerico-fascista, e con questa espressione intendo riferirmi a ciò che uscì dalla Conciliazione  di cui ho scritto. Ma,  a prescindere da tutte le altre controindicazioni, quell’ideologia era strumento di una politica di espansione militare  in Europa e in Africa, mentre ora si vorrebbe bloccare l’arrivo dei nuovi venuti, non di andare a invadere i posti da dove ci giungono. E anche il vecchio nazionalismo che sorresse il processo di unificazione statale italiana rispondeva a problemi diversi: si proponeva di mandare  fuori d’Italia le potenze straniere che all'epoca la occupavano, e in particolare l’Impero austriaco, non di contrastare migrazioni  di massa da altri continenti  verso l’Italia che all'epoca non solo non c’erano ma non erano nemmeno immaginabili. Ma anche l’ideologia nazionalista repubblicana, come si è venuta costruendo dalla metà degli anni Quaranta ad oggi, non sembra andare bene perché, in definitiva, si limita a unire, legandoli culturalmente, gruppi, ceti, classi, etnie, movimenti, religioni che già erano insediati da noi da lungo tempo e hanno beneficiato dello statuto di eguaglianza in dignità riconosciuta dal nuovo assetto politico istituzionale democratico, ma sembra insufficiente per costruire l’integrazione  delle masse di migranti che, provenienti non solo da altri continenti, ma da altre culture, giungono tra noi rivendicando la medesima eguaglianza, come diritto umano fondamentale. Che fare dunque? Che ne pensate? Innanzi tutto: vi ponete il problema del che fare? L’attuale dottrina sociale, veramente tanto diversa dall’antico clerico-fascismo che in Italia si produsse dopo la Conciliazione  del 1929, ci impegna a pensarci. E quando scrivo “ci impegna” significa che non ci spinge solo a rifletterci sopra, ma a progettare e costruire una nuova realtà sociale, in linea con i nostri valori di fede: questo è politica.

 

17. Un mandarino per Teo

 

 

[Dal Manifesto di Ventotene, 1941, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettino:
1. Si è affermato l'eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato nelle sue caratteristiche etniche geografiche linguistiche e storiche, doveva trovare nell'organismo statale, creato per proprio conto secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo.

  L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l'oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati t talitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.

  La nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini, che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana. E' invece divenuta un'entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo "spazio vitale" territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell'egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.

  In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l'efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi; la scuola, la scienza, la produzione, l'organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e dell'odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l'impiego, gli averi ed a sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo.

 

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 Nel 1960 c’era al teatro Sistina di Roma la commedia di Garinei e Giovannini di Pietro Garinei e Sandro Giovannini Un mandarino per Teo, nella quale il diavolo proponeva a un uomo di ereditare un mucchio di soldi uccidendo un mandarino in Cina con il premere il  pulsante di un campanello, senza rischiare nulla. Il protagonista lo fa,  riceve un anticipo dell’eredità, si dà alla bella vita, ma poi gli viene rivelato che si tratta di firmare un patto con il diavolo, ha una crisi di coscienza e, per liberarsi dalla soggezione al demonio, restituisce tutti il denaro ricevuto. La trama di quella commedia propone il dilemma di coscienza in cui tutti noi cittadini europei ci troviamo. Infatti il nostro benessere dipende dalla sofferenza di gente lontana, di lavoratori-schiavi che producono gran parte delle nostre cose di nostro uso quotidiano, dal vestiario al computer con il quale sto scrivendo, per salari bassissimi, ciò che rende possibile i prezzi bassi che vengono praticati da noi. Si tratta di persone umane, ma, appunto, molto lontane, in genere in Asia, e allora non ci facciamo tanti problemi. Ma lavoratori schiavi ci sono anche da noi, ci raccontano le cronache giornalistiche e ci confermano le inchieste giudiziarie: in particolare sono quelli che raccolgono il pomodoro e diversi tipo di frutta. Ma la gran parte di loro sono irregolarmente in Italia e quindi non protestano per non rischiare guai con la polizia e la legge. Oltre a ciò, c’è altra gente che lavora in condizioni difficili, perché costretta a ritmi di produzione molto serrati e duri, e tra di essa ci sono anche molti giovani italiani. In genere per tutte queste persone il lavoro è precario, vale a dire che possono essere licenziati senza tanti problemi. Chi è in queste condizioni difficilmente protesta e si associa ai sindacati, per non subire ritorsioni sul lavoro. C’è un libro, disponibile anche in formato digitale, che racconta tutto questo, di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini, Schiavi di un dio minore - Sfruttati, illusi e arrabbiati,  UTET, 2016, €11,40 in formato cartaceo, €7,99 in ebook. Ve ne consiglio la lettura, così, in particolare avrete qualche idea in più quando in confessione non vi viene in mente nulla di più dei soliti peccati di routine, sesso, maldicenza, messe saltate. Noi Occidentali siamo tutti colpevoli di un tremendo peccato sociale che consiste nel trattamento ingiusto di lavoratori lontani, che non conosciamo, un peccato di quelli che, è scritto, grida, nel senso che trova ascolto soprannaturale molto più di altri. E’ la conseguenza di un ordine sociale ingiusto a livello globale del quale ci siamo fatti complici, per interesse. Cambiare non si può con le risorse di un singolo stato nazionale. Bisogna infatti incidere su un sistema che si estende a livello intercontinentale. Ma, in fondo, vogliamo veramente cambiare le cose? Eppure queste cose  stanno cambiando anche noi, perché i patti con il demonio sono sempre distruttivi per la parte debole, vale a dire per l’essere umano che li conclude. Ecco che allora questo sistema sta privando del futuro i nostri figli.

  Uno dei maestri del pensiero che più chiaramente ci ha spiegato il problema è stato l’anziano sociologo polacco Zygmunt Bauman, morto qualche giorno fa. Lo ha fatto con diversi libri divulgativi (la sociologia contemporanea è una scienza molto complessa, in cui si impiegano sofisticati modelli di matematica statistica), a partire dal più famoso: Modernità liquida,  del 2000, che  è in commercio in traduzione italiana edito da Laterza. Se dovessi programmare un ciclo di incontri in parrocchia con persone dell’età dell’università, tra i 18 e 25 anni, lo metterei come libro di testo. A proposito: ricordate bene che non si ragiona insieme su nulla senza avere un buon libro di testo. Ci deve essere una base comune. E le Scritture non bastano. Francesco d’Assisi sbagliava pensandola diversamente: sbagliava già ai suoi tempi, ma tanto più il suo pensiero in questo non va bene ai nostri tempi e, soprattutto, non va bene per chi voglia elevarsi alla cittadinanza e abbia bisogno di capire realisticamente ciò che accade.

 C’è stata in Europa un’evoluzione storica che ha portato agli stati nazionali, dal Duecento al Cinquecento. Ma in Italia siamo arrivati molto più tardi, nell’Ottocento. E quando ci si è arrivati, si è prodotto un grosso problema religioso, perché il papato possedeva uno degli stati che si voleva abolire per realizzare l’Italia unita.

  Ad un certo punto, le masse, sviluppandosi istituzioni democratiche, hanno contato di più negli stati nazionali, che hanno iniziato a occuparsi della gente comune sviluppando politiche di giustizia sociale e di sviluppo collettivo. E’ a questo che si riferirono gli autori del Manifesto di Ventotene, scrivendo che “L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso”,  per il quale  furono superati meschini campanilismi  e furono estesi, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili.  Poi però segnalano l’involuzione degli stati nazionali, che guidati da oligarchie liberate o non sufficientemente trattenute dai vincoli democratici si impadronirono dei loro popoli facendone strumento di una politica di potenza imperialista, diretta a imporre l’egemonia di uno stato sugli altri. Ebbero in questo, in particolare, l’immagine dell’involuzione del Regno d’Italia, lo stato nazionale italiano costituito nel 1861, a seguito della fascistizzazione del regime politico. L’istituzione della Repubblica italiana, nel 1946, andò in senso contrario, riportando lo stato nelle mani della gente comune, attraverso processi democratici che, per la prima volta in Italia, coinvolsero le donne. Tra le masse femminili più preparate a questo nuovo impegno politico ci furono le donne dell’Azione Cattolica, che dettero un contributo determinante alla politica nazionale, sia con loro voto che con l’impegno nell’Assemblea Costituente e poi in Parlamento.  Al centro dell’impegno del nuovo stato nazionale democratico furono le riforme sociali, in ogni campo del lavoro, a fini di giustizia sociale e di estensione del benessere collettivo alle masse.  Presto si capì che questo lavoro richiedeva collaborazione internazionale, in particolare a livello europeo, e si progettarono le istituzioni sovranazionali dalle quali, in un lungo processo dal 1951 al 2009 scaturì la nostra nuova Europa, che non è solo un’istituzione dei banchieri, mercanti e commercianti, come ritengono alcuni politici populisti di oggi, ma è centrata su un catalogo di diritti fondamentali, che potete leggere nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata nel 2000 a Nizza ed entrata in vigore, anche come legge vigente nella Repubblica italiana, il 1 dicembre 2009 (sul Web: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex:12016P/TXT).

  Bauman  ha spiegato che l’economia globalizzata, dove si produce, si spostano capitali (il denaro impiegato nella produzione  nel commercio) e commercia secondo criteri condivisi in tutto il mondo come se fosse un'unica nazione, ha sovrastato il potere degli stati nazionali e delle stesse istituzioni politiche sovranazionali, esprimendo un potere anonimo, non centrato quindi su uno o più imperatori del mondo, ma effettivo, che viene spesso evocato con l’espressione “i mercati”. Le vite della gente comune sono  asservite ad esso, in particolare quella che è legata ad un certo posto e non ha né la voglia né la possibilità di spostarsi. In particolare si vive in una crescente condizione di insicurezza sul proprio destino, a riguardo del lavoro ma anche in altre cose, come la salute e la sicurezza da aggressioni di vario tipo. Si ha la sensazione che il mondo in cui si vive sia divenuto instabile, che valga fino a nuova notifica. Tutto può cambiare molto velocemente e la gente è invitata ad adattarsi a questa nuova situazione. Anche i governi degli stati nazionali, quelli democratici come quelli non democratici, e addirittura il Presidente degli Stati Uniti d’America, che per ora rappresenta il massimo del potere mondiale che sia oggi attribuito ad una persona, non ci possono fare molto. Ci viene così imposto un nuovo stile di vita in cui il saper fare  conta molto meno e invece conta di più il saper essere, le relazioni che si riescono a sviluppare, ma senza legami forti, in maniera tale da potersene liberare in un secondo quando non servono più. E’ la mentalità dei consumatori dei nostri tempi, che vaga in mezzo a offerte commerciali che sembrano infinite, per cui l’ultima cosa a cui si pensa è di concentrarsi su un determinato stile di vita, perché si pensa che il benessere consista nel cogliere tutte  le opportunità che all’infinito  si presentano. In questo modo le relazioni veramente significative per le persone divengono più rare, vengono sentite come limitanti: è questa la causa dell’apparente crisi dell’istituzione matrimoniale. Ed essendo tutti presi dal proprio benessere, non si pensa alla sofferenza che c’è dietro la produzione di tante cose di uso quotidiano, che arraffiamo senza tanti problemi dagli scaffali dei grandi magazzini e poi presto buttiamo. La nostra è diventata una civiltà dello scarto  ci dice il nostro Padre Francesco, e tra gli scarti sono finiti anche gli esseri umani. Ad un certo punto può accadere anche a noi stessi di venire scartati  se, ad un certo punto, non riusciamo a tenere il ritmo.

 Di questi tempi c’è in Europa un ritorno del nazionalismo populista, anche da noi. Ma il neo-stato nazionale, ormai inutile a salvarci dal processo di scarto  dell’economia globalizzata, è pensato non come difesa dalle potenti forze che stanno guastando la nostra vita, ma come forma di chiusura verso che vive i nostri stessi guai, per chiudere le porte  alle sofferenze altrui, illudendosi così di riuscire a trattenere per noi, solo per noi, le poche risorse rimaste. Il neo-stato nazionale  è in fondo uno di quei meschini  (e inutili) campanilismi  disprezzati dagli autori del Manifesto di Ventotene.

  Ma l’evoluzione omicida dell’economia globalizzata non dipende da potenze soprannaturali: anche se il potere non ha più il volto dell’uomo forte  nel quale in passato veniva  impersonato e quindi è anonimo un po’ come una grande società di capitali della quale non si conosca il presidente del consiglio di amministrazione, è tuttavia semplicemente un’istituzione umana, che può essere descritta e capita, anche se il suo funzionamento è divenuto bizzarro e imprevedibile. Il potere globale è un insieme di norme e di istituzioni, concordate dagli stati nazionali e dalle istituzioni sovranazionali, per cui si è uniformato il modo di produrre, commerciare e trasferire capitali. Si è creato un sistema globale che ha lasciato campo libero ad una nuova classe dirigente globale, libera di muoversi senza tener conto delle frontiere nazionali  per fare i propri interessi, mentre la gran parte dell’umanità vi è ancora asservita, come i disperati i quali, prendendo esempio da quelli che Bauman chiama cittadini globali, cercano di raggiungere l’Europa per salvarsi da vite miserabili. Questo nuovo potere, sostiene Bauman, non ha più bisogno di estesi apparati di polizia per tenerci sotto controllo: siamo noi stessi a rendercene schiavi, adottando l’ideologia e lo stile di vita che ci separano dagli altri, dei quali non facciamo più conto anche se stanno molto male. In definitiva noi, da consumatori globali, stiamo divenendo insieme complici e schiavi di questo sistema. Gli attori principali di questo scenario sanno bene chi sono le vittime del sistema e le cause delle loro sofferenze, ma ci invitano a disinteressarcene. E’ la proposta che il demonio fa a Teo, il protagonista della commedia che ho citato all’inizio. E noi, aderendo all’invito, firmiamo una specie di patto con il demonio, autodistruttivo. La soluzione? Bauman la indica: riscoprire la cittadinanza vera, le relazioni forti, e unirci per cambiare un sistema che sta prendendo una brutta piega. Si tratta di costruire una vera cittadinanza globale, cogliendo così le opportunità positive della globalizzazione, in modo che ciascun essere umano si senta in tutto il mondo  a casa propria. In altre parole: fare dell’umanità un’unica famiglia, secondo i nostri auspici religiosi. Questo però richiede anche una giustizia sociale  su scala globale, come è spiegato nell’enciclica Laudato si’. Non potremo salvarci se non cambiando molto i nostri stili di vita, facendo posto agli altri.

 Come si vede è una sfida più estesa di quella che si presentava agli autori del Manifesto di Ventotene, i quali avevano essenzialmente davanti problemi su  scala europea e proponevano soluzioni europee. Ai  tempi nostri l’Europa  è solo il punto di inizio, ma un punto di inizio indispensabile perché i problemi posti dalla globalizzazione dell’economia non possono che avere soluzioni su scala continentale.

 

18.  In una fase di transizione

 

[Dal Manifesto di Ventotene, scritto del 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

Gli stati totalitari sono quelli che hanno reali nel modo più coerente la unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all'odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere. 

 

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  Qualche giorno fa è morto l’anziano sociologo polacco Zygmunt Bauman, autore di numerosi scritti divulgativi di grande successo che cercano di far capire alla gente comune che cosa le accade intorno. Ha osservato che con la globalizzazione, il processo culturale ed economico a livello mondiale che ha molto ridotto le differenze tra i popoli e li ha portati a legarsi in una fitta rete di relazioni divenendo interdipendenti, gli stati nazionali  hanno molto meno potere e si sono allentate, divenendo da solide  a  liquide,  le relazioni sociali al loro interno.

  Dopo la morte di Bauman si stanno riproponendo alcuni sui interventi televisivi e l’altro ieri mi è capitato di guardarne uno su Rai Storia, in cui si parlava dell’evoluzione della situazione europea. Bauman ha esposto a grandi linee il suo pensiero.  Lo stato nazionale  è nato per esercitare un forte potere di controllo su una popolazione che condivide molte caratteristiche culturali ed etniche, unificandone le forze  e rendendosi così autosufficiente, ha detto. Gli stati nazionali dal Cinquecento  fino alla metà del secolo scorso  hanno espresso il massimo potere politico e nazionale delle collettività umane. E tra glistati nazionali più potenti ci sono stati quelli totalitari, vale a dire quelli in cui il controllo al loro interno era arrivato al massimo grado, in cui le istituzioni statali non ammettono il dissenso e pretendono di regolare ogni aspetto della vita collettiva.  Un esempio di stato nazionale molto potente non totalitario è stato l’Impero britannico. Un esempio di stato nazionale totalitario molto potente è stata la Germania sotto il regime nazista. L’Unione Sovietica, che comprendeva gli immensi territori conquistati dall’Impero russo degli Zar, non era invece uno stato nazionale ma una Federazione di stati, sotto fortissimo controllo ideologico totalitario. Dalla dissoluzione dell’Unione sovietica è scaturito un nuovo stato nazionale  russo. Attualmente i sistemi politici più potenti nel mondo sono ancora stati nazionali e sono quelli degli Stati Uniti d’America, della Federazione Russa e della Repubblica popolare di Cina. Ma anche questi stati soggiacciono ora  a un potere più forte e impersonale, sostiene Bauman, che è dato dal quadro giuridico ed economico delle relazioni con le quali essi stessi, per convenienza di interesse, si sono legati e che di solito si evoca, anche se descriverlo riesce difficile, con il nome di mercati.

  Dal Cinquecento gli stati nazionali in fase di formazione o consolidamento si sono trovati ad affrontare la crisi molto grave determinata dalle divergenze religiose al loro interno, ma anche dai problemi di coesistenza in tempi in cui essi divenivano sempre più potenti e sviluppavano mire di conquista nei confronti dei confinanti. Furono quindi travagliati da un lungo periodo di conflitti bellici che terminarono con accordi di pace conclusi nella provincia tedesca della Vestfalia nel 1648,con i quali  si confermò il principio affermato circa un secolo prima ad Augusta (città tedesca. In tedesco Ausburg) che il sovrano avesse il potere di determinare la religione di stato, ma nel contempo si separarono gli affari religiosi da quelli di stato, e furono risolte varie questioni territoriali. Da ciò si ritiene che sia sorta l'Europa moderna. Per altro questa sistemazione fu molto più efficace a garantire il controllo  all’interno  degli stati nazionali, sulle popolazioni soggette, che  a mantenere un ordine internazionale  pacifico. Dopo la lunga fase di conflitti bellici tra il 1914 e il 1945 scaturì infine un nuovo ordine internazionale in cui gli stati nazionali,   al fine di mantenere la pace tra di loro, accettavano di rispettare le decisioni di grandi istituzioni sovranazionali create sulla base dell’affermazione di grandi principi umanitari, come le Nazioni Unite e le varie istituzioni sovranazionali, che in un processo durato dal 1951 al 2009, sono scaturite nell’attuale Unione Europea, organizzata a livello continentale. Sembrava realizzato l’obiettivo di un forte controllo interno  e di unefficiente controllo internazionale. Di fatto dal 1945 non sono più esplosi conflitti di portata mondiale, anche se gravi situazioni di tensione sono rimaste latenti e quindi sono rimaste le condizioni e, soprattutto, le organizzazioni militari che potrebbero farli scoppiare. E, in effetti, come sostiene i Papa, se consideriamo in uno sguardo d'insieme tutti i conflitti regionali che ci sono stati potremmo anche parlare di guerra mondiale a pezzi. Ma, in effetti, qualcosa come la Seconda guerra mondiale  non si è finora ripetuta.
  Con la globalizzazione sia il controllo interno  che quello  esterno sono divenuti molto meno efficienti. Siamo quindi, ha detto Bauman, in una fase di passaggio ad un diverso ordine internazionale, che necessariamente sarà a livello globale, per le fitte relazioni internazionali che consentono la sopravvivenza di un'umanità ormai fatta di circa sette miliardi di persone. Ma sembra difficile poterlo istituire con accordi internazionali come quelli di Vestfalia del 1648, perché   gli stati nazionali si sono molto indeboliti, perdendo il controllo della situazione, divenendo soggetti all’economia globalizzata della quale essi stessi hanno creato i presupposti giuridici, e anche le istituzioni sovranazionali, animate dagli stessi stati nazionali, sono entrate in crisi, perché, di fronte alle difficoltà, ogni sistema politico è ora tentato di fare da sé, chiudendosi  di fronte a problemi che sembrano provenire da fuori.

 Gli stati nazionali si sono indeboliti perché l’economia è stata resaextraterritoriale   e sfugge al loro controllo, così come anche la classe di imprenditori e dirigenti apicali d’impresa che la anima. Questo ha comportato dei vantaggi per le popolazioni: in Occidente ad esempio compriamo ancora a poco prezzo prodotti di uso comune, ma di alta qualità, realizzati in Oriente. In Oriente una classe di imprenditori si sta molto arricchendo con i profitti fatti in Occidente. Ne è immagine evidente il velocissimo  sviluppo urbanistico della Cina continentale, le cui maggiori città industriali e la cui capitale assomigliano sempre più al modello della città statunitense di New York. La gran parte degli oggetti domestici di uso comune sono fatti in Cina, o comunque in Oriente, anche il computer che sto utilizzando in questo momento. Però i  prodotti a tecnologia più sofisticata sono spesso ancora prodotti su progetto di imprese occidentali. La protezione dei diritti di chi progetta i prodotti, che viene definita proprietà intellettuale, è parte di quel sistema normativo globale che consente la realtà economica dellaglobalizzazione, in cui si può liberamente produrre e commerciare in tutto il mondo come se si fosse sempre all'interno di un unico sistema politico, di un solo stato. Che cosa consente agli Occidentali di prevalere ancora nel mercato globale  se, in definitiva, la gran parte di ciò che si produce è realizzata in Oriente? Che cosa diamo in cambio? Fondamentalmente l’Occidente vende ancora sé medesimo, il proprio modello di umanità, la propria civiltà anche se prevalentemente nei suoi aspetti consumistici. Quando uno diventa molto ricco in Oriente tende ancora a vivere, vestirsi, mangiare, divertirsi, acquistare cose belle, istruirsi come i ricchi occidentali. Durerà? Per Bauman siamo in una fase di transizione, quindi non durerà.

  E’ difficile scorgere il futuro, la sua evoluzione. Nel mondo ci sono tre grandi sistemi nazionali  prevalenti: quello statunitense, ancora democratico; quello russo, che ha elementi di democrazia e di totalitarismo; quello cinese che è ancora totalitario. Apparentemente essi stanno convergendo verso un modello che combina elementi di democrazia e di totalitarismo, come nella Russia di oggi.  Sono diventati molto critici verso le istituzioni sovranazionali che finora hanno garantito la pace mondiale. In particolare lo è stato il presidente statunitense eletto Donald Trump. Nei giorni scorsi egli si è reso protagonista di una vera e propria aggressione verbale all’Unione Europea, sostanzialmente invitando gli stati suoi membri a lasciarla seguendo l’esempio britannico. Come fu scritto nel Manifesto di Ventotene, osservando la situazione della politica internazionale degli anni ’30 e ’40, gli stati  tendono ad imitarsi fra loro, quando si tratta disopravvivere e, in particolare, ad imitarsi in ciò che li sembra rendere più potenti. La Cina e il Giappone ne sono stati un esempio evidente: si sono occidentalizzati quando l'Occidente ha avuto il dominio del mondo. Dal secondo dopoguerra, quindi dalla caduta del fascismo e dall’istituzione della Repubblica, l’Italia fa riferimento all’ordine politico intercontinentale centrato sugli  Stati Uniti d’America e realizzato dalla NATO, l’organizzazione politico-militare che lega nord americani ed europei a scopi difensivi. Bisogna attendersi quindi che l’ideologia del presidente eletto Trump trovi seguaci anche da noi. Essa è condensata nello slogan “America first!”, vale a dire che prima di tutto vengono gli interessi nazionali. Il presidente eletto Trump vuole ad esempio rafforzare la frontiera con il Messico, costruendo una grande muraglia per impedire l’immigrazione da quello stato, e propone agli europei di fare altrettanto. La sua quindi è apparentemente una ideologia di chiusura  ai problemi del mondo. Essa è stata già seguita dai britannici. Per l’Italia ci sarebbero difficoltà a farlo, perché il nostro territorio  è fatto di isole e da una penisola e quindi la gran parte delle nostre frontiere sono marittime. Non si costruiscono muri sul mare. Ma storicamente, come ho scritto l’altro giorno, nessun sistema politico, anche quello che si è barricato dietro a  muraglie, e l'antica Cina con la sua Grande muraglia  ne è l'esempio storico più impressionante, è riuscito a impedire immigrazioni di apolidi. Neanche gli Stati Uniti d’America ci riusciranno, per quanto potenti pensino di essere. L’ideologia di chiusura  serve sostanzialmente a dare un’immagine  di sicurezza all’interno per consentire agli stati nazionali di recuperare un po’ del controllo sulle loro popolazioni che hanno perso nell’era della globalizzazione. Ma è solo un’immagine, perché la nostra sopravvivenza dipende ormai dalla fitta rete di relazioni, innanzi tutto economiche ma anche culturali, che legano i popoli della terra, per cui la soluzione dei nostri problemi o sarà globale  o non avrà alcuna efficacia, per cui si rimarrà soggetti a quel potere impersonale  di cui dicevo, che appare dominato dalla spietata legge della natura, dove il più grosso mangia  il più piccolo e i più grossi lottano tra loro a rischio della vita.

 Il punto, sosteneva Bauman, è che una soluzione soddisfacente a livello globale non si può centrare sull’aumento indefinito del PIL (Prodotto interno lordo), vale a dire della ricchezza prodotta e dei conseguenti consumi, perché questo  è insostenibile dal punto di vista ambientale. Questo significa che sarà necessario scoprire un nuovomodello di sviluppo e quindi poi una nuova civiltà, in cui si dia di nuovo valore a ciò che veramente crea il benessere umano, vale a dire a cose come rapporti umani positivi di vicinatola soddisfazione di far bene il proprio lavoro, e, aggiungo io, molto di ciò che comprendiamo nelle cose della fede. Non si tratta quindi di consumare di più, di avere di più, ma di essere diversi. L’alternativa è la ripresa dei conflitti a livello globale, un  nuovo bagno di sangue come quello che ci fu tra il 1914 e il 1945. E’ questo che porterà, se non corretta con decisione, la ripresa delle politiche di stato nazionale con accentuazione totalitaria, per reprimere il dissenso interno. Di questa insofferenza verso il dissenso cominciamo a notare qualche segno nello stile di questi giorni del presidente eletto statunitense Trump, con il fastidio che egli ha mostrato verso i giornalisti di organi di stampa che sono stati critici nei suoi confronti.

 Questa soluzione di un diverso modello di sviluppo, come base di un nuovo ordine mondiale pacifico, e di diversi stili di vita  per attuare quel modello  è al centro dell’enciclica Laudato si’, diffusa lo scorso anno dal Papa, che in parrocchia dovremmo adottare come libro di testo  di un gruppo di formazione religiosa di terzo livello, per giovani adulti che vogliano rispondere a pieno all'impegno laicale che si richiede oggi in religione, per cambiare il mondo secondo i valori di fede con un impegno sociale e politico.

 

19. L’evoluzione della storia animata da formazioni sociali

 

[dal Manifesto di Ventotene,  scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico […]

2.Si è affermato l'uguale diritto per i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere, o almeno di attenuare, molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dai regimi passati. Ma la libertà di stampa e di associazione e la progressiva estensione del suffragio rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo. I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi istrumenti per dare l'assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte speciali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle maggiori fortune, le esenzioni dei redditi minimi, e dei beni di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l'aumento delle spese di assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate cittadelle.

  Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all'uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell'uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari.

  D'altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un'unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro.
Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l'intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio,
e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.
  Di fatto poi i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei dissenzienti, ogni possibilità legale di correzione dello stato di cose vigente. Si è così assicurata l'esistenza del ceto
assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori, dei plutocrati, che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici, per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l'apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali
. Sono conservate le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse dalle possibilità di godere i frutti delle moderna cultura. E' salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in
grado di pagare i prezzi più alti
; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità d'impiego.

 Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e ad esso solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari. 

 

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  Uno dei principali scogli da affrontare e superare nell’affrontare i problemi dell’umanità contemporanea con animo religioso, per fare nelle società il lavoro che ci si aspetta dai laici, è quello del considerare il mondo che c’è intorno prevalentemente sotto il profilo degli individui che lo compongono, non dei gruppi. Questo ostacola la critica sociale che è al fondo di ogni riforma. La troviamo, ad esempio, molto forte nell’enciclica Laudato si’, diffusa lo scorso anno; più forte di come mai è stata prima. E lo è per una sua particolarità che la distingue da tutti gli altri documenti del genere che sono stati diffusi in passato: di fronte ad una società che non va bene, illumina movimenti che vi si oppongono; questo il senso delle numerose citazioni di documenti di conferenze di vescovi di tutto il mondo. E si propone di suscitare un moto popolare  che sostenga un cambiamento radicale, un nuovo modello di sviluppo.

 

[dall’enciclica Laudato si’, del 2015, n.13 e 14 “Il mio appello”]

La sfida urgente di proteggere  la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di ogni sviluppo sostenibile e integrale, perché sappiamo che le cose possono cambiare. […] L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune […] Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti. Il movimento ecologico mondiale ha già percorso un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a  numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza.

 

  L’ecologia  di cui si tratta nell’enciclica menzionata è molto distante dal senso che le si attribuisce nella società intorno a noi, come un’azione per preservare gli ambienti naturali  dall’azione distruttrice e inquinatrice delle attività umani, in particolare dell’espansione urbanistica e dell’industrializzazione. Essa comprende infatti anche la stessa umanità e, proponendosi un’ecologia umana, quindi uno sviluppo sostenibile, essa è essenzialmente politica, e i movimenti a cui si accenna in quel documento sono politici. Se leggiamo con attenzione la Laudato si’  vi cogliamo l’eco della critica sociale che troviamo anche nel Manifesto di Ventotene,  anche se espressa con terminologia inusuale nel gergo politico consueto.

 

[Dall’enciclica Laudato si’, n.139]

Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura  come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati. Le ragioni per le quali un luogo viene inquinato richiedono  un’analisi del funzionamento della società, delle sua economia, del suo comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà. Data l’ampiezza dei cambiamenti, non è più possibile trovare una risposta specifica e indipendente per ogni singola parte del problema. E’ fondamentale cercare soluzioni integrali che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura.

 

 Il Manifesto di Ventotene  e la Laudato si’  presentano significative assonanze, che le manifestano come parte di un unico movimento di critica sociale.

 Segnalo ad esempio:

 

[dall’enciclica Laudato si’]

203. Dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico.

[dal Manifesto di Ventotene,  nel brano sopra citato]

E' salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti.

 

  La politicità  del magistero sociale del Papa è ciò che lo rende veramente capace di indurre il cambiamento che serve per fronteggiare i problemi dell’umanità contemporanea, non limitandosi all’appello moralistico  ai governanti  che si ritrova nella gran parte della letteratura del genere, ma sollecitando all’aggregazione sociale  per cambiare le cose. Questo poi comporta che l’azione per il cambiamento sia realisticamente concepita anche come lotta  tra formazioni sociali.

55. A poco a poco alcuni Paesi possono mostrare progressi importanti, lo sviluppo di controlli più efficienti e una lotta più sincera contro la corruzione

59. […] Se guardiamo in modo superficiale, al di là di alcuni segni visibili di inquinamento e di degrado, sembra che le cose non siano tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse.

91. Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani. È evidente l’incoerenza di chi lotta contro il traffico di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto indifferente davanti alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri, o è determinato a distruggere un altro essere umano che non gli è gradito. Ciò mette a rischio il senso della lotta per l’ambiente. 

207. La Carta della Terra [Carta della Terra, L’Aja (29 giugno 2000)] ci chiamava tutti a lasciarci alle spalle una fase di autodistruzione e a cominciare di nuovo, ma non abbiamo ancora sviluppato una coscienza universale che lo renda possibile. Per questo oso proporre nuovamente quella preziosa sfida: «Come mai prima d’ora nella storia, il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio […]. Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa celebrazione della vita».

Nei Paesi che dovrebbero produrre i maggiori cambiamenti di abitudini di consumo, i giovani hanno una nuova sensibilità ecologica e uno spirito generoso, e alcuni di loro lottano in modo ammirevole per la difesa dell’ambiente, ma sono cresciuti in un contesto di altissimo consumo e di benessere che rende difficile la maturazione di altre abitudini. Per questo ci troviamo davanti ad una sfida educativa.

209. […]

Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.

 

 La politicità del magistero sociale del Papa  è ciò che fa di Jorge  Mario Bergoglio uno dei papi più diffamati dai suoi stessi fedeli: un fenomeno impressionante e non solo sul WEB dove i discorsi in libertà sono la normalità. Tra i primi e violenti critici del suo pensiero vi sono stati settori importanti della politica e dell’economia statunitense, quelli stessi che hanno appoggiato l’ascesa politica del nuovo presidente statunitense Donald Trump. E, in effetti, gli Stati Uniti d’America, insieme alle potenze economiche asiatiche, in particolare la Cina continentale, il Giappone e la Corea del Sud sono al centro del modello di sviluppo criticato nella Laudato si’. Data l’organizzazione globale, vale a dire in un sistema di relazioni che lega tutto il mondo, dell’economia contemporanea, la critica sociale del magistero sociale del Papa riguarda anche quei potenti sistemi politico-economici. E vediamo anche che le opinioni politiche del nuovo presidente statunitense sono particolarmente critiche verso il processo di unificazione europea e, in particolare, verso le nuove istituzioni europee dell’Unione Europea, di cui Trump, in dichiarazioni di qualche giorno fa, ha sostanzialmente auspicato la dissoluzione.

  Spesso l’idea di pace  e di pacificazione  che la dottrina sociale ha manifestato è apparsa con un senso di compromesso  in cui, per amore di pace, le masse di chi stava peggio erano invitate ad accettare serenamente la loro condizione e ad accettare i miglioramenti che le classi dominanti, una minoranza,  erano disposte a elargire, a patto di non toccare la loro posizione di egemonia sociali. Quindi: maggioranze che dovevano sottomettersi a minoranze, l’opposto dei processi democratici.

 

[dall’enciclica Le novità,  del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone 13°]

 

1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso

14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell'oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.  

[…]

16. Innanzi tutto, l'insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all'operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l'opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. 

 Ma la storia insegna che ogni conquista sociale dell’umanità, in particolare ogni progresso verso l’estensione del benessere verso le masse che stanno peggio, non si è raggiunta se non a seguito di una lotta sociale, vale a dire su uno  scontro politico tra gruppi sociali, che in democrazia si fa in modo non violento, ma si fa e si deve fare, pena non progredire o addirittura regredire.

  La politica, l’azione per il governo e la trasformazione della società, ha anche un valore religioso, insegna oggi la dottrina sociale ed è dovere anche religioso del laico di fede impegnarsi nell’azione politica. Ma nella formazione religiosa la politica in genere non c’è. Da quando bisognerebbe cominciare? Da molto presto, fin dal primo catechismo, da quando la persona comincia a vivere in società e comincia a soffrirne o a ricavarne vantaggi. E’ un’esperienza che si fa fin da piccoli e gli psicologi dell’infanzia ci raccontano delle tremende sofferenze che si possono vivere nelle società dei bambini, che a volte ci appaiono sfacciatamente crudeli: è un’esperienza che, del resto, tutti fanno, da vittime o da persecutori o da semplici spettatori. Ma il discorso andrebbe molto approfondito con il maturare della persona e soprattutto con le acquisizioni culturali scolastiche, che mettono in grado di capire discorsi più complessi su come vanno le cose del mondo e soprattutto creano una consapevolezza storica. In un movimento democratico  per la riforma della società, tutti sono  riformatori e la critica sociale che è al fondo di ogni progetto di riforma parte dall’osservazione della società e dalla consapevolezza della sua storia. Lo fa anche Bergoglio, all’inizio della Laudato sì, nel capitolo che appunto si intitola Quello che sta accadendo alla nostra casa. Si tratta di un’attività di formazione che non sempre rientra nella capacità dei preti, perché non sempre rientra nella loro stessa formazione. E questo nonostante che nella storia recente delle nostre collettività religiose ci sono stati preti maestri in questo campo e cito ad esempio Romolo Murri, Luigi Sturzo, Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Gianni Baget Bozzo e molti altri: preti con un forte impegno civile che li spingeva alla politica. Un tempo questo era considerato sconveniente e addirittura osteggiato e punito. Tutti i preti che ho sopra citato hanno infatti avuto problemi disciplinari. Ai tempi di papa Francesco la situazione è diversa. Bisognerebbe cogliere l’occasione, ma serve innanzi tutto un più forte impegno laicale, perché la politica è uno dei campi privilegiati dell’azione laicale. E, per cominciare, occorrerebbe programmare occasioni sistematiche di incontro. L’ideale sarebbe farle in un locale con molti libri e una connessione internet, che sono finestre sul mondo e sulla storia. Non si cambia il mondo da incolti.

 

 

20. Francesco e il trumpismo

 

Dal Messaggio per la 50° Giornata mondiale per la pace 2017 di papa Francesco

 

  Nelle situazioni di conflitto facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.

 Il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «E’ finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».

 Desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace.

 Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.

Un mondo frantumato

Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa. In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli.

 La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato.

 Come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. [La nonviolenza] «non consiste nell’arrendersi al male[…] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».

Più potente della violenza

4. La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così.

La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.

Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».Questo percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie interne ed alla guerra in quelle internazionali».

La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.

Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita». Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».La violenza è una profanazione del nome di Dio.  Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!»

 Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia.

 Un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero.In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambi

 invito

6. La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto.

 La Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura». Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero.

Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune.

 

 

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 Papa Francesco richiamando l’idea di nonviolenza  (scritta tutta attaccata o con il trattino di congiunzione,  non-violenza) ha evocato espressamente il messaggio politico del leader indiano  Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1945), liberatore dell’India dal dominio europeo, che nel Messaggio  per la giornata della pace 2017  è menzionato espressamente.

 In ambito cattolico di Gandhi spesso si fa una specie di santino: egli fu, in realtà, un agitatore politico, un rivoluzionario. Non fuggiva i conflitti, ma vi si cacciava dentro, li affrontava. Egli combatteva e incitava a combattere mediante la nonviolenza, che in primo luogo si attuava nella pervicace disobbedienza di massa alle leggi ingiuste sopportando la reazione violenta del potere senza opporre altra violenza, in secondo luogo nella non-menzogna, l’impegno a non esercitare un dominio ingiusto mentendo alla gente e, infine, con un diverso stile di vita da consumatori, quindi da attori del mercato, in particolare del mercato globale della sua epoca, rifiutando di acquistare prodotti che avessero dentro ingiustizia e sofferenza umana. Questo suo impegno lo portò ripetutamente in carcere.

  Era un agitatore sociale, un rivoluzionario, anche Martin Luther King, anch’egli evocato nel Messaggio. Anche King finì ripetutamente in carcere.

  In linea con l’appello fortissimo all’azione politica di massa contenuto nell’enciclica Laudato si’  Francesco - Bergoglio guida la Chiesa a porsi di traverso, in una posizione fortemente conflittuale, con l’ideologia globale dell’ingiustizia sociale, fondando  a tal fine anche un nuovo ministero nella sua Curia.

 Nel solco della lezione gandhiana ci spinge a organizzarci in movimento contro la cultura dell’egoismo nazionalistico, dello scarto dei perdenti e dello spreco senza curarsi delle conseguenze sull’ambiente naturale: in una parola, contro il trumpismo, l’ideologia politica manifestata in campagna elettorale da nuovo presidente statunitense. Nella linea del gandhismo Francesco ci incita a non arrenderci al male, a rifiutare atteggiamento di passività e di resa, a non rifiutare il conflitto, ma a combattere in modo nonviolento per impedire la degenerazione del mondo.

  Si tratta di un impegno tutto da costruire, perché la pesante eredità culturale del compromesso con il fascismo storico italiano, con la conseguente pervasiva integrazione tra religione e ideologia mussoliniana, ha portato storicamente le collettività di fede italiane in altra direzione, verso una visione  corporativa  della risoluzione dei conflitti sociali, in cui, fatalmente, le masse di chi sta peggio soccombono alle pretese di dominio delle oligarchie che controllano l’economia e quindi la società e la politica.

  Il conflitto con il trumpismo  si prospetta tremendo, tragico, ma inevitabile, in una visione religiosa dei fatti sociali che prende come riferimento le  Beatitudini,  perché, sorretto da quella che è ancora la maggiore potenza militare del mondo, colpirà duramente le masse dei popoli che hanno avuto la peggio nel nuovo ordine economico globalizzato del quale gli Stati Uniti d’America e le potenze economiche dell’Asia sono stati protagonisti, ma secondo una cultura marcatamente statunitense. Significherà anche mettersi di traverso rispetto ai processi bellici che si intuiscono dietro i risorgenti nazionalismi. E difendere l’umanesimo europeista dall’assalto populista che vuole dissolvere la nostra nuova Europa, attualmente ancora la più grande potenza politica di pace del mondo. “Bisogna pregare”, ha detto un politico italiano a chi gli chiedeva come vedesse il futuro del mondo nell’era del trumpismo, ma l’appello di Francesco chiede molto di più di questo.  E’ una nuova cultura politica che si tratta di costruire.

 

 

 

21. Critica e autocritica sociale, dialogo

 

[Dal Manifesto di Ventotene,  scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

3.Contro il dogmatismo autoritario si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito doveva dare ragione di sé o scomparire. Alla metodicità di questo spregiudicato atteggiamento sono dovute le maggiori conquiste della nostra società in ogni campo.

  Ma questa libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede o da accettare ipocritamente, si stanno accampando in tutte le scienze. Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l'assurdità, si esige dai fisiologi di credere di mostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l'imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l'odio e l'orgoglio. I più evidenti concetti della scienza economica debbono essere considerati anatema per presentare la politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferravecchi del mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nostri tempi. A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo; ma si è creata la pseudo scienza della geopolitica che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dare veste teorica alla volontà di sopraffazione dell'imperialismo. La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell'interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse. Le tenebre dell'oscurantismo di nuovo minacciano di soffocare lo spirito umano.

 La stessa etica sociale della libertà e dell'uguaglianza è scalzata. Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato che stabilisce quali debbono essere i loro fini, e come volontà dello stato viene senz'altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di diritto, ma gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere alle gerarchie superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato. Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri. 

  Questa reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, della stupidità altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei - primo fra i quali l'Italia - alleandosi col Giappone che persegue fini identici in Asia essa si è lanciata nell'opera di sopraffazione.

   La sua vittoria significherebbe il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa.

  La tradizionale arroganza e intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un'idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi vittoriosi potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell'umanità in Spartiati ed Iloti [nell’antica città greca di Sparta, erano schiavi di proprietà dello stato].

  Anche una soluzione di compromesso tra le parti ora in lotta significherebbe un ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero sfuggiti alla stretta della Germania sarebbero costretti ad accettare le sue stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla ripresa della guerra.

   Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto si che i Tedeschi siano andati a cozzare contro la strenua resistenza dell'esercito sovietico, ed ha dato tempo all'America di avviare la mobilitazione delle sue sterminate forze produttive. E questa lotta contro l'imperialismo tedesco si è strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro l'imperialismo giapponese.

 

 

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  I processi democratici, che cercano di realizzare la compartecipazione alle decisione di governo delle masse, richiedono capacità critica e di autocritica, vale a dire di rendersi conto del corso degli eventi storici, delle cause dei mali sociali e della propria corresponsabilità nel provocarli. A questo appunto serve il dialogo, che non va inteso solo come un parlare insieme, né solo come un parlare  e ascoltare (che è già di più), ma come uno sforzo per  capire le ragioni degli altri  cercando di costruire relazioni.  Questo metodo è richiamato nel Messaggio per la 50° Giornata della pace  diffuso nel dicembre scorso da papa Francesco, citando un brano della sua esortazione apostolica La gioia del Vangelo, del 2013:

227. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).  Non vi è vero dialogo  se non c’è questo spirito di voler tentare di creare anelli di collegamento  tra gli esseri umani, come singoli e nei gruppi che danno senso alla loro vita, quelli che un filone della sociologica definisce  mondi vitali.

 Ma su che cosa dialogare  innanzitutto? Per un laico di fede si dovrebbe sempre partire da come va il mondo intorno, a partire dalle realtà più prossime, nelle quali si è immersi appena sceso l’ultimo gradino del sagrato. E  bisognerebbe cominciare con il tentare di capirle bene: questo riesce meglio nel dialogo, perché si tiene conto di diversi punti di vista, che fanno superare le limitazioni individuali. Lo ha spiegato la filosofa Hanna Arendt (1906-1975):

  [da: Hannah Arendt, Che cos’è la politica, Einaudi, 2006]

Nessuno senza compagni può comprendere adeguatamente nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così come è realmente si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diventa comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive. Solo nella libertà di dialogare il mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni lato”.

  Se si procede in questo modo, dal piccolo al grande, dal proprio condominio al proprio quartiere, da quest’ultimo alla città e poi alla nazione, al continente, al mondo, ci si accorge facilmente di ciò di cui scrissero molto tempo fa, nel 1941, in piena Seconda guerra mondiale, dall’isola di Ventotene dove erano  confinati, costretti a rimanervi con moltissime limitazioni alla possibilità di relazioni con la poca gente intorno, Spinelli, Rossi e Colorni: A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo”.  E’ anche ciò che ha scritto anche il nostro vescovo e padre universale nell’enciclica Laudato si’.  Se globali sono i problemi, e lo sono perché la sopravvivenza dell’umanità, oggi molto più che negli anni ’40 del secolo scorso, dipende da relazioni a livello mondiale, anche le soluzioni devono essere globali. Ma è ciò che i risorgenti nazionalismi europei, come anche il neo-nazionalismo  statunitense (una cultura che così come appare nel pensiero politico del nuovo presidente statunitense non c’è mai stata nella storia degli Stati Uniti d’America), vogliono dimenticare, pensando, illudendosi, come già i fascismi europei degli anni tra le due Guerre mondiali, che la soluzione sia chiudersi  nei propri spazi vitali, lasciando fuori il resto del mondo con i suoi problemi.

  Nel Manifesto di Ventotene, così come nell’enciclica Laudato si’, c’era anche l’autocritica sociale. L’Italia fu maestra e parte attiva dei totalitarismi  fascisti che trasformarono l’Europa Centro-Occidentale in una prigione, fino alla loro tragica caduta, nel 1945. In questo quadro si produsse quella profonda contaminazione tra cultura religiosa e cultura fascista che ancora oggi si avverte distintamente tra noi, come una sorta di rumore di fondo: essa è all’origine della profonda avversione verso Jorge Mario Bergoglio e il suo pensiero sociale, la sua dottrina sociale, di ampi settori delle nostre collettività di fede, così come di un’analoga avversione dei medesi ambienti verso la cultura europeista e le istituzioni della nostra nuova Europa unita.

 Lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine”, si legge nel Manifesto di Ventotene.  Perché  “stupido”? Perché non  riesce, o peggio non vuole, vedere ciò che è evidente, vale a dire che è tutta una civiltà basata su un’organizzazione dello sviluppo economico concepito secondo la legge della giungla, secondo cui i più forti ammazzano i più deboli, che, entrando in crisi, ci peggiora l’esistenza di sulla soglia di casa e anche dentro.

 Il dialogo per capire la realtà come veramente è dovrebbe essere di casa nelle parrocchie, in particolare nella formazione dei laici di fede. Ma in genere non si riesce a praticarlo e, soprattutto, a insegnarlo. Così la nostra gente, anche i più giovani, ha un’idea troppo vaga e imprecisa della realtà. Non viene abituata a capirla per incidervi con un’efficace azione sociale. Ci si limita ad un po’ di storia sacra, ma prevalentemente a fini apologetici, per farci sentire i migliori di tutti,  per diritto divino  per così dire, senza verificare questa convinzione. E’ quello che si è fatto, per la generalità delle persone religiose,  per la gran parte della storia delle nostre collettività di fede: è a partire dalla metà del secolo scorso che si è prodotto, anche tra noi, la convinzione che bisognasse cambiare, ciò che però si è affermato ufficialmente, con decisione d’autorità, solo negli scorsi anni ’60, durante il Concilio Vaticano 2°.

 Per capire la realtà come veramente è non basta chiacchierarci sopra sulla base delle proprie estemporanee espressioni, e non bastano nemmeno solo i quotidiani, anche se tenendone conto si è già un bel pezzo avanti, servono libri, dove troviamo un pensiero sistematico, concentrato, potente. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse.”,  scrissero gli autori del Manifesto di Ventotene, e si riferivano ai roghi di libri accaduti nella Germania nazista, ma anche in Italia nel corso degli assalti alle sedi dei giornali, a quelle di partito, alle Case del popolo, e anche alle sedi della nostra Azione Cattolica, ma più in generale all’insofferenza dei totalitarismi fascisti (ma in generale di tutti  i totalitarismi) verso la potenza del pensiero che scaturisce dalle raccolte di libri. E penso alla nostra biblioteca parrocchiale che, nel nuovo corso inaugurato un anno e mezzo fa, non si è più trovata, e non se ne sono avute spiegazioni del perché, probabilmente sacrificata a bisogni ritenuti più urgenti e importanti.

 Perché un libro costituisce una base di partenza del dialogo, è qualcosa che, come scrisse la filosofa Hannah Arendt, insieme unisce e divide, ma che, in definitiva, dopo averlo condiviso, unisce. E’ così che si cominciano a creare  anelli di collegamento. Questa è anche un via verso la libertà,  e la nostra fede vorrebbe esserlo, perché pensa di essere fondata sulla verità  e che la verità ci renderà liberi. Amen.

 

22. Una nazione senza frontiere non è una nazione?

 

Una nazione senza frontiere non è una nazione”. L’ha affermato il presidente statunitense Donald Trump, stando a quello che hanno riportato  radio e televisione.

  Questa frase è estremamente efficace: condensa in pochissime parole tutto ciò che l’ideologia dell’europeismo, a partire dal Manifesto di Ventotene  del 1941, di Spinelli, Rossi e Colorni, ha voluto superare, per creare la pace sul nostro continente. In particolare l’idea di una nazione definita  da frontiere. E’ possibile che gli Stati Uniti d’America, il più antico sistema politico della democrazia moderna, non riescano più a definire sé stessi se non tracciando frontiere? Dimenticando completamente la cultura dei diritti umani fondamentali che è alla base della loro fondazione e che hanno insegnato a tutto il mondo? E tra questi il diritto  di essere liberi di cercare la felicità,  che sta scritto nellaDichiarazione di indipendenza statunitense del 1776.

 La nostra nuova Europa, quella delle 28 nazioni, con altrettante culture e lingue, un fantastico mosaico di umanità rispetto all’uniformità statunitense da costa a costa, più o meno due lingue, spagnolo e angloamericano, e tre culture, quelle della costa orientale, del centro (la Cintura della Bibbia) e della costa orientale, è stata costruita puntando all’abolizione delle frontiere, in gran parte effettivamente realizzata, come di quella, caldissima un tempo, tra l’Italia e l’Austria. Questo ha portato ad una lunga epoca di pace, mentre, negli stessi anni, gli Stati Uniti d’America sono stati impegnati in continue guerre in tutti i continenti: infatti hanno ancora la forza militare più potente della Terra, ritengono di averne ancora bisogno e addirittura di doverla aumentare.

 “Una nazione non è una nazione senza frontiere”? E’ un po’ come dire che il valore di un’orchestra sinfonica dipende dalla sala dove suona.

 Osservo infine che l’ideologia politica del nuovo presidente statunitense appare in rotta di collisione con la dottrina sociale diffusa da Jorge Mario Bergoglio, anche lui un americano, benché gli statunitensi quando parlano di americani si riferiscano solo a loro stessi. “America first”, “l’America prima di tutto”, significa per loro “Gli Stati Uniti prima di tutto”. Sembra una novità, ma è ciò che è sempre successo: la politica statunitense è sempre stata improntata a questo principio, e infatti gli Stati Uniti d’America sono ancora lo stato più ricco della Terra, e vogliono diventare sempre più ricchi. Non sono i popoli dell’Asia, per ora molto meno ricchi, ad aver  rubato  la ricchezza agliamericani, tanto è vero che negli Stati Uniti d’America ci sono alcune delle persone più ricche della Terra, come lo stesso presidente statunitense è. E’ la divisione delle ricchezze prodotte che, come anche in Europa, ha determinato ineguaglianze per cui nello stato più ricco della Terra c’è anche molta gente sulla soglia della povertà e anche molto sotto, e molta gente che a quella soglia si sta avvicinando. Questo in Europa è sentito come un ordine ingiusto, ma, sembra, non più negli Stati Uniti d’America.

 La veloce metamorfosi degli Stati Uniti d’America in un neo-stato nazionalista, come non sono stati mai nella loro storia avendo sempre accolto genti da tutto il mondo e avendo fondato proprio su questo la loro potenza, è potenzialmente tragica, perché riguarda la massima potenza militare del mondo.

 

23. Il risorgente nazionalismo mette in pericolo il mondo

 

si veda sul WEB http://www.treccani.it/enciclopedia/unione-europea/

 

[dal Manifesto di Ventotene,  scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rosse ed Eugenio Colorni]

 

  E quando, superando l'orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l'umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l'unità politica dell'intero globo.

La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l'unità internazionale. Con la propaganda e con l'azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d'ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l'autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.

 Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, perché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera e di fronte avranno partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell'ultimo ventennio. Poiché sarà l'ora di opere nuove, sarà anche l'ora di uomini nuovi, del movimento per l'Europa libera e unita!

 

Da: <https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/l-ordine-di-trump-uno-schiaffo-alla-solidarieta-internazionale>, sabato 28-1-17,  di Andrea Lavazza, “L’ordine di Trump uno schiaffo alla solidarietà nazionale

 

  L'ordine esecutivo con cui il presidente americano Donald Trump blocca l'ingresso ai cittadini mediorientali di 7 Paesi, ferma per 4 mesi il programma a favore dei rifugiati, riduce la quota di profughi accolti nell'anno in corso e chiude le frontiere a tempo indeterminato per i siriani appare come uno schiaffo alla solidarietà internazionale, alla libera circolazione delle persone e alle istanze universalistiche cui l'America ha dato un impulso con la sua storia recente.

[…]

 vi sarà un probabile seppure non auspicabile effetto traino. Se gli Stati Uniti si muovono in questa direzione, molti politici europei si sentiranno ancor più legittimati nel proporre politiche di chiusura verso profughi e migranti. Con un crescente favore dell'opinione pubblica. Il soft power americano che tanto influenza anche la nostra cultura sembra aver imboccato una strada nuova e rischiosa. Sarà compito importante riflettere e dibattere su questi sviluppi, figli in taluni casi anche di una sottovalutazione della portata del fenomeno migratorio e delle sue conseguenze.

 

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  Due delle quattro maggiori potenze economiche e militari del mondo, gli Stati Uniti d’America e la Federazione russa, stanno seguendo politiche neo-nazionaliste. Sono entrambe in fase militare espansiva, ma con motivazioni molto diverse da quelle dei vecchi imperi nazionali: nella concezione dei loro capi politici egemoni si tratterebbe di strategie di difesa nazionale. Queste le rende molto pericolose, perché,  se si pensa di doversi difendere si è pronti a tutto. Negli Stati Uniti d’America il potere federale è caduto nelle mani di un uomo molto ricco, la cui figura ha diverse somiglianze con quelle degli oligarchi russi, che cercarono di controllare l’economia e la politica russa negli anni seguiti alla dissoluzione del regime sovietico; la Federazione russa è dominata da un ex militare della polizia politica sovietica che ha prevalso duramente su quegli oligarchi. Il primo segue un neo-nazionalismo  di tipo sostanzialmente economico, il secondo un nazionalismo di tipo più tradizionale, vicino a quello corrente nell’impero zarista, fortemente appoggiato dalla Chiesa ortodossa russa. Il leader americano, che non alcuna precedente esperienza di governo politico e, in particolare, in campo internazionale, si presenta come un uomo impulsivo, poco riflessivo e poco disposto a farsi consigliare. E’ solo un atteggiamento, una specie di proseguimento della campagna elettorale, o è veramente così? Il capo russo è l’esatto opposto, ha un’importante e lunga esperienza di governo, anche nelle relazioni internazionali, e ha una squadra di collaboratori che lo assiste da diversi anni, e ha una formazione militare, dura. E fatale che l’americano commetta prima o poi qualche grave errore e che il russo cerchi di approfittarne. I due si conoscono poco e questo aggrava la situazione. Il politico che al mondo sembra aver avuto le relazioni più intense con Putin è l’italiano Silvio Berlusconi. L’americano si è paragonato a Berlusconi, ma quest’ultimo ha espresso delle perplessità in merito: in effetti sono molto diversi. Ma, soprattutto, anche Berlusconi ha avuto una lunga storia politica e un’esperienza intensa di relazioni internazionali. Questo ha giovato all’Italia, qualche anno fa, quando il governo sembrava intenzionato a intervenire militarmente in Libia, e Berlusconi e Prodi, concordemente quella volta, lo sconsigliarono. E’ stato osservato che l’americano gira sempre con appresso i codici di avvio dell’apparato nucleare statunitense: egli è infatti il comandante in capo  della forza militare federale. Le decisioni che potrebbe prendere sono potenzialmente molto più gravi di quelle che il governo si trovò a decidere a quell’epoca. Nonostante che l’americano e il russo sembrino, ora, andare d’accordo, è possibile che sia solo questione di tempo, mesi, perché si generi una crisi grave come quella Ucraina, che, fra l’altro, non è neppure risolta. Ma il teatro di conflitto potenzialmente più grave sarà quello che corre in Asia, appena al largo della Repubblica popolare di Cina, e questo per le continue provocazioni dell’americano. Un conflitto in quella zona del mondo, benché agli antipodi dell’Italia, provocherebbe la fine del mondo come lo conosciamo: quasi tutto ciò che usiamo tutti i giorni viene prodotto laggiù. Anche la Cina sta diventando nazionalista, in un modo che ha qualche assonanza con il neo-nazionalismo statunitense: è infatti di tipo economico più che culturale.

 E’ l’Europa, la quarta grande attrice sulla scena globale?

 La federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione”,   si legge nel Manifesto di Ventotene, e questo, pensavano i sui autro, “in una visione di insieme di tutti i popoli che costituiscono l'umanità”. Perché? All’epoca gli autori del Manifesto  pensavano al declino degli imperi coloniali e alla necessità di ottenere, sulla base di intese europee, una sistemazione pacifica delle questioni delle ex colonie. Nella situazione storica contemporanea un’Europa unita molto estesa, a livello quasi continentali, animata a politiche di collaborazione internazionale al suo interno e quindi di esempio anche verso l’esterno, potrebbe essere ancora quel campo  di pacificazione tra le altre potenze politiche in rotta di collisione di cui si avrà sempre più necessità. Ma essa è minacciata dallo stesso morbo che sta colpendo le altre maggiori potenze mondiali. Ma mentre nel caso di queste ultime il neonazionalismo tende a compattarle,  in difesa, il medesimo moto politico tende a dissolvere l’Unione Europea, costituita di tante nazionalità nessuna delle quali viene accettata come egemone. Essa è sotto attacco da parte del neo-presidente statunitense, che sembra spingere gli stati membri dell’Unione Europea a distaccarsene, seguendo l’esempio della Gran Bretagna. Egli ha mostrato di disprezzare l’Organizzazione delle Nazioni Unite, sulla base di considerazioni piuttosto superficiali. Non si mostra particolarmente informato dei problemi europei. Né, a differenza di diversi suoi predecessori, anche della sua stessa fazione politica, molto preoccupato di preservare la pace mondiale. E’ possibile che del mondo sappia meno dei suoi predecessori e questo è un grave problema. L’ONU e l’Unione Europee nascono come potenza di pace e lo sono effettivamente diventate. Screditandole, il mantenimento della pace viene messo in forse. Nessuna potenza mondiale, nemmeno gli Stati Uniti d’America, ha la forza di imporre  la pace con la minaccia delle armi: essa può scaturire solo da un ordine internazionale condiviso. In un mondo retto da relazioni bilaterali, come immaginato dal neo-presidente statunitense, verrebbe a mancare la rete di protezione che finora ha impedito conflitti caldi  tra le maggiori potenze mondiali.

  Tre delle maggiori potenze  mondiali sono rette da leader nazionalisti e sono in fase espansiva, in rotta di collisione. E’ quello che serve per far esplodere un conflitto armato. L’unica grande potenza di pace, legata da intensi rapporti economici con Stati Uniti, Russia e Cina, rimane la nostra nuova Europa. Ma fino a quando?

 Il movimento europeista è in crisi, minacciato dai nazionalismi europei risorgenti, che  saranno influenzati e probabilmente rafforzati anche dal nuovo corso statunitense. Il soft power americano [la capacità di persuasione esercitata per attrazione] che tanto influenza anche la nostra cultura sembra aver imboccato una strada nuova e rischiosa.” ha scritto oggi Lavazza su Avvenire. Ma, contrariamente a quanto superficialmente gridato dai populismi antieuropeisti, la nostra nuova Europa non è fatta solo di burocrati, ma di popoli che da decenni si sono conosciuti molto meglio e soprattutto molto più frequentati. E’ certamente ancora possibile  quello che si proponevano gli autori del Manifesto di Ventotene, vale a dire gettare le fondamento di un nuovo movimento europeista  e stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando,  per contrastare la fatale evoluzione della storia mondiale verso il conflitto. E’ quello che sostanzialmente ha raccomandato il Papa, nel suo messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace. E un movimento simile, per aver l’intensità umana che occorre, deve iniziare dalle realtà più vicine alle persone, dalla famiglia, dal condominio, dal quartiere, per estendersi alla città e a territori sempre più vasti, collegando movimenti con movimenti, superando ogni frontiera che i neonazionalismi vogliono chiudere e murare, arrivando a tutto il mondo.

[Dal Messaggio per la 50° Giornata mondiale per la pace]

5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.  Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.

   Tante volte, nei miei sessant’anni di vita, mi è parso che l’ideologia politica che in concreto era espressa dalla nostra organizzazione religiosa non fosse all’altezza dei grandi valori di fede proclamati e insegnati. Per una volta la situazione è diversa.

“«La Santa Sede è preoccupata per il segnale che si dà al mondo» con la costruzione del muro tra Usa e Messico, voluto da Donald Trump per frenare le migrazioni. E si augura che gli altri Paesi, anche in Europa, «non seguano il suo esempio». Lo ha evidenziato al Sir [l’agenzia  di stampa Servizio di informazione religiosa]  il cardinale Peter Turkson, presidente del dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale. «Noi ci auguriamo che il muro non sia costruito ma conoscendo Trump forse si farà - ha affermato ancora Turkson -. Non sono solo gli Usa che vogliono costruire i muri contro i migranti, accade anche in Europa. Mi auguro che non seguano il suo esempio. Un presidente può anche costruire un muro ma può arrivare un altro presidente che l'abbatterà»”, leggo su Avvenire  di oggi.

  La nostra nuova Europa è veramente nata quando si iniziò a demolire la muraglia e il sistema di fortificazioni  erette tra le due parti in cui la Germania era stata divisa dopo la caduta del regime nazista e all’interno della città di Berlino, e intorno ad essa. Quell’evento storico, ce lo racconta la grande storia, fu prodotta dai popoli che fecero pressione sulle frontiere. Le barriere nazionali cominciarono a cadere a furor di popolo.  E ora dovremmo ricostruirle? Divisi, saremmo preda dei nazionalismi più potenti e non ci potremmo fare nulla. Essi poi ci condurrebbero al conflitto mondiale.

[Dall’Inno di Mameli, Fratelli d’Italia]

Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popoli,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l'ora suonò.

 L’Inno  fu fortemente influenzato dal pensiero di Giuseppe Mazzini (1805-1872) che aveva una visione  religiosa  del processo che doveva portare i popoli alla libertà dai despoti che all’epoca li dominavano, dalle  superpotenze dell’epoca. Il suo motto era infatti Dio e Popolo. Anch’egli sognò qualcosa come la nostra nuova Europa. Un’Europa unita di popoli liberi, in cui ad ogni persona fosse riconosciuta dignità umana. E’ una visione che finalmente siamo liberi di condividere anche in religione.

“Sarà compito importante riflettere e dibattere su questi sviluppi”, scrive Lavazza oggi su Avvenire. Riflettere  e dibattere  su questi temi non sono inutili perdite di tempo, in particolare nella vita parrocchiale non sono tempo sottratto alla preghiera, alla liturgia e alla formazione religiosa. Infatti ne va della pace, che è una finalità espressamente religiosa. Dalla riflessione e dal dibattito può scaturire la condivisione e poi un impegno collettivo, un movimento. Per creare un ambiente favorevole alla pace che renda inutile la costruzione dei muri.

 

24. La grande storia ci si sta per rovesciare addosso

 

[dal Manifesto di Ventotene - 1941 - di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

La caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l'avvento della "libertà" sarà scomparso ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione.

  Sarà il trionfo delle tendenze democraticheEsse hanno innumerevoli sfumature che vanno da un liberalismo molto conservatore, fino al socialismo e all'anarchiaCredono nella "generazione spontanea" degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla "storia" al "popolo" al "proletariato" o come altro chiamano il loro dio. Auspicano la fine delle dittature immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un'assemblea costituente eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto degli elettori, la quale decida che costituzione il popolo debba darsi. Se il popolo è immaturo se ne darà una cattiva, ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.

  I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sulla i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi.

 In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro.

  Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarrirti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare; perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse volontà regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.

  Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.

  Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l'intera organizzazione della società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi di come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla unilaterale dittatura delle loro classe, per realizzare l'utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro mali.Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.

 

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  In questi giorni la grande storia ci si sta rovesciando addosso, provenendo da oltre Oceano. Il mondo sta velocemente cambiando, ma non nel senso che in genere si auspicava. Risorgono i nazionalismi egoistici e i popoli sono spinti l’uno verso l’altro. Il contesto internazionale che costituiva l’ambiente considerato dalla dottrina sociale degli ultimi sessant’anni sta andando in pezzi. Non c’è più fiducia  in un ordine internazionale pacifico frutto di grande istituzioni sovranazionali, ma si pensa che sia meglio trincerarsi ognuno dietro frontiere sempre più impenetrabili e formare accordi limitati, tra stato e stato, contro tutti gli altri. In accordo bilaterale il più forte, il più grosso, ha la meglio mentre in una grande istituzione sovranazionale tutti i membri hanno pari dignità e viene perseguito il bene comune. Il mondo fatto di accordi bilaterali sarà regolato dalla legge delle giungla, in cui il più grosso mangia il più debole. La gente, mossa da passioni istintive, primordiali e inconsapevoli crede a chi le propone questo, pensando di guadagnarci. Ma a proporlo sono i più forti: ci rimetteranno i più deboli, la maggioranza, sia all'interno delle società sia nel contesto internazionale.  In questo contesto l’attuale nostra dottrina sociale appare come rivoluzionaria, mentre prima sembrava addirittura troppo prudente. Da essa si sono già separati importanti settori delle collettività statunitensi della nostra fede.

  Ci si diceva che occorreva prepararsi, studiare, dialogare, per affrontare qualcosa del genere, e ci accorgiamo che siamo rimasti indietro e che improvvisamente non c’è più tempo per farlo. La formazione di base è stata estremamente carente, in particolare per la comprensione degli eventi sociali. Ci siamo più o meno limitati a briciole di storia sacra e a inscenare giochi a tema a sfondo religioso, immaginando di vivere nel primo secolo della nostra era, estraniandoci da essa. Invitati a smontare frontiere e dogane, ci siamo adeguati, ma da fuori, guardando dentro, c’è più o meno quello che c’era prima. Cambiare, dopo tanti anni in cui si è andati in una certa direzione, è difficile. La gente, in particolare i più giovani, non viene tra noi perché non abbiamo quello che le serve. La fede e la religione appaiono inutili e, in un certo senso, lo sono realmente. Non ci si deve perdere d’animo, naturalmente. Ci sono tra noi persone che si spendono totalmente per cambiare, ma lo scenario è cambiato improvvisamente, troppo velocemente.

  Ciò che intuirono gli autori del Manifesto di Ventotene, che la scarsa formazione alla democrazia conduce alla svalutazione della democrazia, perché nelle masse prevalgono passioni tumultuose che le portano verso gli  “uomini forti”, o apparentemente  forti, fu ben chiaro fin dall’antichità. I leader populisti della nostra epoca sarebbero stati definiti  demagoghi dai pensatori dell’antica Grecia, semplici trascinatori  di popolo. La dottrina sociale li vorrebbe invece come formatori  e guide sapienti.

  Che fare, in questa situazione?

  Nel nostro piccolo mondo di quartiere occorre continuare l’opera iniziata, cercando di avvicinare di nuovo la gente agli spazi religiosi e migliorare l’attività di formazione e dialogo. In questo modo si possono costituire punti di resistenza e gettare i semi di un movimento  che abbia più capacità di incidere sulla società intorno. E’ ciò che si fece, nell’Azione Cattolica, verso la metà degli anni ’30 del secolo scorso, in un’altra epoca buia. All’epoca si aveva la diffidenza delle autorità religiose, oggi è molto diverso e questo aiuterà senz’altro. La dottrina sociale contemporanea, in particolare da ultimo con l’enciclica Laudato si’, dà un’idea realistica di ciò che accade e delle soluzioni a cui bisogna puntare. E invita a federarsi con tutte le altre persone di buona volontà, abbandonando ogni pretesa di autosufficienza religiosa, per creare un movimento che dalle realtà di prossimità, la famiglia, il condominio, il quartiere, la parrocchia, si estenda a livello globale. Ci invita a creare un movimento, come appunto, dopo aver scritto ilManifesto di Ventotene, fecero i suoi autori.

 

25. Religione tanto più coinvolgente quanto più inutile?

 

  Da adolescente, negli anni ’70, ho vissuto in un mondo in cui si pensava che la religione fosse in declino. Oggi sembra che lo sia solo in Europa. Ne hanno scritto i sociologi Peter Berger, Grace Davie ed Effie Fokas nel 2008, in un libro pubblicato in Italiano da Il Mulino,  con il titolo America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, €18,50.

  Il secolarismo è una cultura che spiega i fatti umani e della natura senza fare ricorso alla religione. Il principio della laicità dello stato, per cui le istituzioni pubbliche non devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni discriminazione su base religiosa, ne è un’applicazione. Esso garantisce la pace religiosa nel nostro continente. Storicamente la progressione culturale non è andata dal secolarismo al principio della laicità dello stato, e poi alla pace religiosa, ma si è sviluppata al contrario. Prima si è voluto ottenere la pace religiosa, e allora si è pensato di separare gli affari pubblici dalla religione e poi si è sviluppato il secolarismo, come estensione di questo metodo. Questa è stata una via originale, ed è per questo che le società europee presentano un marcato secolarismo, a differenza di quasi tutto il resto del mondo. Quando si è pensata di finirla di fare guerre sotto bandiere religiose, è sembrato che la religione divenisse progressivamente inutile. La si è continuata da usare per l'educazione morale, ma i suoi principi sempre più sono risultati arretrati e discriminatori, solo una ciliegina sulla torta nella formazione dei più ricchi e poco più che un anestetico per i meno ricchi; poi, da ultimo, la si è usata come medicina dell'anima, insieme ad altri rimedi, confinata nel privato  o in piccoli gruppi. In realtà i più grandi principi umanitari della nostra fede sono rimasti ancora come ideologia politica anche nella nostra nuova Europa (fondano la sua Carta dei diritti), ma laicizzati, per cui senza una formazione specifica non se ne riesce più a cogliere l'origine religiosa. Ma la politica, nella nostra organizzazione religiosa, fino a non molto tempo fa fu ritenuta sconveniente per la maggior parte del popolo: era riservata ai capi del nostro clero, i quali  ne hanno sempre fatta molta. Per loro la religione ha infatti ancora senso. E per gli altri?

 Negli ultimi sessant’anni ci siamo abituati ad associare la nostra religione, e la fede che la sorregge, con la pace. In realtà la nostra religione, come da più parti si è osservato, è stata storicamente ben poco pacifica. Alcuni hanno osservato che condivide questa caratteristica con le altre due religioni monoteistiche, che hanno in comune con la nostra fede un importante patrimonio culturale. Il politeismo è più pacifico del monoteismo? Una realistica consapevolezza storica smentisce questa tesi. Le società umane si sono sempre combattute, usando i loro dei come bandiere e immaginando che anch’essi si combattessero tra loro. Le storie sacre dei politeismi sono piene di queste guerre tra dei. Questa concezione, di dei troppo umani, cominciò a essere considerata insoddisfacente nell’antica Grecia, tra il Quinto e il  Quarto secolo dell’era antica. Nell’antica Grecia si svilupparono le filosofie che sono ancora alla base della cultura europea. L’idea che le società potessero essere organizzato secondo un ordine razionale che le rendesse stabili e pacifiche nasce da lì. Molti concetti che sono entrati nella nostra teologia monoteistica derivano da quelle filosofie. L’universalismo  umanitario della nostra fede deriva da lì, dall’incontro di un pensiero religioso sviluppatosi intorno alla Siria  con la cultura greca. Ora noi consideriamo Terra Santa  quella intorno a Gerusalemme, ma, attenendoci alla realtà storica, dovremmo cambiare opinione. La veraTerra Santa  della nostra fede è tra il lago di Tiberiade, nella Galilea delle genti dove iniziò la predicazione del Maestro,  Damasco e la città di Antiochia, che è ora è nella Turchia meridionale, al confine con la Siria, ma che anticamente era la capitale della provincia romana della Siria. In quella che viene considerata in genere la nostra Terra Santac’è invece poco o nulla della nostra religione delle origini. Il sospetto che certe memorie siano state contraffatte è fortissimo. Su tutto, antica Siria e Palestina, si è sovrapposta la cultura islamica, che ha trasformato, in particolare, l’urbanistica di Gerusalemme. Così, in realtà, la vera Terra Santa  della nostra fede è l’intero mondo in cui si è diffusa, e un posto come Roma sicuramente di più dell’attuale Gerusalemme.

  Il nostro monoteismo non ha avuto l’opportunità, quando si è imposto come ideologia dello stato romano, di imporsi come potenza culturale di pace e questo per tanti motivi. Il principale è che molto presto, l’antica cultura universalistica greco-romana che lo aveva profondamente conformato, determinando i principali suoi concetti teologici, è andata in pezzi insieme all’impero mediterraneo di cui aveva costituito l’anima. E questo anche se i popoli nuovi che, a partire del Terzo secolo, conquistarono con le armi l’Europa occidentale furono in qualche modo conquistati dalla sua cultura politica a sfondo religioso. Essi erano fascinati dall’immaginifica maestà della corte bizantina, che ancora si riflette nei riti della corte papale contemporanea. Ma l’unione politica continentale che era stata la culla della nostra fede religiosa non rinacque mai più, fino al secolo scorso, con la nostra nuova Europa. La politica fu saldamente connessa alla fede e ogni stato si propose come delegato della divinità, interprete del vero monoteismo. Ed anche il papa romano, nel secondo millennio della nostra era, iniziò ad agire politicamente come un capo di stato. I conflitti politici si connotarono religiosamente, pur rimanendo al fondo politici. La situazione si aggravò molto con gli scismi del Cinquecento, in Europa Occidentale. Da qui una serie continua di guerre, che finirono quando ci si accordò per farle finire, da questo derivò la nostra nuova Europa. Si decise di non fare più della religione una fonte di guerra. Da qui il principio della laicità degli stati e poi il secolarismo. A questo punto la religione sembrò divenire progressivamente inutile. Se ne poteva fare a meno e non succedeva nulla.

  Da una consapevolezza storica realistica emerge che, per quanto riguarda il problema della pace, non fu dannoso il monoteismo, ma l’appropriazione del monoteismo da parte degli stati, al modo in cui era avvenuto nell’antico impero bizantino. Gli stati vollero essere imperi universali cercando giustificazioni religiose al loro dominio e quindi, poiché nessuno di essi aveva la forza di imporsi su tutti gli altri, scaturirono continue guerre. Da ciò deriva che non bisogna pensare che la pace europea, fondata su principi di secolarismo, sia conseguita all’abbandono della fede religiosa, perché ciò avvenne piuttosto tardi, verso la metà del secolo scorso, mentre la pace religiosa europea risale a una serie di trattati conclusi nella provincia tedesca della Vestfalia nel Seicento. Certo, fu importante decidere di non fare più delle questioni religione un motivo di guerra, ma all’origine della pace fu la rinuncia all’idea di dominare l’Europa al modo in cui l’aveva dominata l’antico impero romano dopo aver sostituito la nostra fede monoteistica come ideologia politica dello stato al politeismo. Questo fu l’accordo. Tutte le volte che si attenuò, ripresero le guerre europee. Rispetto ad esse la nostra fede, a fronte di un ambiente secolarizzato dal principio di laicità degli stati, rimase neutrale. Solo nel secolo scorso nelle nostre collettività religiose si sviluppò faticosamente una cultura di pace. Ai tempi nostri la religione non è più neutrale di fronte al problema della guerra. Essendo ormai esterna  agli stati, fa loro la morale, cerca di condurli sulle vie della pace. Ma questo movimento coinvolge poco i fedeli. In Europa cercano dalla religione più il benessere psicologico, quella che viene definita pace spirituale, che un ammaestramento di pace. E sono endemiche concezioni magiche risalenti culturalmente agli antichi politeismi. Gli eventi straordinari, la spettacolarizzazione di pretesi eventi prodigiosi, coinvolge ancora le masse. Ma, tanto più la religione diviene questo, tanto più diviene inutile, in particolare per i più giovani, che devono farsi spazio nel mondo e non sentono il bisogno di rimedi consolatori. Fare spazio nel mondo a gente nuova, tutta quella che la natura produce in gran numero (siamo ormai circa sette miliardi) richiede di ragionare di politica e di farlo anche in termini religiosi, ponendosi alcuni punti fermi, come quello dell'uguale dignità delle persona e del diritto di tutti alla  vita e alla ricerca della felicità. Altrimenti il mondo esploderà, se si pretende di governarlo con la legge della giungla, secondo l'ideologia corrente del grande capitalismo globale.  Si osserva però che il monoteismo non può riprendere a fare politica perché la sua politica storicamente non ha prodotto la pace. Questa è la principale obiezione rivolta storicamente anche alla dottrina sociale. Come unire religiosamente un’umanità in cui devono convivere molte grandi religioni, che in genere si manifestano intolleranti le une contro le altre? E’ possibile sviluppando una nuova cultura religiosa, secondo quanto, ad esempio, è indicato nell’enciclica Laudato si’.  Occorre, in particolare, prendere atto che dalla nostra fede sono scaturiti i grandi principi sui quali si fonda oggi l’integrazione europea, in un grande processo di pacificazione continentale. Far capire come sia successo che, pur abbandonando l’idea di religione di stato, la fede delle Beatitudini costituisca in fondo, ancora, la base culturale della nostra nuova Europa, e che quindi il processo di secolarizzazione europea non sia sfociato in realtà in un’apostasia, come superficiali critici ritengono, è la sfida che si propone oggi nella formazione religiosa ad ogni livello, fin dall’inizio. In questo modo la religione può divenire utile, oltre che coinvolgente.

 

26. Noi, la pace e la religione

 

   In una riunione del gruppo parrocchiale di AC in San Clemente papa,  con l’aiuto di alcuni pensieri di nonviolenza di grandi anime che ciascuno di noi ha letto ad alta voce su un foglietto che ci è stato distribuito, un pensiero su ogni foglietto, abbiamo continuato la riflessione sulla pace, che avevamo avviato in vista dell’incontro diocesano dell’AC sul Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace  di papa Francesco, che si è tenuto nella nostra parrocchia.

  Nella discussione che è seguita sono emerse gran parte delle obiezioni che di solito vengono portate contro la nonviolenza, e anche contro la pace. In parte venivano proposte ai giovani che chiedevano l’esenzione dal servizio militare armato per ragioni di coscienza, gli obiettori di coscienza.  “Se qualcuno ti uccidesse un parente stretto?”, “C’è tanta malvagità nel mondo, tanta corruzione…”,  e via dicendo. Si è manifestata poi la difficoltà a condividere pensieri di nonviolenza  di persone appartenenti ad altre tradizioni religiose, anche se cristiane come il pastore battista Martin Luther King. E c’è stata anche un’eco della storica diffidenza che si è avuta in religione per i processi democratici, in particolare valutando il risultato delle ultime elezioni presidenziali statunitensi.

 Può sembrare che si tratti di discorsi lontani dalla nostra realtà quotidiana, eppure tremendi episodi di violenza e di intolleranza sociale sono accaduti proprio dalle nostre parti, veramente a due passi dalle nostre case. E tutti i problemi che vediamo a livello globale si manifestano anche da noi, ad esempio quello di uno sviluppo economico inumano, che porta degrado degli ambienti urbani e naturali e insicurezza economica ed esistenziale. Il nostro quartiere appare abbandonato, ci si limita a garantire i servizi essenziali, ma in una città come Roma ci si aspetterebbe qualcosa di più. A parte la parrocchia, non ci sono posti per incontrarsi. E’ stato dato alle fiamme il bar più grande, che costituiva un bel punto di ritrovo per la gente del quartiere: ecco un segno della violenza sociale molto vicina a noi, che ha sfigurato l’ambiente urbano del quartiere. Ora è lì, povera maceria annerita, a ricordarci che qualcosa non va nella nostra società di quartiere. Siamo assediati dal traffico, da grandi correnti di traffico dirette verso altri posti. Questo rende pericolose le strade del quartiere per i più piccoli e i più anziani. La bellezza nel nostro quartiere non c’è e nessuno ci pensa. Potrebbe esserci anche tra i nostri palazzoni. La bellezza, infatti, è democratica, alla portata di tutti, perché tutti ne hanno bisogno e se ce n’è troppo poca si soffre. Si vive, allora, come in una grande stazione ferroviaria, in un ambiente funzionale ma anonimo.  E’ anche la cura che si riserva al grande parco al lato delle nostre case, il Pratone, conquistato in un lungo periodo di lotte sociali è insufficiente, del resto come accade negli altri parchi della città.

  Che c’entra tutto questo con la  nonviolenza? C’entra perché la radice  dei mali che ho descritto è la medesima da cui scaturisce la mala pianta della violenza sociale, su piccola e grande scala: il crescente egoismo per cui ognuno guarda solo al proprio particolare e pensa sia inutile intendersi con gli altri per migliorare le cose. La violenza, tra le persone, i gruppi e gli stati, serve a farsi spazio  e a rapinare gli altri. Gli altri, in questa prospettiva, diventano solo degli ostacoli o persone che possiedono cose che vorremmo sottrarre loro. E, invece, il progresso sociale per cui si può vivere una vita sicura, decorosa e anche bella, dipende dal nostro rapporto positivo con la società intorno per cui si possano trovare all’interno di essa degli alleati. La società contemporanea è stata paragonata a una macchina, a una macchina sociale. Ma gli esseri umani non sono ingranaggi, anche se talvolta li si vuole rendere tali, come in certe produzioni industriali. Ognuno di loro ha quella che le religioni definiscono anima e che significa che sono più di un meccanismo biologico  e hanno bisogno di dare senso alla proprie esistenza. E questo senso lo si ritrova solo nel rapporto positivo con gli altri, che significa costruire una società orientata verso la persona umana. La città solo come macchina sociale diventa un inferno urbano, come se ne sono creati molti in Oriente.

  Se si reagisce alla violenza con altra violenza ci sarà solo più violenza e, si dice, occhio per occhio  rende il mondo cieco. Un verità tanto chiara, perché costantemente confermata dall’esperienza, è ancora difficile da accettare, anche in religione. Quando si passa dalla teologia in pillole del catechismo dell’infanzia al pensare qualcosa di più serio e impegnativo sorgono problemi. Non siamo stati abituati, in religione, a pensare la società: immaginavamo che la verità sociale ci venisse insegnata dall’alto e fluisse fino a noi attraverso i nostri preti. Spesso, ancora quando si parla di problemi sociali chiediamo loro di spiegarci perché questo, perché quello, perché la violenza, perché il male,  e via dicendo, come se il sapere di teologia, quindi della nostra fede comune, li costituisse tuttologi. Lorenzo Milani diceva invece che dovremmo essere noi a spiegare loro come va il mondo. Ma anche quest’idea non mi convince, perché presuppone che i preti vivano fuori del mondo, e non è così. In realtà la comprensione realistica di come vanno le cose nel mondo, dei problemi che ci sono, e delle soluzioni possibili, deriva dal mettere insieme tanti punti di vista particolari, anche  quelli dei preti, in modo che facendo luce su tanti aspetti della realtà, come quando si marcia di notte in campagna e ognuno fa luce con la sua piccola torcia, si riesca a capire dove bisogna andare per trasformare il mondo.

 Ecco, su un pensiero di Aldo Capitini che abbiamo letto l’altro giorno c’era scritto che la nonviolenza  non lascia il mondo così com’è, ma lo trasforma in meglio. Penso che la nostra parrocchia avrà superato molti dei suoi problemi quando potrà dire di aver contribuito a trasformare il quartiere in cui è immersa. In passato mi è parso che  a lungo se ne sia disinteressata, preferendo dedicarsi alla realizzazione di quelle che ho chiamato  serre umane, a coltivare belle anime  al suo interno, al modo in cui lo si fa con le piante nelle serre dei giardinieri. E da dove può venire una soluzione ai problemi sociali del quartiere se non da una realtà come la parrocchia, che che è quasi l’unica, e comunque credo la maggiore, a disporre di luoghi d’incontro? La parrocchia può riprendere ad essere (lo è già stata in passato) la potenza spirituale che può innescare dinamiche sociali virtuose, in grado di cambiare il mondo dalle nostre parti. Per pensare, ad esempio, una nuova sistemazione urbanistica del quartiere, che liberi via Val Padana dall’assedio delle automobili, e per rendere più sicure per tutti  le strade del quartiere. Da impegni sociali virtuosi, catalizzati dalla parrocchia, scaturirebbe, ci si può giurare, un forte impegno di volontariato, perché in Italia, basta che se ne dia occasione, esso si sviluppa rigoglioso.

 

27. Antipapa?

 

"Nella mia precedente carriera diplomatica ho aiutato ad abbattere l'Unione sovietica, ora sembra che ci sia un'altra Unione che ha bisogno di una scossa”. Ted Malloch, proposta dal nuovo presidente statunitense come ambasciatore U.S.A. presso l’Unione Europea

 

 

 Se consideriamo il pensiero politico diffuso dal nuovo presidente statunitense Donald Trump e gli insegnamenti sulla dottrina sociale contenuti nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco ci convinciamo a prima vista che sono agli opposti. Il messaggio di Trump al mondo è più che politico e quello del Papa è più che spirituale. Entrambi sostengono che il mondo va male e che bisogna fare dei cambiamenti, ma le soluzioni divergono radicalmente. Per Trump gli Stati Uniti d’America possono salvarsi anche senza il resto del mondo, per il Papa nessuno stato, anche molto potente, può salvarsi da solo. Per Trump gli Stati Uniti d’America, lo stato per ora più potente del mondo, sia dal punto di vista economico sia da punto di vista militare, ci stanno rimettendo per salvare il mondo e quindi per salvarsi devono cominciare a pensare di più a loro stessi, al loro interessa nazionale, per il Papa questo è ciò che gli stati più potenti del mondo hanno sempre fatto, a discapito dei meno potenti e ricchi, generando sofferenza sociale a livello globale. Per Trump occorre una rivoluzione culturale, ed è in questo che il suo pensiero è più che politico, e può dirsi lo stesso per il Papa, ed è in questo che il suo insegnamento è più che spirituale. Trump dichiara che gli Stati Uniti d’America sono disposti a tutto per salvarsi, il Papa indica il metodo della nonviolenza. La dottrina sociale indica la strada della grandi istituzioni sovranazionali per promuovere la pace, Trump vuole scioglierle perché ritiene che ingabbino la potenza statunitense a discapito dei cittadini americani, che nella sua visione sono solo quelli del suo stato. E il resto di quelli che vivono nel continente Americano, compreso Bergoglio, che è nato americano? Trump non ci dice che ne pensa, salvo che ritiene siano persone che vogliono oltrepassare abusivamente le barriere che già ci sono tra Messico e Stati Uniti d’America. In sostanza “bad hombres”, gente cattiva, come sembra abbia detto l’altro ieri parlando con il presidente messicano. Trump vuole costruire un mondo di accordi bilaterali, tra gli Stati Uniti e, di volta in volta, un altro stato: pensa così di avere sempre la meglio, per ora, perché gli Stati Uniti d’America sarebbero il pesce grosso che mangia il pesce piccolo. Ma fino a quando? Ci sono altri pesci che si stanno ingrossando molto. Quando se la sentiranno di ragionare come Trump sarà la guerra mondiale.

  Il pensiero di Trump ha e avrà ancor più seguaci in Occidente, anche tra chi non è americano. Anche in Italia, benché essa sia una nazione piccola e poco influente sullo scenario mondiale: nei futuri accordi bilaterali  è destinata ad avere la peggio. Questo perché non si è ancora raggiunto la capacità di pensare europeo, su scala continentale. Parliamo dell’Europa  come nell’Ottocento da noi si parlava dell’Impero d’Austria, come di una potenza che ci ha invaso, e invece noi siamo Europa. Sono italiani il presidente del Parlamento europeo, il ministro degli esteri dell’Unione, il presidente della Banca Centrale Europea e un gran numero di alti funzionari dell’Unione Europea. Nel Consiglio Europeo, il nostro governo condivide tutte le decisioni più importanti. In un rapporto bilaterale con gli Stati Uniti d’America l’Unione Europea tratterebbe da pari, perché, nell’insieme, è una grande potenza economica e un grande mercato: è uno dei pesci grossi del mondo e non si lascerebbe tiranneggiare da altri. E’ per questo che Trump, nelle sue dichiarazioni pubbliche di questi giorni, l’ha aggredita violentemente, per ora verbalmente (ma egli si è dimostrato uomo capace di passare rapidamente dalle parole ai fatti, cambiando con pochi tratti di penna la vita di moltitudini di persone, per ora tra quelle che nelle società stanno peggio). Vuole mandare da noi come ambasciatore presso l’Unione Europea uno come Ted Malloch che la paragona all’Unione Sovietica e si propone di dare una mano a scuoterla. In realtà gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea condividono ancora una medesima ideologia democratica, anche se sembra che in certe cose il presidente Trump se ne stia sbrigativamente discostando. Egli sembra apprezzare l’attuale capo egemone della Russia, il quale si è formato in tutti i sensi, come uomo, come soldato, ma anche nell’azione politica, in Unione Sovietica, in particolare come ufficiale della polizia politica segreta, e che dell’Unione Sovietica vuole riaffermare certi fasti, mischiandovi anche quelli della Russia zarista. Negli anni ’70 l’Unione Sovietica stava vincendo la sua battaglia globale con gli Stati Uniti d’America:  a quell’epoca raggiunse il picco della sua fase espansiva, della sua potenza economica e della sua capacità d’influenza ideologica. Stava diventando il pesce più grosso. Tutto poi cambiò, in processi che ancora oggi non sono chiari, ma che fondamentalmente sono collegati all’azione politica del leader sovietico Michail Gorbaciov e alle sue intese con il presidente statunitense Ronald Reagan (1911-2004, presidente statunitense dal 1981 al 1989). Qualcosa che oggi si ripropone nel caso di Trump e del presidente russo Vladimir Putin (n.1952), ma con un senso molto diverso.  Qui si tratta di confronto bilaterale tra pesci grossi  in fase espansiva: cose così vanno sempre a finire male. Al fondo dell’azione politica di Gorbaciov c’era invece l’idea di umanizzare la politica sovietica, risultato che, in definitiva, egli non riuscì ad ottenere. Negli anni successivi alla sua caduta, gli Stati Uniti d’America acquisirono sempre più potere nelle cose russe, in particolare sotto la presidenza di Boris Eltsin (1931-2007, presidente della Russia dal 1992 al 1999). E’ appunto sotto la presidenza Eltsin che Putin cominciò ad ottenere incarichi politici sempre più importanti e da Eltsin fu nominato per la prima volta capo del governo. Egli però si è manifestato molto diverso da Eltsin, in particolare nella politica verso gli Stati Uniti d’America. Solo apparentemente nel rapporto Trump-Putin sembra riproporsi quello Reagan-Gorbaciov: la Russia di Putin e gli Stati Uniti d’America di Trump sono infatti in rotta di collisione. Il terreno di battaglia più probabile tra le due grandi potenze, i due pesci grossi,  è l’Europa. Ed è per evitarlo che l’Europa dovrebbe rimanere molto forte e coesa. Ma di questo non c’è sufficiente consapevolezza tra le forze politiche italiane e, soprattutto, tra i cittadini, disabituati a pensare in grande e invece abituati  fare i conti solo nelle proprie case e in base a ciò che vedono nell’arco di cento metri da dove vivono di solito. Gli africani, gli europei orientali e i rom che vivono tra noi saranno l’ultimo dei nostri problemi se Russia e Stati Uniti d’America si faranno la guerra in Europa, e invece i populisti delle nostre parti è proprio su quelli che attirano l’attenzione degli elettori, sollecitando le nostre paure verso il diverso, mentre per il mondo ricominciano a soffiare venti di un conflitto globale. In questo quadro il Papa fa la figura del grillo parlante  della storia di Pinocchio, e rischia di finire acciaccato contro una parete da gente, noi!,  talvolta ridotta un po’, ormai, sul piano della capacità di pensiero politico, alla condizione di bambini discoli.

 Si legge nell’enciclica  Laudato si:

5°. AMORE CIVILE E POLITICO

228. La cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e di comunione. Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro Padre comune e che questo ci rende fratelli. L’amore fraterno può solo essere gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici. Questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi, benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di una fraternità universale.

229. Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.

230. L’esempio di santa Teresa di Lisieux ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo. Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma.

231. L’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici». Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale di una «civiltà dell’amore». L’amore sociale è la chiave di un autentico sviluppo: «Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello, politico, economico, culturale - facendone la norma costante e suprema dell’agire»[dal  Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 582].In questo quadro, insieme all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni tutta la società. Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a intervenire insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare che ciò fa parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in tal modo matura e si santifica.

232. Non tutti sono chiamati a lavorare in maniera diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una piazza), per proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti. Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale locale. Così una comunità si libera dall’indifferenza consumistica. Questo vuol dire anche coltivare un’identità comune, una storia che si conserva e si trasmette. In tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della vita dei più poveri, con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo consapevolezza di abitare una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni comunitarie, quando esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in intense esperienze spirituali.

  A chi vogliamo dare retta, noi adulti di fede italiani? A Trump o al Papa? I due, come ho osservato, sono agli opposti: uno è l’ “anti-“ dell’altro. Non si può essere trumpisti  in politica e papisti  in religione, perché, il messaggio di Trump è più che politica e quello del Papa è più che spirituale, e sono in rotta di collisione. Entrambi infatti sollecitano ad un impegno sociale, ma seguendo una spiritualità dell’egoismo nazionale il  primo, mentre il secondo invitando a quella dell’umanesimo e della fraternità globali. La prima via conduce alla guerra tra pesci grossi, la seconda ha di mira la pace come bene essenziale dell’umanità. La prima vuole  mantenere, anche a scapito di tutto il resto del mondo, la ricchezza nella nazione che per ora è la più ricca del mondo, la seconda vuole la giustizia tra le nazioni come strategia di pace. Mentre Trump urla “Solo noi!”, il Papa dice “Tutti noi”.

 

28. Il neo-nazionalismo: un problema di corruzione spirituale della  società

 

[Dal Manifesto di Ventotene, ideato nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

  Immense masse di uomini e di ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie. Le forze di queste potenze hanno raggiunto il loro culmine e non possono oramai che consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il momento della massima depressione e sono in ascesa. La guerra degli alleati risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano come smarriti per il colpo ricevuto.  E persino risveglia tale volontà nei popoli delle potenze dell'Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione disperata solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.

  Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata, che lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressiste; e, le parti più illuminate delle classi lavoratrici che si erano lasciate distogliere, dal terrore e dalle lusinghe, nella loro aspirazione ad una superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta l'intelligenzaimprenditori, che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro
movimento
tutti coloro, infine, che, per un senso innato di dignità, non sanno piegar la spina dorsale nella umiliazione della servitù.

 A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.

[…]

  Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali […] hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.

  Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.

  Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi.

[…]

  Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani.

[…]

  Gli spiriti sono giù ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell'Europa. La dura esperienza ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.

[…]

 E' ormai dimostrata la inutilità, anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei.

  Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell'interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc., che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l'hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.

  D'altra parte la fine del senso di sicurezza nella inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la "splendid isolation", la dissoluzione dell'esercito e della stessa repubblica francese, al primo serio urto delle forze tedesche - risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la presunzione sciovinista della superiorità gallica - e specialmente la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale che ponga fine all'attuale anarchia. Ed il fatto che l'Inghilterra abbia accettato il principio dell'indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta, tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea dei problemi coloniali.

 

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  Gli autori del Manifesto di Ventotene  pensavano di costruire la pace europea istituendo in Europa uno stato federale simile agli Stati Uniti d’America, con una propria organizzazione armata in grado di imporre le sue decisioni anche con la forza e che superasse gli stati nazionali, vale a dire quelli fortemente caratterizzati sul piano delle culture sociali, quindi con riguardo a determinati connotati etnici, linguistici, religiosi, economici, militari, derivanti dalla loro storia. Questo perché la lunga fase di conflitto bellico sviluppatasi tra il 1914 e il loro tempo (scrivevano ne mezzo dell’ultima epoca di guerra) appariva originata da conflitti tra stati nazionali, benché nella Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) avessero preso sempre più importanza i motivi di divisione ideologica, in particolare tra le società democratico-liberali con economia capitalista, quelle riorganizzate dai fascismi europei, il più potente dei quali si era manifestato il nazismo tedesco, e le società cadute sotto il dominio sovietico, nell’immenso territorio un tempo dominato dal regime della Russia zarista. Pensavano quindi di ripetere sul continente il processo politico che aveva portato alla faticosa costruzione dell’unità nazionale italiana. Il processo di unificazione europea ha poi presso un’altra via, in particolare seguendo il pensiero del politico francese Jean Monnet (1988-1979). Chi desidera approfondire può farlo sul portale WEB della Treccani a questo indirizzo 

<http://www.treccani.it/enciclopedia/europeismo_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/>.

  I nazionalisti italiani dell’Ottocento scoprirono che  “fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani”, vale a dire che gli elementi culturali unificantiche avevano sorretto il movimento politico per l’unità nazionale erano propri di classi piuttosto ristrette, in particolare di ceti colti, con scarsa rappresentanza delle masse popolari. Bisognava creare nei popoli italiani i presupposti per il consolidamento dell’unità nazionale, innanzi tutto elevando il livello di istruzione popolare, che era molto basso, istituendo un servizio nazionale di stato per l’istruzione  di base, quella elementare. Anche la leva militare fu utilizzata a questo scopo, anche se coinvolgeva solo i maschi. Il più potente fattore di coesione culturale delle genti italiane era costituito, all’epoca, dalla fede religiosa, ma esso poté essere utilizzato politicamente solo molto più tardi,  nel secondo decennio del Novecento, perché l’unità nazionale si era fatta anche contro il papato, che dominava uno dei piccoli regni in cui l’Italia era suddivisa e che vennero soppressi nel processo politico di unificazione. I Papi, quindi, vietarono a lungo ai fedeli cattolici la politica nazionale e ciò fino al 1913.

 Nel processo di unificazione europea iniziato negli anni ’50 del secolo scorso, si cominciò dal tentativo di indurre un avvicinamento delle economie e delle società europee, come premessa per una progressiva cessione di sovranità degli stati nazionali alle istituzioni europee. Negli ultimi trent’anni questo processo ha coinvolto masse di giovani in programmi di integrazione scolastica che prevedono che liceali e universitari possano svolgere parte dei loro studi in altri stati europei. Questo ha portato i giovani ad essere molto più europeisti dei loro genitori, formatisi nella cultura dello stato nazionale. Nelle difficoltà attuali dell’Europa, però, molta  gente non pensa alle istituzioni europee come una risorsa per resistere e superarle, ma come a un impedimento e addirittura come una loro causa. Nel voto al referendum in Gran Bretagna per l’uscita dall’Unione Europea è risultato che i più anziani, quelli meno acculturati all'europeismo, sono stati determinanti. Il processo culturale per l’unificazione europea non ha quindi ancora raggiunto quel grado che consenta di proteggere le nuove istituzioni dalla minaccia di dissoluzione.  Ai tempi in cui fu scritto il Manifesto di Ventotene, e ancor più alla caduta dei fascismi europei, nel 1945, fu chiaro invece che i popoli europei potevano risollevarsi solo tutti insieme, superando gli egoismi nazionali che li avevano divisi e condotti a combattersi.

  I nazionalismi in cui sta ricadendo l’Europa sono molto diversi da quelli del passato, che facevano leva, in particolare in Italia, sulla scarsa istruzione popolare, che rendeva la gente più facilmente manovrabile. Piuttosto essi appaiono come un’estensione su grande scala, dalla realtà domestica a quella degli stati e dell’organizzazione del continente, di egoismi consumistici individuali, per cui si pensa che, possedendo ciò che bisogna possedere, tutto il resto conti poco e, in particolare il grado di ingiustizia sociale che c’è in ciò che si è comprato e si possiede. I vecchi nazionalismi facevano leva sullo spirito di sacrificio della gente, spingendola anche a dare la vita  per il bene della nazione, intesa  in definitiva come la casa dei padri, la patria. Tutta l’epica nazionalista Ottocentesca è piena di figure esemplari così. Il nazionalismo di oggi si basa invece sull’idea che non valga assolutamente la pena di sacrificarsi per nulla al mondo e quindi sulla volontà di tutelare, non tanto la propria roba, ma la possibilità dicomprare  tutto ciò che si desidera, buttando ciò che non è più di moda possedere. L’idea di limitarsi in questo per ragioni umanitarie spaventa, perché da cittadini siamo diventati consumatori, come ha spiegato bene Zygmunt Bauman, e in questo continuo consumare  troviamo ilsenso della vita, il nostro benessere sociale, la nostra fonte di integrazione con gli altri. Ecco perché il neo-nazionalismo non ha più bisogno dei miti  che riempivano ad esempio l’ideologia popolare del fascismo mussoliniano, basata su una reinterpretazione della storia imperiale romana. Il vecchio nazionalismo era altruistico, benché solo su scala nazionale: per la patria  si era spinti a dare anche la vita, a perdere tutto, come si cantava nella lirica di Paolo Pola:  Chi per la patria muor / vissuto è assai / la fronda dell’allor/ non langue mai[dal melodramma di Saverio MercadanteCaritea, regina di Spagna, ossia La morte di Don Alfonso re di Portogallo, messo in scena nel 1826; due atti  con libretto  curato da Paolo Pola]. Nel neo-nazionalismo contemporaneo tutti vogliono salvarsi anche a costo di abbandonare gli altri, in particolare ributtando a mare  le genti che arrivano da altri continenti.  Questo mette in questione la fede religiosa? Come si raggiunge l’integrazione tra fede e vita, ragionando così? E se si vuole innanzi tutto salvarsi  come individui, come ci si salverà come nazione? E come ci si salverà come individui, se il salvarsi richiede di agire come nazione e anche in un ambito più vasto? C’è in questione anche una spiritualità, come è spiegato nell’ultimo capitolo dell’enciclica Laudato si’. Occorre una specifica formazionealla cittadinanza europea, che, proprio per gli elementi di spiritualità che connotano i problemi di oggi, dovrebbe farsi anche in religione, ma in genere non si fa.

 Bauman ha spiegato che quello che i vecchi nazionalismi ottenevano con la mitologia e la forza, quelli attuali riescono ad ottenere spontaneamente dalla gente: quest’ultima si accomoda disciplinatamente alla cassa, senza più necessità di polizia per tenerla a freno. E lì pensa solo a sé stessa e a ciò che sta acquistando, al proprio giocattolo nuovo, che presto abbandonerà. Come è scritto nell’enciclica la nostra società produce molti rifiuti, e anche di tipo umano, vite abbandonate.

 Spinelli e i suoi amici avevano una certa idea delle classi conservatrici,  che avrebbero tentato di mantenere il dominio anche dopo la caduta dei fascismi europei. Bisogna dire che esse sono molto mutate, si sono fatte meno visibili, nascoste dietro uno dei miti di oggi, quello delmercato. Quest’ultimo, per la sua dimensione anche spirituale e la sua personificazione al modo delle antiche divinità, è divenuto, nella considerazione di molta gente, un nuovo dio. Anche di questo si parla nell’enciclica Laudato si’. Esso ci domina e, spingendoci gli uni contro gli altri, dividendoci, mantiene il controllo su di noi. E noi, pensando di fare solo il nostro interesse, lasciandoci dividere dagli altri, facciamo il suo gioco.  Il suo, però, è un vero giogo, e non è dolce come quello del Maestro. Infatti ci rende schiavi. "Schiavi di un dio minore", secondo il titolo del bel libro di Arduino e Lipperini sulle nuove schiavitù che ho citato qualche giorno fa (disponibile anche in e-book).

 

 

29. Economia e comunione

 

Di solito sono piuttosto parco nel citare e riportare documenti dei Papi, perché è stata letteratura sovrabbondante che ha un po’ compresso tutto il resto limitando il dialogo,  ma questo breve pezzo  che segue lo devo proprio trascrivere integralmente per la grande emozione che mi ha procurato e il sentimento di totale condivisione.

dal sito WEB

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papa-francesco_20170204_focolari.html

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO "ECONOMIA DI COMUNIONE",
PROMOSSO DAL MOVIMENTO DEI FOCOLARI

Aula Paolo VI
Sabato, 4 febbraio 2017


 

Cari fratelli e sorelle,

 

 sono lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore, Prof. Luigino Bruni, per le sue cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze.

  Economia e comunione. Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo questo. L’imprenditore da voi è visto come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti.

  Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose.

  La prima riguarda il denaro. È molto importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr 2,13-21). Non si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non scaccia? Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire. E’ stato Gesù, proprio Lui, a dare categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.

  Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.

  Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo!

  La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale nel vostro movimento.

  Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la povertà.   E tutto ciò, da una parte, è una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società restavano molti. Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso.

  Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti.

  Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!

  L’economia di comunione, se vuole essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena.

  Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande.

  Infine, la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino, l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.

  Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo. Come fare per non perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?

  Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro denaro.

Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.

  Queste cose voi le fate già. Ma potete condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione.

Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo ancora di più.

Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.

 

30. Pace, perdono  e indole personale

 

Dal Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace  di papa Francesco

La radice domestica di una politica nonviolenta

5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia [= La gioia dell’amore], a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono. Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.  D’altronde, un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.

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  In una riunione del gruppo parrocchiale di AC ci siamo interrogati sulle radici personali e familiari della vita pacificata. Preferiamo essere amati  o temuti? Ci conosciamo veramente, o siamo troppo indulgenti con noi stessi nel riconoscere caratteristiche della nostra indole come l’aggressività, l’intransigenza, la durezza, che portano inevitabilmente a situazioni di conflitto. Abbiamo letto un brano della Regola  di Benedetto da Norcia (480-547), nella quale si consiglia ai capi di comunità di cercare di farsi amare più che temere, e un brano tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli (1469-1527) in cui si dà l’indicazione opposta, perché il capo che faccia conto sull’amore dei suoi sottoposti viene in genere tradito nelle avversità, mentre il timore dura per sempre e rende coese le società. Infine con l’aiuto di don Giorgio abbiamo meditato sul brano evangelico con la parabola detta del Servo malvagio (Mt 18, 21-35), in cui a un servo viene condonato un debito rilevantissimo, ma poi rifiuta di condonare a sua volta a un suo debitore un debito molto più piccolo, facendolo gettare in prigione, subendo lo sdegno del suo padrone. Siamo capaci di perdonare, di condonare  agli altri i debiti che pensiamo abbiano contratto verso di noi? Il parroco, che è da poco tornato da un viaggio in Uganda per incontrare alcuni missionari che là operano, ci ha raccontato dei duri conflitti tribali che travagliano quella parte dell’Africa e che non si riesce a sopire: la soluzione, attuata in altre parti dell’Africa, potrebbe basarsi sul perdono, al modo in cui lo si è fatto in Italia alla caduta del fascismo. Vendetta chiama vendetta e di vendetta in vendetta si distrugge il contesto civile, come ancora osserviamo in alcune zone del nostro Meridione.  Abbiamo infine richiamato alla memoria il passo del recente Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace  di papa Francesco, in cui si esorta a “percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia”. Infatti, ha scritto il Papa, “l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini”.

  In quel messaggio il Papa indica la necessità di una politica nonviolenta  a partire dalla realtà domestica. Quest’ultima non sempre è  pacificata  e fonte di gioia. Vive tensioni che possono sfociare in violenza, come le cronache ci raccontano sempre più spesso. Per certi versi i mali sociali si riflettono sulle realtà familiari, le quali a loro volta ne sono anche sono espressione e origine. Parlare di pace è facile  e bello, praticare la pace è molto più difficile. E, quando si vive in famiglia, sono appunto le pratiche quotidiane di vita  che possono fare soffrire e che, dunque, bisognerebbe cambiare. Nella famiglia si può educare alla pace o, al contrario, alla violenza e alla sopraffazione. E’ lì che si può cominciare a sperimentare la sopraffazione tra esseri umani, ad esempio tra maschi e femmine, tra genitori e figli e tra fratelli. Le tradizioni etniche, religiose e politiche della società in cui la famiglia è immersa la possono condizionare pesantemente anche in senso negativo. In religione, in particolare, è in genere ancora piuttosto critica la questione del ruolo delle donne nella famiglia, sia nel rapporto coniugale sia in quello filiale. E’ in famiglia che si forma la nostra indole, certe nostre caratteristiche che tendono a permanere nel corso di tutta la vita, e la psicologia ce ne dà la spiegazione. Ma non dobbiamo sottovalutare la capacità di cambiamento che una persona può avere nel corso della propria vita, solo che riesca a prendere coscienza della radice del male che c’è in lei e nella società intorno ed avere gli amici giusti. Di solito i problemi sociali non derivano solo e in primo luogo dall’indole degli individui, ma dall’organizzazione sociale che una civiltà ha prodotto e che è alla base della produzione e distribuzione delle risorse e di ciò che la gente desidera per sé per raggiungere la felicità, come anche delle regole della vita delle famiglie. E’ qui che la pace diventa un problema politico. Se non si riesce a compiere il passaggio dal particolare, dall'individuo e dalla sua famiglia alla società intorno, non si passa mai alla dimensione politica e anche le soluzioni ai mali sociali sfuggono. Spesso però in religione si è indicata una via della pace attraverso il perdono che si esprimeva nella rinuncia alla lotta, per cui la religione è apparsa, è non di rado lo è effettivamente diventata, uno dei modi con cui le classi dominanti tiranneggiavano quello sottoposte. L’ingenua ideologia corporativa delle origini della dottrina sociale in sostanza consisteva proprio in questo: non era capace di apprezzare il potenziale di liberazione attraverso coscienza collettiva e lotta sociale espresso da certe politiche, ad esempio quelle nonviolente che furono proprie di Mohandas Gandhi in India e di Martin Luther King negli Stati Uniti d’America.

Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società”, si legge nel Messaggio  del Papa: questa, in realtà, più che una constatazione di ciò che veramente accade, è un auspicio e un’esortazione. E’ però tanto difficile passare dalla dimensione domestica a quella sociale, fino a comprendere tutto il mondo. Il mondo fa paura e allora non di rado veniamo consigliati a rinchiuderci nelle realtà familiari, appagandocene. E’, in fondo, una via neo-tribale  ad una religione difensiva, di protezione contro i mali del mondo, la comunità di fede come neo-tribù di famiglie. Difficile però far sopravvivere un mondo di sette miliardi di persone con organizzazioni neo-tribali: in questo modo, in realtà, ritirandosi sostanzialmente dalla politica, si lascia il campo alle forze che, a livello globale, diffondono un’organizzazione ingiusta e predatoria delle società, creando tanta sofferenza e, in particolare, privando progressivamente, nel nome della libertà, le organizzazioni pubbliche dei poteri e risorse che loro competono per realizzare il bene comune, in particolare l’equità sociale. L’ideologia globale proclama la legge della giungla, quella del forte che mangia il debole e rifiuta ogni limite posto dalle collettività a fini di giustizia sociale: preferisce rapporti bilaterali, tra un forte e un debole, e in questo modo finisce come deve finire. Così una persona può cercare di essere buona e di farsi amare, e anche di costruire una famiglia basata su questi principi, ma se poi non si occupa di politica, quindi di ciò che c’è appena oltre la porta di casa, non fa tutto il suo dovere, anche in senso religioso. E’  docile, non usa la violenza, ma questo diventa in fondo una manifestazione di resa al male, di arrendevolezza. Capire la società per influirvi consapevolmente è però più difficile che capire la propria famiglia, fondata su rapporti elementari. Anche perché la società si è fatta molto più complessa di una volta: siamo tanti di più di prima al mondo. E non bastano i testi sacri per orientarsi. Dunque una formazione religiosa fatta solo di questi ultimi, di qualche istruzione liturgica  e di famiglia è insufficiente. Fin da molto piccoli, fin dalle società di bambini, ci si confronta con il male sociale, ma se non si ha avuta, in famiglia o a scuola o in religione, una formazione specifica non si riesce ad affrontarlo. Lavorarci su richiede di creare un’organizzazione, fin da molto giovani. Una realtà sociale come la parrocchia dispone delle strutture giuste per attuarla. E’ una grande responsabilità. Come partire, o ripartire, nei casi in cui si è interrotta una tradizione, una memoria. Certe cose vanno riscoperte e riprese. Innanzi tutto occorre creare occasioni di incontro in parrocchia molto più prolungate delle usuali liturgie ed esercizi spirituali. Un ragazzo dovrebbe abituarsi a venire a studiare da noi, insieme agli altri: così la religione inizierebbe ad apparirgli utile per la vita. Ci vorrebbe un ambiente adatto, con molti libri, connessione wi-fi e strumenti multimediali. E un’organizzazione di volontariato per custodirlo e curarlo. Poi un programma di riflessione, basato su certi libri di testo, e gente che spieghi come si lavora insieme in queste cose, delle quali i più non hanno più esperienza, in modo che il tempo insieme non sia tempo perso o solo impiegato per lo studio personale. E' infatti dal confronto tra tanti punti di vista che scaturisce un'immagine affidabile della realtà intorno.

 Serve materiale, soprattutto servono libri, che ora sono divenuti più accessibili in formato digitale. Se non se ne ha a sufficienza o non se ne ha del tutto, come fare a capire la società?

 Ricordo che la sala della Rettoria di S. Ivo alla Sapienza, a corso Rinascimento, nell’antica sede dell’Università Sapienza, dove si riunivano i soci del movimento romano dei Laureati cattolici che tanta parte ebbero nella ricostruzione politica ed economica dell’Italia dopo la caduta del fascismo, era appunto un luogo di incontro con un tavolo e tante sedie e, intorno, tanti libri. Lì si attuò il passaggio virtuoso, il tirocinio innanzi tutto,  dalla religione individuale e domestica alla politica animata dai valori di fede, attraverso la costruzione di una sapienza collettiva. Era un posto all'interno dell'Università, proprio lì dove gli universitari e i loro docenti passavano gran parte del giorno: al centro della società non in suo angolino appartato.

 

31. Un mondo sta finendo

 

 

Le autorità che parteciparono alla firma del Trattato del 1951 di Parigi che istituì la prima delle Comunità Europee,  la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio,  tra Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Olanda fuorono: Paul Van Zeeland, ministro degli esteri belga, Joseph Bech, ministro degli esteri del Lussemburgo, Joseph Meurice, ministro del Commercio estero del Belgio, Carlo Sforza, ministro degli esteri italiano, Robert Shuman, ministro degli esteri francese, Konrad Adenauer, capo del governo e ministro degli esteri tedesco, Dirk Stikker, ministro degli esteri olandese, Johannes van de Brink, ministro degli affari economici olandese. L’iniziativa del trattato fu del francese Robert Shuman, per mettere fine alle situazioni di potenziale conflitto tra Francia e Germania. L’azione della Germania, che nella firma del trattato fu rappresentata al più alto livello, fu determinante. Ma senza la partecipazione dell’Italia il trattato sarebbe rimasto, in definitiva, un accordo franco-tedesco limitato, non l’abbozzo di un’Europa unita a livello continentale. L’Unione Europea si dissolverà quando uno di questi stati fondatori, Francia, Germania e Italia, la dovesse lasciare.

 

[Dal Manifesto di Ventotene,  scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

  Un'Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l'era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l'attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.

 La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell'economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in Russia.

  Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittimeLe gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica "routinière" [=secondo un programma sempre uguale] per trovarsi poi di fronte all'insolubile problema di resuscitare lo spirito d'iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo dell'U.R.S.S. [Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il regime politico che aveva sostituito quello imperiale zarista nel dominio della Russia e delle popolazioni asiatiche conquistate dai russi in epoca zarista, durato dal 1917 al 1991], col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.

   La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.

  Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:

 

a. non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa(es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti; 

 

 b. le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl'istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l'azionariato operaio, ecc.; 


c. i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita.
 In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l'avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell'interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;

 

d. la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori; 

 

e. la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l'osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali.

 

 Questi sono i cambiamenti necessari per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante.

 

 

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 Mie considerazioni



  Quando si ragiona di politica, bisognerebbe tenere sempre tra le mani l’ultimo volume del corso di storia delle scuole superiori. Quello è un libro da cui non separarsi per tutta la vita. E se, per qualche motivo, non lo si ha più in casa, bisogna ricomprarlo. I libri sono tra le cose più a buon mercato nella nostra civiltà. Ma ce ne sono molti di inutili, semplice solletico per la mente. Non è così per quelli di storia delle scuole. Senza quel libro di storia di cui ho detto, da dove partire? Si fanno solo delle chiacchiere, riprendendo quelle ascoltate in televisione o, peggio, quelle che si fanno sulle reti sociali sul WEB.

  Quando sono nato, erano passati solo dodici anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e nove anni dall’istituzione della Repubblica italiana democratica. Si viveva in un’epoca di forte sviluppo economico,  nonostante che le ferite tremende della guerra fossero ancora aperte nella società e nei luoghi dove la gente viveva. L’economia nazionale era influenzata favorevolmente dalla cooperazione internazionale e dalle  condizioni di mercato dell’epoca, con basso costo del lavoro e dell’energia. Negli anni successivi un certo benessere si diffuse anche nelle masse popolari, generando varie rivendicazioni sociali. Questo ciclo economico ebbe fine all’inizio degli anni ’70. Seguirono circa dieci anni di ciclo depressivo, poi circa altri dieci anni di ripresa economica, poi iniziò l’era dell’economia mondiale che stiamo ancora vivendo, basata sulla globalizzazione dei mercati con vantaggi e svantaggi per la gente e, infine, una lunga depressione economica in Europa, arrivata nel 2008 dagli Stati Uniti d’America e ancora non superata.

 Dunque, dicevo, sono nato a dodici anni dalla fine della guerra mondiale.

 Se oggi andiamo indietro di dodici anni che troviamo? Più o meno l’Europa di adesso. Un continente sicuro e pacificato.  Ma sarebbe così  anche andando più indietro nel tempo. Fino agli anni ’80 troveremmo un’Europa divisa in due da regimi politico-economici molto diversi: quelli capitalistici nella parte occidentale, quelli comunisti in quella orientale. Il confine, che Winston Churchill definì “Cortina di ferro” per la sua impenetrabilità, correva lungo le due parti della Germania in cui quello stato era stato diviso politicamente dopo la caduta del regime nazista, lungo il confine tra l’Austria e l’Ungheria e quello tra l’Italia e la Jugoslavia, uno stato che oggi non c’è più, ma che all’epoca federava Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e  Montenegro, e infine lungo il confine tra l’Italia e l’Albania e quello tra quest'ultima, la Bulgaria, da una parte, e la Grecia dall'altra. Ma l’Europa occidentale, e l'Italia in particolare,  non era molto diversa da ora.

  Nel 2012 i saggi del Premio Nobel attribuirono quello per la pace all’Unione Europea. Infatti è proprio questo più eclatante effetto del processi di cooperazione e integrazione europea: un lunghissimo periodo di pace, quale le generazioni europee precedenti non avevano mai vissuto.  Quando ero bambino, facevo le elementari, mia nonna Rosa, nata all'inizio del Novecento,  mi raccontava che nella sua vita c’era stata una guerra più o meno ogni dieci anni, perché a quelle mondiali  bisognava aggiungere quelle  coloniali. E si stupiva che non ne fosse ancora iniziata una: si era all’inizio degli anni Sessanta. Anche il mio maestro delle elementari la pensava nello stesso modo. Per lui ci sarebbero state a breve altre guerre e noi, ci diceva, dovevamo prepararci, perché sicuramente saremmo stati chiamati a combatterne una, non appena avessimo raggiunto la maggiore età, che all’epoca era a ventuno anni. Ma quelle guerre non vennero da noi. Negli anni ’90 scoppiarono in Jugoslavia, nel processo di dissoluzione di quello stato, e anche l’Italia vi partecipò, ma solo con l’aviazione militare e nel quadro di un’azione della NATO. Fu un conflitto limitato, interno alla stessa Jugoslavia. Oggi la Slovenia e la Croazia, che combatterono quelle guerre, sono parte dell’Unione Europea, e Bosnia-Erzegovina e Serbia sono in procinto di diventarlo.

 A che cosa è stato dovuto quel lungo periodo di pace?

 Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale il mondo si polarizzò intorno alle due maggiori potenze vincitrici, i maggiori tra gli Alleati che avevano combattuto i fascismi europei, tra i quali quello italiano, precursore e modello di tutti i fascismi europei: Stati Uniti d’America, una potenza americana,  e Unione Sovietica, una potenza euroasiatica; la prima ad economia capitalista avanzata, la secondo ad economia capitalista. Entrambe volevano esportare il loro modello politico ed economico in tutto il mondo. Oguna riteneva l'altra un pericolo mortale ed entrambe, in funzione essenzialmente difensiva come dichiaravano i loro capi, si dotarono di armi nucleari sempre più potenti e sofisticate. Se usate, esse avrebbero portato alla distruzione del mondo intero, compresi gli stati che le avevano lanciate. Per farsi un’idea della situazione dell’epoca si può vedere il film Il dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, del regista Stanley Kubrik, realizzato nel 1964, (in commercio su DVD ad €7,43) e il romanzo di Nevil Shute, L’ultima spiaggia, del 1957 (disponibile in e-book ad €3,99). Un conflitto globale, mondiale, con il coinvolgimento di quelle due super-potene divenne impossibile. In questo una grande anima come Giorgio La Pira vide la manifestazione di un disegno provvidenziale. In realtà conflitti locali, più limitati, continuarono ad essere combattuti, anche tra la grandi potenze, come nella guerra in Corea (1950-1953) e nella lunghissima guerra in Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia), dal 1955 al 1975. Ma non in Europa, in particolare lungo la frontiera tra Germania e Francia, al centro dell’Europa, che divideva i sistemi politici dai quali erano originate le due Guerre mondiali del Novecento. Perché? E’ stato merito del processo di integrazione e cooperazione europea che ha progressivamente eliminato le ragioni di conflitto e avvicinato i popoli europei, fino a rendere inutili i posti di frontiera tra nazioni che si erano lungamente e strenuamente combattute. Un processo che non ha riguardato le nazioni integrate nell’analogo organismo di cooperazione europea promosso nell’area dominata dai sovietici, il COMECON, con la conseguenza che gli stati che hanno aderito all’Unione Europea dopo essere stata inclusi dal 1945 nell’area di influenza sovietica appaiono molto meno integrati tra loro di quanto appaiono le nazioni dell’Europa occidentale. In particolare fra di essi è ancora molto forte il nazionalismo che il processo di integrazione europeo ha fortemente contrastato.

  Il processo di pacificazione tra i popoli europei attuato progressivamente nel quadro di politiche internazionali europeiste ha comportato incisive riforme sociali, nel senso di quelle auspicate dagli autori del Manifesto di Ventotene, in particolare nel settore dell’economia, del lavoro e  della sicurezza sociale. Esse erano nel programma politico dei partiti socialisti europei, fin dall’Ottocento. La Chiesa cattolica inizialmente le contrastò: del resto  la prima enciclicasociale,  intitolata Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone 13°, era diretta in primo luogo contro il socialismo. Poi, seguendo in questo le impostazioni dei partiti popolari democratici europei, ne ha recepito diversi elementi, tanto che ho letto che al nuovo presidente statunitense il Papa attuale appare sospetto di socialismo. Ma la giustizia sociale, in particolare una ragionevole distribuzione delle ricchezze che consenta alle masse di liberarsi dalla povertà e di condividere il benessere reso possibile dai moderni mezzi di produzione, quindi  ciò che si intende con l’espressione sicurezza sociale, che significa anche assistenza nella malattia e negli altri rovesci della vita (come i disastri naturali), sostegno nella vecchiaia,  e protezione del lavoro dagli arbitri di chi controlla i processi produttivi, trova giustificazione in sé stessa e non dipende da questa  o quella ideologia. Anche ai nostri tempi, nei quali quasi nessuno osa più definirsi  socialista, in particolare in Italia per il discredito che è legato a questa denominazione per le ultime vicende storiche del partito che da noi al socialismo si richiamava  espressamente e per le conseguenze disumane del sistema socialista sovietico, l’idea di giustizia sociale può continuare ad avere corso, in particolare seguendo ideali umanitari che anche in religione possono trovare fondamento. Piuttosto è l’idea di lotta di classe, quindi di conflitti sociali violenti, che appare meno attuale, perché viviamo in società democratiche in cui, almeno in teoria, le masse hanno gli strumenti per far valere certe pretese con metodi nonviolenti.  E questo anche se il conflitto è latente in ogni società umana: in democrazia esso può però essere gestito pacificamente. Da ciò consegue, però, che la crisi dei processi democratici mette le società a rischio di una ripresa di lotte sociali violente. 

  Una delle prime riforme italiane del Secondo dopoguerra fu quella agraria, che comportò espropriazione dei latifondi improduttivi e la distribuzione delle terre ai lavoratori. Si arrivò alla nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, secondo gli auspici degli autori delManifesto e fu stabilito che a) la proprietà privata dovesse essere regolata in modo da assicurarne la funzione sociale  e di renderla accessibile  a tutti  (art. 42 della Costituzione)  e che b) l’impresa privata non potesse svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41 della Costituzione). Il sistema di previdenza sociale per la vecchiaia, l’invalidità e la malattia fu esteso a tutte le categorie di lavoratori, anche autonomi e, con la riforma sanitaria del 1978, la maggior parte delle cure divenne accessibile a tutti gratuitamente o a costi molto contenuti. Per il lavoratori dipendenti si stabilirono minimi salariali e disposizioni che li tutelassero da licenziamenti arbitrari, prevedendo una valida tutela giudiziaria dei diritti del lavoro. Fu garantita l’istruzione pubblica, fino ai livelli più elevati, per larghe fasce della popolazione. Riforme analoghe furono attuate anche negli altri stati europei interessati dal processo di unificazione sfociato nell’Unione Europea. In sostanza, le riforme disegnate dagli autori del Manifesto di Ventotene vennero attuate e questo fu un fattore importante di pacificazione delle società europee che si stavano integrando economicamente e politicamente. Tutti i diritti scaturiti da quelle riforme vengono ancora oggi considerati scontati e irrinunciabili dalla maggior parte della gente, e invece non lo sono nella maggior parte del mondo. In origine chi ne proponeva l’istituzione veniva considerato un socialista rivoluzionario. E penso che vi sia ancora chi, leggendo oggi il brano del Manifesto di Ventotene che ho sopra trascritto, si scandalizzerà, leggendo di socialismo. IlManifesto  è un documento molto citato ma poco letto e conosciuto in dettaglio. E in esso il socialismo c’è.

 Il mondo della pace sociale e internazionale europea sta improvvisamente e rapidamente finendo. Questa è la novità dei nostri  tempi. Si stanno nuovamente creando le condizioni per guerre mondiali ed europee. Ad un bambino delle elementari di oggi non sarei in grado di garantire che non dovrà combattere una qualche guerra. E anche la società italiana si è fatta instabile, man mano che le conquiste sociali dei passati decenni vengono messe in discussione. In una nazione ancora tra le più ricche del mondo, sembra che non ce ne sia più per tutti. E’ stato osservato che sono molto aumentate le diseguaglianze sociali, in modo corrispondente e progressivo al decadere dei meccanismi di perequazione economica tra le classi e di protezione di quelle più deboli. L’area del benessere si va restringendo, il lavoro si va facendo insicuro, la protezione per la vecchiaia non è più certa per coloro che oggi sono giovani e tutti per tutti i servizi sociali, in particolare per la sanità, le risorse diminuiscono. Le condizioni di lavoro si vanno avvicinando a quelle dei lavoratori asiatici che finora hanno prodotto le merci di uso comune che in Europa acquistiamo a bassissimo prezzo. Nonostante che il costo del lavoro in Italia sia tra i più bassi in Europa, non vi è una ripresa dell’occupazione, anche per il diffondersi sempre più di processi produttivi automatizzati. Ma il fattore che sta determinando il cambiamento è il mutamento radicale di impostazione politica negli Stati Uniti d’America, la potenza di riferimento per le nazioni europee, finora fortemente integrata economicamente  e politicamente con l’Europa. Negli anni passati gli statunitensi hanno assecondato il processo di unificazione europea, prima in chiave antisovietica e successivamente come fattore di stabilizzazione  europea per gestire la dissoluzione del sistema politico dominato dai sovietici. La riunificazione delle due Germanie, l’assorbimento nell’Unione Europea dei paesi baltici e di quelli ex comunisti fino alla Polonia e alla Romania sono stati gestiti in ambito europeo.  Dalla crisi Ucraina in avanti, quindi dal 2014, la politica statunitense è cambiata, e ancor più sta cambiando in questi giorni. Le due super-potenze che avevano determinato l’ordine politico europeo dal 1945 non sembrano più interessate ad un’Europa unificata e manovrano per indebolirla. Stati Uniti d’America e Russia in Europa sono in rotta di collisione, in particolare sulle questioni delle minoranze russe nelle nazioni baltiche, su quelle dell’Ucraina e su quella del rafforzamento della forza NATO in Polonia. La crisi Ucraina ha dimostrato che guerre internazionali possono ancora essere combattute in Europa, senza scatenare un conflitto autodistruttivo, quindi senza necessariamente impiegare le armi nucleari. 

 In Europa i politici populisti addebitano al processo di integrazione europea mali che derivano invece dalla degenerazione dei sistemi capitalistici. Questo indebolisce ulteriormente la base politica del processo di unificazione europea. Le masse sono spinte a sostenere politiche protezionistiche che sono suicide per nazioni di un continente come quello europeo che ha prosperato solo nelle fasi di integrazione economica. E a ripudiare la moneta unica, l’Euro, con il rischio di ricadere nella situazione, ormai sperimentata solo da chi ha sessanta e più, in cui i risparmi delle famiglie, così come i salari dei lavoratori, venivano rapidamente erosi da tassi di inflazione altissimi, prodotti da spregiudicate politiche monetarie dei governi nazionali.

  Un quadro di crisi globale che, per la prima volta, viene realisticamente e sinteticamente esposto in un documento di un Papa: nell’enciclica Laudato si’. Le soluzioni proposte sono abbastanza simili a quelle pensate da Spinelli, Rossi e Colorni, quindi da socialisti critici, consapevoli sia dei mali dei sistemi capitalistici che di quelli dei sistemi totalitari basati sul comunismo di impronta sovietica.  Ma certamente in quel documento, destinato ad un pubblico globale, l’Europa non c’è. Del resto è scritto da un americano. Occorre quindi, nel processo di formazione all’azione sociale dei laici di fede italiani, integrarlo, in particolare vincendo i sospetti di laicismo che negli ultimi anni hanno guastato il confronto tra il mondo della nostra fede e quello delle politiche europeiste.

 

32. Impegno religioso e impegno politico: la particolarità italiana

 

 

   Nell’enciclica Laudato si’, del 2015, vi è un forte appello all’impegno politico delle persone di fede. Non è un insegnamento nuovo, ma questa volta è inserito in un’analisi realistica di come va il mondo oggi e delle cause dei principali mali sociali.

  E’ dalla metà dell’Ottocento che il papato romano, principalmente per opporsi al processo di unificazione nazionale italiana e poi per reagire ad esso, ha attivato politicamente le masse, costituendo quello che Guido Formigoni, nel libro Alla prova della democrazia - Chiesa cattolici e  modernità nell’Italia del ‘900, Il Margine, 2008, ha definito movimentoguelfo (nel Medioevo erano guelfi  i Comuni che seguivano la politica del papato romano). A lungo quest’ultimo ebbe carattere sovversivo, opponendosi ai partiti di governo dell’epoca, tanto da essere colpito dall’applicazione di leggi sulla sicurezza nazionale.  Quest’azione incise profondamente nell’assimilazione dei principi democratici da parte dei fedeli e favorì la fusione, più o meno tra il 1930 e il 1938, tra ideologia fascista e ideologia del cattolicesimo politico. Il fascismo ebbe in comune con il movimento guelfo  il carattere di opposizione ai principi della politica liberale, l’autoritarismo, il corporativismo anti-socialista, quindi la visione della società come di un corpo vivente in cui le singole parti per il bene comune dovessero accettare una gerarchianaturale di pochi sui molti senza che questi ultimi potessero influire nelle scelte collettive se non eseguendo direttive superiori, una concezione della famiglia di tipo patriarcale maschilista centrata sull’autorità di un padre, modello di tutta l’organizzazione sociale. Entrambi i movimenti erano iniziati come sovversivi, ma entrambi vennero poi accettati dalla classe dominante, che in Italia era costituita da un borghesia imprenditoriale che chiedeva protezione statale  dei propri affari e un trattamento preferenziale nelle commesse pubbliche, in funzione di stabilizzazione dell’ordine sociale. Alla caduta del fascismo, nel 1945, il movimento guelfo rimase come attore politico principale integrandosi con i neo-cattolici democratici di Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti, e loro epigoni. Tutte le fasi della politica democratica italiana dal Secondo dopoguerra fino all’inizio del regno di papa Francesco furono mediate dal movimento guelfo controllato dal papato romano, anche dopo la varie metamorfosi del cattolicesimo democratico dovute alla fine dei regimi di osservanza sovietica nell’Europa orientale, con la contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, il più grande partito comunista dell’Occidente.

 All’importanza del ruolo politico delle masse dei fedeli in Italia non è corrisposta un’adeguata azione di formazione alla democrazia. Ci si aspettava, come all’inizio della dottrina sociale   moderna, a fine Ottocento, che i cittadini che erano anche fedeli seguissero fedelmente le direttive di azione sociale diffuse dal papato romano attraverso vari tipi di documenti normativi, limitandosi ad applicarle, con poco margine operativo. I principi del cattolicesimo democratico erano diversi e questo comportò la persistente diffidenza verso i suoi esponenti, i quali, definendosi persone di fede adulte, volevano emanciparsi. Quest’orientamento rimase anche dopo che, a seguito delle decisioni del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si cercò di sollecitare i  laici di fede ad un impegno più intenso, creativo e autonomo, definendo un loro specifico campo d’azione nelle cose temporali, intese come ciò che riguardava la scienza e la politica, nelle quali si riconobbe la necessità di ragionamenti  con un certo margine di autonomia in quanto la teologia era insufficiente a capirle e ad orientarle. Sviluppare questa autonomia fu il problema più critico degli anni del dopo-Concilio. Il movimento per il rinnovamento della catechesi doveva servire anche a questo, ma i risultati furono incerti. Con la lunga fase del papato di Karol Wojtyla tutto in sostanza venne sospeso, in attesa di tempi migliori. E questo anche se nel 1991, con l’enciclica Il Centenario, a cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna, Le novità, del papa Gioacchino Pecci, il papato romano propose alla nuova Europa uscita dalla fine del regime comunista sovietico la via dell’organizzazione democratica.  Una neo-democrazia di osservanza papale per l’Italia? Detta così suona male, ma in effetti è proprio a questo che si pensò. D’altra parte c’erano dei risultati: il cattolicesimo italiano sembrava resistere meglio di altri al processo disecolarizzazione  europeo, quello appunto basato sull’autonomia delle cose temporali, per cui per decidere in politica non si fa appello alla religione né la si considera come elemento di discriminazione. In realtà questo può essere visto non tanto come un successo della religione all’italiana, quanto come un portato della particolare integrazione tra politica e religione che si era prodotta in Italia per la sua particolare storia, per cui le masse cattoliche erano  state indotte a coalizzarsi intorno al papato romano in un processo secolare che è partito da metà Ottocento, nell’opposizione al processo di unificazione nazionale, che è poi proseguito con l’integrazione con il fascismo e poi, in epoca democratica, sotto le bandiere del cattolicesimo democratico. Se si scava un po’ a fondo, interrogando le persone, senza distinzione di età, prova che si è realizzata una tradizione  in questo campo, si può facilmente avere la dimostrazione che l’ideologia sottostante ha risentito poco del processo di assimilazione alla democrazia che i cattolici democratici volevano produrre: riemergono idee caratteristiche dell’integrazione con il fascismo storico. Il modello del buon cattolico  in politica è ancora quello là. Ma influenze sensibili si colgono anche nelle questioni relative alla famiglia. Quell’integrazione riguarda il fascismo mussoliniano maturo, appunto quello sviluppatosi tra il 1930 e il 1938, tra l’epoca in cui le ultime resistenze di parte cattolica ai Trattati Lateranensi del 1929 vennero sopite e l’inizio della legislazione razzista anti-ebraica, che segnò il principio di una presa di distanza da parte del papato romano, non il fascismo rivoluzionario delle origini né quello repubblicano della fine. Le principali resistenze ad un formazione politica alla democrazia nel quadro dell’iniziazione religiosa, per preparare i laici di fede al compito che da loro si attende per promuovere nelle società del loro tempo i valori di fede, sono motivate con argomenti che ricalcano quelli di quel tipo di fascismo. Oggi questo tipo di politica sembra addirittura l’unico in grado di salvare l’Italia dalneo-populismo egoistico che minaccia di dissolverla e che è in linea con il trumpismo  statunitense. E’ venuto a mancare, però, l’ingrediente principale di ogni movimento guelfo: un Papa che voglia essere anche un capo politico populista come lo furono i suoi predecessori. Papa Francesco indica un’altra strada, più difficile, più impegnativa, che è poi il linea con quel grande manifesto  del cattolicesimo democratico che è la Costituzione  La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2°.

 

33. Consapevolezza storica e partecipazione responsabile

 

[dal Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

 

Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarci, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quello che tutti già sanno sulla necessità di organi rappresentativi per la formazione delle leggi, dell'indipendenza della magistratura - che prenderà il posto dell'attuale - per l'applicazione imparziale delle leggi emanate, della libertà di stampa e di associazione, per illuminare l'opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo momento nel nostro paese, sui rapporti dello stato con la chiesa e sul carattere della rappresentanza politica: 

a. la Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendole le armi temporali per imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come naturale alleata di tutti i regimi reazionari, di cui cerca approfittare per ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo patrimonio, per stendere di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull'ordinamento della famiglia. Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l'alleanza col fascismo andrà senz'altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti, e dovrà riprendere la sua
opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico; 

b. la baracca di cartapesta che il fascismo ha costruito con l'ordinamento corporativo cadrà in frantumi, insieme alle altre parti dello stato totalitario. C'è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Nello stato totalitario le Camere corporative sono la beffa, che corona il controllo poliziesco sui lavoratori. Se anche però le Camere corporative fossero la sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie sindacalmente più potenti.

  Ai sindacati spetteranno ampie funzioni di collaborazione con gli organi statali, incaricati di risolvere i problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz'altro da escludere che ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe un'anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del corporativismo potranno e dovranno essere attratti all'opera di rinnovamento, ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta degli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllano ogni mossa nell'interesse della classe governante.

 

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  Gli autori del Manifesto di Ventotene  scrivevano quando ancora l’Italia era dominata dal regime fascista mussoliniano. Quest’ultimo aveva ancora il consenso largamente maggioritario, direi quasi totalitario, dei cattolici italiani. Ogni resistenza era stata vinta non molto dopo la conclusione degli accordi tra il papato romano e il Regno d’Italia dominato del Mussolini, nel 1929, con i Patti Lateranensi. Il regime aveva soppresso ogni libertà democratica e, in particolare, quella sindacale, instaurando, in un processo compiuto tra il 1926 e il 1939, un ordinamento corporativo, nel quale furono istituiti nuovi sindacati come istituzioni dello stato, che venivano proposti come rappresentativi delle varie categorie dei lavoratori e dei datori di lavoro, per eliminare il conflitto sociale. Queste istituzioni era controllate dal Partito Nazionale Fascista, l’unico partito all’epoca ammesso, dal Ministro delle Corporazioni e da quello dell’Interno: ogni nomina di dirigente, ad ogni livello doveva ottenere l’approvazione ministeriale, inoltre l’organizzazione delle corporazioni era fortemente gerarchica. Nel 1939 la Camera dei deputati venne sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, con funzioni solo consultive, nella quale sedevano anche rappresentanti delle Corporazioni. La fine della libertà sindacale avvantaggiò i datori di lavoro, i quali erano la parte dominante nei rapporti di lavoro dipendente e  storicamente si erano associati in sindacati principalmente per reagire al sindacalismo operaio. Nel regime fascista lo sciopero e la serrata, la chiusura di una fabbrica per reagire a moti operai, erano vietati. Storicamente l’affermazione del fascismo era stata favorita da industriali e imprenditori agrari anche come protezione contro il sindacalismo socialista. Il fascismo maturo, quello che fu veramente totalitario in Italia negli anni ’30, restò legato a quegli ambienti sociali.  La contrattazione sindacale fu fortemente limitata dalla parte dei lavoratori, che venivano privati del loro principale strumento di pressione sulle controparti, quello dello sciopero. In contratti nazionali di lavoro divennero norme dello stato e, pur contenendo gli eccessi da parte dei datori di lavoro, ma i lavoratori, nell’ordinamento corporativo fascista, finirono effettivamente, come ricordato nel Manifesto per “irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllavano ogni mossa nell'interesse della classe governante.”

  Anche la prima dottrina sociale della Chiesa aveva proposto il corporativismo come regime preferibile nei rapporti di lavoro, anche se non nella forma attuata dal fascismo, ma come sistema di intese amichevoli tra lavoratori e datori di lavoro ispirate ad equità e umanità. Negli anni ’30, comunque, il regime fascista presentò l’ordinamento corporativo come l’attuazione degli insegnamenti della dottrina sociale, non venendo smentito, ma anzi trovando apprezzamento nella gerarchia cattolica, nel nuovo clima di collaborazione instauratosi con il papato romano dopo la conclusione, nel 1929, dei Patti Lateranensi.

  Ecco infatti che cosa si legge nell’enciclica Il Quarantennale, diffusa nel 1931 dal papa Achille Ratti, regnante come Pio 11° in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la  Le novità, del papa Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°:

92. Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno e anche qualche opportuna considerazione. 

93. Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso solo concludere contratti e patti di lavoro. L'iscrizione al sindacato è facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l'organizzazione sindacale può dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono obbligatorie per tutti gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il sindacato giuridico non escluse l'esistenza di associazioni professionali di fatto. 

94. Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune. 

95. Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato. 

96. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell'ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l'azione moderatrice di une speciale magistratura. Per non trascurare nulla in argomento di tanta importanza, ed in armonia con i principi generali qui sopra richiamati, e con quello che inibito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all'avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale. 

97. Noi crediamo che a raggiungere quest'altro nobilissimo intento, con vero e stabile beneficio generale, sia necessaria innanzi e soprattutto la benedizione di Dio e poi la collaborazione di tutte le buone volontà. Crediamo ancora e per necessaria conseguenza che l'intento stesso sarà tanto più sicuramente raggiunto quanta più largo sarà il contributo delle competenze tecniche, professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della loro pratica, da parte, non dell'Azione Cattolica (che non intende svolgere attività strettamente sindacali o politiche), ma da parte di quei figli Nostri che l'Azione Cattolica squisitamente forma a quei principi ed al loro apostolato sotto la guida ed il Magistero della Chiesa; della Chiesa, la quale anche sul terreno più sopra accennato, come dovunque si agitano e regolano questioni morali, non può dimenticare o negligere il mandato di custodia e di magistero divinamente conferitole. 

98. Se non che, quanto abbiamo detto circa la restaurazione e il perfezionamento dell'ordine sociale, non potrà essere attuato in nessun modo, senza una riforma dei costumi come la storia stessa ce ne dà splendida testimonianza. Vi fu un tempo infatti in cui vigeva un ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Ora quell'ordinamento è già da gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e in qualche modo venire dilatandosi, ma perché piuttosto gli uomini induriti dall'egoismo ricusarono di allargare, come avrebbero dovuto, secondo il crescente numero della moltitudine, i quadri di quell'ordinamento, o perché, traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi autorità, si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione. 

99. Resta adunque che, dopo aver nuovamente chiamato in giudizio l'odierno regime economico, e il suo acerrimo accusatore, il socialismo, e aver dato giusta ed esplicita sentenza sull'uno e sull'altro, indaghiamo più a fondo la radice di tanti mali e ne indichiamo il primo e più necessario rimedio, cioè la riforma dei costumi. 

 Il Papa, quindi, esortò i membri dell’Azione Cattolica di allora a collaborare con l’ordinamento corporativo fascista con il  “contributo delle competenze tecniche, professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della loro pratica”, invito che effettivamente venne accolto.

  Quanto ho sopra sintetizzato, spiega perché gli autori del Manifesto di Ventotene,  al confino nell’isola dopo periodi di detenzione in carcere e nel pieno del regime fascista, nel pensare la nuova Europa che immaginavano sarebbe seguita ai nazi-fascismi europei, dedicarono alla Chiesa cattolica e al corporativismo fascismo quei due periodi che ho sopra trascritto.

  Nella formazione alla fede di solito si sorvola su quei fatti, che oggi sono ritenuti disonorevoli. Si preferisce ricordare il lavoro di progettazione di una nuova democrazia che si compì effettivamente tra ristrettissime elite  dell’Azione Cattolica, in particolare tra gli universitari della FUCI e tra i membri del Movimento Laureati, su impulso  di Giovanni Battista Montini e di altri, l’impegno dei cattolici democratici nella Resistenza tra il 1943  e il 1945, e infine il contributo determinante di questi ultimi, molti dei quali usciti dalle fila della FUCI  e delMovimento Laureati, nella fondazione politica e nello sviluppo della Repubblica democratica e delle istituzioni europee. Ma l’integrazione con il fascismo vi fu effettivamente e fu molto profonda. Ancora oggi se ne risente. Si evidenziano generalmente le incompatibilità tra i due regimi totalitari del fascismo e del cattolicesimo romano, che indubbiamente c’erano dal punto di vista ideologico: tuttavia il fascismo aprì la strada ad un’egemonia della gerarchia cattolica sul popolo italiano alla quale essa da tempo ambiva e per il fascismo la legittimazione come regime provvidenziale  da parte del papato fu determinante nel controllo politico totalitario della nazione. In sostanza: due totalitarismi che si integrarono creando una sorta di dottrina comune che definì il profilo del benpensante. Che cosa sono dieci anni nella storia di una nazione? Eppure gli anni ’30 furono nel bene e nel male fondamentali per ciò che a lungo si produsse dopo. Nel bene perché la Repubblica democratica deriva da un pensiero che in quegli anni si sviluppò, sia in ambito cattolico democratico, sia in ambito socialista che in ambito liberale, le tre componenti di base del nuovo regime democratico post-fascista. Nel male perché il modello fascista del benpensante  creò una persistente e radicata tradizione popolare, per cui, ad esempio, certe cose che si sentono dire ai nostri giorni nei confronti di gente di altre etnie e religioni e su come dovrebbe essere la famiglia risalgono a quel tempo là, anche se se ne è in genere persa consapevolezza.

  C’è infine una importante lezione che ci viene dalla storia: quella italiana degli ultimi due secoli fu potentemente influenzata dalla politica espressa dalla Chiesa cattolica. Essa però, in democrazia, non può più rimanere una faccenda solo da preti. Se ne deve poter discutere ad ogni livello anche negli ambienti religiosi. Ciò  non sempre è agevole, perché la struttura istituzionale ecclesiale è rimasta sostanzialmente feudale e totalitaria. In un’associazione come l’Azione Cattolica si può fare tirocinio di democrazia e, ad esempio, come è ieri è avvenuto nell’Assemblea diocesana, confrontarsi e votare anche su singole frasi di un documento programmatico, ma questo in genere non avviene in una realtà di base come quella parrocchiale, pur essendo prevista qualche sede rappresentativa. Dove di certe cose non si discute e non si fa tirocinio, non si acquista una consapevolezza del proprio ruolo sociale e questo impedisce di resistere alle degenerazioni, di mettere in questione scelte discutibili, di solidarizzare con coloro che vengono ingiustamente emarginati, di bilanciare certi eccessi, di mantenere un pluralismo di opzioni, di chiedere a chi esercita un’autorità di rendere periodicamente e  pubblicamente il conto di ciò che ha fatto e di ciò che progetta di fare. Oggi ci troviamo, in parrocchia, a dover rimediare a problemi che si sono generati anche per questo motivo, per cui molta gente del quartiere, non sentendosi il linea con una certa impostazione, mi pare che si sia allontanata ed ora è tanto faticoso farle riprendere familiarità tra noi.

 

34. Nuove modernità

 

[da: Peter Berger, Grace Davie, Effie Fokas, America religiosa, Europa laica? - Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il Mulino, 2010, € 18,50]

 

[pag.192] […] se una società desidera fare uso di certe tecnologie, deve adattare le sue istituzioni e i suoi valori culturali in maniera tale da formare persone che possano impiegare queste tecnologie. Per esempio, il pilota di un aereo moderno non può agire sulla base delle assunzioni metafisiche o degli incantesimi di uno sciamano, almeno finché siede nella cabina di pilotaggio. Ma quando il pilota torna a casa - per esempio in un villaggio primitivo - può fare proprie ogni sorta di idee e pratiche magiche.

 

  La modernità è un fatto culturale, anche se la parola richiama l’idea di una successione di epoche. Si ha quando una società ritiene di aver fatto dei progressi rispetto ad una sua forma precedente, per cui comprende meglio e più realisticamente i fatti della vita, e innanzi tutto sé stessa, e sviluppa tecnologie più efficaci e potenti. E’ un processo che ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità e la gran parte delle culture umane, ma solo dall’Ottocento, in Europa, la modernità è divenuta anche ideologia e non comporta solo una constatazione di come un certo presente si presenta a confronto con un suo passato ma anche propositi per il futuro. Dall’Ottocento essere moderni  significa anche voler essere sempre più moderni. In questa accezione modernità  è strettamente connessa con progresso. L’obiettivo delle società moderne  non è più stata la stabilità, ma il miglioramento incessante sulla via della modernità. Il processo di modernizzazione  ha riguardato anche la religione, che fino alla metà dell’Ottocento ha preteso di sbarrare la strada all’ideologia della  modernità, appunto perché comprendeva anche una modifica del ruolo della religione nella società e una diversa comprensione dei concetti e precetti religiosi. Il Novecento si è aperto in Europa con l’ultima delle persecuzioni religiose attuate nella nostra confessione, che è stata quella contro il modernismo. All’inizio del Novecento, la battaglia della religione contro la modernità scientifica  era già persa, ma era ancora in corso quella contro la modernità sociale, che riguardava concezione e costumi sociali. Un portato di quest’ultima era la democrazia,  contro la quale il papato romano combatté strenuamente in Italia fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, quando provò a trovare un accomodamento anche in questo campo. Ma il divieto assoluto di modernizzare  rimase in campo religioso e si dovette arrivare agli anni Sessanta del secolo scorso per un primo cambiamento. Bisogna anche dire che la pretesa della modernità di svelare  la natura e la dinamica dei fatti sociali colpiva anche la religione con l’accusa, senz’altro in genere fondata, di essere stata lo strumento con cui le classi dominanti avevano asservito le masse popolari, fascinandole con una serie di miti, di fantasiose narrazioni che si pretendeva descrivessero fedelmente la realtà. Questa prospettazione veniva fatta sia dai democratici liberali, che dominarono il Regno d’Italia dalla sua fondazione nel 1861 all’avvento del fascismo mussoliniano nel 1922, sia dai socialismo, il movimento politico che in Italia si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento: per il socialismo ottocentesco la liberazione sociale delle classi di quelli che stavano peggio avrebbe dovuto comportare anche la liberazione delle masse dai miti religiosi. Quest’ultimo compito fu assunto con molto impegno e rigore dal comunismo sovietico, regime che nel 1917 si impadronì dell’impero zarista russo, e dai regimi che ad esso si ispirarono o da esso comunque vennero imposti.

  Nel corso del Concilio Vaticano 2° si venne ad una nuova sistemazione culturale: la modernità venne accettata ma essenzialmente con fatto laicale, destinato a rimanere in quello che venne definito il  temporale, nel senso di soggetto a rapidi cambiamenti e quindi opposto all’eternità  che caratterizza la dimensione soprannaturale. I laici vennero incoraggiati a trattare degli affari  temporali, sviluppando una competenza autonoma, nel senso che, se dovevano pilotare un aereo di linea, dovevano farlo secondo le regole della fisica e della tecnologia aeronautica, non confidando sulle proprie concezioni religiose e prendendo come riferimento i testi di teologia. Nelle questioni relative al  soprannaturale  ci si propose di introdurre aggiornamenti e, innanzi tutto, di studiare di più e meglio le Scritture. Questo può sembrare un portato della modernità, e lo è effettivamente, ma, per non violare certi divieti religiosi che vennero mantenuti (per cui non ci fu mai un’ammissione di colpe per la persecuzione antimodernista, che oggi a molti appare veramente sconsiderata), si presentò la cosa come un  ritorno alle origini, quindi come un tornare indietro, alla purezza dei primi tempi, quando si era molto più vicini alla prima predicazione del Maestro, per cui si supponeva che si fosse anche più vicini alla verità eterna.  Questo ha configurato una modernità  di tipo religioso, quindi non ostile e incompatibile con la religione, per cui, ad esempio, in Vaticano i Papi mantengono dal 1936 un consiglio di scienziati, che dagli anni ’76 possono essere credenti e non credenti, conta solo la competenza nelle cose temporali.

 Ora, l’atteggiamento dei saggi del Concilio nei confronti della modernità  è diventato comune a tutte le culture che hanno avuto uno sviluppo tecnologico seguendo gli europei. Vale a dire che, come sostengono i sociologi Berger, Davie e Fokas nel libro che ho sopra citato, non c’è più solo una  modernità, in particolare quella europea di tipo antireligioso, ma più  modernità, alcune delle quali democratiche e altre democratiche, alcune delle quali religiose e altre secolarizzate, vale a dire portate a confinare la religione nel privato individuale escludendola nelle scienze e marginalizzandola in società. I menzionati autori citano ad esempio una modernità russa ispirata dall’Ortodossia, una modernità islamica, una modernità indiana hindu e anche una modernità integralmente cattolica che a loro dire è stata realizzata con successo dall’Opus Dei.

  Bisogna dire che il riparto di competenze  stabilito dai saggi dell’ultimo Concilio, un grande progresso  negli anni Sessanta scorsi, non soddisfa più. Voleva essenzialmente ripartire le competenze tra clero e laici, quando già però questa distinzione non era più attuale, in particolare in Italia, dove il clero era stato determinante nei fatti sociali  temporali in particolare a partire dai processi democratici a cavallo tra Ottocento e Novecento,  e i laici avevano messo bocca ampiamente nelle questioni del soprannaturale, vale a dire anche nella teologia, in particolare contestandone il carattere arretrato e antidemocratico.

 A quale modernità facciamo riferimento in parrocchia? Ne vedo proposti più di una, ma in genere non esplicitamente (essere moderni  nella nostra confessione induce ancora un certo sospetto di indisciplina ideologica, se non di vera e propria eresia). Ognuno pensa che la sua sia quella giusta. E anche questa è una situazione moderna, perché la modernità  comprende in genere (non sempre) anche un certo pluralismo, e comunque la modernità europea  nasce come pluralista.

 

35. Crisi della parrocchia e crisi della politica

 

  La gente viene molto meno in parrocchia che negli anni ’70  e quando ci viene è restia ad impegnarsi: viene prevalentemente per consumare servizi religiosi. E’ un riflesso della crisi della politica, per cui sono spariti i partiti  che vengono considerati  tradizionali. Si tratta, in realtà, di una metamorfosi della società molto profonda che è stata descritta scientificamente dalla sociologia più recente. La sociologia si propone di capire  la società e di prevederne  gli sviluppi: ai tempi nostri non riesce più  a fare bene il secondo lavoro perché la società evolve in modo molto più caotico di una volta. Mio zio Achille fu un grande sociologo italiano, insegnava all’università di Bologna in un corso avanzato  e, da scienziato sociale, parlava e scriveva molto difficile. Cercò anche di essere un divulgatore e in questo era molto ascoltato. Le sue conferenze erano sempre piene di gente. Scrisse anche alcuni libri per spiegare ciò che accadeva nella società del suo tempo e, in particolare, nella Chiesa. I due sicuramente più importanti furono: Toniolo: il primato della riforma sociale, per ripartire dalla società civile, del 1978,  e Crisi di governabilità e mondi vitali  del 1980, oggi introvabili. Volevano divulgare, ma rimanevano libri  difficili. Mio zio Achille, quindi, era molto più  ascoltato  che letto. Dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni 80, un decennio fondamentale per la trasformazione della società italiana, fu molto  ascoltato in particolare  nel partito principale di governo, la Democrazia Cristiana(era membro del suo Consiglio nazionale), e dal mondo cattolico. Alcune strategie tentate all’epoca per rivitalizzare politica e Chiesa furono sostanzialmente ispirate dal suo insegnamento. Mi pare che l’apice della sua influenza in entrambi i mondi si toccò nel 1986, quando la Festa Nazionale dell’Amicizia, la grande festa annuale del partito, si tenne a Cervia, in Romagna, nella piazza davanti a casa sua. All’epoca consigliava al partito, ma anche ad esempio alla FUCI, di fare grandi raduni nazionali in piccoli paesi, per impregnarli totalmente ed evocare così una realtà di mondo vitale, vale a dire  di quella collettività che dà senso all’esistenza umana. Per lui la crisi di questi mondi vitali  era alla base di quella della società nel suo insieme. La cura per la società era quindi quella di rivitalizzarli. Poi tutto cambiò molto velocemente in Italia, in politica e in religione, e iniziò la situazione in cui ci troviamo adesso e da cui non riusciamo a liberarci, anche se ci causa tanti problemi. La metamorfosi accadde a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, come manifestazione acuta di una crisi iniziata nei vent’anni precedenti e progressivamente aggravatasi. Il partito si dissolse e la Chiesa cambiò profondamente, seguendo la via proposta da Karol Wojtyla.  Mio zio criticò pubblicamente il vescovo della sua città sulla questione degli immigrati, che il vescovo preferiva fossero cristiani, e fu duramente e lungamente emarginato.  Non fu più ascoltato né letto dalla generalità. Fu ancora letto  dagli scienziati sociali e dagli amministratori che si occupavano di sanità e assistenza agli anziani, il suo campo principale di studio e di azione negli ultimi anni. Per diversi anni amministrò uno dei principali ospedali ortopedici nazionali, il Rizzoli  di Bologna. Fu lui a ideare il CUP, il Centro Unico di Prenotazione, che ebbe in Emilia Romagna la prima organica attuazione. Egli, sostanzialmente, fece poi la fine del grillo parlante nella favola di Pinocchio. Ma la storia gli ha dato ragione. Ho sempre pensato che la sua sorte fosse dipesa dal fatto di non riuscire ascrivere nel linguaggio comune della gente. Ascoltare  non basta, per generare fatti profondi occorre poter leggere. La nostra fede non è, in fondo, basata su Scritture?  In questa prospettiva, potete capire perché mi addolora tanto la dispersione della biblioteca parrocchiale, che, per ciò che so, è stata attuata molto velocemente e per motivi che non ci sono stati spiegati, e mi auguro siano stati buoni motivi. Quando si è insediato il nuovo parroco, già non c'era più.  Probabilmente il fatto  è dipeso da spese indifferibili che occorreva fare o dalla necessità di venire incontro alle molte famiglie in difficoltà che assistiamo, che in questi anni sono sempre più aumentate: in questi casi in famiglia ci si priva anche dei gioielli più cari.  Faccio delle ipotesi: in realtà non è stata fornita alcuna spiegazione.

 Il sociologo Zygmun Bauman fu, invece, molto più letto  che ascoltato. Egli non aveva  con una Chiesa e con un partito un rapporto forte come quello di mio zio Achille. Quindi, se non avesse saputo farsi leggere, non sarebbe stato inteso, perché pochi erano disposti semplicemente ad ascoltarlo. Il suo libro divulgativo fondamentale è Modernità liquida, del 2000, in Italia pubblicato da Laterza, €16,00, che si trova anche in e-book. Lo consiglio come libro di testo ai gruppi di approfondimento dell’impegno politico e sociale che sorgono nelle parrocchie dopo le esortazioni contenute nell’enciclica Laudato si'. In quel libro viene spiegato che cosa sta succedendo nel mondo di oggi e perché sta diventando tanto diverso da quello che c’è stato fino agli anni ’80. Bauman ha scritto molti altri interessanti libri divulgativi, che fondamentalmente approfondiscono i temi di Modernità liquida. Bauman è morto il 9 gennaio di quest’anno, quando era molto anziano, e ora avremmo bisogno di un altro profeta  come lui.

  In un certo senso mio zio Achille  e Bauman svolsero le funzioni che nell’antichità biblica ci si attendeva dai profeti: spiegavano alla gente il senso ultimo di ciò che stava accadendo. In mio zio Achille, rispetto a Bauman, la fede religiosa era una componente fondamentale, in un modo che i suoi discepoli faticano a spiegare, perché li imbarazza. Si pensa infatti che la sociologia, come le altre scienze, debba mantenersi neutrale  rispetto alle idee religiose, ma certamente mio zio Achille in materia religiosa  neutrale non era, con riflessi nella sua attività scientifica e nella sua azione politica, perché egli, oltre che scienziato sociale, fu anche un politico. Questo gli consentì, per molti anni, dal Secondo dopoguerra, quando qui a Roma, con Dossetti, partecipò con molti altri ingegni brillanti, all’ideazione della nuova Repubblica democratica, fino agli anni ’80, quando tutto rapidamente cambiò, di essere molto ascoltato, ma fu anche all’origine della sua dura successiva emarginazione. Perché la nostra Chiesa è ancora strutturata come un sistema totalitario, ed è insofferente del pluralismo e del dissenso, in particolare quando si traduce in lesa maestà  verso la gerarchia, anche se si sforza di non esserlo (questo va riconosciuto, soprattutto parlando di papa Francesco), ma proprio non le riesce. Ma quella, dell'emarginazione o peggio,  è appunto, in genere, la sorte deigrilli parlanti quando parlano  in società e alla società, dicendo ciò che in società non si gradisce udire. Se però il grillo  della storia di Pinocchio  si fosse limitato a scrivere, forse non sarebbe finito acciaccato al muro, perché Pinocchio, incolto e analfabeta, non lo avrebbe letto,  e amen. Si dice infatti che le parole dette volano, mentre quelle scritte rimangono,  ma se uno non sa, non può o non vuole leggerle, queste ultime diventano inutili. Però le rivoluzioni, i cambiamenti radicali, sono guidate da quelle scritte.

  Bauman sostiene che si sta passando da una società di cittadini  ad una di consumatori  e questo sta sfasciando i rapporti sociali, perché ognuno non solo pensa di poter fare da sé, ma è anche spinto a farlo: se non lo fa, non merita. In definitiva era anche l'analisi di mio zio Achille, benché riferita ad una situazione in cui certi fenomeni erano appena gli esordi. L'ideologia consumista distrugge i  mondi vitali che davano e danno senso alle vite delle persone. Quelle vite ora frullano qua e là disordinatamente, andando dietro all'infinita generazione di desideri, mai appagati, come vuole appunto l'ideologia consumista. Un tempo l'appagamento  si trovava nelle relazioni di mondo vitale, ma anche ora è così e infatti è  comune nei consumatori  la sensazione di inappagamento.

  Un cittadino non è solo uno che vive in società, ma è una persona che ha una qualche voce in capitolo in essa e di cui comunque la società non vuole fare a meno. In una società di cittadini  si cerca di ridurre al minimo gli  scarti  sociali. Questo accade sia nelle società democratiche che in quelle totalitarie. Bauman sostiene che questo era legato con il sistema sociale dell’economia, che aveva necessità di riserve umane  in buona salute, da impiegare all'occorrenza nella produzione. La prima legislazione sociale in favore dei lavoratori, quella britannica dell'Ottocento, partì dalle constatazione che la salute dei lavoratori, nelle grandi città industriali, stava rapidamente peggiorando. 

 In una società di  consumatori, sostiene Bauman,   conta solo il credito al consumo  che si ha, per cui ci sono molti scarti umani dei quali non mette conto di prendersi cura perché non hanno credito  e quindi non servono  al sistema. La loro sofferenza umana non conta e li si squalifica perché sono nella condizioni di scarti: si pensa che sia colpa loro l'essere stati scartati, perché non hanno meritato  abbastanza. Si fossero dati da fare, non sarebbero diventati scarti. In realtà è la società che decide chi scartare. Prende dalle persone tutto quello che possono dare,  e finché ne hanno; poi, quando ne rimangono senza, ad esempio perché diventano anziane o malate o tutte e due, le scarta. I poveri che vengono da fuori, gli immigrati economici, come vengono definiti, automaticamente vengono inseriti tra gli scarti. Se si pensa che ognuno debba risolvere da sé i propri problemi,  meritando, la società non deve più occuparsi di lui, diventa inutile  farlo. In un certo senso però diventa inutile anche la stessa società, in particolare nella sua dimensione politica, e, per questo motivo, essa si va sfasciando:  perché non serve più  a certe cose. I problemi sociali allora diventano problemi di sicurezza pubblica, da risolvere con la polizia. Fondamentalmente lo stato, in quest'ordine di idee, un po’ secondo l’ideologia del liberalismo della seconda metà dell’Ottocento, dovrebbe ridursi al minimo, occupandosi di diritto, polizia e di protezione dei confini esterni. Poi ognuno si arrangi come può: meriti.

  Questo sviluppo della società del nostro tempo ha colpito duramente ipartiti.

  Si parla di partito tradizionale, ma in che senso?

  Il modello di partito tradizionale, quello a cui pensiamo istintivamente quando parliamo di partito, è sorto dopo la Seconda guerra mondiale, ed è stato il Partito Nazionale Fascista - PNF. Quest’ultimo aveva preso a modello il partito comunista bolscevico, che nella Russia zarista nel 1917 aveva preso il potere con una rivoluzione violenta. Si trattava, quest'ultimo, di un partito organizzato come un esercito, con una struttura gerarchica molto ben definita e rigida, in cui le direttive scendevano dall’alto. I suoi iscritti erano militanti  fortemente ideologizzati. Il PNF mussoliniano volle essere qualcosa di simile, comprendendo però, obbligatoriamente, tutta la gente, senza più distinzione di classi, di fatto cristallizzando la situazione di dominio di classe esistente. Mussolini si formò politicamente nel socialismo italiano, differenziandosene sempre più alla vigilia della Prima Guerra Mondiale sulla questione della partecipazione alla guerra, a cui si manifestò favorevole dopo che prima era stato di contraria opinione. Egli considerava la partecipazione alla guerra, quindi la milizia  bellica,  il fattore per unificare politicamente e militarmente il popolo italiano, per iniziarlo velocemente alla milizia politica, e vide giusto. Fu infatti proprio dai reduci di quella guerra che scaturì la classe dei primi militanti fascisti.

  Il partito comunista bolscevico, strutturato secondo l’ideologia di Lenin[Lenin, Vladimir Il′ič. - Pseudonimo del rivoluzionario e statista russo Vladimir Il′ič Uljanov( Simbirsk1870 - Gorki, Mosca, 1924 - fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/vladimir-il-ic-lenin/] era un partito di classe. In una società, quella russa zarista, dominata da una vasta classe di nobiltà terriera, quindi in un impero in cui una classe di nobili di fedeltà zarista dominava su masse di contadini, quel partito si proponeva di annientare, anche fisicamente, la classe dominante, affidando il potere a una classe di rivoluzionari di professione che mutasse con la forza il sistema economico, politico e sociale per metterlo al servizio dei bisogni  della classe dominata e, inoltre, di costruire l’uomo nuovo vale a dire di fare delle masse un popolo di militanti  ideologicamente consapevoli, quindi con una coscienza di classe. Questo programma politico comprendeva anche l’annientamento dell’influenza politica della Chiesa ortodossa, che era fortemente federata con il sistema zarista. Il PNF era invece un partito corporativo. La sua ideologia si proponeva di fare del popolo italiano, in tutte le sue componenti,  una massa militante, ma comprendendovi tutte la classi sociali, sia quelle dominanti che quelle dominate, cristallizzando i rapporti di forza che vedevano i pochi dominare sui più. Nell’Italia degli anni ’20 le classi dominanti erano la grande borghesia industriale settentrionale e quella agraria. La nascita del PNF fu appoggiata da entrambe queste componenti. Il corporativismo però non rientrava nell’ideologia socialista dalla quale proveniva Mussolini. In particolare, all'origine il fascismo era anti-borghese. Il corporativismo rientrava invece nell'ideologia della dottrina sociale moderna della Chiesa cattolica, a partire da quella che viene considerata la sua prima manifestazione, l’enciclica  Le Novità, del 1891, diffusa del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, in religione Leone 13°. Il corporativismo della dottrina sociale concepiva la società come un corpo vivente, in cui ognuno aveva una sua funzione importante, in cui quindi tutte le classi dovessero collaborare nell’interesse comune, ciascuna persona però restando al proprio posto, di privilegiata o di non privilegiata,  ricca o  povera. Si considerava impossibile eliminare l'ingiustizia sociale: essa poteva essere solo mitigata (lo si afferma esplicitamente nell'enciclica Le Novità). Il suo modello era il corporativismo medievale, nel quale datori  di lavoro e lavoratori erano inquadrati in corporazioni di mestiere e c’era solidarietà nelle singole corporazioni e tra le corporazioni, nel quadro di un'organizzazione politica cittadina. In questo quadro, nella prima dottrina sociale,  il conflitto sociale veniva dissimulato, il sindacalismo sconsigliato, lo sciopero vietato. Era una visione premoderna e irrealistica, come Giuseppe Toniolo cercò incessantemente di far capire ai Papi della sua epoca, con scarsi risultati. Il fascismo mussoliniano l’adottò come base della sua rivoluzione sociale. La pace sociale venne imposta dal regime, non era frutto di accordi sociali. Comportando la cristallizzazione dei rapporti di classe, venne appoggiata dalla classe dominante, la borghesia italiana di quel tempo. Ma anche le masse speravano in un tornaconto. Ognuno doveva rimanere al proprio posto, ordinatamente: se lo faceva il regime garantiva che ci si sarebbe presi cura di lui, attraverso una vasta rete di istituzioni sociali che effettivamente vennero costituite. Aderire al fascismo, prendere la tessera, e impegnarsi pubblicamente a seguirne l’ideologia, divenne obbligatorio solo per chi volesse impieghi pubblico, per gli altri era raccomandato come segno di buona condotta sociale. In un certo senso l'adesione al fascismo era una specie di assicurazione sociale. Il dissenso, l'eresia, come in religione, venne condannato in quanto metteva a rischio l'integrità del corpo sociale e il benessere  che esso diffondeva attraverso le sue istituzioni. Negli anni ’30 l’adesione degli italiani al fascismo divenne quasi totalitaria e nel 1931, il papa Achille Ratti, regnante come Pio 11°, nell’enciclica sociale Il Quarantennale, in occasione dei quarant’anni dalla prima enciclica sociale Le Novità, invitò  i membri dell’Azione Cattolica a collaborare nelle istituzioni corporative fasciste. Si realizzò così, a quell’epoca, una profonda integrazione tra Chiesa cattolica italiana e regime fascista, mediante la quale entrambe le istituzioni si rafforzarono nel popolo italiano. Il PNF divenne il Partito della Nazione, il partito unico degli italiani, ciò che nessun partito del Regno d’Italia era mai potuto essere prima per la strenua opposizione politica del papato romano, che ostacolava la partecipazione dei fedeli cattolici alla politica democratica dello Stato a causa della conquista del Regno pontificio da parte del Regno d’Italia: la cosiddetta questione romana. La controversia fu risolta nel 1929 con una serie di accordi, complessivamente denominati Patti Lateranensi, conclusi dal papa Achille Ratti con il Regno d’Italia rappresentato dal Mussolini. Questo patto tra Chiesa e Stato, così come il fascismo, sarebbe potuto durare molto a lungo, come nella Spagna di Francisco Franco (il suo regime fascista morì con lui, nel 1975) e nel Portogallo di Antonio De Olivera Salazar (il suo regime fascista gli sopravvisse e durò fino al 1974), se il Mussolini fosse rimasto neutrale nella Seconda Guerra Mondiale, come Franco e Salazar. Ma l’ideologia del Mussolini era fortemente bellicista e lo spinse a seguire la Germania nazista e gli altri regimi fascisti suoi alleati nel conflitto. Non potendo realizzare una vera giustizia sociale mediante una più equa redistribuzione di risorse tra gli italiani, il regime si proponeva di predarle ad altri popoli, come altre nazioni europee facevano da tempo. La sconfitta bellica ruppe il patto ideologico con il papato e l'incantamento verso gli italiani. Ma ancora negli anni Cinquanta la gerarchia cattolica simpatizzava per il franchismo spagnolo: se ne lamentava Lorenzo Milani.
  La Chiesa, con il patto concluso nel 1929, recuperò una potente capacità di influenza nel popolo italiano, in particolare attraverso il sistema scolastico. Vide inoltre contrastati duramente i suoi principali nemici dall'Ottocento: il liberalismo e il socialismo atei e, in Italia, atei essenzialmente in quanto anticlericali, ritenendo la Chiesa un ostacolo all'emancipazione delle masse come lo era stata nel processo di unificazione nazionale. 

  Nel dopoguerra, una parte dell’ideologia corporativa fascista, di matrice cattolica, fu inglobata nell’ideologia del partito cristiano (come lo chiamava lo storico Gianni Baget Bozzo), la Democrazia Cristiana.  Da corporativismo divenne interclassimo: in ambiente democratico la collaborazione delle classi non fu più imposta, ma raccomandata e perseguita politicamente, con una serie di riforme sociali e anche mediante l'intervento pubblico nel sistema economico. La Democrazia Cristiana, sulla via della dottrina sociale della Chiesa, pensava ad uno stato che si occupasse dei bisogni di tutti e introducesse norme che prevenissero il conflitto sociale, impedendo forme estreme di sfruttamento in danno della classe lavoratrice. Si parlava di stato sociale, perché l’iniziativa privata e la proprietà dovevano trovare un limite nell’utilità sociale. Poi, con espressione più moderna, di welfare state, stato per il benessere collettivo. Il principio che nei rapporti di lavoro dipendente il lavoratore dovesse avere un’equa retribuzione, non solo proporzionata al lavoro svolto, ma anche sufficiente per mantenere una vita dignitosa per lui e per la sua famiglia. divenne una norma costituzionale, all’art.36 della Costituzione.

  A cavallo tra gli anni ’80  e ’90 la concezione della società come di un corpo organico venne progressivamente abbandonata. Al fondo di ciò c’era l’idea che, nel sistema economico globalizzato, dove occasioni di profitto potevano trovarsi in tutto il mondo e non più solo all'interno di un singolo sistema statale, in un mondo senza più frontiere per il capitale,  non tutti erano veramente necessari per il benessere collettivo. C’era gente di scarto che era solo un peso sociale. Le pensioni agli anziani e l’assistenza sanitaria gratuita alla popolazione cominciarono ad essere considerate solo come un costo. Del resto l’industria dimostrava di poter fare sempre più a meno di mano d’opera e, comunque, di poterla sostituire rapidamente ed efficacemente, spostando produzioni e richiamando altre persone. Il sistema economico non aveva più bisogno di riserve umane  in buona salute. Chi merita, vale a dire trova un modo di cavarsela, ha diritto di sopravvivere, gli altri no: per loro c’è solo l’assistenza caritativa, lasciata al buon cuore degli altri. Chi protesta crea un problema di sicurezza pubblica, da risolvere mediante la polizia. Ma la gente protesta sempre meno: in fondo è convinta della bontà dell’ideologia meritocratica. Solo, spera di essere nella parte che merita, e, se non riesce ad esserlo, se ne vergogna, si colpevolizza. Se lo stato non è più  sociale, non assicura più di occuparsi dei bisogni fondamentali di tutti, perché parteciparvi? La corporazione sociale si è sciolta, ognuno fa per sé. I conflitti di classe che sono sempre rimasti attivi, solo mitigati dalla legislazione sociale sul lavoro che però progressivamente in questi anni si sta cercando di rendere meno pervasiva e incisiva, esplodono liberamente e allora vince il più forte, come nella legge della giungla, animale grosso mangia animale piccolo. I rapporti di lavoro non sono mai paritari: c’è sempre una parte più forte, che è quella dei datori di lavoro, ed è questa che prevale. La politica, in questa situazione, diviene inutile,  così come la società, e lo è anche quella, virtuosa, ancora diffusa dalla dottrina sociale, quella che oggi si vuole approfondire in parrocchia. Ecco perché la gente non viene in parrocchia quando si parla di questi temi. La soluzione? E’ difficile, impegnativa, e riguarda la politica come la parrocchia. Occorre innanzi tutto avere una visione realistica della società e comprendere che los carto  è generato da ristrette classi dominanti; che chi soffre non è che abbia  demeritato, ma soffre perché è vittima della legge della giungla del capitalismo globale; che quando si va da soli alla guerra secondo la  legge della giungla si  è vittima dei più forti; che però una reazione collettiva di massa può ancora cambiare le cose. E, quindi, innanzi tutto, ripeto: conseguire una visione realistica delle dinamiche sociali.

   Un indizio della causa di ciò che accade, dei mali sociali, è nella proposta, che viene da più parti, di un reddito di cittadinanza. Sembra una stranezza, ma molti economisti lo consigliano per tenere in piedi la società. Non solo funzionerebbe, secondo loro, ma occorre per mantenere in piedi il sistema consumistico.  Un tempo lo stato si occupava dei bisogni della gente e distribuiva risorse che poi venivano spese, si traducevano quindi in consumi  di massa;  ora che non se ne occupa più perché ci si è trasformati da cittadini a consumatori e ognuno fa per sé, accade che la platea dei consumatori si riduca sempre di più, man mano che la legge della giungla fa le sue vittime e produce i suoi scarti umani. Così però il sistema rischia di saltare per insufficienza di consumatori: ecco la necessità di crearne artificialmente recuperando una parte degli scarti.  E' una cosa che nelle politiche di governo degli ultimi anni ha prodotto, ad esempio, elargizioni più o meno generalizzate degli "80 euro". Che significa, in fondo? L’attuale sistema economico globalizzato va verso la rovina se lasciato alle sue dinamiche selvagge; va verso l’autodistruzione, perché si occupa di porzioni progressivamente sempre più piccole di popolazione, incrementando le diseguaglianze sociali. Seguendo l’ideologia della globalizzazione non riusciremo più, a lungo andare, a garantire la sopravvivenza sul pianeta di sette miliardi di persone, sempre in aumento. Alla fine il sistema si bloccherà. E’ necessario quindi cambiare, ma non lo si potrà fare che collettivamente, con movimenti di massa, questa volta però sulla base di un cambiamento interiore molto più profondo, non solo politico, ma anche di natura religiosa  perché legato al senso della vita,  come appunto quello che viene raccomandato nella Laudato sì, perché, ed è questa la novità di ciò che accade oggi, ognuno, ogni  consumatore, proprio consumando, si fa carnefice di una parte dell’umanità, rafforzando il sistema che genera la sofferenza sociale e che, infine, travolgerà anche lui. Non si può quindi cambiare il mondo che sta per travolgerci senza cambiare noi stessi, riscoprendo, così facendo, la cittadinanza

 

36. La religione come problema sociale

 

 

   Negli anni ’80 si visse in Italia una fase di riflusso  sociale, di disimpegno e ritorno nell’individualismo personale, fenomeno che coinvolse anche l’aspetto religioso e  il nostro quartiere. Sembrò allora che il pluralismo avrebbe significato dispersione e avrebbe compromesso la residua efficacia della proposta religiosa della parrocchia. Si perse fiducia nelle spiritualità fondate su dialogo e pluralismo: il primo come mezzo per comporre il secondo in una collettività armoniosa.

 Le religioni sono fatti sociali. Servono a dare stabilità alle società.  L’etica che diffondono è molto importante. Per dare stabilità, inglobano una certa dose di fondamentalismo  e di integralismo. Fondamentalismo  è quando si cerca di mantenere costanti alcune concezioni,  integralismo  è quando si cerca di contrastare le tendenza all’assimilazione da parte di altri gruppi. Il compito di dare stabilità  alle società è fondamentalmente politico, e infatti fin  dalle società primitive le religioni hanno svolto un ruolo politico. Fede e politica sono state sempre intrecciate strettamente. Una fede impolitica non può essere considerata una vera religione, ma è essenzialmente magia: quando si crede che certi riti possano cambiare le cose. Le religioni basate sul soprannaturale hanno sviluppato in genere una complicata teologia e una raffinata giurisprudenza, per stabilire ciò che è buono e ciò che non lo è, ma fondandosi su relazioni con l’invisibile sono anche piuttosto duttili e questo consente un loro adattamento alle esigenze politiche dei tempi. Chi può smentire certe affermazioni? Trovano una sponda nell’emotività umana e sono state in un certo senso l’archetipo di ogni persuasore occulto. Le moderne tecnologie di marketing vi si richiamano implicitamente, facendo risaltare la fondamentale irrazionalità delle scelte del consumatore e proponendo quindi immaginifici miti di consumo, vere proprie  religioni  del consumo con proposte salvifiche. Le grandi religioni storiche hanno mantenuto costanti certi connotati, ma si sono profondamente evolute, e ciò è particolarmente vero per la nostra. La nostra religione non è assolutamente quella stessa delle origini. Questo risalta particolarmente se si considerano le concezioni politiche ad essa correlate. Ora, non è la fantasiosa mitologia espressa dalle religioni che in genere costituisce un problema sociale, ma la politica che esse esprimono, e che riguarda, in particolare, le relazioni tra i fedeli e tra questi ultimi e la società intorno. Dall’ultimo conclave ci è venuto nel 2013 un capo, un Padre,  dall’altra parte del mondo, che ci ha portato la voce di comunità tanto diverse da noi, e in particolare di un organismo vivace e innovatore come il CELAM il  Consiglio episcopale latino americana.  Ho letto che l’esortazione La Gioia del Vangelo  e l’enciclica Laudato si’,  contengono molto di un documento molto importante prodotto dal Celam, al termine della Conferenza di Aparecida, nel maggio del 2007.  Su suo impulso si è cominciato a cambiare orientamento negli affari sociali,  proponendo una diversa concezione di politica di ispirazione religiosa, vale a dire quella che non considera più il pluralismo una minaccia, che spinge a eliminare le dogane che controllano i flussi con ciò che è all’esterno degli spazi liturgici e, anzi, invita a uscire fuori delle nostre chiese per intessere nuove relazioni virtuose con la gente intorno, innanzi tutto per partecipare alla risoluzione dei problemi comuni, a partire da quelli minimi, come la fontana di quartiere.  Siamo quindi spinti a ridurre la quota di fondamentalismo  e di  integralismo  delle nostre spiritualità. Ciò non significa creare un mondo dove le posizioni religiose di prima siano ribaltate, i dominatori di un tempo ridotti a sconfitti, e gli sconfitti di un tempo nel ruolo di dominatori, ma creare un’organizzazione  dove non vi siano più dominatori e sconfitti, inclusi ed esclusi. Significa anche essere capaci di relazioni sociali virtuose, amichevoli e solidali tra diversi orientamenti, non quindi al modo delle assemblee condominiali in cui si decide insieme pur detestandosi e aspettando il momento di cancellare l’opinione difforme. Finora abbiamo diffidato gli uni degli altri, non perdendo occasione per azzannarci e aspettando il momento in cui ogni presenza diversa dalla nostra cessasse per estinzione naturale o per ordine dell'autorità; ora, come dice sempre il parroco qui a San Clemente papa, bisognerebbe cominciare a volerci bene.  Questo però richiede, per cominciare, un atteggiamento che in genere è molto difficile da ottenere, in particolare da chi a lungo si è abituato ad avere mano libera: l’autocritica. Senza di questo non si inizia neppure. Senza di questo gli egemoni di un tempo saranno solo gli sconfitti di oggi, aspettando la rivincita al prossimo conclave.  Ci si continuerà francamente a detestare e su questo non può crescere nulla di buono. Il seme cadrà tra le pietre e le spine e il seminatore sprecherà il suo tempo e la sua fatica.

 

37. Prepararsi a lavorare in società

 

  Il modello di pratica religiosa che a lungo è prevalso in Italia è stato quello della fede come medicina dell’anima. Ci si metteva a scuola di spiritualità per sanare ferite invisibili. Questa esigenza ha conformato le comunità orientandole verso l’interno. Poiché la dottrina era stata ideata per altri scopi, la si è integrata: analogamente si è fatto con la liturgia. E’ una tendenza molto diffusa nel mondo e, anzi, la possiamo considerare al centro della de-secolarizzazione che è in corso a livello globale. Si riprende ad avere fiducia nelle spiegazioni delle religioni, ma più che altro nelle questioni più personali e nelle relazioni di prossimità.

  In questo quadro irrompe il pensiero di Bergoglio/Francesco che è situato su un altro livello e chiama alla grande politica, a livello globale. La gente in Italia è impreparata a questo, ma non solo in religione, più in generale a livello di cittadinanza. La crisi delle istituzioni statali è proceduta parallela a quella delle istituzioni religiose. Lo ha notato, ad esempio, lo storico Paolo Prodi, morto recentemente, in un articolo dal titolo Senza Stato né Chiesa - L’Europa a cinquecento anni dalla Riforma, pubblicato sull’ultimo numero della rivista bolognese Il Mulino. A questo problema si è cercato di rimediare in Italia con il Progetto culturale  della Conferenza Episcopale Italiana (informazioni su http://www.progettoculturale.it/), per recuperare una capacità di intervento sulle ideologie-guida della società e della politica italiane. Si è cercato anche di recuperare una certa unità tra le visioni di fede correnti nelle nostre collettività, al sevizio dell’universalità delle proposte, e questo ha depresso il dialogo, per cui è sembrato che si preferisse far cadere certe idee dall’alto.

   Nella nostra parrocchia, con il nuovo corso, inaugurato nell’ottobre 2015 con l’arrivo di un nuovo parroco e di una nuova squadra di preti, si è avviato un processo di formazione all’intervento sociale, inaugurato da un incontro con don Luigi Ciotti e proseguito sistematicamente con l’approfondimento di temi della dottrina sociale, innanzi tutto per spiegarne i principi fondamentali. Questa attività ha però coinvolto in prevalenza coloro che, fin da giovani, erano stati abituati a cose come queste, vale a dire persone che oggi sono ultracinquantenni. E, nonostante la vivace animazione degli amici del ciclo Immischiati, quegli incontri sono stati vissuti prevalentemente come conferenze. Non si è potuto verificare il punto di partenza culturale degli uditori, né verificare quanto e come avessero recepito di ciò che era stato loro proposto. Quindi quest’anno si stanno utilizzando tecniche di laboratorio culturale  per stimolare la partecipazione. Ma i più giovani? Innanzi tutto i genitori dei bambini che ci portano i loro figli al catechismo per la prima formazione religiosa? Si tratta delle classi di età più attive, impegnate sul lavoro e in famiglia, quelle che contano di più nell’immagine della società, quelle che hanno ancora le forze per occuparsi dei più giovani e la pazienza per relazionarsi positivamente con i più anziani, insomma le generazioni panino,  strette tra i doveri verso i più giovani e quelli verso i più anziani, i trenta/quarantenni che mandano avanti le cose in società. Sono molto impegnati. La religione come medicina dell’anima, in genere, non è loro utile. Quando si corre tutto il giorno, spesso non si ha tempo per porsi certi problemi. Vivono in una società in cui certi grandi ideali umanitari e le corrispondenti politiche sono a rischio. C’è un senso religioso e politico di tutto questo e in un documento come l’enciclica Laudato si’, del 2015, esso viene sintetizzato. Si tratta di un testo che, in questo, è veramente molto diverso dalla precedente letteratura pontificia. Ma richiede approfondimenti e impegni  di vita: si tratta di risanare la società, e a livello mondiale, non le singole persone.

  La religione come medicina dell’anima si è sentita accusare, fondatamente, di essere solo un anestetico locale, una droga dello spirito, per consolare artificialmente persone in catene sociali, e, in questo senso, di essere, come gli stupefacenti, una specie di veleno. Ma si tratta di una evoluzione piuttosto recente, una manifestazione della  crisi che ha coinvolto anche altre istituzioni pubbliche. Storicamente la religione non si è mai concentrata solo sul privato e sul micro-mondo, tanto è vero che ha cambiato profondamente, non sempre in bene, le società in cui si è immersa. E’ a questo che, in particolare, ci si riferisce quando si parla di radici religiose  dell’Europa.

  Il nostro problema è quello di riavvicinare le classi più giovani al lavoro che si fa in parrocchia in vista dell’impegno in società. Bisogna dire che, per un tempo lunghissimo, non c’è stato più nulla che potesse veramente interessarle. Si riparte quasi da zero. E, innanzi tutto, occorrerebbe organizzare spazi accoglienti per accogliere quella gente. Sotto un certo punto di vista le attrezzature che servono per la pratica religiosa - medicina dell’anima sono molto più semplici e meno costose. Infatti in questo settore si lavora  molto di fantasia. Se invece si vuole proporre visioni realistiche della società, per iniziare a lavorarci sopra, occorre di più. Gli strumenti e i luoghi vanno protetti, occorre stabilire un’organizzazione, che sarebbe meglio fosse auto-organizzazione, e delle regole. Sotto questo profilo in parrocchia si è ancora piuttosto disordinati, e la conformazione delle stanze in cui si svolgono attività collettive cambia continuamente. Abbiamo vissuto una sorta di privatizzazione  delle attività parrocchiali, che è stata corrispondente all’impostazione privatistica  della proposta religiosa, tutta centrata sul micro-personale.

 

38. I guai politici delle religioni tradizionali

 

 E’ facilmente dimostrabile che i problemi che le religioni tradizionali incontrano nelle società contemporanee sono essenzialmente politici, quindi relativi alle questioni di governo pubblico. Infatti la gente non manifesta alcun problema nei confronti di ogni tipo di soprannaturale e di ogni sorta di immaginifica spiegazione in merito, ma resiste a chi le vuole imporre che pensare, che dire, che fare, come relazionarsi con gli altri.

  Quello della laicità  è un problema essenzialmente politico e riguarda i rapporti tra una gerarchia e un popolo che le è semplicemente soggetto. Non si manifesta solo in religione. E’ stato osservato che esso si è prodotto anche nelle società post-comuniste dell’Europa orientale.

  Spesso si considera il termine laico  come equivalente a  non credente, ma non è questo il punto. Storicamente, negli ordinamenti religiosi della nostra fede, il laico  è stato costituito dalla presenza di un potere gerarchico esercitato da un clero. Tra il popolo  dei persuasi nella fede religiosa si è prima enucleato un  clero, a cui si è attribuito il governo, la profezia, il sacerdozio, praticamente tutto in religione, e per sottrazione sono risultati i  laici, che progressivamente sono stati assimilati al popolo  intero, come se il clero  non ne facesse più parte.Popolo  erano coloro che erano sudditi  del clero, al mondo in cui lo erano verso i signori feudali. In questo l’organizzazione delle nostre collettività ha imitato quella delle società civili sue contemporanee lungo i quasi due millenni del suo potere religioso. Il problema dellaverità   è venuto a coincidere con quello dei gerarchi della verità: la verità era ritenuta tale perché proclamata da un’autorità religiosa,  dal clero. E’ quest’ultimo che non vuole essere relativizzato, che pretende di rimanere sempre sul campo come assoluto. Quindi il problema del laicato non riguarda tanto la libertà dalla verità, ma da gerarchi assoluti della verità.

  L’impegno sociale ispirato dalla fede, ciò che si fa rientrare nell’idea didottrina sociale, venne proclamato inizialmente come verità di origine gerarchica, al modo degli altri dogmi. In questo campo si è assistito ad una democratizzazione  della produzione di verità sociali, non senza persistenti frizioni: problemi, appunto, politici.

  La scelta religiosa  che l’Azione Cattolica fece negli anni ’60, dopo il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) viene presentata spesso come una presa di distanza dalla politica espressa dal partito cristiano dell’epoca, dalla Democrazia Cristiana. In realtà si è trattato di un processo molto più profondo. Si scelse di liberare il pensiero sociale, e la conseguente politica, dal potere assoluto della gerarchia, che era abituata a organizzare le masse di fedeli a sostegno delle proprie istanze politiche e a richiederne l’obbedienza  politica senza tanti complimenti e discussioni. Al centro di questa processo fu l’autonomia del laicato, che doveva essere conquistata attraverso un’impegnativa opera di auto-formazione. Era questo un modo di vedere che fino ad allora era stato proprio solo delle organizzazioni intellettuali  di Azione Cattolica, FUCI, Laureati, Insegnanti cattolici, medici e giuristi cattolici. E’ stato difficile farne un’esperienza di massa, anche per le resistenze della gerarchia, che si fecero sempre più pressanti sotto il lunghissimo regno religioso del Wojtyla.

  Si tratta di problemi che vediamo ben rappresentati nell’organizzazione della nostra parrocchia. La gerarchia è rappresentata dal parroco e dai preti suoi collaboratori e detiene tutto il potere di tipo amministrativo, che si manifesta nel lavoro della parrocchia come ASL spirituale,  e civile, che riguarda, ad esempio, il patrimonio parrocchiale. Il laicato è rappresentato da vari gruppi  che convivono ignorandosi, in una situazione di precario condominio, che, a ben vedere, riguarda solo le questioni delle loro relazioni reciproche e poco di più. Ma questi gruppi  sono interessati quasi esclusivamente a ciò che accade al loro interno e qui l’autonomia della persona di fede ha poco campo per esprimersi. Si seguono metodi  e orientamenti predefiniti: ogni gruppo ha sviluppato una propria gerarchia, che a volte ricalca quella del clero. Si ripropongono all’interno dei gruppi i problemi dello sviluppo dell’autonomia laicale che caratterizzarono gli anni Sessanta e Settanta su scala più vasta. Allora si trattò di suscitare l’autonomia laicale delle masse verso la gerarchia, ora di tratta di suscitarla nei gruppi, che, dal canto loro, hanno sviluppato un assetto piuttosto rigido senza il quale si sentono persi.

  In questa situazione non esiste una vera comunità parrocchiale, come ideologicamente ce se la raffigura. Andrebbe creata avanzando delle pretese verso le formazioni che attualmente dominano la vita parrocchiale. E creando un’organizzazione parrocchiale che consenta una vera partecipazione laicale. Si tratterebbe di suscitarla pazientemente, perché la gente ha perso familiarità al lavoro collettivo e, senza una formazione sufficiente, tutto decade ad assemblea di condominio. In prospettiva dovrebbe potersi riunire un’assemblea parrocchiale, come quella che dovrebbe eleggere alcuni componenti del consiglio pastorale. La gestione patrimoniale della parrocchia dovrebbe essere spiegata ai parrocchiani in una qualche forma, in modo da avere consapevolezza dei relativi problemi. Le offertedovrebbero diventare contributi  e dovrebbe essere spiegato come questi ultimi sono impiegati. Le strutture parrocchiali sono utilizzate con troppa libertà dai gruppi. Bisognerebbe dare delle regole più stringenti e stabilire una cabina di regia in merito.

  Il tutto  è complicato dalla circostanza che si stanno cambiando costumi che si erano cristallizzati in un tempo  lunghissimo, trent’anni, corrispondenti addirittura ad una generazione.

  Al fondo rimane il problema politico: l’impegno sociale che si inizia nuovamente a pretendere pressantemente dai fedeli deve farsi su base di autonomia laicale, per avere una visione realistica della società e per radunare le competenze che occorrono per intervenire. Questo richiedere di imparare a lavorare collettivamente,  E la religione  da sola, e particolarmente certe sue immaginifiche semplificazioni, non basta.

 

39. Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica

 

  Una volta raggiunta la consapevolezza che la crisi religiosa e quella politica sono espressione di un medesimo processo,  ci si può anche convincere che le possibili soluzioni siano comuni ad entrambe e che, quindi, lavorando sull’aspetto religioso si possa contribuire anche a migliorare quello politico e viceversa. Questa convinzione è al centro del pensiero espresso nell’enciclica Laudato si’.

  I problemi della nostra organizzazione comunitaria di fede sono analoghi a quelli degli stati. Del resto la nostra è una confessione che ha voluto farsi stato. Viviamo in una situazione di sostanziale anarchia, in cui religioni e stati faticano a mantenere il controllo e, soprattutto, e qui mi riporto al pensiero di Zygmunt Bauman, sono realtà confinate in limiti sempre più ristretti: si sta riducendo di molto la competenza loro riconosciuta negli affari sociali. Ognuno è spinto a fare da sé, a risolvere da sé i propri guai. Vengono progressivamente meno i correttivi sociali agli abusi di posizioni dominanti. Si sta riproponendo una divisione in classi della società: quella di chi domina il nuovo corso e quella, che comprende la grande maggioranza della popolazione della terra, che è dominata. Per chi riesce a entrare nella prima non vi sono più frontiere, per gli altri le frontiere  diventano sempre più impenetrabili.

 Bauman osserva che in un regime di interdipendenza globale, la mobilità, il poter andare dove ci sono le occasioni più favorevoli, diventa  una risorsa quanto mai preziosa ed ambita. La desideriamo per i nostri figli e siamo orgogliosi quando riescono ad andare a studiare o a lavorare all’estero, perché non ci vanno nelle condizioni dei nostri migranti dell’Ottocento, ma come partecipi di una classe privilegiata. Ma il 98% della popolazione mondiale, osserva Bauman, non si trasferisce mai dal luogo di residenza: deve vivere e lavorare dove la sorte l’ha piazzata, accettando quello che c’è. E questo contribuisce al nostro benessere, di privilegiati che vivono in Occidente. Ci consente di acquistare a prezzi molto bassi beni di consumo quotidiano, praticamente tutti.

 Scrive Bauman in La società sotto assedio, del 2002, pubblicato in Italiano da Editori Laterza:

“Allo smantellamento  di tutte le barriere che ostacolano il libero movimento del capitale e dei suoi agenti si abbina l’erezione di nuove barriere, sempre più alte e scoraggianti , contro la massa di persone desiderose di adeguarsi e andare là dove spuntano le opportunità. Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di «immigrati illegali» e a dispetto di occasionali ed effimere  ondata di orrore e di indignazione provocate dalla vista di «emigranti economici» finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli. Il mondo globalizzato è un luogo accogliente e amichevole per i turisti, ma inospitale e ostile per i senzatetto. Ai secondo è vietato seguire il modello instaurato dai primi, che però, in fondo, non ea mai stato progettato per loro. Inoltre, qualora fosse un modello liberamente perseguibile dalle grandi masse anziché un privilegio esclusivo  di una ristretta cerchia di persona ben protette, non arrecherebbe certo quei vantaggi per i quali  è stato vantato dai suoi fautori e beneficiari”(pag.77-78).

 E’ evidente la rilevanza anche religiosa della situazione.

 C’è però difficoltà a capire che, quando insorgiamo contro i migranti economici e vorremmo rispedirli a casa loro, alla fine condanniamo anche noi stessi alla loro sorte, e in particolare i nostri figli. I problemi della gran parte di noi hanno la stessa causa di quelli di quei migranti. Sotto certi aspetti in Occidente beneficiamo dell’economia globalizzata, che infierisce senza più freni pubblici sui lavoratori che producono la gran parte delle cose di nostro uso comune, ma  questo  comporta che anche da noi si segua la stessa linea liberista e che, anzi, una delle residue funzioni degli stati sia proprio questa. “Un obiettivo”, scrive Bauman in quel libro, “probabilmente raggiungibile mediante costanti riduzioni fiscali, riducendo al minimo indispensabile la regolamentazione delle condizioni di lavoro, pacificando o imbavagliando le organizzazioni di difesa dei lavoratori, e soprattutto  non applicando alcuna restrizione al libero movimento in entrate e in uscita del capitale. Nel complesso, la conditio sine qua [=la condizione senza la quale = indispensabile] per rendere felici gli «investitori globali» e indurli a cercare profitti nel proprio paese anziché in  un altro è rendere la condizione dei produttori e consumatori locali il più precaria possibile” (pag.75).

 Che c’entra la parrocchia con tutto questo? C’entra se si riprende contatto con il quartiere, perché in quest’ultimo sono presenti, su scala locale, tutti i problemi che si presentano su scala globale. La dimensione locale fa sì  però che li si possa affrontare con una qualche efficacia tentando soluzioni di prossimità, ad esempio creando o potenziando iniziative solidali, ricreando quella rete sociale di resistenza che in passato ha funzionato molto bene e che ancora si intravvede nel vasto fenomeno del volontariato. Se però la religione viene vissuta prevalentemente come un gioco di ruolo, in comunità confinate e con pretesa di autosufficienza, alla lunga diventa inutile.

  In questi giorni nel gruppo parrocchiale di AC stiamo meditando sulla beatitudine  dei poveri in spirito.  I più ritengono che si debba fare uno sforzo per diventare poveri in spirito, in quanto pensano di aver raggiunto un certo benessere e, essendosi affrancati dalla povertà materiale, di essere soggetti alla tentazione dell’arrogante autosufficienza. Abbiamo letto il messaggio del Papa del 2014 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di quell’anno, che trattava di quel tema e invitava a una conversione verso i poveri, per rimettere al centro della cultura umana la solidarietà. Se riuscissimo a capire che, in realtà, la nostra condizione si sta progressivamente avvicinando a quella di coloro che ci appaiono realmente poveri, e che in definitiva, lasciando le cose andare avanti così, non ci sarà più tanto difficile ammettere di dover mendicare  tante cose che oggi sono ancora affermate come diritti,  questa  conversione  ci verrebbe più facile.

 Mi pare che in parrocchia ci siano due distinte visioni religiose dei problemi che stiamo vivendo collettivamente, a cui corrispondono distinte e divergenti soluzioni. Comporle non sarà facile. Autosufficienza religiosa o espansione solidale nello spirito dellaLaudato si’?

 

 

40. La radice politica dei problemi religiosi

 

 

  Riporto in fondo il testo delle omelie del Papa nella Veglia Pasquale e nella Messa nel Giorno nella solennità di Pasqua.

  Eccone alcuni brani su cui vorrei iniziare una riflessione:

“[…] se facciamo uno sforzo con la nostra immaginazione, nel volto di queste donne [Maria di Magdala e l’altra Maria nel racconto della scoperta del Sepolcro vuoto in Mt 28,1-8] possiamo trovare i volti di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore per lo sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città, vedono crocifissa la dignità.

Nel volto di queste donne ci sono molti volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci spinti a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così.

[…]

  Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non fanno altro che spegnere la speranza posta da Dio nelle nostre mani.

[…]

Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come fermento di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui.

[…]

 Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive!

E la Chiesa non cessa di dire alle nostre sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è risorto”. Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? […] a nessuno di noi viene chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.

[…]

  In questa cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada dell’usa e getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità.

[…]

La pietra scartata non risulta veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”.

  Nel proporvi queste meditazioni faccio riferimento anche ad idee che sono diffuse in parrocchia. In sintesi: viene rivisitato l’antico ebraismo e in qualche modo ce se ne appropria con una certa disinvoltura. La Pasqua ebraica racconta la storia di una emigrazione di molta gente di una certa etnia: se ne andò perché stava male nell’Egitto dominato dalle dinastie dei Faraoni.  Il problema erano le condizioni di lavoro, è scritto,  che si erano fatte molto dure. Usciti dall’Egitto gli antichi israeliti si trovarono a lungo nella condizioni degli attuali migranti  economici: infatti, stando a quel racconto, erano essenzialmente questo. Non avevano patria, né cittadinanza. Riuscirono a rimanere un gruppo coeso, al modo dei nomadi, che da quelle parti ancora ci sono. Questa condizione durò, secondo la narrazione biblica, fino a quando non si introdussero nella terra di Canaan, dove oggi ci sono lo stato di Israele e l’autorità palestinese, non la terra santa  da noi immaginata, e si conquistarono  militarmente un regno, poi frammentatosi in diverse entità politiche,  che dovettero difendere da molti invasori, infine soccombendo definitivamente ai Romani. Nello sforzo di organizzare regni giusti gli antichi israeliti colsero chiaramente la rilevanza religiosa dei problemi politici e viceversa. Questo è ancora molto attuale, in particolare nel nuovo ordine religioso della nostra fede. Il nostro problema di oggi, politico, non è organizzare uno nostro  stato da qualche parte,  ma di riorganizzare addirittura l’ordine politico mondiale su basi di giustizia: esso ha valenza specificamente religiosa perché riguarda la stessa sopravvivenza dell’umanità. Gran parte dei dominatori del mondo sono ancora oggi della nostra fede. Questo significa che gran parte degli sfruttatori sono gente che segue la nostra religione. L’Italia, una delle maggiori potenze industriali, è tra  i dominatori del mondo. Questo comporta una evidente responsabilità morale verso coloro che stanno peggio, dei quali il Papa ha fatto un elenco nelle omelie che ho citato. Quelli che stanno peggio sono gli  scarti  di un sistema che noi dominiamo. In religione questo è un peccato, ma noi ci autoassolviamo sostenendo che non ci possiamo fare nulla. E, anzi, inventandoci di sana pianta una sorta di neo-identità ebraica, immaginiamo di essere, collettivamente, tra gli sfruttati, tra quelli che stanno peggio e invochiamo la liberazione. Immaginiamo di essere tra gli oppressi perché minacciati dalla contaminazione  del mondo di fuori: quindi ci barrichiamo  culturalmente per respingere l’attacco. In questo modo effettivamente lasciamo fuori quelli che stanno  realmente  peggio e che vengono tra noi chiedendo aiuto. Il Papa allora, e fa semplicemente il suo mestiere, ci rimprovera e noi, convinti sinceramente di essere quello che non siamo, diventiamo insofferenti delle sue tirate d’orecchi e lo invitiamo a non impicciarsi nelle cose della  nostra politica. E’ questo il succo di un discorso fatto in Francia da un’importante personalità. Non abbiamo forse il diritto di  difenderci? Ma il Papa ci ricorda che le migrazioni di quelli che vorremmo respingere, innanzi tutto privandoli della loro dignità umana, e ciò mentre paradossalmente vorremmo immaginarci una dignità  degli animali simile a quella umana che neghiamo agli umani, sono un  sottoprodotto, uno scarto, del sistema economico e politico di cui noi siamo i dominatori e principali beneficiari. Riteniamo in ciò di esercitare il nostro buon diritto  e siamo disposti a far guerra a chi minaccia questo nostro stile di vita. Il Papa parla di nostre ossessionate ricerche di sicurezza   e di smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui  e le critica.

  Ma non è solo il Papa a farci questo discorso. Abbiamo da confrontarci con sempre più grilli parlanti che si rivolgono a noi, pinocchietti  presuntuosi.

  Uno di essi è, ad esempio, Vladimiro Zagrebelsky, nel suo Diritti per forza, Einaudi, uscito quest’anno, anche in e-book, che vi consiglio.

 Scrive Zagrebelsky, nel capitolo Stili di vita:

“Se non si prenderà coscienza della valenza aggressiva dei diritti accampati da chi può nei confronti di chi non può,  nel mondo che ha un solo confine che cinge l’intera umanità, ci si disporrà ad annichilire quanti, vivendo con noi e vicino a noi, ci sottraggono dall’interno quello che consideriamo il nostro spazio vitale e minacciano il nostro «stile di vita». La guerra che un tempo si faceva da parte di eserciti schierati sulle linee delle frontiere esterne, gli uni di fronte agli altri, oggi si trasferisce all’interno, gli uni mescolati con gli altri. Nuove frontiere si creano  ormai dentro un unico spazio globale  in cui non esiste più una «casa del tutto nostra» e una «casa del tutto loro», ma tutti siamo tenuti  a regolarci come in una grande casa comune. Il motto «padroni a casa propria», con il quale si vuole negare l’evidenza delle interdipendenza che ci avvolgono da ogni parte e si vuol respingere al di fuori dei nostri pretesi confini esterni, restaurati con muri, filo spinato, cannoniere e divieti legali, i fattori di con-fusione che caratterizzano il tempo presente, è solo un patetico ricordo d’un tempo che non c’è più.”

 Scrive anche, Zagrebelsky, che il mondo globalizzato  è paradossalmente divenuto più piccolo, non ha più spazi vuoti, come per certi versi fu il ­West  nel Nord-America, dove fuggire  per sottrarsi all’oppressione e a condizioni di vita troppo dure, come fecero gli antichi israeliti, spingendosi nel deserto, abbandonando la civiltà egiziana. L’esercizio di ogni nostro  diritto  ha un’influenza, spesso negativa, da qualche altra parte e la globalizzazione dell’informazioni che lo fa capire chiaramente: nessuno può dirsi all’oscuro. Gli oppressi rivendicano come diritto la giustizia, i dominatori il loro piacere: è chiaro che noi, nell’Italia di oggi, consumatori  innanzi tutto, siamo poco sensibili alla giustizia, perché siamo parte dei dominatori del mondo, gelosi innanzi tutto del nostro piacere. Che ci importa, infatti,  come sono prodotti, con quale sofferenza umana, le merci e i servizi che ci danno piacere e che vogliamo sempre nuovi, pronti all’uso, rapidamente consegnati (le cronache segnalano che nei servizi di logistica, di consegna merci, talvolta si notano ritmi di lavoro particolarmente duri a fronte di paghe molto basse)? C’è un’etica da ricostruire, anche a livello personale. Il nostro peccato sociale  si manifesta innanzi tutto nel modo in cui siamo  consumatori. E’ un tema che mi pare piuttosto trascurato nella formazione religiosa, specialmente in quella dei più giovani, in cui, ad un certo punto, ci si sfianca (inutilmente) sulle faccende del sesso.

  Un altro dei grilli parlanti  di cui dicevo è stato il sociologo Zygmunt Bauman, che ci ha lasciato tanti testi interessanti, scritti con un linguaggio accessibile ai più e che spiegano realisticamente ciò che dobbiamo fronteggiare.

 In La società sotto assedio, del 2002, edito da Laterza, un altro testo che vi consiglio, scrive (pag.223-235):

“La «negazione» è la risposta a domande inquietanti quali «come reagiamo alla nostra consapevolezza dell’altrui sofferenza e cosa implica per noi tale  consapevolezza?»  - le  domanda che sorgono ogni qual volta «persone, organizzazioni o intere società acquisiscono informazioni troppo inquietanti, minacciose o astruse per essere pienamente assorbite o apertamente riconosciute. Questa informazioni vengono quindi in qualche modo represse, ripudiate, accantonate o reinterpretate» [cita Stanley  Cohen].

 […] colui che perpetra il male e colui che lo vede, lo sente, ma non muove un dito, si trovano  […] entrambi esposti  alla possibilità  che le loro azioni (o la loro passività) gli si possano rivoltare contro, essendo state dichiarate inique, esecrabili e punibili […] avvertono quindi  il pressante e perenne bisogno di negare in modo enfatico e perentorio.  […] Esistono molte forme di negazione della colpa (o di rivendicazione d’innocenza, che è la stessa cosa), ma gli argomenti impiegati sono straordinariamente simili […] Ridotti all’osso, tutti gli argomenti rivelano l’uno o l’altro dei due modelli: «Non sapevo», o «Non potevo farci niente». […]  Nell’epoca delle autostrade informatiche, le argomentazioni sull’ignoranza vanno rapidamente perdendo di credibilità […] E così, l’unica scusa che ci resta è «non potevo farci niente» o «non potevo fare di più». […] Lo stratagemma del «non potevo fare di più di quanto ho fatto» dissolve la colpa - penalmente perseguibile- associata alla perpetrazione di un misfatto nella universale e quindi esecrabile  ma non punibile  condizione dell’«essere spettatore». In un mondo fatto d’interdipendenza globale, la differenza tra spettatore e co-esecutore, complice o favoreggiatore dell’azione malvagia diventa sempre più tenue. La responsabilità per le disgrazie umane, per quanto distanti possano essere da chi ne è testimone, non può assolutamente essere negata, almeno in modo convincente. Mai, quindi, la domanda di varianti sempre nuove e più raffinate di negazione di responsabilità del tipo «non potevo farci niente» è stata così grande e in forte espansione come oggi.

[…]

  Praticamente nessuna azione umana, per quanto localmente confinata e compressa, può essere certa che non avrà conseguenze sul destino del resto dell’umanità, così come  qualsiasi segmento dell’umanità non può limitarsi a se stesso e dipendere totalmente solo dalle azioni dei suoi membri.

  Nel commentare il memorabile intervento del 1979 di Edward Lorenz, il cui titolo è da allora diventato una delle frasi più note del secolo scorso («il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado nel Texas”), Roberto Toscano afferma che «oggi la realtà dell’interconnessione globale impone, nelle relazioni internazionali, standard etici che vanno ben oltre un concetto di responsabilità strettamente legalistico. La farfalla non conosce le conseguenze di un suo battito d’ali; essa tuttavia non può escludere quella conseguenza. Passiamo così dalla nozione di responsabilità a un concetto simile, ma più restrittivo, quello di precauzione».

[…]

  La sofferenza «come appare in TV» è nella gran parte dei casi trasmessa attraverso le immagini dei corpi emaciati degli affamati e dai volti sfigurati dal dolore dei malati.  […] Nulla si sa e niente viene detto sulle cause  della carestie e delle malattie croniche. Non un minimo accenno alla costante distruzioni dei mezzi di sussistenza  causata dal commercio  senza frontiere, allo smantellamento delle reti di sicurezza sociale sotto la pressione della finanza senza frontiere, o alla devastazione di terreni e comunità da parte di monoculture imposte dai mercanti di semi geneticamente modificati in stretta collaborazione con i missionari delle motivazioni economiche della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale. Piuttosto, un pervasivo e persuasivo suggerimento che «ciò che appare in TV» sia un disastro autoinflitto  abbattutosi su tribù distanti, esotiche e «molto diverse da noi» che si sono colpevolmente alienate una decente vita umana. E che - grazie a Dio (o alla nostra prudenza) esistono persone fortunate e di buon cuore come noi, fortunate perché sensibili e industriose, pronte a salvare lo sventurato dalle raccapriccianti conseguenze della sua sfortuna e della sua condotta insensata causata da ignoranza e indolenza.”

 Alla luce delle parole di Bauman, acquista un senso sinistro l’invito, che talvolta si fa in religione, a non pretendere troppo da sé stessi, perché in fin dei conti siamo peccatori ma lassù siamo amati lo stesso così come siamo, perché richiama l’argomento «non potevo farci niente» o «non potevo fare di più». Il punto non sta nell’amore soprannaturale incondizionato, nonostante la condizione di peccato,  ma nel  non voler  pretendere troppo (abbastanza?) da noi stessi, quindi in questa autolimitazione tutto sommato arbitraria, ingiustificata,  nello sforzo di essere migliori,  per cui poi, in definitiva,  possiamo finire per «abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione»  e «di più, possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della vita».  Dovremmo proprio, invece,  pretendere un po’ di più da noi stessi. Ad esempio come  consumatori: ci sono modi sbagliati di esserlo. Bisogna prestare più attenzione  a come viene prodotto quello che compriamo, a quanto sofferenza ingloba.  

  Animati dal «palpito del Risorto»  occorre invece, secondo l’esortazione del Papa, divenire “forza trasformatrice, come fermento di nuova umanità”   e “far saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui”.  Non è cosa che si consegue magicamente, senza un nostro impegno collettivo. Se non ci spendiamo in questo, e innanzi tutto non ci formiamo a questo, la religione diventa inutile, “la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.”  Dobbiamo lavorare per trasformare la realtà, con un impegno politico che ha anche un senso per la fede,  non cercare di  immedesimarci in un  qualche immaginifico gioco di ruolo a sfondo religioso.

 

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Veglia Pasquale nella Notte santa

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana
Sabato Santo, 15 aprile 2017

  «Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro» (Mt 28,1). Possiamo immaginare quei passi…: il tipico passo di chi va al cimitero, passo stanco di confusione, passo debilitato di chi non si convince che tutto sia finito in quel modo… Possiamo immaginare i loro volti pallidi, bagnati dalle lacrime… E la domanda: come può essere che l’Amore sia morto?

  A differenza dei discepoli, loro sono lì – come hanno accompagnato l’ultimo respiro del Maestro sulla croce e poi Giuseppe di Arimatea nel dargli sepoltura –; due donne capaci di non fuggire, capaci di resistere, di affrontare la vita così come si presenta e di sopportare il sapore amaro delle ingiustizie. Ed eccole lì, davanti al sepolcro, tra il dolore e l’incapacità di rassegnarsi, di accettare che tutto debba sempre finire così.

  E se facciamo uno sforzo con la nostra immaginazione, nel volto di queste donne possiamo trovare i volti di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore per lo sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città, vedono crocifissa la dignità.

  Nel volto di queste donne ci sono molti volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci spinti a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così. E’ vero, portiamo dentro una promessa e la certezza della fedeltà di Dio. Ma anche i nostri volti parlano di ferite, parlano di tante infedeltà – nostre e degli altri –, parlano di tentativi e di battaglie perse. Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non fanno altro che spegnere la speranza posta da Dio nelle nostre mani. Così sono, tante volte, i nostri passi, così è il nostro andare, come quello di queste donne, un andare tra il desiderio di Dio e una triste rassegnazione. Non muore solo il Maestro: con Lui muore la nostra speranza.

  «Ed ecco, ci fu un gran terremoto» (Mt 28,2). All’improvviso, quelle donne ricevettero una forte scossa, qualcosa e qualcuno fece tremare il suolo sotto i loro piedi. Qualcuno, ancora una volta, venne loro incontro a dire: «Non temete», però questa volta aggiungendo: «E’ risorto come aveva detto!» (Mt 28,6). E tale è l’annuncio che, di generazione in generazione, questa Notte santa ci regala: Non temiamo, fratelli, è risorto come aveva detto! Quella stessa vita strappata, distrutta, annichilita sulla croce si è risvegliata e torna a palpitare di nuovo (cfr R. Guardini, Il Signore, Milano 1984, 501). Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come fermento di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui.

  Quando il Sommo Sacerdote, i capi religiosi in complicità con i romani avevano creduto di poter calcolare tutto, quando avevano creduto che l’ultima parola era detta e che spettava a loro stabilirla, Dio irrompe per sconvolgere tutti i criteri e offrire così una nuova possibilità. Dio, ancora una volta, ci viene incontro per stabilire e consolidare un tempo nuovo, il tempo della misericordia. Questa è la promessa riservata da sempre, questa è la sorpresa di Dio per il suo popolo fedele: rallegrati, perché la tua vita nasconde un germe di risurrezione, un’offerta di vita che attende il risveglio.

Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive! Ed è ciò che cambiò il passo di Maria Maddalena e dell’altra Maria: è ciò che le fa ripartire in fretta e correre a dare la notizia (cfr Mt 28,8); è ciò che le fa tornare sui loro passi e sui loro sguardi; ritornano in città a incontrarsi con gli altri.

  Come con loro siamo entrati nel sepolcro, così con loro vi invito ad andare, a ritornare in città, a tornare sui nostri passi, sui nostri sguardi. Andiamo con loro ad annunciare la notizia, andiamo… In tutti quei luoghi dove sembra che il sepolcro abbia avuto l’ultima parola e dove sembra che la morte sia stata l’unica soluzione. Andiamo ad annunciare, a condividere, a rivelare che è vero: il Signore è Vivo. E’ vivo e vuole risorgere in tanti volti che hanno seppellito la speranza, hanno seppellito i sogni, hanno seppellito la dignità. E se non siamo capaci di lasciare che lo Spirito ci conduca per questa strada, allora non siamo cristiani.

Andiamo e lasciamoci sorprendere da quest’alba diversa, lasciamoci sorprendere dalla novità che solo Cristo può dare. Lasciamo che la sua tenerezza e il suo amore muovano i nostri passi, lasciamo che il battito del suo cuore trasformi il nostro debole palpito.

 

Domenica di Pasqua della Resurrezione del Signore

SANTA MESSA DEL GIORNO

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica di Pasqua, 16 aprile 2017

 

 

  Oggi la Chiesa ripete, canta, grida: “Gesù è risorto!”. Ma come mai? Pietro, Giovanni, le donne sono andate al Sepolcro ed era vuoto, Lui non c’era. Sono andati col cuore chiuso dalla tristezza, la tristezza di una sconfitta: il Maestro, il loro  Maestro, quello che amavano tanto è stato giustiziato, è morto. E dalla morte non si torna. Questa è la sconfitta, questa è la strada della sconfitta, la strada verso il sepolcro. Ma l’Angelo dice loro: “Non è qui, è risorto”. E’ il primo annuncio: “E’ risorto”. E poi la confusione, il cuore chiuso, le apparizioni. Ma i discepoli restano chiusi tutta la giornata nel Cenacolo, perché avevano paura che accadesse a loro lo stesso che accadde a Gesù.

  E la Chiesa non cessa di dire alle nostre sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è risorto”. Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? Come mai succedono tante disgrazie, malattie, traffico di persone, tratte di persone, guerre, distruzioni, mutilazioni, vendette, odio? Ma dov’è il Signore? Ieri ho telefonato a un ragazzo con una malattia grave, un ragazzo colto, un ingegnere e parlando, per dare un segno di fede, gli ho detto: “Non ci sono spiegazioni per quello che succede a te. Guarda Gesù in Croce, Dio ha fatto questo col suo Figlio, e non c’è un’altra spiegazione”. E lui mi ha risposto: “Sì, ma ha domandato al Figlio e il Figlio ha detto di sì. A me non è stato chiesto se volevo questo”. Questo ci commuove, a nessuno di noi viene chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.

  Oggi la Chiesa continua  a dire: “Fermati, Gesù è risorto”. E questa non è una fantasia, la Risurrezione di Cristo non è una festa con tanti fiori. Questo è bello, ma non è questo è di più; è il mistero della pietra scartata che finisce per essere il fondamento della nostra esistenza. Cristo è risorto, questo significa. In questa cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada dell’usa e getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità. Il senso di guardare oltre, il senso di dire: “Guarda non c’è un muro; c’è un orizzonte, c’è la vita, c’è la gioia, c’è la croce con questa ambivalenza. Guarda avanti, non chiuderti. Tu sassolino, hai un senso nella vita perché sei un sassolino presso quel sasso, quella pietra che la malvagità del peccato ha scartato”.

  Cosa ci dice la Chiesa oggi davanti a tante tragedie? Questo, semplicemente. La pietra scartata non risulta veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”. Pensiamo un po’, ognuno di noi pensi, ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto o che qualcuno dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane e, semplicemente, con voce umile, senza fiori, soli, davanti a Dio, davanti a noi diciamo “Non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto e io ho scommesso su questo”. Fratelli e sorelle, questo è quello che ho voluto dirvi. Tornate a casa oggi, ripetendo nel vostro cuore: “Cristo è risorto”.

 

41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno

 

 Una comunità può essere rivolta al proprio interno o verso l’esterno, verso il mondo intorno. Le sette sono prevalentemente del primo tipo, le religioni prevalentemente del secondo. Una setta religiosa ha quindi, in genere, al suo interno una contraddizione. Di solito quest’ultima viene risolta con l’immaginazione, costruendo un contesto esterno compatibile con l’ideologia di chiusura praticata. L’uscita da una setta religiosa viene spesso vissuta come un ritorno alla realtà.

  Perché si aderisce a una setta? Vengono riconosciuti vari moventi. Le sette propongono, in genere, visioni semplificate ma immaginifiche, quindi accattivanti e coinvolgenti, della realtà: chi ha difficoltà con una società complessa vi può trovare conforto. Inoltre esse sembrano dare protezione a chi vi aderisce, anche se solo fino a che vi aderisce, e l’adesione in genere comporta l’esigenza di sottomissione acritica ad un gruppo di comando, che può essere anche una singola figura dominante o, più spesso e nelle realtà più vaste, una gerarchia più complessa. In una setta si è in genere sottoposti a continue prove di fedeltà. Una setta religiosa della nostra fede sarà, ad esempio, particolarmente legata al racconto biblico del (mancato) sacrificio di Isacco, che inscena appunto una prova di fedeltà, arrivando addirittura (forzando abbastanza il testo biblico) a immedesimarsi in Isacco, piuttosto che in Abramo.

  Esperienze di setta sono state vissute ciclicamente anche nelle nostre collettività di fede. In genere l’educazione alla fede conduce a non dipenderne, perché la nostra religiosità ha una forte connotazione missionaria e dunque rivolta verso l’esterno. Non ci si appaga veramente di esperienze chiuse.

  In un’esperienza  aperta  è centrale la partecipazione, che consente il dialogo  e quindi l’interazione  e il  coinvolgimento  di gente nuova. Non è sufficiente la  fedeltà, occorre collaborare per  capire  ciò in mezzo a cui ci si trova. Più si è, meglio si capisce, perché si guarda il mondo da diversi punti di vista; ma senza il dialogo  le visioni parziali rimangono tali.  Si cerca di essere più aderenti alla realtà, acquisendo competenze  spendibili in società; si fanno progetti per migliorare la convivenza. Aprirsi  comporta il rischio, e la fatica, di confrontarsi  con la complessità. Solo nelle fantasie la realtà si adatta perfettamente alle concezioni ideali. Una religiosità che si propone come cattolica, quindi universale, vive senz’altro nella modalità dell’apertura. Questo comporta di rinunciare al monopolio del bene, che è un intento tipico della religiosità di setta, secondo la quale non vi è vero bene al di fuori di essa.

 In una modalità aperta  si può riconoscere, ad esempio, il valore religioso di una importante conquista civile, come quella del nostroParco delle Valli, evolutosi dal semplice pratone  delle origini a parco pubblico mediante quella che viene definita cittadinanza attiva, quindi una mobilitazione popolare di lungo periodo di cui la gente della parrocchia è stata  componente fondamentale. Questo modo di vedere le cose è al centro delle argomentazioni che troviamo nell’enciclica Laudato si’.

  Una setta può abitare  un luogo senza essere veramente interessata a ciò che c’è intorno, tanto più se è fatta di gente che viene da fuori. Una parrocchia, inviata a gente di un certo posto, non può organizzarsi così, è necessariamente una struttura aperta, interessata alla vita del quartiere. Molti tipi di impegni insieme civili e religiosi sono vissuti, ad esempio, nelle esperienze che si riconoscono in Libera, di cui ci ha parlato l’anno scorso don Ciotti. Un impegno così richiede una presenza molto più costante di quella di un gruppo con connotati di setta, in cui si va solo per i periodici appuntamenti programmati, ad orari fissi,  nel quadro di un certo metodo  e per le prove di fedeltà e verifiche relative. La parrocchia dovrebbe essere una struttura abitata molto più a lungo che, ad esempio, una sede periferica di un’associazione. Dovrebbe promuovere una partecipazione attiva, non da semplici utenti o spettatori. Dovrebbe poter funzionare anche senza copioni  da seguire pedissequamente e senza una vera e propria regia.  Ad esempio, ciò che gli studenti apprendono a scuola dovrebbe poter arricchire la vita parrocchiale e viceversa. Non si dovrebbe entrare in parrocchia come in un parco a tema, un po’ come quando si va nella vicina chiesona vaticana con tutti i suoi pittoreschi personaggi e relative scenografie. Entrando in parrocchia non ci dovrebbe trovare in un altro mondo, ad esempio in un fantasioso neo-mondo  a sfondo biblico, una realtà totalmente ricostruita al modo in cui a lungo lo si è fatto a Cinecittà, ai tempi d’oro del nostro cinema, ma nella realtà verae, in particolare, in una specie di  officina in cui si lavora sulla realtà vera e su gente vera, non con  persone che fanno  qualcun altro, immaginando di esserlo, almeno durante l’incanto.

 Occorre riflettere su queste idealità che ci sono state proposte dai saggi dell’ultimo Concilio:

1. Intima unione della Chiesa con l'intera famiglia umana.

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.

La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.

Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.

[dalla Costituzione pastorale  La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]

 

42. L’immaginazione al potere?

 

  L’immaginazione al potere  fu un’idea diffusa negli anni Sessanta del secolo scorso per reagire contro un sistema sociale che trasformava, e riduceva, l’essere umano ad  ingranaggio. Bisognava immaginarsi  un altro modo di vita sociale e renderlo possibile in concreto con l’impegno politico. Era una concezione fondata sull’ideologia del filosofo tedesco Herbert Marcuse, stabilitosi negli Stati Uniti d’America negli anni Trenta. Fu appunto la realtà statunitense al centro della sua critica sociale: quest’ultima però si adatta bene al modo di vivere dell’intero Occidente, anche di quello attuale, ma in fondo anche dell’intera civiltà globalizzata  contemporanea nelle sue manifestazioni sociali più evolute. Quella critica sociale portava ad organizzare azioni di contrasto, di opposizione, contro sistemi sociali che erano oppressivi in un modo diverso da come lo erano stati storicamente e lo erano i totalitarismi, essenzialmente riducendo l’essere umano  a una sola dimensione, quella appunto che ne faceva un ingranaggio sociale.  Quindi un’immaginazione  come  forza di cambiamento sociale.  L’accusa che si fa ai giovani degli anni Sessanta e Settanta che seguirono l’idea dell’immaginazione al potere  è in genere quella di aver troppo  immaginato  e di aver poco realizzato, ma si tratta di un addebito ingeneroso, perché effettivamente moltissimo cambiò in  Occidente e i problemi vennero quando, dagli anni ’80, l’immaginazione  come critica sociale ebbe sempre meno potere.

  In religione si fa un certo uso dell’immaginazione. Chi lo può negare. I nostri scritti sacri sono pieni di cose del genere. Li abbiamo ricevuti dall’antichità, in cui si ragionava  così. E questo è un punto molto importante: ragionare per visioni  è comunque un ragionare. La nostra più grande teologia si basa su quelle visioni. Ma è cosa che vediamo anche nell’esperienza ebraica, dove lo studio  è centrale e ha prodotto luminose scuole di pensiero su base religiosa, quindi fondate su quel tipo di visioni, che troviamo espresse nella letteratura talmudica  (da Talmud, il testo in cui  è raccolto il frutto di quelle riflessioni, che significa appunto studio).

  Ma immaginando  si può anche prendere congedo dalla realtà e allora non si ragiona più, ma solamente ci si emoziona. La critica più seria alla religione, seria in quanto fondata, è di essere stata una sorta di immaginifica droga  per il controllo sociale delle moltitudini di chi stava peggio, dei dominati sociali. Quindi di essere stata al servizio dei dominatori.  Un’immaginazione che perpetua una condizione di servaggio è cattiva anche dal punto di vista religioso. Se ragioniamo sulle visioni  proposte dai nostri testi sacri possiamo arrivare a convincercene. E’ passata da poco la nostra Pasqua, in cui abbiamo fatto memoria della  liberazione  degli antichi israeliti dal dominio degli antichi egiziani, che li opprimevano con condizioni di lavoro molto dure.

 Grandi maestri della nostra spiritualità, come Ignazio di Lojola e Giovanni della Croce, insegnano ad imparare a fare a meno dell’immaginazione approfondendo la propria esperienza religiosa. Progredire nella fede, allora, è come sbucciare gli strati di una cipolla, togliendo ciò che non è essenziale. Si arriva in una notte oscura, dove si intuisce misticamente il fondamento di tutto. Rimane la convinzione che si tratti di misericordia, compassione, benevolenza universale: questa la grande novità della nostra fede rispetto alle antiche religioni politeistiche.

 Woody Allen, nel suo film Crimini e misfatti, che vi consiglio di acquistare e vedere in DVD, fa dire ad un personaggio che gli antichi ebrei immaginarono  un fondamento amorevole, ma anche con l’immaginazione non riuscirono a concepirlo totalmente  benevolente, tanto che troviamo l’episodio del (mancato) sacrificio di Isacco. Eppure anche nelle scritture troviamo una progressione nella riflessione sul fondamento e in essa la misericordia ha un posto sempre più importante. C’è un’immaginazione che stronca l’inimicizia e le guerre e che possiamo considerare buona, perché  è anche fonte di liberazione.

 Gli antichi greci svalutarono molto l’immaginazione e il sogno. Consigliavano di rimanere aderenti alla realtà. l’essere umano sognante lo vedevano incatenato in fondo ad una caverna, con il volto rivolto verso il fondo, potendo vedere solo ombre della realtà come proiettate  sul muro. Vi è chi vi ha visto l’anticipazione della nostra civiltà dell’immagine.

 L’immaginazione comunitaria   è la più potente di tutte. Insieme si arriva a convincersi dell’inverosimile, si attenua il controllo sulla realtà. Le comunità dispotiche usano l’immaginazione per tenersi stette i propri adepti. Questa non è la via della nostra religione. Lo vediamo, ad esempio, nelle comunità monastiche, dove le regole  dei fondatori sono molto rigide nel cercare di impedire che la comunità prenda il sopravvento. Non tutto ciò che è comunitario, infatti, è conforme alla fede. Ne parlano a lungo le scritture. Bisogna sempre vedere se l’immaginazione conduce a ragionare sulla realtà per modificarla in meglio, per distaccarsene in ciò che in essa non va, per convincersi che un mondo migliore è possibile, o se serve a legare la gente ad un ordine ingiusto.

  A volte le comunità, anche molto coese, non sono un bello spettacolo, soprattutto quando prendono congedo dalla realtà e dalla gente intorno e diventano un universo concentrato solo su sé stesso. Stimolano l’emotività collettiva per separare ed escludere ciò che c’è fuori. Ciò che viene escluso non cambia e il cambiamento che si vive nelle comunità dispotiche è solo immaginario  nel senso di apparente.

  Se si vuole lavorare con efficacia sulla realtà, come oggi siamo spinti a fare anche in religione, occorre in primo luogo esercitarsi sulla critica dell’immaginario  che si impiega. E’ buono o cattivo?

 

43. Scuola popolare di pensiero sociale

 

 L’enciclica Laudato si’  può essere utilizzata come libro di testo di una scuola popolare di pensiero e di azione sociale. E’ infatti un documento molto diverso dalla letteratura pontificia precedente del genere dichiarato dal suo autore, l’enciclica appunto. Riassume idee correnti sulle cause delle sofferenze sociali contemporanee, accreditandone alcune. Si rivolge alle masse ed è scritta in lingua corrente. E’ materiale che è naturalmente soggetto a verifica. Non basta che venga da fonte autorevole per condividerne l’impostazione. Quest’ultima non deriva per via di deduzione logica da una dottrina teologica, dalle cose della fede. La fede non ha la soluzione dei mali sociali di oggi, ma può individuarli perché fanno soffrire. La sofferenza è una produzione sociale e può essere corretta. Per capire la via migliore bisogna rifletterci molto su, insieme, collettivamente, in ogni realtà sociale. Questo benché molti pensino che non ci si possa fare nulla perché si tratta di fenomeni su scala troppo grande, addirittura mondiale. E’ appunto la scala su cui ragiona l’autore dell’enciclica.

   Nella Laudato si’  non ci si estenua su polemiche dottrinali che erano ancora  piuttosto evidenti in un altro recente documento del nostro pensiero sociale, l’enciclica Carità nella verità, del 2009. Non si fa una lezione di etica ai  governanti. C’è un appello alla mobilitazione popolare, di massa, per cambiare una società che, a livello mondiale, causa sofferenza e mette a rischio la sopravvivenza dell’umanità. Siamo tutti invitati a cambiare i nostri stili di vita, ma non tanto per meritare  sul piano religioso, quanto  per esercitare una sana pressione su coloro che detengono  il potere politico, economico e sociale, e, così facendo, salvare il mondo, visto come casa comune. Ecco dove se ne parla, un punto molto importante del documento:

206. Un cambiamento negli stili di vita potrebbe arrivare ad esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. È ciò che accade quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. «Acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico». Per questo oggi «il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi».

 Riesce difficile alla gente comune  capire chi comanda  il mondo e, dunque, con chi ce la si debba prendere per ciò che genera sofferenza. Si scrive di  potere globale, di  multinazionali,  da noi di  Europa, insomma qualcosa di impersonale che domina le nostre vite senza che si possa fare  nulla per reagire, se non tentare di scamparla volta per volta. Scoppia la rabbia, si scende in piazza per manifestarla, ma nessuno dei potenti che vorremmo trascinare davanti ad una specie di tribunale del popolo accetta di venire a rispondere. Tutti si dicono nelle nostre stesse condizioni. Da ultimo il maligno  viene indicato nel mercato, che dispoticamente può distruggere in un attimo le nostre vite, o, al contrario, trasformarle in meglio a livelli inimmaginabili. Ma il mercato  non ha nulla di soprannaturale. E’ fatto di norme giuridiche e di una massa di attori che si scambia dei beni. Chi compra e chi vende. Anche il lavoro di ciascuno di noi. Sono le norme giuridiche che consentono lo scambio: sono il frutto di accordi internazionali. Negli scambi ci sono parti forti e parti deboli e le parti forti fanno il prezzo. Sono forti le parti che hanno il potere di negare agli altri beni molto ambiti, perché molto necessari o per alti motivi. Questo potere è assegnato dalle norme giuridiche. Ci sono due modi di incidere sulle dinamiche di mercato: cambiare le norme giuridiche e fronteggiare le parti forti con un’azione di massa. Sono le strategie che nella seconda metà del Novecento hanno molto migliorato le posizioni dei lavoratori dipendenti in Occidente. Funzionerebbero certamente anche per correggere il mercato. Ma ci sono due nuovi problemi. Noi stessi, masse di consumatori Occidentali, siamo le parti forti. Dunque dovremmo fare autocritica e cambiare le nostre abitudini di vita, sentirci responsabili per le sofferenze che generiamo. Ma tra le nostre condotte sul mercato e quelle delle multinazionali non ci sono vere differenze; abbiamo interessi comuni e resistiamo nello stesso modo e per gli stessi motivi al cambiamento; rifiutiamo di sentirci responsabili delle sofferenze altrui che generano vantaggi per noi, ad esempio consentendoci di acquistare a prezzi molto bassi merci di uso quotidiano.  Inoltre, poiché i problemi sono globali, dovremmo muoverci su scala globale. Invece pensiamo di risolvere i nostri guai rinchiudendoci, serrandoci dietro antiquate frontiere, in sistemi politici che non hanno la forza di cambiare le norme giuridiche che regolano il mercato.

  Quelli a cui ho accennato sono problemi che hanno un valore anche religioso, perché riguardano la sopravvivenza dell’umanità e la sofferenze di immense moltitudini. Questo richiede di occuparsene anche nelle nostre collettività di fede, arricchendo di molto il nostro pensiero sociale, per comprendere meglio le società del nostro tempo, e ponendo al centro delle nostre attività.  Adesso la dottrina sociale  è un settore complementare, non ritenuto essenziale nella formazione alla fede, in cui infatti se ne parla poco e quindi se ne sa poco. In parrocchia tutto ruota intorno a liturgia, catechesi, carità, i classici settori dell’impegno religioso. Il ramo  “Presenza nel mondo”   è poco curato, in particolare dove si teme molto di esserne contaminati. “Grande è la posta in gioco”, scrive l’autore della Laudato si’, “ e abbiamo bisogno di controllarci e di educarci l’un l’altro” [n.214]E anche: “Tutte le comunità cristiane hanno un ruolo importante da compiere in questa educazione”.

  Quando cominciare? Da molto presto e dai molto piccoli. La realtà del mercato globale  irrompe veramente precocemente nella vita delle persone: quando a un bimbo capita tra le mani il suo primo telefono cellulare egli inizia ad essere un attore nel mercato globale. La prima educazione è quella di capire quanta sofferenza generano le nostre azioni quotidiane e quanta sofferenza inglobano le cose che sono sul mercato ed averne compassione. Sembra facile, ma non lo è, perché ad un certo punto sono necessarie delle rinunce. E’ il nostro stile di vita di Occidentali che va mutato. E’ qualcosa per cui tutti i presidenti statunitensi, senza eccezione, si sono detti disposti a far guerra. In Europa è un po’ diverso perché la classe dirigente della politica europea in genere di certe cose ad un certo punto si è cominciata a vergognare, questo perché in Europa ci si è tanto combattuti per difendere stili di vita contrastanti che divenivano incompatibili perché tenuti a poche distanze gli uni dagli altri, per cui, ad un certo punto, non si poteva proprio fare a meno di eliminare gli altri. Le due guerre mondiali del Novecento ci hanno molto cambiato in Europa, si è iniziato ad avere orrore di tutta quella violenza.  Il processo di unificazione europea è stata l’espressione della concreta volontà di cambiare le cose. Quando lo si è voluto, e finché lo si  è voluto, ci si è riusciti. L’Europa, una politica continentale, ha le dimensioni giuste per incidere sul  mercato globale.

  Di seguito incollo un brano molto importante della Laudato si’. Lavoriamoci un po’ su in questo lungo ponte primaverile che si conclude con la festa della Liberazione, un compito sempre attuale, di generazione in generazione.

Mario Ardigò  - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

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IV. POLITICA ED ECONOMIA IN DIALOGO PER LA PIENEZZA UMANA
189. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo. La produzione non è sempre razionale, e spesso è legata a variabili economiche che attribuiscono ai prodotti un valore che non corrisponde al loro valore reale. Questo determina molte volte una sovrapproduzione di alcune merci, con un impatto ambientale non necessario, che al tempo stesso danneggia molte economie regionali. La bolla finanziaria di solito è anche una bolla produttiva. In definitiva, ciò che non si affronta con decisione è il problema dell’economia reale, la quale rende possibile che si diversifichi e si migliori la produzione, che le imprese funzionino adeguatamente, che le piccole e medie imprese si sviluppino e creino occupazione, e così via.

190. In questo contesto bisogna sempre ricordare che «la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente». Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni? All’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano. Inoltre, quando si parla di biodiversità, al massimo la si pensa come una riserva di risorse economiche che potrebbe essere sfruttata, ma non si considerano seriamente il valore reale delle cose, il loro significato per le persone e le culture, gli interessi e le necessità dei poveri.

191. Quando si pongono tali questioni, alcuni reagiscono accusando gli altri di pretendere di fermare irrazionalmente il progresso e lo sviluppo umano. Ma dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo. Gli sforzi per un uso sostenibile delle risorse naturali non sono una spesa inutile, bensì un investimento che potrà offrire altri benefici economici a medio termine. Se non abbiamo ristrettezze di vedute, possiamo scoprire che la diversificazione di una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale, può essere molto redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo.

192. Per esempio, un percorso di sviluppo produttivo più creativo e meglio orientato potrebbe correggere la disparità tra l’eccessivo investimento tecnologico per il consumo e quello scarso per risolvere i problemi urgenti dell’umanità; potrebbe generare forme intelligenti e redditizie di riutilizzo, di recupero funzionale e di riciclo; potrebbe migliorare l’efficienza energetica delle città; e così via. La diversificazione produttiva offre larghissime possibilità all’intelligenza umana per creare e innovare, mentre protegge l’ambiente e crea più opportunità di lavoro. Questa sarebbe una creatività capace di far fiorire nuovamente la nobiltà dell’essere umano, perché è più dignitoso usare l’intelligenza, con audacia e responsabilità, per trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo, nel quadro di una concezione più ampia della qualità della vita. Viceversa, è meno dignitoso e creativo e più superficiale insistere nel creare forme di saccheggio della natura solo per offrire nuove possibilità di consumo e di rendita immediata.

193. In ogni modo, se in alcuni casi lo sviluppo sostenibile comporterà nuove modalità per crescere, in altri casi, di fronte alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti decenni, occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi. Sappiamo che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

194. Affinché sorgano nuovi modelli di progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo globale»,  la qual cosa implica riflettere responsabilmente «sul senso dell’economia e sulla sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e distorsioni». Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso. D’altra parte, molte volte la qualità reale della vita delle persone diminuisce – per il deteriorarsi dell’ambiente, la bassa qualità dei prodotti alimentari o l’esaurimento di alcune risorse – nel contesto di una crescita dell’economia. In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine.

195. Il principio della massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o aumentare l’inquinamento. Vale a dire che le imprese ottengono profitti calcolando e pagando una parte infima dei costi. Si potrebbe considerare etico solo un comportamento in cui «i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future». La razionalità strumentale, che apporta solo un’analisi statica della realtà in funzione delle necessità del momento, è presente sia quando ad assegnare le risorse è il mercato, sia quando lo fa uno Stato pianificatore.

196. Qual è il posto della politica? Ricordiamo il principio di sussidiarietà, che conferisce libertà per lo sviluppo delle capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige più responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere. È vero che oggi alcuni settori economici esercitano più potere degli Stati stessi. Ma non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale. La logica che non lascia spazio a una sincera preoccupazione per l’ambiente è la stessa in cui non trova spazio la preoccupazione per integrare i più fragili, perché «nel vigente modello “di successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita».

197. Abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Molte volte la stessa politica è responsabile del proprio discredito, a causa della corruzione e della mancanza di buone politiche pubbliche. Se lo Stato non adempie il proprio ruolo in una regione, alcuni gruppi economici possono apparire come benefattori e detenere il potere reale, sentendosi autorizzati a non osservare certe norme, fino a dar luogo a diverse forme di criminalità organizzata, tratta delle persone, narcotraffico e violenza molto difficili da sradicare. Se la politica non è capace di rompere una logica perversa, e inoltre resta inglobata in discorsi inconsistenti, continueremo a non affrontare i grandi problemi dell’umanità. Una strategia di cambiamento reale esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere capace di assumere questa sfida.

198. La politica e l’economia tendono a incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e trovino forme di interazione orientate al bene comune. Mentre gli uni si affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o accordi ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e avere cura dei più deboli. Anche qui vale il principio che «l’unità è superiore al conflitto».

 

44. Ribelli

 

La Preghiera del ribelle

di Teresio Olivelli, resistente e ribelle italiano (1916-1945)

 

Signore, che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione, 
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dominanti, la sordità inerte della massa, 
a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libera vita, 
dà la forza della ribellione.

Dio che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi: 
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della Tua armatura.

Noi ti preghiamo, Signore.

Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocifisso, nell'ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria: sii nell'indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell'amarezza.

Quanto più s'addensa e incupisce l'avversario, facci limpidi e diritti.

Nella tortura serra le nostre labbra.

Spezzaci, non lasciarci piegare.

Se cadremo fa' che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e carità.

Tu che dicesti: ``Io sono la resurrezione e la vita'' rendi nel dolore all'Italia una vita generosa e severa.

Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie.

Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.

Signore della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.

 

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   Il 23 aprile scorso, a Milano, sono stati presentati i due libri con tutti gli scritti di Lorenzo Milani, pubblicati dall’editrice Mondadori nella collana I Meridiani. Chi fu Lorenzo Milani? Potrete saperne di più leggendo la sua biografia sul Web a questo indirizzo: 

http://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzo-milani-comparetti_(Dizionario-Biografico)/ .

  Il Papa, in occasione dell’evento, ha inviato un videomessaggio che trovate trascritto qui sotto.

  E’ importante che un Papa ci abbia invitato ad accostarci al pensiero di Lorenzo Milani  con affetto,  come a quello di un testimone di Cristo e del Vangelo. Tenendo conto che la Chiesa fu la prima persecutrice di Milani, in sostanza emarginandolo proprio per ciò per cui oggi lo addita come testimone di Cristo e del Vangelo. Le si accodarono anche altri. Milani fu processato dalla giustizia penale italiana per un articolo scritto in risposta  all'ordine del giorno dei cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato dalla Nazione del 12 febbraio 1965 (p.11), in cui era scritto che essi consideravano «un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà». Lo trovate sul Web a questo indirizzo: 

http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm 

Successivamente scrisse anche al Tribunale penale che lo giudicava. Potete trovare sul Web il testo della sua lettera all’indirizzo: 

http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_e.htm 

  Perché è importante l'invito del Papa? Perché un Papa impersona la Chiesa di sempre. E’ tradizione che un Papa non ne smentisca esplicitamente un altro, in particolare trattando di personalità religiose e quindi di temi che implicano questioni di fede. Quindi il suo giudizio rimarrà stabile. 

  Il Papa, all’inizio del suo videomessaggio, ha ricordato che Milani scrisse di non volersi mai ribellare alla Chiesa. E ha tenuto a precisare che la sua inquietudine non fu frutto di ribellione. Ed effettivamente Milani accettò di essere confinato in una piccolissima parrocchia di montagna dal suo vescovo. Anche da lassù la sua luce di grande anima  continuò a brillare, ispirando molti nell’indifferenza dei più. 

  Nella Chiesa non si è fatti santi se ci si ribella alla gerarchia. Dunque, il fatto che il Papa abbia attestato che Milani non era ribelle è un buon inizio.

 Ma è tanto grave ribellarsi?

 Oggi è la festa della Liberazione in cui si celebra la Resistenza storica al fascismo italiano e agli occupanti nazisti. Eventi che si produssero come fatti di massa tra il 1943 e il 1945. Anche prima vi furono resistenti, ma erano molto di meno. Gli italiani furono in massa fascisti, guidati a ciò dalla loro Chiesa. 

 Oggi chiamiamo partigiani  quei resistenti di allora, ma loro in genere si definivano ribelli. Qui sopra ho trascritto la Preghiera del ribelle  di uno di loro, il resistente cristiano Teresio Olivelli. Ho incollato anche la pagina di una pubblicazione promossa dall’Olivelli e dai suoi compagni di lotta, intitolata  Il ribelle. “Non lasciarci piegare … dà la forza della ribellione ... ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”, così pregava Olivelli. Celebrando la Resistenza, noi celebriamo una ribellione. Da essa è sorta la nostra Repubblica democratica. La ribellione  non era solo rivolta, ma affermazione di principi umanitari che poi sono stati scritti nella nostra Costituzione, come quello che il lavoro  è al centro del moto di liberazione  delle masse e quindi del nostro sistema politico e istituzionale. Celebrando la Resistenza storica, facciamo anche autocritica perché per gli italiani il fascismo è sempre stato, ed è ancora, una forte tentazione. Il Papato romano non ne è mai stato capace, anche se, oggettivamente, essendosi storicamente federato con il regime fascista ed avendo recepito parti importanti della sua ideologia, doveva considerarsi tra gli sconfitti della guerra di resistenza. Il culmine di questo processo si raggiunse con Achille Ratti e con la sua enciclica Il quarantennale, del 1931, in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dal primo documento della moderna dottrina sociale, l’enciclica Le novità, del 1891. In essa troviamo l’apprezzamento dell’ordinamento corporativo fascista in particolare per “la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti”. 

  C’è un’evidente continuità tra la politica dei clerico-fascisti degli anni Trenta e la persecuzione di Milani trent’anni dopo. Ma nemmeno un Papa, giuridicamente al vertice di tutto, riesce a concedersi un’autocritica in merito. Egli, al tempo della repressione contro Milani, era trentenne e gesuita: ha quindi l’età per farla e i gesuiti dell'epoca furono tra i più duri e implacabili critici del Milani. 

  La persecuzione contro Milani fu uno spreco umano e religioso enorme, del resto nella linea di tanti altri casi come il suo prima di lui. Dobbiamo seguirlo nella sua mansuetudine verso coloro che uno come Aldo Capitini, anche luigrande anima, chiamava, ribellandosi, gerarchi religiosi? Se si fosse ribellato, non gli sarebbe più stato consentito di fare il prete e quindi avrebbe perso i suoi ragazzi. Sarebbe stato un insegnante senza più scolari. Nessuna grande anima  deve essere più posta in questo dilemma. Penso che occorra avere la forza di ribellarsi  a cose come queste. 

“L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni” scrisse però Milani ai sui giudici:

  A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito.   

  L'umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.

  Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati.

  E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era «un bravo ragazzo, un soldato disciplinato» (secondo la definizione dei suoi superiori) «un povero imbecille irresponsabile» (secondo la definizione che dà lui di sé ora).

(carteggio di Claude Eatherly e Günter Anders - Einaudi 1962).

  Ho poi studiato a teologia morale un vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio: «Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco».

  Quando si tratta di due persone che compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario, voi gli date un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non si divide per due.

  Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori.

  Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi.

  E così siamo giunti a quest'assurdo che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente.

  A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.

  C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole.

  Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto.

  A questo patto l'umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico.

   Si fa un esame di coscienza e ci si avvede del tanto conformismo che impronta le nostre vite. Quante cose sarebbero potute andare diversamente se ci fossimo veramente ribellati, non solo a parole. E invece per quieto vivere spesso ci si fa da parte. Così, grandi anime  come il Milani finiscono emarginate. Che sarebbe stato se si fosse insorti in massa, in religione, per il trattamento che gli fu riservato? “Dacci la forza della ribellione!”, bisognerebbe pregare in certi casi.

 

 

45. Il Cielo in una stanza

 

 

Il cielo in una stanza [di Gino Paoli]

 

Quando sei qui con me

questa stanza non ha più pareti

ma alberi, alberi infiniti:

quando sei qui vicino a me

questo soffitto viola

no, non esiste più.

Io vedo il cielo sopra noi

che restiamo qui

abbandonati

come se non ci fosse più

niente, più niente al mondo.

Suona un'armonica:

mi sembra un organo

che vibra per te e per me

su nell'immensità del cielo.

Per te, per me:

nel cielo, nel cielo.

 

  La visione del Cielo è strettamente legata alle comunità in cui si vive. La religione è stata sempre un fatto sociale. Comunità chiuse pensano Cieli piccoli,  a misura loro, e questo anche se cercano di comprendervi l’infinito, tutta la storia umana e la produzione e destino dell’Universo, di tutto ciò che esiste.

  La cultura aiuta a spingersi più in là, nel tempo e nello spazio. Anche le religioni hanno loro culture e, anzi, da un certo punto di vista sono culture. Questo può preoccuparci perché le culture evolvono e ad un certo punto finiscono. Finirà anche la nostra religione? Attualmente è in grande ripresa in tutto il mondo, fuorché in Europa, dove si è raggiunta una visione più realistica delle cose, essenzialmente riuscendosi a fare memoria sincera di una storia più lunga. La nostra religione ha avuto un inizio e poi è divenuta dominante intorno al Mediterraneo e anche un po' più in là in Europa, nel Quarto secolo, quando le religioni più antiche furono vietate per decreto imperiale. Si è sviluppata con molta violenza. Ad un certo punto è divenuta la religione dei dominatori del mondo, deicolonizzatori: si è diffusa nel mondo seguendo il dominio degli Europei. C’è stata un momento in cui non ha avuto bisogno della violenza per affermarsi? Le prime nostre collettività di fede, che ai tempi nostri si vuole idealizzare abbastanza, erano piuttosto bellicose, per ciò che ne sappiamo, e non ne sappiamo molto, a parte le aspre controversie ideologiche che le caratterizzarono fortemente. E poi non è che sia andata molto meglio. La nostra religione però si sta attualmente trasformando in una sua versione più pacifica, che vorrebbe pacificare il mondo e in questo incontra coloro che, anche al di fuori di concezioni religiose, ritengono che questa sia l’unica via della sopravvivenza del genere umano. Del resto questa evoluzione si accorda con la dottrina secondo cui il fondamento di tutto è agàpe, la benevolenza che fa posto a tutti.

   Ma al dunque, nella pratica corrente delle nostre vite, non ci è veramente utile spingere tanto in là, in avanti e indietro, il pensiero, se non per ciò che ci serve per non ripetere errori del passato.  Più utile, ed anzi imprescindibile, è cercare di capire il mondo in cui viviamo, e ciò richiede  di arrivare con lo sforzo di conoscenza molto al di là dei confini del nostro ambiente sociale quotidiano, fino ad abbracciare tutto il globo. La nostra organizzazione religiosa è divenuta veramente mondiale  e ci può aiutare in questo. Nelle università pontificie romane c'è gente di tutta la Terra.  Basta che guardiamo le scritte “made in…”  che sono impresse negli oggetti di uso quotidiano per convincerci che comprendere il mondo ci  è divenuto indispensabile.  Questo significa un particolare impegno di apertura, perché, in un certo senso, il mondo sta arrivando molto vicino a noi, addirittura tra noi nel grande rimescolamento di popoli che stiamo vivendo, un fenomeno epocale e molto significativo. Avere a che fare con persone vere a volte ci sorprende, perché gli altri spesso non sono come ce li immaginiamo, anche in religione. In un certo senso, con gli altri che vengono tra noi, il cielo, il mondo, la storia, l’umanità nel suo complesso, vengono veramente nelle nostre stanze domestiche. Così il nostro mondo cambia e noi con esso. Se si studia la storia si capisce che è sempre stato così e, allora, può prevedersi che così sarà sempre, finché l’umanità avrà una storia. Nulla di nuovo sotto il sole, si dice, ed è anche scritto in un libro biblico: è sapienza molto antica, anche se, facendone personale esperienza, sembra nuova. Ma c’è qualcosa che non cambia, che resterà? Le Scritture ci dicono che sarà l’agàpe: una buona prospettiva per una fede come la nostra che vorrebbe essere fondata sull’agape. Il Cielo, in definitiva, è  agàpe. E tutta la nostra religione ha come scopo di fare entrare il Cielo nelle nostre stanze, quindi molto vicino a noi. E’ immaginifica illusione? Vivendo la religione (non accostandola nella realtà virtuale) si può fare l’esperienza che non lo è. In Italia è più comodo che da altre parti nel mondo. Si esce di casa e c'è la parrocchia. Bastano pochi passi e si è dentro.  Venite e vedete.

 

46. La “Politica” con la maiuscola

 

 

 Nel discorso del Papa all’Azione Cattolica del 30 aprile scorso i commentatori hanno notato l’invito a fare Politica con la maiuscola. Non sorprende, perché la Chiesa cattolica è il principale agente politico del momento. In passato lo è stato il Papato, e non è la stessa cosa. La differenza sta nella collaborazione dei laici. L’Azione cattolica, dalle sue origini, si è specializzata nel fare proprio questo. Ma, è importante ricordarlo, l’Azione Cattolica non ha 150 anni. Essa non deriva dalle organizzazioni di azione sociale ispirata dall’ideologia del papato sorta da metà Ottocento e confluite dell’Opera dei Congressi, anzi sorge, per così, dire sulle loro ceneri. Nasce infatti per iniziativa del papato romano nel 1905, dopo lo scioglimento d’autorità di quelle, per emergere di correnti democratiche, in particolare di quella di democrazia cristiana  che ebbe tra i suoi principali esponenti il prete Romolo Murri, successivamente scomunicato. Si era nel pieno della persecuzione anti-modernista. Il modernismo era un movimento religioso  che, a livello europeo, proponeva un aggiornamento  nelle concezioni religiose. In Italia le correnti democratiche di azione sociale ispirate dalla fede furono sbrigativamente assimilate al modernismo e con essa condannate. Questo perché, all’epoca, in principi dell’azione sociale erano ritenuti integralmente compresi nella dottrina,  quindi negli insegnamenti normativi, del papato romano, senza alcuna autonomia dei laici. Chi la manifestava era considerato eretico. L’Azione Cattolica nacque quando il papato romano intese che la politica fino ad allora seguita, di intransigente  rifiuto del sistema politico democratico liberale che reggeva il Regno d’Italia, non aveva futuro. Organizzò quindi una propria forza politica e sociale profondamente integrata, e quindi controllata, dalla gerarchia. Di un’organizzazione simile non vi sono procedenti. Naturalmente non c’era solo questo nell’Azione cattolica, perché in essa è stata molto importante la formazione alla fede e il suo approfondimento. Ma l’azione  dell’Azione Cattolica era fondamentalmente sociale e politica. Essa seguì sempre gli orientamenti politici del papato romano, sia nella compromissione con il fascismo, sia nello sviluppo democratico. Dal 1945, con la mediazione di Alcide De Gasperi, l’Azione Cattolica si integrò profondamente con il partito cristiano, la Democrazia Cristiana. La politica di quest’ultima risultava da un compromesso tra il papato romano e il movimento dei cattolico democratici italiani, che aveva partecipato al rovesciamento del regime fascista con cui il papato romano si era federato, con i Patti Lateranensi conclusi nel 1929 con il Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano. La Democrazia Cristiana ebbe necessità delle masse cattoliche organizzate nell’Azione Cattolica per affermare la sua egemonia nel sistema politico democratico italiano. Ma l’Azione Cattolica era anche la sua principale scuola di formazione alla politica. In questa stagione, ai politici cattolici  venne riconosciuta dal papato romano un maggiore autonomia nell’applicazione  delle soluzioni che il papato romano riteneva giuste per l’Italia. Questo assetto terminò a seguito del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), quando i laici, riconosciuti come competenti  nelle vicende sociali e politiche, indicate con l’espressione temporali, vale a dire soggette a continui mutamenti con i progredire del tempo, distinte da quelle spirituali, ritenute eterne, vennero sollecitati a collaborare alla definizione dei principi di azione sociale. Questo lavoro avrebbe richiesto di trasformare le strutture sociali di base della Chiesa anche il laboratorio di pensiero e azione politica, dove i diversi orientamenti potessero confrontarsi. L’Azione Cattolica, verso la fine degli anni ’60 e sotto la presidenza di Vittorio Bachelet, rivide la propria organizzazione per svolgere al meglio questa opera sociale.

  Il nuovo corso durò circa dieci anni. L’autonomia riconosciuta al laicato ne comportò la frammentazione, in particolare tra le correnti democratiche e quelle neo-intransigenti. Non si riuscì mai a far posto, nell’organizzazione ecclesiastica ancora di tipo feudale, a laici autonomi. Tutto fu sospeso, come congelato, e cominciò quella che ho definito era glaciale. Fu il tempo in cui il papato romano si federò sostanzialmente con l’Occidente capitalista. Stavano crollando i regimi comunisti che dominavano nell’Europa orientale: si ritenne che questa fosse la scelta migliore. Il papato romano ebbe una svolta neo-intransigente  per quanto riguarda la politica specificamente italiana, che stava manifestando di dirigersi in direzione contraria. Il papato si avvalse maggiormente delle componenti neo-intransigenti  del laicato, piuttosto che dell’Azione Cattolica. Quest’ultima ha resistito fino all’ultima svolta del papato romano, nel 2013, perché profondamente radicata nella società italiana, in particolare tra i ceti colti. Ha continuato ad essere una delle principali scuole italiane di politica  e di azione sociale in genere e ad esprimere un ceto politico ai vertici dello Stato.

  Con il regno di papa Francesco, iniziato nel 2013, i fedeli laici, senza più considerare principalmente quelli italiani, sono stati esortati ad una nuova azione politica per salvare l’intero mondo dalla rovina. E’ questa la Politica  con la maiuscola, i cui principi sono sintetizzati nell’enciclica Laudato si’ del 2015. Quest’ultimo documento recepisce le conclusioni di diverse scienze contemporanee, sull’ecologia, sull’economia e sulla politica. Non si tratta propriamente più di una  dottrina, ma di una prospettazione che, innanzi tutto, deve essere confermata dall’analisi, perché la situazione mondiale è in continua e rapida evoluzione, e poi sviluppata. Questo sviluppo, che comprende anche i principi  di azione sociale,  è il campo proprio dei laici. Le componenti  neo-intransigenti,  mondi chiusi e in lotta ciò che è al loro esterno, non sono adatte a questo lavoro. Solo l’Azione Cattolica e altre componenti laicali che seguono il suo metodo, il dialogo e la mediazione culturale, lo sono. Questo il senso dell’appello del Papa.

 

47. La questione democratica

 

Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va trovando pur troppo ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione da ogni giogo di legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare cristiana. Non già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé riprovevole o porti di sua natura al disprezzo dell'autorità; ma perché non pochi, fraintendendone la natura, si sono volontariamente allontanati dalle norme che a rettamente promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro d'immortale memoria [il papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°]

[…]

 Del resto, Venerabili Fratelli, a porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a questo dilatarsi di spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo d'oggi innanzi assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a qualsiasi società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale, nominatamente, proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli Ordini sacri e pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di iscriversi alla Lega democratica nazionale, il cui programma fu dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome dell'autore, fu nell'anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione provvisoria.

[dall’enciclica Con animo pieno (di salutare timore) diffusa nel 1906 dal papa Giuseppe Sarto - Pio 10°]

 

  Quando si parla di “150 anni di storia dell’Azione Cattolica” non si fa memoria fedele, e quindi purificata, di quella storia: se ne fa una versione emendata dei tratti più duri. L’Azione cattolica nasce nel 1905 nel mezzo della persecuzione antimodernista, che oggi stupisce per la sua indiscriminata violenza. Il modernismo fu essenzialmente un movimento intellettuale che proponeva un aggiornamento della cultura religiosa. Fu colpito perché violava il monopolio che in questo campo era rivendicato dal papato romano nelle cose spirituali. In Italia venne confuso con le correnti democratiche del movimento cattolico, che contrastavano invece il monopolio politico all’epoca rivendicato dal papato romano. Esse avevano una forte impronta sociale, per venire incontro alle classi lavoratrici, in particolare nel settore dell’agricoltura in Emilia Romagna, ed erano animate da molti giovani preti. Uno di essi fu Romolo Murri, fondatore nel 1896 della Federazione Universitaria Cattolica Italiana - FUCI, poi integrata nell’Azione Cattolica pur mantenendo autonomia organizzativa, e  nel 1905 della Lega Democratica Nazionale, che può essere considerato il primo partito politico di ispirazione religiosa. La reazione disciplinare del papato romano colpì aspramente le correnti democratiche del movimento cattolico assimilandole al modernismo, quindi ad un movimento considerato come eretico. Ma l’eresia  dei cattolico-democratici era fondamentalmente la loro pretesa di indipendenza dal papato romano nelle questioni politiche e il loro parteggiare per le classi più umili della società.

 La diffidenza del papato romano per i processi democratici lo portò poi, in Italia, a compromettersi con il fascismo, dopo aver consentito, molto cautamente, con molte riserve e vietando denominazioni come democrazia cristiana  e simili,  esperimenti di politica democratica tra il 1912 e il 1926. La disfatta del fascismo lo costrinse ad accettare la collaborazione dei cattolico-democratici, i quali, formatisi in buona parte nelle organizzazioni intellettuali dell’Azione Cattolica, la FUCI e il Movimento Laureati, avevano partecipato alla guerra di Resistenza. Esso quindi accettò, non senza riserve, la proposta politica di Alcide De Gasperi.

  Negli anni ’60, la svolta impressa dal Concilio Vaticano 2° nei rapporti con le società civili, consentì lo sviluppo di processi democratici nel movimento cattolico nazionale, in particolare nell’Azione Cattolica, la quale, con il nuovo statuto del 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, volle definirsi palestra di democrazia. L’accettazione senza riserve della democrazia politica da parte del papato romano risale però solo al 1991, con l’enciclica Il Centenario, di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Non vi sono però molte sedi, in religione, per fare pratica di democrazia, al di fuori dell’Azione Cattolica. In particolare, non la si fa, in genere, nelle parrocchie. L’impegno politico richiesto oggi del papato romano, la richiederebbe. Infatti non si tratta più di preservare il potere politico del papato in Italia, ma, addirittura, di salvare il mondo, progettando un nuovo modello di sviluppo economico. Questo esige di collaborare con altre componenti sociali e lo si può fare solo con metodo democratico, quello basato sul dialogo. E l’esortazione al dialogo è stata al centro del recente messaggio di papa Francesco all’Azione Cattolica.

 Dal papato romano non è mai venuta alcuna autocritica per la lunga persecuzione antidemocratica, ma essa è necessaria per chi voglia procedere con metodo democratico. L’idea di democrazia non deve più essere accostata a quella di indisciplina e addirittura di eresia. Questo comporta un processo di riforma, che non verrà dall’alto per i limiti intrinseci all’organizzazione feudale delle nostre organizzazioni religiose. Esso può invece cominciare ad  essere sperimentato dal basso, su scala più piccola, per diffondersi ed estendersi in ciò che di buono produrrà. Il primo passo è di fare tirocinio di democrazia nelle decisioni delle esperienze sociali di prossimità, a tutte le età, fin da molto piccoli.

 

 

48. Informazioni sulla democrazia.

 

48.1. La democrazia è una forma di organizzazione della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione alle decisioni comuni.

  Democrazia è una parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos, che significa popolo, e cràtos, che significa potere. Dunque significa il potere del popolo.

  Gli antichi greci furono tra i primi a ragionare sul potere sociale.

  Contrapponevano la democrazia, il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e alla oligarchia, il potere di pochi.

  Anche in democrazia i capi sono pochi, ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e possono essere periodicamente sostituiti.

  Ciò che distingue una democrazia da una oligarchia è dunque la possibilità di critica  sociale e  l’esistenza di regole  che limitino  il potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che coinvolgano i più.

  Schematicamente: in una democrazia il potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i pochi che saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto, perché i pochi che comandano scelgono i loro successori  e quelli che comanda ai livelli inferiori.

  Ogni democrazia, degenerando, tende a diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai processi democratici, così come ogni monarchia.

  Nelle società complesse non esistono vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle oligarchie dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere supremo rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.

  Un altro tipo di oligarchia è la ierocrazia (un'altra parola greca composta da ieròs, che significa sacro, e da cràtos): in essa i capi ritengono di essere stati scelti in modo soprannaturale per fare da tramite tra il Cielo e il mondo umano.

  Attualmente la nostra Chiesa è, dal punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia in cui si stanno sviluppando processi democratici.

  La Repubblica italiana è invece attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi oligarchici: questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che in pochi stati.

  Paradossalmente le monarchie dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni,  e dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici supremi.

  Le monarchie e le oligarchie in genere cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le democrazie possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.

  Queste informazioni vengono date di solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati nell’enciclica Laudato si’.

48.2  Ogni forma di organizzazione sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che ci viene dallo studio dei fatti umani, fin da quelli più antichi.

  Possiamo farci un’idea di come si era in tempi molto lontani studiando le società umane meno evolute che ancora ci sono e che verosimilmente vivono come i primitivi.

  L’evoluzione delle società umane è stata favorita dalla conquista del linguaggio e soprattutto da quella della scrittura. Con la produzione di documenti scritti inizia la storia umana. A quel punto le società erano già piuttosto complesse.

  Dal punto di vista biologico discendiamo da esseri viventi sociali. Come erano i nostri progenitori non umani? Si pensa che fossero simili alle scimmie antropomorfe (parola che significa: con  aspetti fisici e movenze simili a quelle umane) che vivono in gruppi sociali dominati da un maschio che si accoppia con molte femmine e al quale altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è sociale ha reso possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie di maschi o, più raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di più i cacciatori e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano come andavano le cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle società primitive contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità. Fin dalle origini probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere dominati da potenze non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le deificavano. Per rendersele propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie simboliche, che avevano bisogno di chi compisse le azioni prescritte: questo era il compito dei sacerdoti. I re, le figure dominanti tra gli oligarchi, erano in genere sacerdoti. Fin dalle origini troviamo quindi il potere connesso con la religione. Uno dei compiti degli oligarchi, e i particolare dei re, era quello di risolvere le controversie civili e religiose: questo produsse una giurisprudenza, vale a dire una tradizione nelle decisioni con cui si risolvevano le liti, connotata religiosamente. C’era un ordine nell’universo, di carattere sacro  perché non in dominio umano, e, nel caso venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione  e il diritto servivano a questo e venivano somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.

  Ai tempi nostri si ha talvolta l’idea che le società umani siano radicate  in certi posti.  Questo è uno sviluppo politico  relativamente recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.

  Il radicamento  politico su un territorio sviluppò molto la concezione giuridica della proprietà, sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come figure paterne, come  padri  del loro popolo, iniziarono ad agire come proprietari  di esso. Cercarono a lungo un’investitura divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani assumessero anche la carica di pontefice massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice  è uno dei nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo collegato all’ordine universale, cosmico  (cosmo è una parola del greco antico che significa universo). Si ebbe così una sacralizzazione  del potere, che significa appunto collegare il potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei  soprannaturali. Ciò che riguardava le cose soprannaturali era sacro, nel senso di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano accostare il sacro. Sacralizzare  il potere significò volerlo sottrarre alle contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era accentrato in chi deteneva il potere politico  e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione  del potere è ancora molto forte nella nostra organizzazione religiosa.

48.3.  La sacralizzazione  del potere politico spiega perché i processi democratici siano stati considerati anche delle eresie e l’importanza che ha per la loro affermazione il principio della laicità  delle istituzioni pubbliche.

  Secondo il  principio della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche non devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni discriminazione su base religiosa.

  La sacralizzazione del potere si è sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi italiani siamo europei.

   Dal Quarto secolo della nostra era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la teologia della nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette in questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici che scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio,  nella regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella sacralizzazione: di là dominarono l’imperoromano,  ridottosi poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,  procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici,  vale a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti dagli imperatori  di Bisanzio. In questo modello c’era un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia, piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.

  La sacralizzazione giustifica il potere assoluto, vale a dire  senza limiti, del sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del delegato terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel mondo. La sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è, secondo il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un sovrano assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un processo che si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era originario nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era stato  politicamente subordinato all’imperatore romano, in realtà al potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne politicamente un feudatario (che significa principe  di livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso, come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che, tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione  del potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale  del potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo quadro, un potere  assoluto, per di più attribuito a una sola persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi analoghi nella nostra organizzazione religiosa.

48.4. Gli esseri umani, nella loro biologia e nella loro psicologia, quindi nel corpo  e nella mente,  e le loro organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto,  mutano continuamente. Se  non se ne è convinti, è inutile procedere con i ragionamenti sulla democrazia, in particolare sulla democrazia come la si concepisce dalla metà del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di democrazia serve a far cambiare la società pacificamente, ma a farla cambiare. La sacralizzazione  del potere politico serve invece a contrastare la tendenza delle società a cambiare, travolgendo che le domina. In una società dominata da un potere sacralizzato  un cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato  quando lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro  si ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà autorizzato a irrogarle  per conto  della potenza celeste che l’ha delegato.  Tutte le società europee in cui si svilupparono, dalla metà del Settecento, processi democratici erano dominate da regimi assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i sovrani di volta in volta da esse espressi, governavano“per grazia di Dio”.  Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.  Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere romano di Borgo. Lo definisce stato  in modo non del tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano, regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,  con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato  si legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione  del potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità dello Stato.

   Il principio giuridico, e addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di governare “per grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra religione, ma la sua strumentalizzazione politica, per lasacralizzazione  del potere politico.

  Storicamente il processo di desacralizzazione  del potere politico iniziò con il finire dell’era storia che definiamo Medioevo  europeo, nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelleuniversità  europee cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.

  Dal Duecento in Europa si svilupparono università degli studi, istituzioni di studi superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione  del potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina Commedia  di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le concezioni dell’epoca sull’universo.

  Il primo regno ad essere colpito dal processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo in questione nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento, il papato romano, con la Riforma  promossa del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg, nella regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo processo, originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti politici, manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione  del potere politico, anche se  ad essere contestata era la sacralizzazione del papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel 1648  nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della Germania.

  Il papato romano, fino ad epoca recente,  reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare  il suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)], del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge (testo integrale su

https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html  )

 

Il "laicismo"

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.

 

 In seguito il papato romano usò toni più sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito essenzialmente spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici in Italia, e lo è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma operando attraverso la mediazione prima di un  partito cristiano desacralizzato, vale a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato  da poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate, presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.

  A conclusione di questo discorso, tengo a precisare che bisogna convincersi di questo: non sono le religioni che minacciano la pace politica, come talvolta sento sostenere, ma la sacralizzazione del potere politico. Se il potere politico è sacralizzato, allora   viene a dipendere per la propria stabilità da una, e una sola, religione. Per questo diventerà intollerante della altre e queste ultime lo avverseranno per affermare il proprio diritto civico ad esistere o per affermare un potere politico sacralizzato basato sulle proprie convizioni di fede. Se invece lo  si desacralizza, quindi se trova giustificazioni non religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società in cui si manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche. Un esempio di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato regge una società complessivamente molto religiosa, secondo diverse confessioni.

48.5. L’evoluzione degli organismi e delle società lascia tracce di ciò che c’era prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché, ragionando sul futuro, è importante conoscere la storia, quindi gli eventi passati. Sotto certi profili il passato non è sempre veramente passato. Lo vediamo, ad esempio, nelle lingue umane. Dico “lingua” e parlo latino, la lingua della Roma di duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di oggi.

  La Questione romana ha travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del suo piccolo  stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali, sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un Regno che nel suo Statuto  proclamava: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!). Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori  di fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri  fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente  il conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il Quarantennale, del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando di apprezzarne l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma anche l’azione repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna autocritica è mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il riconoscere, come fece il papa Montini, la natura provvidenziale  della fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia nazionale.

   La lunghissima sacralizzazione  dei poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro  a sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente, dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse indispensabile possedere  uno stato. Nel mondo di oggi non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale, quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per deporre dittatori  o per far cessare crudeltà  e guerre. Un potere che possieda  uno stato non può più essere considerato solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.

 Ecco come  la rivista Panorama  ha sintetizzato quella vicenda in un articolo del gennaio 2013:

 

I bancomat funzionano in tutta la Capitale, ma non in quei 44 ettari che stando alle leggi (umane e anche divine) proprio Roma non sono: si tratta del perimetro della Città del Vaticano.

È così dal primo gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al distributore, al supermercato, al magazzino abbigliamento, al tabacchi ed elettronica, alla posta e in farmacia, si paga come una volta: solo in contanti o al massimo tramite il bancomat interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di Religione , che però i numerosi turisti e italiani che frequentano i Sacri Palazzi non hanno.

Colpa di Bankitalia, che non ha poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia, braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.

E per farlo Via Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché - secondo la normativa antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .

San Pietro, in altre parole, trattato come la peggiore isola caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank Italia, infatti, è un soggetto di diritto italiano e quindi controllato da Bankitalia. Quindici anni fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la necessaria autorizzazione.

 

 La storia ci ha lasciato in eredità il piccolo regno di quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un impaccio da chi lo governa. Sotto certi aspetti è un po’ un  parco a tema, come Disneyland, con tanti pittoreschi figuranti. Non è come capi di stato  che i papi contano nel mondo, ma come capi spirituali di circa un miliardo di fedeli. Possedere  uno stato è anche sotto certi altri aspetti controproducente per il papato romano, come segnalarono ai tempi del compromesso con il fascismo gli studiosi di diritto ecclesiastico: i fedeli infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si potrebbe tornare indietro? Il Papa è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno, certo che potrebbe farlo, ma, in realtà, non può. Quella storia di cui parlavo lo condiziona, lo limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in tante cose e, in particolare, nella questione della democrazia. Questo perché il cedimento al fascismo, avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce profonde in noi, nella cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo e religione si compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando pensiamo al modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello clerico-fascista. In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a sufficienza la memoria storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con l’ebraismo o con le genti che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni sulla famiglia. Su quella del Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte altre. Quando si sostiene superficialmente che la Chiesa non è una democrazia  si ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la Chiesa non è uno stato e non dovrebbe nemmeno possederne uno. Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio le parole del Maestro quando disse che il suo Regno non era di questo mondo? Se però,  nel mondo,  si costituiscono delle istituzioni per vivere collettivamente la religione, come possono essere un ente caritativo, un’università, o una parrocchia,  perché non si dovrebbe praticarvi il metodo democratico, che oggi è generalmente riconosciuto come migliore di quello feudale di tanti secoli fa? Perché, si sostiene, altrimenti i valori di fede sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene, su questo si può discutere. Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa intendiamo, ai tempi nostri, per democrazia.

48.6. Per chi scrivo queste brevi note  sulla democrazia? Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato LeggeScienze politiche  e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La democrazia infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire il futuro. L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una formazione per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’ di più? Ho studiato Legge  e ho approfondito un po’.

  La democrazia, più o meno come noi ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò nell’antica Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento anni prima che si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi greci produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era legato ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita umana e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento, si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota degli adulti maschi  liberiLiberi  da che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne, e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.

  La schiavitù non venne posta in questione dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù dell’affermarsi dei processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per abolirla vennero trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto che riteniamo di essere stati creati e di essere all'origine  figli di un unico Padre. Da qui l’idea che si sia creati uguali. Quindi i processi democratici contemporanei sorsero in  Europa, nel Settecento, sulla base di concezioni che intendevano liberare  gli esseri umani dalle schiavitù  sociali perché li si considerava uguali  per natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro, ma come ogni figlio  è diverso dal fratello. Il padre tra loro fa parti uguali
  Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella degli schiavi.

  Benché dette con le parole della teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°  in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’”  è stato il motto della Rivoluzione francese.  In fondo sono idee cristiane ». Che progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come eretica, solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità, del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano l’accettazione della democrazia una degenerazione del magistero  e giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno detto cose diverse dai papi di un tempo.

  Certo, ai tempi in cui si formarono le nostre collettività delle origini, gli antichi processi democratici si erano da tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme politiche dominanti. E negli scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle collettività non troviamo dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo politico. Parlò di un Regno, ma non di questo mondo.  Il detto che gli è attribuito  “Date a Cesare quel che è di Cesare…”, non va inteso, naturalmente, come una sorta di regolamento di condominio tra poteri nel mondo, quello di Cesare, il nome a cui si richiamarono tutti gli imperatori romani, e quello  Celeste, ma nel senso che su tutto prevalgono le esigenze della fede. Così appunto lo intesero i primi nostri fedeli che si fecero ammazzare in forme in genere particolarmente crudeli, quando non poterono procurarsi carte false attestanti l’adempimento dell’obbligo di compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur di non riconoscere, con un atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che le nostre prime organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto monarchico, come piccoli regni federati tra loro con intese di  comunione: si riconoscevano reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci si attestava di andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica, e piuttosto frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale venne posta fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un processo ancora piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come propria forma di sacralizzazione  politica, e quindi come ideologia dei proprio regno politico, nel Quarto secolo della nostra era.

48.7.  Gli antichi filosofi greci, ragionando sulle esperienze politiche dei loro tempi, diffidarono della democrazia. Vi partecipava una minoranza  della popolazione che praticamente non doveva occuparsi d’altro, ma anche questa gente si lasciava trascinare dall’emotività, non aveva la pazienza d’approfondire, seguiva quelli che meglio mostravano di saper agitare  le collettività divenendone guide. I più decidevano secondo i propri interessi privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di voleri favorire, ma chi arrivava al potere promettendo  di farlo spesso ne abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare, per cui occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad esserlo. Al massimo furonoconsiglieri  di chi comandava di volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua  corte, un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri. Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura. Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.  In fondo è storia anche dei nostri giorni.

   In un mondo fatto di tanti servi abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di pochi, sembrava inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle cose della politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si manifestarono processi democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel dominio di imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica, nell’età d’oro dei Comuni  europei, le esperienze di libertà delle industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e fino al Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti che si riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare  il proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi dal lavoro, non avevano la capacità di occuparsi della politica, in particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se non fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una situazione naturale e che la ribellione fosse un grave delitto. I poteri assoluti  proposero diverse giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La loro sacralizzazione  li aiutò in questo: si presentarono come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa situazione di temuta anarchia  fu assimilata alla democrazia, dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria.

  Quello che ho cercato di sintetizzare spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere  tutti  nei processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento. Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama l’Italia come una repubblica  democratica  fondata sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici sono entrati in crisi.

48.8. Fare memoria del passato serve a organizzare il presente e a progettare il futuro. Parliamo della storia dei processi democratici e, quando costruiamo un nuovo gruppo sociale, ci troviamo di fronte a tutti i problemi che si sono presentati in quella evoluzione. E’ come se, per arrivare là dove ci si propone, occorresse ripetere, sintetizzandola, tutta quella lunga e complessa storia, tutti i suoi processi: la si rivive e i problemi vengono superati se si seguono la vie che in passato hanno avuto successo. La democrazia è quindi una conquista culturale che va raggiunta di generazione in generazione e così si consolida nella società. Tutti i fatti umani, la vita biologica come le società, sono così: sono processi, sia a livello collettivo che individuale. Un processo è una serie di eventi che si sviluppa nel tempo e in cui i precedenti influiscono sui successivi. Poiché la vita degli esseri umani è limitata nel tempo, in un certo senso di generazione in generazione si deve ripartire sempre da capo. Le generazioni però coesistono per una parte della loro storia, per cui quelle più anziane istruiscono le più giovani. Ma, in definitiva, il futuro è nelle mani di quelle più giovani. Le culture delle società umane si tramandano e questo processo viene chiamato tradizione. Essa è molto importante, in particolare, nelle questioni di fede. La tradizione culturale  consente di mantenere certe conquiste sociali, scientifiche, culturali in genere, ma ostacola il cambiamento. C’è una tendenza a ripetere, nelle cose sociali, perché quando si presentano problemi si cercano soluzioni nell’esperienza passata. Così, come in tutte le cose umane, il nuovo reca tracce dell’antico e questo accade anche nel caso di cambiamenti sociali molto veloci, a carattere  rivoluzionario, quando tutto improvvisamente sembra essere messo sottosopra. I cambiamenti più rivoluzionari sono avvenuti, nell’ultimo secolo, nel mondo della scienza. Lì il patrimonio culturale si è talmente ampliato che al problema di tramandarlo si è aggiunto quello di dominarlo nel presente: nessun individuo è in grado di farlo, ci si riesce solo in comunità molto vaste di specialisti, ciascuno dei quali controlla un settore molto limitato e dialoga  con gli altri integrando le proprie conoscenze con quelle altrui. E’ un processo che ha interessato anche i fatti sociali: l’umanità è diventata tanto numerosa, le società umane tanto complesse e interconnesse a livello mondiale, che nessun imperatore potrebbe governare da sovrano assoluto; la politica è, ai tempi nostri, necessariamente un fatto condiviso da molti, se si vuole che  consenta la sopravvivenza dei più. Questo significa che la via dell’umanità sarà necessariamente quella della democrazia o quella della catastrofe. Ma la democrazia che ci salverà non sarà quella delle origini, quella che aveva come problema principale il conquistare spazi di libertà verso oligarchie dinastiche, perché avrà davanti come problema principale quello di realizzare una pace stabile a livello globale.

  Fare pace  è tanto difficile anche nelle realtà di prossimità, lo possiamo toccare con mano. Costruiamo un piccolo gruppo e subito sorgono dissapori, gelosie, liti sul da farsi. Qualcuno riesce a tirarsi dietro i più, diventa loro capo e poi li tiranneggia. Ci sono quelli che hanno successo e gli umiliati. Ognuno pensa per sé e cerca di accaparrarsi il meglio. Si allea con altri, salvo poi tradirli appena non gli conviene più stare dalla loro parte. Ogni autorità tende ad espandersi e a liberarsi dai limiti. Nelle riunioni tendono a parlare sempre gli stessi e, in genere, chi ha la parola la tiene troppo a lungo. Il tempo passa veloce e si ha la sensazione di non aver concluso nulla. Alla fine si finisce per seguire i più svelti di  lingua e di mano, quelli che si fanno meno scrupoli. Attorno a loro e, in genere, a chi comanda si creano piccole corti. Ecco che, allora, si rivive il passato, la monarchia, l’oligarchia, varie forme di democrazia e anche l’anarchia, quando si cerca di fare a meno di regole e di autorità per dare il massimo spazio alla vita degli individui. La società fa soffrire, ma presto si capisce che ci è indispensabile per vivere. Si vorrebbe essere più liberi, ma allo stesso tempo si ci lega agli altri: la vita sembra non avere senso senza di loro. Un tempo lo si capiva fin da piccoli, giocando in cortile con torme di ragazzini: oggi i più piccoli vivono come piccoli monaci e questa esperienza viene ritardata. Ma alle medie, quando si comincia a uscire da soli, ci si accorge che senza gli altri non si sa che fare. Ma anche che, se con si dà ordine alle proprie esperienze sociali, non si arriva a nulla e ci si limita ad aspettare, con gli altri, che il tempo passi: si è  ragazzi del muretto, come diceva il titolo di un serie televisiva di qualche tempo fa.

  La democrazia si impara, non è innata nelle persone: è stata un conquista culturale per l’umanità e lo è, di generazione in generazione, per gli individui. Non basta leggerne sui libri, occorre farne tirocinio, metterla in pratica. Gli esseri umani imparano dagli errori: è anche così che evolvono i fatti sociali e, in particolare, è così che evolvono le scienze contemporanee. Io ho imparato la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici. Può sembrare paradossale, tenendo conto che in religione la si è tanto a lungo avversata. Ad un certo punto, però, si  è capito che era l’unica via per influire sulla società e la si è cominciata a insegnare, consentendone il tirocinio. E’ in FUCI che, ad esempio, ho imparato come si lavora in un’assemblea in cui bisogna prendere delle decisioni, il lavoro che deve fare la presidenza, come si propongono le deliberazioni su cui votare, come si propongono modifiche, gli emendamenti, come si vota, come si scrive un testo unificato delle decisioni prese. Alcuni di quelli che vidi in FUCI da ragazzo oggi sono parlamentari che fanno un lavoro molto importante in società, sono diventati dei protagonisti della politica italiana. E comunque tutti, in posti diversi, lavoriamo mettendo a frutto quella pratica di democrazia che si fece da giovani. Estendere questo tirocinio a realtà più ampie di ristretti settori di intellettuali, farne un fatto di massa,  è la sfida di oggi, ma in fondo quella di sempre da quando si sono sviluppati i processi democratici contemporanei ed essi sono diventati indispensabili per la sopravvivenza dell’umanità.

 Nei processi democratici gli individui non sono legati solo da rapporti di forza, come avviene nei fatti sociali elementari. In un certo senso ci si sceglie, come accade tra amici. In religione si è cominciato a parlare di democrazia come di un’amicizia sociale (si è ancora piuttosto cauti a nominarla esplicitamente in dottrina, e questo è qualcosa del passato che rimane). Le società umane sono quindi caratterizzate da qualcosa di comune che si pensa esserci tra gente che vuole andare d’accordo e  che storicamente è stato riassunto, ad esempio, in un mito, una storia leggendaria su origini comuni, o in certo modo di vivere e di pensare che si pensa scaturire dalle persone come le piante dalla terra. Quindi le società umane nascono come esperienze  definite, con dei  confini, con un dentro  e un fuori,  gli amici dentro, i nemici fuori.  Le democrazie nascono per consentire i più ampi spazi di libertà  dentro una società: ce li si deve riconoscere reciprocamente e quindi ci si deve riconoscere uguali in questo. Si è sperimentato che in società più libere si vive meglio perché le risorse sono meglio distribuite. Per essere liberi  in molti occorre però condividere delle regole, porre dei limiti ad ogni autorità e ad ogni arbitrio individuale, dentro la società. Alle origini le democrazie riguardavano, in ogni società, una minoranza di gente che si riconosceva l’uguaglianza  reciproca. Poi, più recentemente,  si vollero includere nei processi democratici tutti  gli adulti di una società, quelli che stavano dentro  una società. Si scoprì, però, che l’uguaglianza doveva essere realizzata, costruita, perché, a quel punto, non era più originaria. Lo si fece potenziando la solidarietà sociale  all’interno  delle società. Ora la sfida è di realizzarlaglobalmente, lì dove prima non si ammettevano limiti all’arbitrio umano e alla violenza (di chi era fuori  si poteva fare ciò che si voleva: le guerre europee di conquista dell’intero mondo furono fondate su questo principio).  Questo perché servono processi democratici a livello mondiale per salvare l’umanità. E allora serve anche solidarietà a livello globale. E’ una realtà che ci si impone, anche a voler chiudere gli occhi su di essa: ad esempio attraverso i fenomeni delle migrazioni di popoli dai posti dove si sta peggio a quelli dove si sta meglio. Ma che cosa ci lega a livello globale  per cui si debba essere solidali  a quel livello invece di massacrarci e rapinarci, a livello globale, come è sempre avvenuto?

  Oggi pensiamo che democrazia  e pace  vadano d’accordo: pensiamo ad un ordine democratico come a un ordine pacifico. Non è sempre stato così. E’, anzi, uno sviluppo piuttosto recente dei processi democratici. Storicamente le democrazie sono state piuttosto bellicose. Lo è stata, dall’origine, la prima democrazia contemporanea, gli Stati Uniti d’America, che hanno vissuto pochi periodi di vera pace. Sono stati l’unica potenza mondiale ad usare l’arma nucleare in una guerra, non una ma addirittura due volte, distruggendo due città giapponesi, durante la Seconda Guerra mondiale! La storia d’Italia, ai tempi in cui si realizzò l’unità nazionale, nell’Ottocento, vide processi democratici e conflitti bellici strettamente connessi. In questo le democrazie   a lungo non si distinsero dai regimi assolutistici che vollero sostituire.

   I nostri orientamenti religiosi oggi prevalenti ci propongono un impegno per una pace globale  che può servire a sorreggere processi democratici pacifici a livello mondiale: questo tema è al centro della predicazione di papa Francesco e si trova sintetizzato molto efficacemente nell’enciclica Laudato si’, del 2015. Ecco dunque che l’esperienza sociale che si fa ai tempi nostri in religione può avere, e anzi dovrebbe avere, questo significato anche civico a livello molto ampio. In un certo senso, a cominciare dalle realtà di prossimità, come è quella della parrocchia, si può cominciare  a cambiare il mondo. Si tratta di avviare nuovi processi democratici.

48.9. Qui si ragiona di democrazia per metterla in pratica. Non dobbiamo mai perdere di vista questo obiettivo. Secondo le idee oggi correnti in religione, questo ha un significato anche per la vita di fede. Questo perché la democrazia, come ai tempi nostri la si pensa e la si vive, è legata a valori, vale a dire a principi di azione sociale, che sono condivisi dalla fede e, anzi, in buona parte originano da essa, anche se non sempre se ne è mantenuta consapevolezza. Quando la si è persa, la democrazia viene pensata come la sede dell’arbitrio delle maggioranze in danno di quei valori. A maggioranza si potrebbe decidere tutto. Sarebbe meglio, allora, mettere i valori nelle mani di oligarchie illuminate: sono i reazionari a pensarla così, quelli che vorrebbero che la storia umana tornasse sui suoi passi. Non è impossibile che accada: nella storia osserviamo civiltà che sono regredite. Ogni conquista culturale va rinnovata di generazione in generazione, altrimenti può essere perduta. L’umanità, quindi, potrebbe ancora tornare nelle mani di sovrani assoluti e, in effetti, di questi tempi si osservano processi sociali che vanno in questo senso. Rimane sempre nell’aria l’idea che alle controversie e alla violenze possa porsi rimedio solo con un’autorità superiore che imponga  la pacificazione: nella dottrina sociale la si vorrebbe a livello mondiale e talvolta sembra che il modello siano, in fondo, gli antichi imperatori dei primi tempi, quelli che sacralizzarono il proprio potere politico secondo la nostra fede. Non si tiene conto che una simile concentrazione di potere  fatalmente annienterebbe le libertà civili se non governata con metodi democratici ancora da pensare a livello globale, mondiale, di democrazia universale. Produrrebbe proprie corti, che degenererebbero in oligarchie, le quali, non limitate da processi democratici, si impadronirebbero  delle cose e delle persone e inizierebbero a farsi guerra. Se si riporta indietro la storia, si  è condannati a riviverla. In un mondo che si avvia agli otto miliardi di persone, molto complesso e interconnesso, attuare progetti reazionari porterebbe alla catastrofe, agli incubi  sociali proposti in tanti film di fantascienza, che presentano le conseguenze di una crisi  di regressione  della civiltà.

  Opporre democrazia e valori, come fanno i reazionari, anche quelli che abbiamo in religione, non è corretto, perché nelle democrazie contemporanee i principi di azione sociali più importanti sono sottratti alla volontà delle maggioranze. Fin dalle origini dei processi democratici contemporanei, nel Settecento, si ebbe chiara consapevolezza che le democrazie degenerano se cadono in mano atirannie di maggioranze. Quando i reazionari accusano la democrazia di indifferenza  ai valori, la diffamano. Da quale parte stanno? Dalla parte dei valori? A ben vedere la loro critica si riversa contro i più. Questo fa sospettare che siano dalla parte di una qualche oligarchia, di gruppi di pochi che vogliono acquisire il controllo sociale liberandosi da limiti dal basso, per poi distribuire il potere sociale a loro discrezione, dall’alto verso il basso, secondo i costumi di sempre delle oligarchie. In religione, a volte, mimano, l’organizzazione del clero, che funziona ancora più o meno così: oggi però la sua struttura  feudale  non fa più gran danno perché  è un’oligarchia prevalentemente solo spirituale ed esercita la propria influenza politica, che rimane comunque rilevante, con la mediazione di un laicato che agisce secondo principi e metodi democratici, in contesto che relativizza ogni autorità pubblica. Nei movimenti reazionari laicali, e in genere politici,  questa mediazione salta: in fondo essi sono l’immagine di come diverrebbe la società se prevalessero.

 Se consideriamo la nostra Costituzione, un documento che contiene regole che possono essere cambiate solo con maggioranze molto vaste e alcuni principi che non possono essere cambiati, vediamo che è piena di valori, di principi di azione sociale che vengono imposti anche al legislatore, come ad ogni autorità pubblica. Ci sono , ad esempio, quelli della libertà religiosa e quello della laicità dello stato: in Italia non sono mai stati completamente attuati. C’è quello di uguaglianza, che oggi è a rischio. C’è quello di solidarietà sociale, anche questo oggi a rischio. Si tratta di principi che nessuna maggioranza potrebbe abolire: ragionandoci sopra lo ha stabilito la Corte Costituzionale, il collegio di giuristi ai quali è affidata l’interpretazione autentica della Costituzione per stabilire se le altre leggi la rispettano. I valori costituzionali in Italia si sono affermati prima tra la gente che nelle assemblee legislative. Scaturirono dalla disfatta del fascismo storico, all’inizio degli scorsi anni ’40: si ebbe un processo di conversione popolare, partito dal rifiuto della guerra e dalla presa di coscienza che ci si era trovati in mezzo ad essa a causa delle idee del fascismo, un regime oligarchico che proponeva la disparità sociale a fondamento della gerarchia pubblica, la violenza come via per la risoluzione dei conflitti sociali, l’aggressione internazionale come via per la ricchezza nazionale, la guerra come  igiene  della razza. Era un regime che metteva le armi in mano ai più piccoli, spingeva la gente alla violenza e alla guerra. Mantenne ciò che prometteva. Gli italiani ebbero la guerra. La disfatta del fascismo fu prima culturale che bellica. La gente non gli credette più, ammaestrata dal dolore: non fu una svolta opportunistica, come taluni sostengono. E infatti fu duratura. Ancora oggi i valori democratici sono vivi tra la gente, in particolare nei più giovani. Vivono, ma spesso se ne è perduta consapevolezza, non li si chiama con il loro nome. A volte li si vive, ma ce se ne vergogna, perché sono diffamati da gente potente.

  Negli anni passati, si sono considerati i quartieri romani, e anche il nostro, come terra di missione. Non sono mai stato d’accordo con questa visione delle cose. L’ho sempre considerata piuttosto clericale. Mi offendeva. Se le Valli  fossero veramente terra di missione significherebbe che tra la nostra gente i fedeli sono diventati minoranza, e minoranza esigua. Non è così, ancora. In una prospettiva clericale si è insoddisfatti della gente  e allora  si fa come se non fosse più della nostra fede. Una scomunica di fatto che è un vero arbitrio. E perché poi? La gente non segue la  vita buona  raccomandata, dicono. Questa però è stata più o meno la condizione di sempre della gente della nostra fede: che cosa è cambiato? Ci si sforza di essere migliori, ma in genere ci si approssima  solo a quella vita buona  idealizzata. E’ quello che accade anche tra il clero, dove sono molti di quelli che ci fanno la predica. Non sempre possono proporsi come esempi di moralità, in particolare ai livelli più alti. Lo ha detto il Papa ed è persona che penso di certe cose se ne intenda. Del resto: la vita buona raccomandata è veramente praticabile? In religione si ragiona di famiglia, ad esempio, e della famiglia non si ha una visione realistica. Del resto chi legifera in materia non ne ha esperienza se non da figlio e zio.  E così va nelle cose del sesso, ma lì è anche peggio perché chi legifera se lo vieta come peccato. I nostri capi religiosi sono scontenti delle nostre famiglie e di come facciamo sesso, ma in che cosa si è veramente peggiori dal passato? Le nostre famiglie di oggi sono molto meno violente e dispotiche che nel passato, nei rapporti tra i sessi è lo stesso. Non è un progresso? Le società del passato, permeate di religiosità tradizionale, esprimevano incubi famigliari. Intorno all'anno Mille gli stessi papi condussero vita sessuale dissoluta: si parlò, a proposito del loro potere, di pornocrazia. In seguito ciclicamente ci ricaddero, assumendo i costumi dei principi del loro tempo. Ed erano anche dei capi violenti. E' dal Settecento che la qualità dei papi cambiò: non è un caso che ciò avvenne con lo sviluppo di processi democratici che li sottoposero a critiche serrate. Ai tempi nostri sono dei sant'uomini.   A ben vedere, dietro l'insoddisfazione dei nostri capi religiosi per le nostre vite,  c’è la politica, si è scontenti di noi perché non assecondiamo più certi disegni politici nella società e siamo molto più coinvolti nei processi democratici. Pretendiamo di avere voce nella formulazione dei principi di azione sociale, del resto secondo la prospettiva dell’ultimo Concilio. Non accettiamo più certe discriminazioni, certe umiliazioni, di essere solo gregge  condotto qua e là da certi pastori. Siamo insofferenti di autorità che si propongono come assolute.  Questo, anche se non sempre se ne è consapevoli, è frutto di una compiuta assimilazione interiore dei valori democratici.

  Le Valli all’ultimo censimento avevano circa ventimila residenti: circa quindicimila di loro, secondo le statistiche nazionali, dovrebbero prendere come riferimento morale la nostra fede, anche se non vengono spesso in parrocchia o non ci vengono più. E’ tra questa gente che dobbiamo sviluppare processi democratici per poi parlare di valori e metterli in pratica. Si tratta di popolo vero, non dell’immagine clericale che se ne ha di solito quando se ne parla tra addetti ai lavori: c’è il buono e c’è il cattivo, e anche il molto cattivo. Ogni persona però è un processo: può cambiare, in meglio o in peggio. E così è per la società. Creare le condizioni per un miglioramento collettivo  e individuale è il lavoro delle democrazia come oggi la si concepisce, piena di valori  dei quali le maggioranze non sono arbitre. Non interveniamo sul quartiere da fuori, da colonizzatori, da  missionari. Ne siamo parte, nel bene e nel male. Viviamo in famiglia, ci prendiamo cura di altri, dei più giovani, dei più anziani, molte ore al giorno siamo al lavoro e come tutti soffriamo dei mali sociali. Queste nostre vite hanno un significato sia civile che religioso. Non è senza valore religioso ciò che facciamo in società, ma anche vero l'inverso: non è senza valore civile ciò che facciamo in religione. Migliorando in religione possiamo divenire anche cittadini migliori e divenendo cittadini migliori possiamo anche migliorare la nostra vita di fede, personale e collettiva. Ma come migliorare? Bisogna innanzi tutto  riprendere a incontrarsi: la parrocchia è un’opportunità perché ha le strutture per farlo. Ed è uno spazio in un certo senso pubblico, perché pagato anche con soldi pubblici, con una parte dei proventi dei nostri tributi che confluiscono in presa diretta nelle casse della nostra organizzazione religiosa.  La società si migliora solo lavorando insieme, di generazione in generazione. Non si tratta divenire in chiesa  come spettatori. Già proporsi che i più giovani abbiano in parrocchia un posto loro dove crescere insieme è importante: non ve ne sono altri nel quartiere, per quanto ne so. Accoglierli richiede la collaborazione degli adulti e si collabora efficacemente solo sviluppando processi democratici, imparando  la democrazia, che è potere condiviso, in cui si condividono innanzi tutto grandi principi umanitari, come quello che nessuno è meno degno di vivere di altri. Nella pratica, ad esempio, questo significa che, in un’assemblea, si cerca di ascoltare e capire gli altri, si rispetta il tempo  loro concesso per parlare, non li si zittisce e non li si sovrasta gridando. Nessuno umilia, nessuno esclude, c’è un posto per tutti, nessuna autorità senza limiti. Si pratica la democrazia e in essa si può scoprire l’agàpe  della fede, specialmente quando non la si affronta con spirito di circolo, ma cercando di espanderla per includervi nuovi  amici.

48.10.  E’ evidente  quello che non ha bisogno di essere dimostrato, sul quale, quindi, non è necessario dare spiegazioni o anche giustificazioni. Lo vedono e lo capiscono tutti che è così, e basta.

  Il Sole sorge  e tramonta: è evidente. Che però  giri  intorno alla Terra può sembrare, solo  sembrare  evidente, ma poi abbiamo scoperto che è falso. Sono state necessarie, però, complicate dimostrazioni per convincersene. Per nulla evidente è che sia la Terra a girare  intorno al Sole. Se ne sono date spiegazioni, ma a lungo la si è ritenuta un’enormità impossibile da credere, addirittura un’eresia. Come anche che la Terra e poi il Sole non fossero al centro dell’Universo. Nel secolo scorso, mandando macchine e astronauti  nello spazio cosmico è emerso che il Sole è in posizione piuttosto decentrata in una tra le tantissime galassie dell’Universo, che non è ben chiaro come e dove evolva  e che fine farà, se poi una fine ci sarà mai ad un certo punto.

   In religione quasi nulla è evidente, anche se qualcosa talvolta sembra esserlo,  perché la fede religiosa tratta di potenze invisibili. Sono invece evidenti l’empatia e la compassione: realtà interiori, in un certo senso invisibili,  ma di cui facciamo esperienza. Siamo capaci di immedesimarci  negli altri, nelle loro gioie e nei loro dolori, e ci sentiamo spinti ad andare in loro soccorso quanto soffrono. La psicologia, le neuroscienze e l’antropologia ne danno spiegazioni, certo, ma si tratta di realtà  evidenti, e, innanzi tutto, proprio di  realtà, appunto perché ne facciamo esperienza quotidiana, tutti, almeno quando in noi non prevale la natura di antiche belve. In religione questo si chiama misericordia e il Papa ci torna spesso sopra. Si tratta quindi di realtà che hanno significato per la fede  e sono al fondo della concezione religiosa dell’agàpe, del pensare di poter riunire tutti in un lieto convito in cui ce ne sia per tutti, nessuno escluso.

  Al di fuori della misericordia, che è evidente nel senso che ho precisato, mi pare che tutto in religione necessiti di complicate, e anzi complicatissime, spiegazioni, delle quali si occupa la teologia. Trattando dell’invisibile, è assai raro che i teologi siano d’accordo tra loro, quindi poi ci sono, più o  meno, tante teologie quanti sono i teologi. Questo però non ci deve scoraggiare, perché quasi tutto, nella vita umana, va così. La scienza, in particolare, funziona così, e per certi versi, nel suo argomentare razionale, conseguente, cercando di accordare conclusioni e premesse, la stessa teologia si è fatta scienza. Questo non significa che non si cerchino accordi, intese. Ci si incontra, si ragiona insieme, e talvolta si riesce ad arrivare a soluzioni condivise. Ma spesso in politica e nella religione che si fa politica, come anche nella politica sacralizzata, quella che strumentalizza la religione, si va per le spicce, non si ha tanto tempo da perdere. Allora si stabilisce che la  verità esce da una certa fonte, sia proclamata da una certa autorità, e che si sia obbligati a convincersene. Storicamente la faccenda della verità appare  strettamente connessa con l’autorità. Che cosa è la verità? E’ un problema filosofico, ma anche politico. La domanda risuona nei racconti della Passione e venne attribuita a Ponzio Pilato, il Procuratore della Giudea, funzionario di medio livello dell’imperatore romano, quindi, tutto sommato, a un politico. Egli la pose, ma non stette ad attendere la risposta del Maestro. In politica appare inutile discutere  di verità: e se poi ci fosse sfavorevole? Nessun politico di solito è disposto a lasciare il campo per questioni di verità. Preferisce quindi aggiustarsela. E gli argomenti non mancano mai. Quindi sceglie, tra le opinioni correnti, quelle che gli servono meglio e le impone agli altri con la forza del diritto, facendone norme giuridiche. Una verità vale quanto gli argomenti che si portano a suo sostegno, a meno che non sia evidente; un verità normativa, invece,  è una legge e vale quanto l’autorità di chi l’ha imposta e, in politica, quanto  la forza del potere che ha legiferato, militare, poliziesca, giudiziaria e via dicendo. Anche le religioni impongono verità normative, in particolare nelle società dove i poteri pubblici sono sacralizzati e quindi inglobano la religione nella propria giustificazione sociale. In esse poteri pubblici  e verità normative  si rafforzano a vicenda. Che accade però quando, in società con poteri sacralizzati, una  verità normativa viene posta in questione dai fatti, da argomenti seri? Il potere che l’ha imposta fa in genere resistenza, porta i dissenzienti davanti ai suoi tribunali e, se non cambiano idea, li condanna. Dal Cinquecento e per circa trecento anni è stato questo il dramma delle scienze  tra gli europei. Dalla fine del Settecento è toccato alla democrazia subire lo stesso travaglio. La faccenda è di solito, superficialmente, presentata come conflitto tra scienza e fede, ma, in realtà, si è trattato di un conflitto tra scienza e poteri sacralizzati e poi tra concezioni democratiche e poteri assolutistici sacralizzati.

  In democrazia si è tratto insegnamento dalla tremenda nostra storia del passato e si ripudia ogni sacralizzazione del potere: è questo il senso del principio della laicità  dei poteri pubblici. E’ uno di quei principi inderogabili, che non dipendono da questa o quella maggioranza. Se non lo si applica non c’è, o non c’è più, democrazia. Ma, allora, nei regimi democratici, non è che quel principio della laicità dei poteri pubblici  sta virando in fondo verso la verità normativa, e finisce per rientrare in quelle idee sul mondo che non possono essere messe in questione solo perché sono divenute legge e si rischia forte ponendo dei dubbi? E’ la contestazione di sempre di ogni specie di reazionari. Si ribatte, di solito, che è cosa che ha a che fare con la morale. Non è come quando in religione si sosteneva che il Sole girasse intorno alla Terra e si voleva imporre questa idea per legge, altrimenti, si pensava, l’Universo e con esso tutti i poteri politici e religiosi legati al Cielo sarebbero stati rovesciati. Teniamo conto degli altri  e ci poniamo dei limiti. Per questo rinunciamo a sacralizzare, quindi ad assolutizzare  rendendolo illimitato,  il potere politico che esercitiamo. E’ necessario se si vuole che quel potere sia condiviso e che, quindi, ognuno se ne senta responsabile. Capiamo che non possiamo fare degli altri tutto ciò che ci piace o ci conviene. Non sono nostro trastullo, ha detto il Papa criticando la prostituzione, né nostro strumento. Dobbiamo tener conto delle loro vite, ci sono, esistono, se pongono questioni ci sentiamo obbligati ad ascoltarli. Non abbiamo cuore di annientarli: questo ha a che fare con la misericordia e l’agàpe.  Che cosa resta al dunque? Questo resta: è scritto. La democrazia, in fondo, come oggi la si intende, è un sistema di limiti che ciascuno pone al proprio arbitrio, per questioni di cuore, di misericordia, sulla base di esperienze interiori evidenti.  E’ evidente, a questo punto, anche il collegamento con la nostra fede.

 

49. Pensare il popolo

 

AVERE CORAGGIO E AUDACIA PROFETICA»

Dialogo di papa Francesco con i gesuiti riuniti nella 36a Congregazione Generale (ottobre 2016)

 

[…]

Dopo la 35a Congregazione Generale la Compagnia ha percorso un cammino nella comprensione delle sfide ambientali. Abbiamo accolto con gioia l’enciclica «Laudato si’». Sentiamo che il Papa ci ha aperto porte per il dialogo con le istituzioni. Che cosa possiamo fare per continuare a sentirci coinvolti in questo tema?

 La Laudato si’ è un’enciclica a cui hanno lavorato in molti, ed era stato chiesto agli scienziati che ci hanno lavorato di dire cose ben fondate e non semplici ipotesi. Ci hanno lavorato molte persone. Il mio lavoro in effetti è stato quello di dare gli orientamenti, fare questa o quella correzione e poi elaborare la redazione conclusiva: questo sì, con il mio stile e riprendendo alcune cose. E credo che bisogna continuare a lavorare, attraverso movimenti, accademicamente e anche politicamente. Infatti è evidente che il mondo sta soffrendo, non soltanto per il surriscaldamento globale, ma per il cattivo uso delle cose e perché la natura viene maltrattata… Bisogna anche tenere presente, nell’interpretazione della Laudato si’, che non è un’«enciclica verde». È un’enciclica sociale. Parte dalla realtà di questo momento, che è ecologica, ma è un’enciclica sociale. È evidente che a soffrirne le conseguenze sono i più poveri, quelli che vengono scartati. È un’enciclica che affronta questa cultura dello scarto delle persone. Bisogna lavorare molto sulla parte sociale dell’enciclica, perché i teologi che ci hanno lavorato si sono preoccupati molto nel vedere quanta ripercussione sociale hanno i fatti ecologici. E questo è di grande aiuto: va vista come un’enciclica sociale.

 

[testo integrale in

http://www.laciviltacattolica.it/wp-content/uploads/2016/11/Q.-3995-3-DIALOGO-PAPA-FRANCESCO-PP.-417-431.pdf

 

  Lunedì scorso, al termine della discussione al termine degli incontri di approfondimento sull’enciclica Laudato si’, è stato proiettato il testo che ho trascritto sopra, che è la trascrizione di una parte del dialogo  avuto dal papa Francesco con i gesuiti, nella loro 36° Congregazione generale, svoltasi nell’ottobre 2016.

  Fin dal primo momento il Papa, nel 2015 quando l’enciclica fu diffusa, ha tenuto a precisare che non si trattava solo di un’enciclica che si occupava di ambiente naturale, ma che riguardava la società e il suo sviluppo. Leggendola lo si capisce bene, ma ad uno sguardo frettoloso, come quello che di solito si riserva a quel tipo di letteratura religiosa, non è proprio evidente. Il significato sociale del documento è stato bene inteso, ad esempio, negli Stati Uniti d’America, dai settori della destra politica che rappresentano politicamente le grandi imprese che guadagnano dal modello di sviluppo criticato nell’enciclica: infatti hanno subito intimato al Papa di rimanere nel campo spirituale e, quindi, di farsi gli affari propri, non turbando quelli altrui.

 E’ sempre stato noto che le encicliche sociali  erano state frutto di un lavoro collettivo, e questo fin dalla prima dei tempi moderni, la Le Novità, nel 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°.

 Si legge in Gabriele De Rosa. De Rosa, Il Movimento cattolico in Italia,Bari,Laterza, 1979:

 “La redazione dell’enciclica leoniana fu affidata  a uomini di forte preparazione            filosofica, come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara, autori  rispettivamente del primo e del secondo schema”.

  Tuttavia la particolarità dell’enciclica Laudato si’ è che la cultura religiosa che c’è dentro si è sforzata di non essere auto-referenziale, quindi di fare riferimento a quella scientifica, sia con riferimento alle scienze naturali che a quelle sociali. Si sono volute dire “cose ben fondate e non semplici ipotesi”. Non si tratta quindi della solita invettiva contro lo spirito dei tempi e i mali sociali derivati da non seguire la morale religiosa prescritta, ma di una visione della storia e della società attuale che vuole essere realistica. Un modello di sviluppo basato su un intenso consumo delle risorse naturali sta conducendo il mondo ad una crisi globale. La competizione  lo anima, ma anche lo minaccia. Si compete per avere la parte più grossa della torta e per molti è lotta per la vita, perché a loro non tocca nemmeno ciò che è indispensabile per sopravvivere. Per molti altri la vita torna ad essere solo fatica, come nell’Ottocento, ai tempi della rivoluzione industriale. A quell’epoca la condizione di chi stava peggio migliorò con lotte sociali di massa, nel confronto tra le classi, che in Occidente portò nella seconda metà del Novecento allo stato sociale, in cui le istituzioni pubbliche, rette democraticamente, si assunsero il compito di riequilibrare le parti. Dal 1990, con lo sviluppo della globalizzazione  dell’economia mondiale, sorretta da una rete giuridica di accordi internazionali, quel modello è stato superato. Questo perché la forza esprimibile nello scontro sociale da chi sta peggio è molto diminuita: l’azione di massa per i diritti civili e sociali si è fatta meno efficace. Era basata su masse di produttori, essenzialmente di operai, che rivendicavano parti più giuste. Chi controllava le imprese ne aveva bisogno, non poteva farne a meno nella produzione, e quindi, alla fine, veniva  a patti. Nel mondo di oggi può limitarsi a produrre da un’altra parte del mondo, dove le lotte sono meno efficaci o addirittura vietate, come nella Repubblica popolare di Cina di oggi, da cui proviene molta parte dei nostri oggetti di uso quotidiano. In Occidente ormai si conta di più come consumatori che come lavoratori, ha osservato il sociologo Zygmunt Bauman. Il lavoro si è molto svalutato  e infatti viene retribuito sempre meno. Come consumatori si è però fascinati dalle tecniche di psicologia di massa utilizzate nella pubblicità commerciale, e il pubblico dei consumatori, sotto certi aspetti, assomiglia sempre di più a quel gregge docile  vagheggiato dal clero come modello ideale di popolo.

  Che cosa è e soprattutto chi  è il popolo?

  Non è facile rispondere, in religione, ma ormai anche da altri punti di vista, quello giuridico e quello sociologico, ad esempio.

  E’ importante stabilirlo perché, secondo la fede, ci proponiamo di fare di tutte le genti della terra un unico popolo. Fino a non molto tempo fa questo appariva un obiettivo destinato alla fine dei tempi. Oggi è una prospettiva resa concretamente possibile dalla globalizzazione  dell’economia e del diritto. Ma anche indispensabile per consentire la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta. Il secolo scorso essa appariva minacciata dal conflitto nucleare globale, oggi dagli stessi costumi consumistici quotidiani, banali.

  Da un certo punto di vista ci siamo uniti, nella fitta rete di relazioni commerciali, ma anche di altro genere, ad esempio nell’informazione e nella cultura, che ci connette a livello mondiale, ma da altri punti di vista ci stiamo dividendo e schierando. I sistemi politici non sono integrati e lungo le linee di contatto territoriali si generano frizioni e motivi di conflitto. Nell’era della globalizzazione  si è ricominciato a credere possibili e utili guerre locali per risolverli e gravi conflitti, per ora  a bassa intensità, sono ormai endemici ai confini orientali e meridionali dell’Unione Europea.

 I popoli sembrano, come sempre, avere scarsa voce nella politica mondiale. Ci siamo abituati a considerare principalmente le personalità che le dominano, giunte ai vertici delle più grandi confederazioni di potere politico. Eppure le oligarchie che li dominano ne sono influenzate molto più che in passato, quando, organizzate in sistemi dinastici, li dominavano e basta. Mutamenti di massa di stili di vita possono cambiare le cose. Essi sono possibili anche a partire da realtà di prossimità. In un sistema globale basato sull’accaparramento del consenso dei  consumatori, nelle grandi guerre commerciali, un mutamento delle propensione al consumo può fare la differenza. Questo è sperimentale anche su piccola scala. Nel nostro quartiere si tentò di fascinare commercialmente la gente, cercando di farle vedere i benefici di un’edificazione intensiva sul pratone. Ci fu, anni fa, un’intensa attività di pubblicità in quel senso, forse alcuni lo ricordano. La gente la respinse ed avemmo il pratone  e poi il Parco delle Valli. Ma fui il consenso dei consumatori a consentire lo sviluppo del mercatino ad capo del parco, alla fine di via Conca d’Oro. I consumatori del quartiere, ad un certo punto, decisero di non essere più solo gregge.

  Quando i dirigenti delle nostre collettività religiose, anche in AC, iniziano a progettare l’azione sociale, non si sa bene dove vogliano andare a parare. Iniziano a parlare in ecclesialese, il gergo di quegli ambienti, e chi li capisce più? Si mantengono sul vago, in genere limitandosi all’analisi della situazione. Al dunque sembra che non sappiano che pesci pigliare. Sembrano stretti in limiti invisibili, timorosi di allargarsi. In realtà, anche se non credo se ne rendano conto, si tengono ancora nei limiti fissati all’azione sociale in religione dal vecchio Concordato concluso nel 1929 con il Mussolini, che vietava la politica alle istituzioni religiose. Ma quel Concordato è stato quasi completamente abrogato dagli accordi di revisione del 1984. Ora sono stati riconosciuti come campo proprio delle istituzioni religiose la promozione dell’uomo e il bene del Paese, vale a dire la politica (art.1 dell’Accordo di revisione 1984).

  Non bisogna illudersi: anche dialogando, non si resisterà al degrado senza azioni di  lotta, e non solo di lotta interiore. La politica  è anche questo. Ma nella nostra tradizione religiosa la lotta è stata prevalentemente intesa come  resistenza passiva. E la passività  del papato nel corso del fascismo storico gli è stata imputata come grave colpa, ma la sentenza dovrebbe estendersi a tutto il popolo italiano di quell’epoca, salvo che per i tempi dopo quella conversione di massa che consentì la Resistenza tra il ’43 e il ’45 e l’avvio di processi democratici. La dottrina sociale, fino dall’enciclica Le novità,  è stata avversa alle agitazioni di massa. Del resto essa è espressa da sovrani  assoluti.  Pensare la politica di popolo è la sfida di oggi anche in religione, ora che ci si propone di salvare il mondo  (è appunto questa la grande  politica, quella con la P  maiuscola.

 

50. Costruire il popolo

 

 

 Una volta ci si ritrovava nel dominio della nostra Chiesa come ci si trovava in quello dello Stato e i due poteri erano collegati: entrambi erano sacralizzati, vale a dire assolutizzati  secondo la nostra fede,  e si sostenevano a vicenda nel dominio sulla gente. Non c’era nulla da decidere per le persone e nelle statistiche nazionali si veniva contati  come cittadini e credenti religiosi in quanto italiani. Il principio liberale “libera Chiesa in libero Stato”  era una specie di regolamento di condominio tra oligarchie politiche. Questa era la situazione alla caduta del fascismo storico italiano, nel 1945. E’ continuata a lungo più o meno tale e quale anche in democrazia, durante il dominio del partito cristiano, la Democrazia Cristiana.  E’ cambiata a cominciare dagli scorsi anni Sessanta, fondamentalmente per la de-sacralizzazione  del potere politico indotta dai nuovi principi enunciati dai saggi del Concilio Vaticano 2°. Quella religiosa fu presentata sempre più come una scelta, che richiedeva un’adesione. Negli anni ’80 si produsse una grave crisi della politica, che si sentì e fu analizzata dagli studiosi come  delegittimata, in crisi di consenso popolare. Fu un processo causato dall’aumento del potere auto-referenziale di oligarchie collegate ad un nuovo dominio di classe, della classe che riusciva ad avvantaggiarsi dei processi economici globalizzati. I politici nazionali iniziarono ad imitarne i costumi, così come taluni principi regnanti delle residue monarchie occidentali assumevano quelli dei più ricchi. Sia in religione che in politica la maggior parte della gente finì per essere tagliata  fuori: in religione perché non rispondente ai criteri più selettivi proposti per ottenere il riconoscimento come credenti (l’asticella  era stata molto alzata, la religione non era più a buon mercato); in politica perché ritenuta incapace  di capire il nuovo  mondo e di interagirvi positivamente.

  Dagli anni ’90 la politica, sia quella religiosa che quella civile, si separò dal popolo. Si rese autoreferenziale dal suo consenso. Bastò accattivarsene periodicamente i consenso plebiscitario  con tecniche di marketing, quelle che servono a fascinare il pubblico  dei consumatori. In religione si impiegarono i grandi eventi  costruiti intorno ai papi, ingenerando un neo-papismo di tipo personalistico che mai c’era stato prima di allora.

 Il popolo ridotto a pubblico  non è però sufficiente per sostenere le politiche che servono per contrastare le minacce che vengono da uno sviluppo economico e sociale scompensato. Le relazioni tra le persone sono troppo labili, tendono a sfaldarsi rapidamente e capricciosamente. Le oligarchie politiche hanno voluto assumere l’immagine di referenti di consumatori, fascinando la gente, e si trovano a subire il contrappasso, una punizione corrispondente alla loro colpa, perché è una colpa aver ridotto in quel modo i processi democratici, per cui hanno solo il credito che può essere ottenuto con quel tipo di fascinazione, a brevissima scadenza: si sono fatte estremamente precarie e navigano a vista.

  Gli studiosi, pensando all’origine dello stato, vi videro o il risultato di un dominio ottenuto con un atto di forza  di un’oligarchia, a cui gli altri si assoggettano per quieto vivere, cedendo  il proprio potere sociale per desiderio di protezione, o un patto  sociale. In entrambi i casi, a partire dagli anni ’80, il potere in Italia divenne il risultato precario  di uno scambio, potere contro favori di categoria (fenomeno che viene definito  consociativismo), e poi, con l’emergere di oligarchie di potere consumistico, il risultato ancora più precario, perché non fondato nemmeno su un labile accordo commerciale, di una combinazione episodica tra potere e fascinazione, per cui, ad un certo punto, si riesce a convincere un adulto a tracciare un segno sulla scheda elettorale, senza troppo pensarci. In questa situazione le promesse politiche possono tranquillamente non essere mantenute e nessuno se ne adombra.

 La sfida dell’oggi è quindi quella di una nuova  democratizzazione  della società, costruendo relazioni  forti, una nuova trama di popolo, generando una nuova metamorfosi da pubblico/folla  a popolo  democratico.

 

51. Processi democratici nella costruzione di un popolo: la festa

 

  Nelle nostre collettività religiose lo sviluppo di processi democratici è ostacolato dall’ingombrante gerarchia feudale del clero. Occorre trovarle un posto e non è facile. Fatto sta che, quando si parla di organizzarsi  per fare qualcosa, si finisce di solito per andare molto sul vago, non trattando veramente di come si è  e di  come si dovrebbe o vorrebbe essere, ma di qualche obiettivo che sta fuori  di un certo gruppo di riferimento. Si cerca sempre di mostrarsi  nella condizione di gregge,  pronto a seguire pastori. Ma che di che parlano gli  esseri umani/gregge quando stanno tra loro? Si parla in ecclesialese, il gergo/chiacchiericcio infarcito di parole della teologia, che serve a parlare senza dire nulla, per fare bella figura senza rischiare. Ogni decisione  collettiva è frutto di un difficile compromesso con il clero, che di solito viene raggiunto in mediazioni riservate. Le assemblee servono solo per ratificare.

   Nell’organizzarsi  collettivamente  gli esseri umani sono ostacolati dai loro naturali limiti cognitivi. Secondo gli antropologi non siamo capaci di relazioni profonde, stabili, con più di circa centocinquanta persone. E’ chiaro però che le nostre società sono  organizzate  per collettività molto, molto più vaste, e addirittura a livello mondiale. La gente allora fa come gli uccelli nello stormo: prende le misure su quelli che sono intorno più vicini e su chi sta avanti a tutti. Vi è poi un modo di comportarsi in società che dipende dalle culture e consiste nel far riferimento ad un sistema di miti e di idee: è la via delle religioni e del diritto. La cultura allora è come una cartina topografica che ognuno tiene in tasca e dice come fare per raggiungere un certo posto

  Di solito non abbiamo bisogno di contatti profondi con tutti quelli che incontriamo. Circolando per strada incrociamo  migliaia di persone senza mai incontrarle. Ognuno sa come comportarsi in questi rapporti fugaci, istantanei e labili. Se dovessimo approfondire, la vita sociale si bloccherebbe. Ora, è importante discutere di un tema che è diventato particolarmente critico nella nostra civiltà: i rapporti che si hanno interagendo sul WEB, su “internet”, sono di questo tipo, anche se chi interagisce vi investe molta emotività, come per rapporti profondi. In realtà non si creano relazioni stabili e profonde tra le persone. Questo significa che chi sta molto su “internet” è un isolato, anche se sembra interagire tutto il tempo con altri. E’ una condizione che spiega perché “internet” abbia fallito nella costruzione di processi democratici, ad esempio nelle “primavere arabe” degli anni scorsi, ma anche da noi in politica. Che cosa corre tra le persone quando stanno su “internet”? Corre solo la cultura altamente formalizzata, quella delle piattaforme, dei  portali, organizzata e diretta da altri (quelli che hanno il potere di ammettere  e di escludere e fissano le regole dell'interazione), quella che consente i contatti  tra utenti. “Internet” non è quindi il regno della libertà e della spontaneità, ma il suo contrario.

  Se si considerano solo le persone più vicine, le realtà di prossimità, si costruiscono solo gruppi molto piccoli e dalla vita breve. Se ci si orienta sui capi, si perdono le realtà di prossimità. Ogni potere tende ad assolutizzarsi, su grande e piccola scala, e a togliere spazio alle altre persone. Anche nell’associazionismo religioso. Lo ha detto anche l’attuale Papa ed è sorprendente, perché l’ingenuo papismo mediatico e personalistico  inaugurato dal Wojtyla consiste proprio in questo. La scarsa familiarità con rapporti collettivi profondi fa perdere senso alle culture condivise, sfascia le tradizioni. Questi, riassumendo, sono alcuni tra i  problemi principali delle società occidentali contemporanee nell'organizzarsi collettivamente. Nell’ecclesialese  corrente sono cose risapute. Quando poi si tratta di passare dall’analisi critica alla costruzione del cambiamento le cose si imbrogliano e ci si arresta, rimandando alla prossima settimana sociale o  assemblea.

  L’altro giorno abbiamo fatto una festa in parrocchia e abbiamo visto che le molte persone che sono venute sono rimaste sostanzialmente estranee tra loro. E questo anche se si era organizzato un ricco rinfresco. Di solito il mangiare insieme è una delle basi naturali  degli incontri. Era però un rinfresco  in piedi, e in occasioni del genere si tende a ruotare  intorno ai tavoli per poi trovare un posto laterale  per mangiare. Nessuno ha un proprio posto  e ogni posto in cui ci si ferma un attimo  di solito non è quello che si riuscirà a conquistare nella fase successiva. Nella socialità del party  secondo il modello statunitense (party nell’angloamericano significa sia  festa  che partito), che è appunto l’incontro di i un gruppo per un rinfresco in piedi, le persone girano presentandosi le une alle altre, intrattenendo brevi conversazioni con molti dei partecipanti nel corso delle quali  programmano  incontri più ravvicinati e profondi, ad esempio per questioni di lavoro. Al centro dell’evento c’è l’incontrarsi  per conoscersi. Una festa  in società dovrebbe avere questo obiettivo. E’ diversa dalla festa parentale  in cui ci si conosce già tutti. Spesso le assemblee che si fanno nelle collettività religiose hanno il tono delle feste parentali. Occorre trasformarle in feste per conoscersi, che chiamerei  feste/partito,  in angloamericano “party/party”, quelle che fanno movimento. Un processo democratico parte da occasioni come queste. Si deve proporre un minimo di formalità, vale a dire un  rito, perché ognuno senta di avere un posto ci deve essere una persona di riferimento, ma non ingombrante come un capo, quindi un potere non sacralizzato; infine  deve essere proposto il metodo, e l’etica, dell’incontro, per cui ci si deve presentare, parlare con più persone di volta in volta per averne un’idea più precisa, senza però monopolizzare gli altri perché questo riduce il numero degli incontri possibili. Liturgie troppo pervasive e formalizzate impediscono gli incontri personali. Lo stesso accade con capi troppo ingombranti. Negli incontri personali occorre garantire una certa libertà con l’avvertenza che è sconveniente aprirsi troppo o chiedere troppo agli altri. Il rapporto con gli altri va costruito progressivamente, di tappa in tappa, conoscendoli meglio. Avvicinandoli più spesso si ha occasione di farlo. Relazionandosi su “internet” se ne ha solo l’impressione (falsa), ma si rimane sempre allo stesso punto.

  Le feste/partito  sono alla base dei processi democratici, anche di quelli popolari, di massa. Quando i lavoratori contarono di più in società organizzarono la Festa dei lavoratori (non del lavoro, come talvolta, sbagliando, si dice). Un politico come Giorgio La Pira ne fu ben consapevole. Inaugurando da sindaco, il quartiere di case popolari dell'Isolotto, a Firenze, consigliò ai sacerdoti che erano stati inviati nella nuova parrocchia di fare molte feste. 

 

52. Un lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà

 

[da Z.Bauman - E. Mauro, Babel, Laterza, 2015, pag.147-148]

 

Z.Bauman

  Per noi ci sono voluti millenni perché mettessimo nell’agenda pubblica l’abolizione della pena capitale.  Per noi ci sono voluti millenni perché vietassimo la schiavitù. E ci sono voluti millenni perché promuovessimo l’uguaglianza dei sessi. E chi sarà tanto arrogante da sostenere che abbiamo effettivamente raggiunto  tutti questi obiettivi un volta per tutte? Noi possiamo sperare (io lo spero quanto te) che la nostra verità si imporrà alla fine sul pianete che abbiamo in comune, così com’è accaduto (quasi) nella «nostra» parte del globo. Ma abbiamo comunque  bisogno di attrezzarci per la estenuante lunghezza del cammino, per la scabrosità della strada e per la limitata affidabilità dei veicoli a nostra disposizione. Quello che abbiamo davanti a noi da affrontare  è quello che i francesi chiamano un travail de longue haleine [un lavoro di lungo respiro, trad. mia].

   In ogni caso, continuo a ripetere che fra i veicoli disponibili per percorrere questa strada c’è il serio dialogo fondato sulla buona volontà (informale, aperto, cooperativo, per citare di nuovo le qualificazioni di Richard Sennet), che miri alla comprensione reciproca e al mutuo beneficio, che meriti la massima fiducia (anche se non certo assoluta e incondizionata). Un dialogo di questo tipo non è compito facile né -diciamolo pure- allegro; richiede una determinazione solida e costante, capace di resistere a ripetuti e anche molto negativi risultati, un forte senso dell’obiettivo finale, una grande arte, e la disponibilità ad ammettere i propri errori insieme con l’arduo e faticoso dovere di porre riparo ad essi; e soprattutto tanta pacatezza, equilibrio e pazienza.

 

53. Imparare la democrazia

 

 

  La democrazia non è un fatto innato, si impara. Nella società italiana di oggi mancano gli insegnanti. Storicamente l’Azione Cattolica è stata una delle principali scuole di democrazia in Italia: prima però ha dovuto essa stessa impararla e, innanzi tutto, convincersi del fatto che fede e democrazia potessero andare d’accordo. All’inizio del Novecento questa idea veniva considerata parte dell’eresia modernista. Questo significa che, all’origine, la dottrina  sociale, le idee dei papi sulla riforma sociale, non comprendeva la democrazia. Infatti si riteneva che i progetti di miglioramento sociale dovessero discendere dall’alto, dedotti con ragionamenti teologici e proclamati con autorità. Progettare il bene veniva considerato monopolio dei papi. L’osservazione e la comprensione realistica della società in religione vennero progressivamente, in particolare, in Italia, con il lavoro che si fece in Azione Cattolica, dopo la sua fondazione, che risale al 1905, e per la sua organica collegamento con la gerarchia del clero.

  La democrazia non è solo un metodo  per prendere decisioni a maggioranza, ma un sistema di valori. Principio fondamentale della democrazia è di considerare tutti uguali in dignità. L’uguaglianza, però, va costruita in ciascuno. Lo si fa rendendo libere  le persone, che non significa lasciarle alle loro passioni, ma fare in modo che possano decidere consapevolmente. Senza vera libertà,  ciascuno cade preda dei più forti. Il motto del primo partito di ispirazione  religiosa, il Partito popolare italiano, fondato nel 1919 dal prete Luigi Sturzo e da altri suoi amici, fu  Liberi e forti. Ma nessuno è veramente libero da solo. E’ la società nel suo insieme che va liberata. Chi la libererà? “Non esistono liberatori, ma persone che si liberano”, fu il motto di un gruppo resistenziale milanese di cui fecero parte il prete Giovanni Barbareschi e Teresio Olivelli. La liberazione è un compito collettivo che richiede di essere solidali, di considerare anche gli altri, di tener conto di loro e, in particolare, di chi sta peggio, perché non ci sono persone che abbiano più urgenza di liberazione di quelle che stanno peggio, e di solito si sta così quando si finisce in mani altrui. Libertà, uguaglianza, fraternità sono valori assoluti in democrazia, sottratti all’arbitrio di qualsiasi maggioranza. Nella nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004),  a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°  in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’”  è stato il motto della Rivoluzione francese.  In fondo sono idee cristiane ». Quando quelle parole furono pronunciate la democrazia non era ancora  completamente una conquista culturale nella nostra fede: lo divenne solo circa dieci anni dopo, nel 1991, con una storica enciclica del medesimo papa, Il Centenario, in occasione dai cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna. C’è voluto quindi un secolo perché, in religione, l’idea di riforma sociale fosse abbinata a processi democratici. Ma si tratta di un conquista che va rinnovata di generazione in generazione.

 L’idea che proprio la Chiesa insegni la democrazia appare ancora oggi un po’ strana. E’ il residuo, in genere inconsapevole, del passato. Chi parla di democrazia in religione a volte viene collegato con i  comunisti. La bestia nera della prima dottrina sociale fu il socialismo. Urtava pensare che le masse dovessero liberarsi con un proprio movimento sociale e non attendere la giustizia sociale da chi dall’affermarsi della giustizia sociale avrebbe subito solo un danno patrimoniale. In effetti socialisti e comunisti, e in particolare questi ultimi, dovettero imparare la democrazia negli stessi anni, e con le stesse difficoltà,  in cui lo si fece in religione. Imparandola, la trasformarono. La innervarono di idee di giustizia sociale molto più che alle origini. A lungo i comunisti ritennero la democrazia un imbroglio borghese, in particolare constatando che, anche dopo l’introduzione del suffragio universale, le masse davano credito elettorale a chi non faceva, o non  faceva del tutto i loro interessi. Come può succedere? Successe perché, in ambito democratico, si temperarono le asprezze sociali, venendo incontro a chi stava peggio. Si raggiunsero accordi che convennero a tutti. La crisi di quegli accordi è all’origine di quella della società di oggi. Non è un caso che si accompagni ad una crisi dei processi democratici: la gente non ha fiducia nella democrazia e chi comanda cerca di avere il consenso fascinando  i singoli, più che coinvolgendoli nelle decisioni collettive.

 

54. Democrazia e virtù

 

 

  C’è in giro l’idea che la democrazia sia politica debole e corrotta. Ci è rimasta dal fascismo, tramandata di generazione in generazione.

  In realtà vediamo come dalla Seconda Guerra Mondiale, finita nel 1945, più della metà del mondo è stata dominato da grandi democrazie piuttosto bellicose, quindi forti. E la democrazia si regge su un sistema di virtù  personali e collettive, senza le quali non può esistere. Una delle principali è la giustizia: non ci arrende alle prepotenze. In democrazia il potere è condiviso, ma non lo si può fare senza essere giusti, perché, altrimenti, l’arbitrio di pochi sarà legge. In democrazia non si impiegano le potenti polizie politiche costruite dai principali totalitarismi suoi avversari. Ciascuno osserva le leggi per poter essere liberi: è cosa che si è capita fin dall’antichità sulla democrazia. La violazione della legge è vista come arbitrio e prepotenza. Può accadere che, ragionando seriamente e nell’interesse comune, collettivo, si finisca per ritenere una legge ingiusta e quindi non degna di una democrazia: ma non è  decisione che si prende a cuor leggero. Chi viola una legge di solito lo fa di nascosto e non vuole essere scoperto. Chi, in circostanze eccezionali, non osserva una legge perché ingiusta, e quindi indegna, lo fa apertamente, subendone le conseguenze. Questo  rientra nel metodo della non-violenza praticato e insegnato dal politico indiano Mohandas Karamchand Gandhi, Mahatma cioè grande anima, (1869-1948).

  In un sistema politico non democratico viene insegnata la virtù dell’obbedienza incondizionata. In democrazia l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, come scrisse Lorenzo Milani. In democrazia non si osservano le leggi per obbedienza, ma perché è giusto  fare così. Le singole leggi possono essere anche imperfette, quindi  ingiuste, ma sono frutto di procedure condivise e possono essere cambiate nello stesso modo: non sono nelle mani dell’arbitrio di nessuno. Se lo fossero, non ci sarebbe più la democrazia. Ripeto questo insegnamento che ci viene dall’antichità: la democrazia è un sistema in cui ciascuno pone dei limiti al proprio arbitrio, non per obbedienza o peggio per paura, ma perché tutti si possa essere liberi. E’ per questo che il grande filosofo greco Socrate, vissuto nell’Atene del 5° secolo dell’era antica, decise di assoggettarsi alla condanna capitale che gli era stata inflitta, benché, a suo avviso, ingiusta.

  Senza virtù personali e collettive le democrazie muoiono, finiscono. Le democrazie che appaiono corrotte e deboli sono democrazie che stanno morendo. E’ in fondo questa la causa della crisi anche della nostra democrazia. Si tiene troppo poco conto degli altri, delle loro sofferenza, in particolare quando agiamo da consumatori. Così ci facciamo complici dei carnefici di chi sta peggio nel mondo.

 Per insegnare la democrazia bisogna innanzi tutto far riscoprire le virtù democratiche. Si vedrà che in questo modo la società funziona meglio. Lo si può fare fin da bambini: mai umiliare, mai far soffrire, mai escludere, dividere ciò che si ha, mai tradire la fiducia degli altri, resistere all’arbitrio e alla violenza. E’ cosa che un tempo si imparava nei giochi collettivi: ora i ragazzini fanno vita da piccoli monaci. Il primo passo potrebbe essere questo: fare bei giochi di gruppo in parrocchia.

 

55. La salvezza dell’umanità come problema religioso e politico

 

 

  La salvezza dell’umanità in questo mondo non è stata sempre un problema religioso: lo è diventata, anzi, molto di recente. Da quando si è cominciato a ragionare in grande. Si è iniziato a farlo da metà Ottocento, ma è dalla metà dello scorso secolo che si è cominciato progressivamente a capire che l'intera  umanità era minacciata di annientamento. Quindi è molto importante conoscere la storia degli ultimi due secoli. Sono quelli in cui tante prospettive religiose sono cambiate, appunto perché si  è cominciato a pensare in grande, oggi si dice su scala globale, tenendo conto, appunto, di tutta  l’umanità. Questo pone un problema che riguarda la teologia dei secoli precedenti, la quale si è sviluppata in una prospettiva diversa. Le questioni che trattava non erano quelle che sono oggi al centro della nostra attenzione. Con la teologia è in questione anche l’intera formazione religiosa, che consente di tramandare una tradizione di generazione in generazione.

  A lungo, molto a lungo, le questioni di salvezza  erano trattate a partire dall’anima. La morte è un fatto umano ineludibile, lo tocchiamo con mano, letteralmente. In religione si è convinti che l’essenziale di noi sopravviva, che si vada incontro a un giudizio dopo la morte, e che alla fine dei tempi tutto ciò che siamo risorga, anima e corpo, per il premio eterno o la dannazione eterna. Quali saranno i criteri del giudizio? Si sarà giudicati da come ci si è comportati nella vita fisica, terrena. La vita religiosa dovrebbe essere quella che porta al premio eterno. Questo è stato, dalle origini e praticamente fino all’altro ieri della storia, il principale problema della religione. Il miglioramento della società veniva considerato in questa prospettiva, che, per la verità, è ancora quella di molti, specialmente dei più anziani, perché la formazione personale puntava a quello, e allora aveva molto importanza, ad esempio, la devozione personale. La persona pia si sforza di essere buona e questo impegno, se si diffonde in una società, la migliora. C’era ad esempio, e c’è ancora naturalmente, la questione della penitenza, quella mortificazione che ci si impone perché si sa di aver agito male, per correggersi ma anche per dimostrare concretamente di volerlo fare, e quindi poi per non essere esclusi dalla salvezza eterna. Ma la salvezza dell’anima, nell'aldilà,   non è la stessa cosa della salvezza dell’umanità qui in questo mondo, che significa creare, oggi, durante questa vita, società migliori, non solo persone pie, e ciò per diminuire la sofferenza e fare di tutta l’umanità una sola famiglia (così si espressero i saggi dell’ultimo Concilio). Se si prende questa via, se ci si propone questo tipo di salvezza, allora si pongono questioni specificamente politiche, perché la politica è l’azione collettiva per organizzare le società. In religione si è sempre fatta politica, anche molto prima che la nostra fede divenisse anche ideologia politica dell'impero mediterraneo in cui si diffuse, dal Quarto secolo della nostra era. Non sarebbe potuta diventarlo se non si fosse ragionato di politica già prima. Del resto la condanna del Maestro fu motivata come punizione di un crimine politico: l’aver voluto farsi re. Questo anche se egli non fu certamente un capo politico. La politica venne dopo, quando si trattò di dare un’organizzazione a collettività sempre più vaste. Ma troviamo traccia di questo pensiero politico già negli scritti sacri nella nostra fede, in particolare nell’ultimo libro che li compone, dove, dopo la prefigurazione di una serie di immani tragedie della storia umana, in cui si criticano aspramente le prassi politiche del dominio romano, c’è la visione di una nuova città  che scende dall’alto, perché tutto quello che c’era prima non c’è più, e allora sarà asciugata ogni lacrima. La politica è parte importante del pensiero del teologo e vescovo nord-africano Agostino d’Ippona, vissuto tra Quarto e il Quinto secolo della nostra era: ne trattò in un libro intitolato La Città di Dio, nel quale si contrappongono due concezioni della politica viste come in conflitto insanabile.

  Presto le nostre organizzazioni religiose si diedero struttura politica e iniziarono a fare  politica trattando con i sovrani civili. Più o meno dall’Ottavo secolo il vertice religioso ebbe un piccolo regno nell’Italia centrale e fu anche  un sovrano civile. Si ritenne che questo fosse indispensabile per trattare da pari con gli altri sovrani. Due secoli dopo quel vertice volle farsi impero e quindi  dominare  tutti gli altri sovrani, dettare loro legge da un trono religioso. La giustificazione di questo potere rivendicato come supremo, e talvolta anche riconosciuto effettivamente come tale, era che consentiva di ammaestrare le genti, per farne collettività devote e in tal modo per condurle alla vita eterna. La salvezza terrena  dell’umanità era fuori del campo d’azione praticato: per questo non si mise in questione che potessero esserci guerre, anche molte sanguinose, alcune delle quali promosse direttamente o comunque assentite dai capi religiosi. Né, in genere, costituì un problema religioso il genocidio degli amerindi, delle popolazioni di antica origine asiatica che i colonizzatori europei trovarono scoprendo  le Americhe, attuato da potenze europee sacralizzate  secondo la nostra religione. Né, più vicino a noi e a riguardo della politica italiana, lo costituirono le sanguinose guerre coloniali attuate dal Regno d’Italia in Eritrea ed Etiopia, abitate da genti della nostra fede benché di altra confessione, e in Libia. In Etiopia ci fu un fatto di sterminio di religiosi, come vendetta militare. Si consideravano tutti questi eventi come fatti umani fisiologici  dal punto di vista sociale e, in definitiva, insuperabili, se non alla fine dei tempi. L’importante è che ai morituri e morenti fosse aperta la via per la vita eterna, attraverso l’ammaestramento religioso. A tal fine occorreva garantire immunità al clero, ai religiosi (gli appartenenti a congregazioni di frati, e suore, monaci e monache) e ai loro beni. Raggiunta questa, in particolare mediante concordati  e altri accordi, conclusi e formalizzati al modo di quelli che si concludevano tra potenze civili, non si considerava che occorresse fare molto altro, dal punto di vista politico, e, anzi, si accordava di buon grado la sacralizzazione  al potere civile con cui ci si era, sostanzialmente, federati. L’essere anche un potere civile al modo di uno stato, più che la sua maestà  religiosa, sottraeva il papato al dominio degli altri sovrani civili. Il papato fu concepito molto presto come un potere assoluto e questo lo espose al degrado etico a cui sono soggetti i poteri politici senza limiti. Questo fu particolarmente sensibile intorno all’anno Mille, ma la situazione non migliorò sostanzialmente fino al Cinquecento, secolo in cui, stimolati dalla Riforma luterana, si diede un migliore  profilo etico ai poteri ecclesiastici. Fino a quell’epoca, come per le dinastie politiche sacralizzate  non si esigeva che i regnanti fossero personalmente  e  in tutto rispettosi dei precetti religiosi, si adottarono gli stessi criteri per determinare la coerenza morale dei poteri religiosi, che si fecero lecito una parte di ciò che vietavano ai fedeli comuni e che rientrava nelle abitudini correnti dei regnanti. Quindi, a lungo non ci furono molte differenze tra un principe civile e uno religioso, in particolare nel modo in cui si relazionavano con i loro sudditi. L’attuazione della  giustizia sociale come oggi la intendiamo non era considerata indispensabile per i regnanti, i quali se ne occupavano molto poco.

  La situazione iniziò a mutare con l’emergere dei processi democratici di massa, nell’Ottocento e in Europa e nelle parti del mondo colonizzate dagli europei. Inizialmente fu in questione la libertà, che presto in teologia si diffamò come arbitrio, licenza immorale e insubordinazione. Poi, con lo strutturarsi di movimenti di massa, in particolare di quelli socialisti, cominciò ad essere rivendicata la giustizia sociale, sulla base di eguaglianza in dignità  e di  solidarietà civile. Tutti i poteri assoluti furono minacciati e dovettero venire a patti politici, fondamentalmente ponendo dei limiti al proprio potere, in particolare concedendo statuti. Il papato non vi fu costretto perché, nel processo di unificazione nazionale, nel 1870 perse il suo piccolo regno italiano, rimanendo solo una potenza religiosa. Si sentì menomato. Reagì politicamente cercando di suscitare un movimento di massa ostile ai movimenti liberali e nazionalisti che dominavano la politica dell’invasore, del Regno d’Italia, e che lo avevano spinto contro il piccolo regno del papato. Utilizzò ciò che c’era già, vale a dire il vasto e multiforme mondo dell’associazionismo solidale che si era formato in Italia su ispirazione religiosa, animato dal clero di base, e i ceti colti che avevano suscitato. dal Settecento, la polemica religiosa contro l’Illuminismo. Volle animare  il popolo minuto, in particolare quello del mondo contadino, ritenuto ancora fedele al suo potere, a differenza della borghesia liberale. Per farlo costruì una dottrina di giustizia sociale, quella che viene definita dottrina sociale, che è parte del magistero, quindi della teologia  insegnata d’autorità dal papato. Questo generò un pensiero sociale  e correnti democratiche: si pensava anche a una democrazia  animata  dai valori sociali della fede. A cavallo tra Ottocento e Novecento si venne a una resa dei conti tra esse e quelle, dette intransigenti (verso lo stato liberale), che ponevano al centro di tutto i diritti politici violati del papato e i suoi interessi patrimoniali colpiti pesantemente dalla prima legislazione del Regno d’Italia (il clero e gli ordini religiosi erano, e sono, tra i maggiori proprietari immobiliari). Intervenne il papato d’autorità, tra il 1902 e il 1906, scomunicando, nel vero senso della parola, le correnti democratico cristiane,  e costruendo l’Azione Cattolica, come movimento di indottrinamento di massa secondo la dottrina sociale. Questa organizzazione ebbe uno straordinario successo popolare, in particolare fra le donne. Fu la maggiore scuola di politica di massa fino agli scorsi anni ’70. Era organicamente collegata alla gerarchia del clero, che ne nominava i capi. Quando il papato romano si compromise con il regime fascista, nel 1929, risolvendo la questione romana con i Patti Lateranensi, ritornando sovrano politico nel quartiere romano di Borgo e ricevendo ingenti indennizzi patrimoniali, fu spinta a fascistizzarsi politicamente, ma le sue organizzazioni intellettuali, FUCI(gli universitari) e Movimento Laureati Cattolici, resistettero, svilupparono un pensiero politico sociale autonomo sulle suggestioni del personalismo francese dei filosofi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier e formarono la classe politica che, dopo aver partecipato alla guerra di Resistenza contro il regime fascista e l’occupante tedesco combattuta tra il 1943 e il 1945, dominò poi la politica democratica italiana fino al 1994, sostenuta dalle masse di Azione Cattolica.

  A partire dalla Prima Guerra Mondiale (1914-1918) nella dottrina sociale comparì il tema della pace.  Non si arrivò ancora a contestare il diritto dei poteri civili di fare guerra, ad esempio liberando i militari dall’obbligo di fedeltà ai governi che la proclamavano. Ma si iniziarono a qualificare come inutili  le stragi belliche. Inutili perché? Così furono definite da un papa verso la fine di quella guerra, nel 1917. Sembrava che le controversie potessero essere risolte con accordi:

“un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la decisione.” [dalla lettera del papa Giacomo della Chiesa - Benedetto 15° ai capi delle nazioni belligeranti, del 1-8-1917].
 E, allora, perché la guerra?

  In primo piano, però, non apparivano le stragi, ma il disordine politico conseguente ai conflitti. Per progredire nell’ideologia di pace occorse altro tempo e un’altra guerra mondiale.

  Dalla Prima Guerra Mondiale l’Europa uscì molto cambiata e in modo del tutto inaspettato per i  più. I movimenti  politici di massa emersero con particolare forza, perché le masse erano stato molto ideologizzate per spingerle verso il conflitto (è solo così che si convince la gente ad andare a farsi ammazzare): in diverse nazioni europee finirono nel dominio di organizzazioni fasciste e in Russia dei bolscevichi comunisti. Vent’anni dopo si combatté un’altra guerra mondiale, che viene considerata un po’ come una prosecuzione della prima. L’Europa orientale finì sotto il dominio dell’Unione Sovietica e nell’altra si svilupparono movimenti democratici di massa, salvo che in Spagna e Portogallo, rimasti nel dominio di regimi di tipo nazionalista e fascista non colpiti dalla guerra in quanto non vi avevano preso parte. Il mondo si divise in due: la parte con economia capitalista e l’altra con economia comunista. Entrambe le potenze egemoni nei due schieramenti avevano l’arma nucleare e si constatò che una guerra nucleare, con l’impiego di quelle armi, avrebbe portato alla fine dell’umanità, per la ricaduta di particelle radioattive derivate dalle esplosioni. Fu proprio a quel tempo che il problema della salvezza dell’umanità in questo mondo  cominciò  a diventare un problema anche religioso.  Quest’ultimo fu al centro di uno dei documenti più importanti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),  la costituzione La gioia e la speranza.

  L’appello alla Politica  con la “P” maiuscola che ci  è venuto recentemente dal Papa si inserisce in quel filone ideologico. E' tale infatti la politica che si propone la salvezza dell’umanità, in questo mondo, mediante la riforma sociale. Essa ha anche un valore religioso, perché senza umanità non ci sarebbe più fede e si ritiene che la fede venga pregiudicata dalla distruzione massiva delle collettività umane. Dagli anni ’90, dopo la fine della contrapposizione armata tra blocchi  e quindi della possibilità concreta dello scoppio di un conflitto nucleare terminale, al centro delle preoccupazioni vi è lo sviluppo economico globale basato sulla competizione aggressiva, disordinata, insofferente dei limiti e riluttante alla solidarietà: è questo che, secondo molti osservatori, minaccia la sopravvivenza degli umani, portando al rapido degrado degli ambienti naturali e sociali. Questo tema è al centro dell’enciclica Laudato si’,  del 2015, ma era stato già trattato in precedenti documenti del genere. La novità sta nell’appello all’azione politica, e anche alla lotta, di massa per evitare la catastrofe naturale e sociale. In un certo senso da noi cade nel momento sbagliato, perché in Europa la politica è in crisi, sia quella di governo che quella di massa. Occorre riproporne i fondamenti e, innanzi tutto, riprendere ad educare alla politica. L’educazione alla politica comincia facendone tirocinio. Lo si dice, ma raramente si riescono a fare progetti in materia. E se poi la situazione ci sfuggisse di mano? E se, invece, la situazione ci fosse già sfuggita di mano e, in definitiva, imparare la politica fosse l’unico modo per cambiare una situazione che va rapidamente degenerando?

 

56. Educare alla democrazia globale

 

 

  Il mondo è diventato interconnesso su scala globale. Che significa?

  Ieri sono stato al grande magazzino che c’è vicino casa mia è ho comprato: un cappello, due cravatte, una cintura. Ho guardato le etichette: tutti sono stati fatti in Cina, dall’altra parte della Terra. E così è per la gran parte degli abiti che indossiamo e degli oggetti di uso quotidiano. Ma anche di ciò che mangiamo. E’ una situazione che ci conviene, come consumatori, perché i prodotti hanno prezzi bassi, alla portato delle masse, in Europa. Lo sono perché i lavoratori, nei posti dove vengono prodotti, vengono pagati meno che da noi. Ma anche perché da quelle parti è arrivata l’automazione e il lavoro produce di più. E’ un fenomeno che è iniziato più o  meno negli anni ’80 del secolo scorso. All’inizio era le imprese occidentali che organizzavano stabilimenti dove il lavoro veniva pagato di meno, per aumentare i propri profitti. Ora, però, comincia ad essere diverso. Anche lì dove si andava a produrre perché il lavoro costava meno si stanno organizzando grandi imprese locali che si stanno rendendo autonome dagli occidentali: anche se questi ultimi riportassero in Occidente le produzioni, la situazione, quindi, non cambierebbe; fallirebbero presto sotto la concorrenza dell’estero, a meno che il lavoro iniziasse a costare molto meno o i processi di automazione progredissero molto di più. Quello che sembra incomprimibile è il profitto, l’utile netto che viene a chi possiede le imprese, detratti  costi di produzione. Ma anche se le imprese che producono le merci di uso quotidiano decidessero di accettare di ridurne l’entità, non potrebbero farlo, perché le imprese di produzione sono sempre in debito verso che presta  loro il denaro per produrre. Quando vanno in crisi e falliscono il loro tesoro ha già da tempo preso il volo, sotto forma di restituzione di prestiti. Quando i lavoratori reagiscono occupando le fabbriche scoprono che sono sono di proprietà dei datori di lavoro, erano tutte  in prestito.  Non ci sono norme che consenta di coinvolgere la responsabilità di chi ci ha tanto guadagnato, finché le cose andavano bene. La legge stabilisce una limitazione di responsabilità. Chi controlla l'economia opera in gran parte in regime di limitazione di responsabilità. Ad occuparsi delle macerie sociali che lascia sono le istituzioni pubbliche, alle quali però, per varie ragioni, mancano le risorse per farlo.

 Il denaro è una merce come le altre. Chi commercia il denaro controlla l’economia. Non produce, non ha nazionalità, né stabilimenti: il denaro, nel mondo di oggi, può viaggiare velocemente e rapidamente, sulle reti telematiche che avvolgono il globo. E’ al sicuro dalle crisi economiche appunto perché può spostarsi in quel modo ed è diventato un bene immateriale, essenzialmente un fatto contabile. Tutto questo è consentito da una fitta rete di accordi internazionali, da una realtà giuridica a livello mondiale che non era pensabile fino agli anni ’80, con il mondo diviso in due blocchi contrapposti, con sistemi giuridici profondamente diversi. Non ci sono strumenti giuridici per collegare i grandi profitti che, anche in tempi di crisi, derivano dal commercio del denaro a responsabilità sociali quando le cose agli altri vanno male. Il capitale, il denaro impiegato in attività d'impresa, si può sganciare molto rapidamente da qualsiasi crisi: tutto coopera a questo, il diritto e la tecnologia. 
  E’ appunto negli anni ’80 che tutto è cambiato, perché, in definitiva, si è scelto di produrre e commerciare secondo le stesse norme giuridiche, che consentono al capitale quella grande libertà. L’effetto sociale, a livello globale, è che chi è coinvolto in vari modi nel commercio del denaro, come proprietario di denaro o come collaboratori dei proprietari di denaro, come i dirigenti d’impresa, gli avvocati, i commercialisti, i proprietari di brevetti industriali per le nuove invenzioni che servono nella produzione e che danno diritto a compensi se sfruttate, è emerso, sta molto meglio di tutti gli altri, mentre i lavoratori, a livello mondiale, si stanno allineando su livelli di reddito più bassi, molto più bassi. Per gli occidentali questo ha significato una riduzione dei redditi. In Oriente e in altre parti del mondo è stato diverso, perché, rispetto alla situazione di prima, i redditi sono aumentati. I consumatori sono in maggior parte lavoratori. Per loro, come consumatori va ancora bene, perché le merci costano poco. Per farle costare poco bisogna pagare meno i lavoratori, i quali, quindi, progressivamente hanno meno denaro da impiegare nei consumi. Per favorire i consumi si riducono le retribuzione dei lavoratori, o si cerca di produrre dove le retribuzioni sono più basse o si riducono i lavoratori impiegando l’automazione. A livello mondiale, le norme che consentono al sistema di funzionare, non pongono limiti. La solidarietà funziona, e sempre meno, solo all’interno  di ogni singola nazione, o, al più, all’interno  di ogni singola federazione di nazione.  Tutto ciò è all’origine dei problemi sociali che affrontiamo oggi.

  Se un problema è di dimensioni globali, può essere affrontato a livello locale? Evidentemente no. Eppure spesso è questa la soluzione che viene proposta dalle politiche nazionali e non solo in Italia. E’  in questione la giustizia sociale. Ma lo è su dimensione globale  e non ci sono soluzioni valide che non comprendano anche di farsi carico di genti lontane, dove si producono le cose di nostro uso quotidiano. Ecco perché oggi la sfida è quella di creare una democrazia globale per ottenere che nei fatti dell’economia si tenga conto anche della maggioranza della gente che produce e consuma e non solo della piccola minoranza della finanza che controlla il mercato del denaro. L’impegno è questo, per ciascuno di noi, perché la democrazia è basata su ciascuno di noi: bisogna convincersi innanzi tutto  che di questa situazione siamo tutti  responsabili, in quanto in qualche modo complici di chi l'ha determinata, e che, insieme, si può cercare di cambiarla. Non è infatti un evento della natura, come i temporali e i terremoti, o un prodotto di volontà soprannaturale, ma solo una costruzione umana. E' stata fatta e la si può cambiare.

 

57. Il contributo della religione ad una nuova democrazia globale

 

    Pensare in termini di sopravvivenza dell’umanità è un’esigenza nuova e infatti riesce difficile ai grandi come ai piccoli. In religione si hanno le risorse per imparare a farlo. Ma solo da pochi decenni la teologia ha cominciato a ragionarci sopra e quindi questo suo lavoro, ancora troppo recente, non si è tradotto effettivamente in processi formativi delle masse dei fedeli. In passato si è in genere ragionato il termini dipopoli di fedeli  contrapposti alle potenze  infedeli che si opponevano alla religione. Nelle guerre ci si sforzava di convincersi che il Cielo stesse dalla propria parte. La guerra, in definitiva, veniva considerata come un fatto umano insuperabile se non alla fine dei tempi, un flagello come gli eventi naturali avversi, una catastrofe come un terremoto o un ciclone o un stagione di forte siccità. Nel mondo globalizzato di oggi si ricomincia a pensarla così, non si esclude la possibilità di conflitti anche di grande entità: è la cultura internazionale, quella praticata da chi domina il mondo, a spingere verso questo modo di ragionare. Sembra che la sopravvivenza dell’umanità non si più legata ad un ordine pacifico mondiale. Quello su cui tutti concordano è un ordine giuridico mondiale che consenta la massima libertà  ai capitali, sia di movimento che di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. Un pensiero che va in direzione contraria è quello espresso nell’enciclica Laudato si’, del 2015, nella quale sono sintetizzate le idee critiche sulla situazione globale.

  Di solito nei conflitti chi sta meglio in società ha più probabilità di scamparla. A rimetterci sono di solito le masse, e questo anche se sono spinte le une contro le altre con la prospettiva di rapinare le ricchezze altrui e di guadagnarci, come fecero i fascismi europei. Chi predicava, da noi, la guerra come igiene nel mondo,  non pensava a sé stesso come sporco da eliminare, ma alle masse, che trovava imbelli e troppo attaccate alle loro misere cose. E’ una situazione che fatalmente si ripropone tutte le volte che si ricomincia a pensare al conflitto come via di risoluzione delle controversie tra i popoli. La nostra Costituzione lo vieta, ma questo finora non ha costituito un serio problema, quando i capi politici hanno deciso che era il momento di fare di nuovo guerra. L’Italia è infatti impegnata su diversi fronti di guerra. Nella Costituzione c’è anche il collegamento tra lavoro e democrazia e il divieto di umiliare il lavoro, lo ha ricordato il Papa l’altro giorno a Genova. “E’ anticostituzionale”, ha detto. E’ così: un ordine che umilia il lavoro vacontro  la Costituzione vigente in Italia, è quindi eversivo. E’ significativo che sia rimasto quasi solo un Papa a proclamarlo alle masse, e per di più un Papa americano, venuto veramente da un altro mondo. Da noi con molta disinvoltura si passa sopra alla volontà delle masse, anche quando si è espressa formalmente, ad esempio con la richiesta di referendum sui tagliandi-lavoro, quella forma di retribuzione veramente poco impegnativa per chi utilizza il lavoro, senza ferie, senza sicurezza nella malattia e in gravidanza, senza limiti d’orario di lavoro, senza garanzie di qualifica, insomma senza vera responsabilità sociale. Si era chiesto un referendum sulla legge che li prevedeva. Si sono raccolte le firme sufficienti perché fosse indetto. Allora si è cambiata la legge e si sono aboliti i tagliandi-lavoro. Il referendum, così, non si farà più. Ma dopo poco tempo, mesi addirittura, li si vuole reintrodurre con un'altra legge. Così per ottenere che la questione venga sottoposta al voto popolare bisognerebbe raccogliere le firme non una, ma due volte. 

  Si parla di queste cose e si viene presi per agitatori sociali. Ma in effetti è proprio questo che occorre diventare. Il quieto vivere non ripara le masse nei conflitti. Se non si agitano soccomberanno, avranno la peggio. E’ sempre andata così. Nei conflitti vengono strumentalizzate, ideologizzandole, perché le guerre devono pur essere combattute da qualcuno, qualcuno deve rischiare la pelle e tutto ciò che ha e che è,  ma di solito le combatte veramente chi ha solo da rimetterci, comunque vadano le cose. La storia ce lo insegna. Così la Festa della Repubblica, che si celebra il 2 Giugno, non dovrebbe essere centrata su una parata militare. Si celebra la scelta del popolo italiano, il 2 giugno 1946, di essere una repubblica, da regno che era. Questa scelta fu possibile solo con il ritorno della pace, che era avvenuto circa un anno prima. Fu allora che, finalmente, il popolo fu ascoltato. Si era conquistato il diritto ad esserlo, cambiando profondamente, in un processo che era stato propriamente una conversione di massa. Non era scontato che ci si riuscisse dopo decenni di indottrinamento in senso contrario. In Germania, ad esempio, il processo fu molto più lento. In Italia, però, c’erano le premesse per riuscirci più rapidamente. Non fu un caso che dal 1946 al 1994 la politica italiana sia stata dominata da un partito cristiano, ispirato alla dottrina sociale.

  Di solito la democrazia viene inquadrata in un orizzonte di tipo nazionalista: da noi quello, richiamato nell’inno nazionale, dei fratelli d’Italia. E’ già molto, naturalmente, in una nazione che a lungo fu divisa in tanti staterelli e che solo di recente ha conquistato una lingua comune. Si capì che divisi  si contava di meno in campo internazionale. Ma ora questo non basta più. Si deve ragionare su scala globale e in questo si è favoriti dal fatto che i costumi dell’umanità si sono molto ravvicinati negli ultimi cinquant’anni. Viaggiamo di più, sappiamo di più. Il problema è quello di incontrarsi  veramente per suscitare un movimento mondiale che potremmo definire della pace  e del lavoro. Una potenza così c’è già ed è appunto, attualmente, la nostra Chiesa. Nella quale tuttavia le dinamiche democratiche sono solo allo stato embrionale. C’è molto da fare. E si può cominciare da realtà locali, come quella della parrocchia.

  Fare tirocinio di democrazia globale  richiede una visione religiosa, che consenta di pensare in grande. Essa permette di porsi dal punto di vista del Cielo. Ma richiede anche la pratica dei valori democratici, prima ancora che dei metodi  democratici. In parrocchia sembra che  la gente conti poco, che ci sia o non ci sia in fondo non è così importante, le cose vanno avanti lo stesso, e infatti partecipa poco. Viene più che altro da spettatrice. Invece la democrazia esige quel tipo di giustizia che viene definita giustizia partecipativa: occorre fare qualcosa, impegnarsi, contribuire al lavoro collettivo, non si tratta solo di alzare la mano o di infilare una scheda in una scatola per votare. E’ partecipando  che si conquista il diritto ad essere considerati, a contare veramente. In una dinamica così, l’autorità del parroco virerà progressivamente, di fatto, da quella di un funzionario locale di un principato religioso a quella di un presidente di assemblea. A partire dal tirocinio locale di democrazia globale le cose possono cambiare.  E’ da realtà così che sono emersi molti dei capi politici democratici di oggi in Europa occidentale. Non è come negli Stati Uniti d’America, in cui  di solito  si riesce a salire al vertice solo se si è molto ricchi e, in genere, da diverse generazioni. Si tratta di riprendere quel lavoro di formazione che in una realtà come l’Azione Cattolica si è sempre fatto, dalla sua fondazione, ripensandolo, tuttavia, per la realtà globalizzata di oggi.

 

58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare i mondi vitali

 

    Negli anni ’70, in Italia si visse un periodo di crisi sociale, politica e religiosa, ma non si era d’accordo nell’individuarne le cause e nel prevederne le prospettive. Si chiedeva consiglio ai sociologi, i profeti dei tempi moderni, e loro rispondevano. Mio zio Achille era uno di loro. C’era chi si aspettava molto dal nuovo capitalismo che cominciava ad essere osservato, quello che oggi domina il mondo; c’era invece chi confidava ancora di poter trasformare la nostra società secondo i principi del socialismo; c’era chi voleva innanzi tutto liberare le persone dalle costrizioni sociali: mio zio sviluppò una teoria che vedeva nella crisi dei mondi vitali, i luoghi sociali in cui si produce il senso personale e collettivo della vita, l’origine dei problemi. In questa visione la dimensione giusta per ripartire era a livello locale, di prossimità.

  Oggi tutti sono d’accordo sulle cause della crisi e sui suoi sviluppi. Si sa come andranno a finire le cose. Ci si divide tra chi ritiene questo processo ineluttabile, come lo sono i terremoti e le eruzioni vulcaniche, e pensa che non resti che cercare di adattarvicisi, e chi ancora vorrebbe reagire per cambiare il corso degli eventi. Alcuni, e tra essi gli autori dell’enciclica Laudato si’, pensano che sia in questione la sopravvivenza dell’umanità, che quindi, procedendo così come si sta facendo, si andrà a finire molto male; altri prevedono solo la fine di forme sociali che sembravano molto radicate e che invece si stanno rapidamente sfaldando. Le fini dei mondi sociali non sono mai indolori. Negli scorsi anni ’70 si era però ottimisti sulle prospettive: dalla fine del Settecento i cambiamenti sociali avevano prodotto, sia pure attraverso percorsi piuttosto travagliati e in particolare conflitti accesi, miglioramenti di massa, un aumento del benessere, almeno tra gli europei, quelli del nostro continente e quelli della colonizzazione delle altri parti del globo. Le previsioni di oggi non vanno in quel senso. In particolare, si è convinti che, se anche si sopravvivrà, ci sarà molta meno libertà. Si costruiranno ingranaggi sociali e  giuridici che incastreranno gli individui in ruoli molto definiti; le società saranno dominate da oligarchie molto ristrette, che accentreranno il controllo della gran parte delle ricchezze e che troveranno sempre minori limiti. Già oggi è sensibile questa nuova situazione. I sociologi osservano che il nostro profilo prevalente è quello di consumatori: le nostre scelte sono in gran parte orientate da tecnologie su base psicologica, da persuasori che ci fanno sentire a disagio, strani, se non seguiamo certe abitudini.

  La progressiva mancanza di libertà incide sulla tradizione religiosa e questo benché storicamente la religione sia apparsa spesso in antitesi con la libertà delle persone, come un sistema molto costrittivo di limiti sociali controllato da oligarchie gerarchiche con  molte pretese. La modernità  è stata quindi vista come un processo di liberazione  da questo giogo. In realtà la possiamo concepire come un processo di sostituzione  di un ordine con un altro, anch’esso molto pervasivo. Ma al fondo delle esigenze religiose c’è un’esigenza di libertà: si pensa infatti che ci sia una verità  sulle persone e la loro vita che rende liberi. Essa è stata all’origine di tutti i movimenti di riforma  religiosa. Ed anche all’origine delle democrazie contemporanee, che si basano sull’idea religiosa che si sia tutti creati  uguali. Essa risultava evidente ai rivoluzionari statunitense i quali nel 1776 proclamarono:

“Riteniamo verità evidenti che tutti gli esseri umani sono stati creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi inalienabili Diritti, e tra questi quello alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità”.

  Questi principi giustificavano, secondo loro, non solo la secessione dalla monarchia europea di origine, ma anche una rivoluzione  sociale.

 Evidente  significa che non ha bisogno di essere provato. Quelle verità lo sono ancora? Fino agli  scorsi anni ’70 lo sembravano ancora. Ma la cultura sociale è molto cambiata. E certe convinzioni sono messe a dura prova della realtà contemporanea, in particolare dai rimescolamenti di popoli prodotti dalle migrazioni caratteristiche della globalizzazione, per cui dall’altra parte del mondo non ci vengono sono le merci di uso comune, ma anche altre vite umane. Una realtà che, alla fine del Settecento, quando iniziarono i processi democratici contemporanei, con difficoltà si poteva immaginare e prevedere in tutti i suoi sviluppi. I rivoluzionari statunitensi che ho ricordato non avevano difficoltà, ad esempio, ad importare e impiegare manodopera schiava nelle loro aziende agricole.

 In definitiva la nostra fede fa resistenza  agli sviluppi della globalizzazione che tutti più o meno prevedono. La prospettiva di un’umanità ridotta a un formicaio non soddisfa da un punto di vista religioso. Si pensava di farne un’unica famiglia.  Ecco quindi che nell’enciclica Laudato si’  troviamo espresse idee che hanno una portata rivoluzionaria rispetto alla mentalità corrente. Si va be’, rivoluzione, ma chi la farà poi? Non si vede all’opera un agente rivoluzionario. Le nostre collettività, in genere, sono state dalla parte di chi dominava, hanno cercato accordi, accomodamenti, hanno sacralizzato  più o meno tutti i poteri che ambivano ad esserlo. Va a finire che anche adesso finirà così. Ma non sarà così semplice farlo. Perché si dovrebbe rinunciare a cose essenziali, ribaltare la dottrina. Ci si sta pensando? L’altro giorno, su Avvenire, è sorta una polemica sul personalismo, che  è la via alla democrazia e alla libertà originata nell’ambito della nostra fede e che gente della nostra fede ha inserito tra i principi fondamentali della Costituzione vigente: c’è chi vorrebbe abbandonarlo e chi invece replica che occorre praticarlo fino a tutte le sue conseguenze.  Fa difficoltà attribuire i diritti delle persone proprio a tutti  gli esseri umani; non potendo negarglieli, perché questo modo di fare è ancora vissuto come sconveniente,  si pensa di abbandonare l’idea di persona  e il personalismo. 

Mio zio Achille, quando gli chiedevano che fare, dava ricette concrete. Suggeriva, ad esempio, di fare i congressi di partito e delle grandi associazioni in piccoli paesi, in modo da pervaderli totalmente suscitando  o rafforzando realtà di mondo vitale. Nel 1986 il congresso nazionale del partito cristiano, all’epoca ancora egemone, si tenne a Cervia, in Romagna, proprio nella piazza davanti casa sua. Oggi gli esperti che ci chiariscono con molta precisione le cause della crisi, al dunque non ci sono utili per definire vie di resistenza e di cambiamento. E’ il neocapitalismo all’origine di tutto, ma loro, in sostanza, ci dicono di insistere su quella strada, quella della competizione e dello sfruttamento. Alcuni pensano di reagire chiudendosi  in comunità corazzate: è questa la via che molto a lungo, fino all’ottobre del 2015, si è seguita in parrocchia. Ora la gente  è molto sospettosa, teme di venire catturata, ha ripreso a venire numerosa, ma, a qualsiasi proposta di impegno, risponde in genere come Trump al Papa durante la visita di qualche giorno fa, che ci penserà  tra qualche giorno. Rivitalizzare le realtà di mondo vitale del quartiere può essere una buona prospettiva. Se la gente ritrova il senso della vita si impegnerà nuovamente in un lavoro comune. Non va sottovalutato l’impatto che un quartiere può avere nella vita cittadina. Migliaia di persone sono una massa critica, vale a dire sufficiente per innescare una reazione sociale significativa, ad esempio a influenzare l’offerta di mercato, quindi l’economia locale, orientando i consumi. In definitiva si apre la prospettiva di una vita più bella. In particolare per i più giovani. Quando i genitori chiedono loro se vogliono proseguire sulla via della Cresima, spesso i bambini tentennano. Non sanno di che si privano. Del resto sono bambini. E  i genitori lo sanno?

  La prima cosa su cui riflettere, in un’ottica di rivitalizzazione di mondi vitali, è quella che viene definita giustizia partecipativa. E’ molto importante nei processi democratici. Chi si riconosce, oggi, in debito  di partecipazione? Eppure, a pensarci bene, è chiaro che siamo addirittura insolventi in questo campo. Ognuno se ne sta un po’ sulle sue. E’ il consumismo che ci spinge a questo. Un consumatore isolato è indifeso, malleabile: è questo l’ideale per i tecnologi persuasori. Non c’è critica sociale se si rimane isolati. E’ questo il limite gravissimo della democrazia digitale  che si vorrebbe sostituire a quella formale, basata sulla tradizione democratica. La sensazione di libertà che ciascuno ha digitando avanti al proprio pc è falsa. E’ solo incontrandosi  che ci si libera. Questa è appunto la via della religione. Ancora oggi, nel nostro quartiere, il suono della campane chiama alla vita comune.

 

59. Festa della Repubblica

 

 

 Il 2 Giugno  è  una festa civile: la Festa della Repubblica. Si fa memoria di un evento storico accaduto il 2 giugno 1946: gli italiani, e per la prima volta anche le donne, votarono per scegliere se l’Italia dovesse essere un regno, sotto la dinastia Savoia, o una repubblica ed elessero i componenti di un’Assemblea Costituente, che dovevano scrivere una nuova costituzione dello stato, sostituendo lo Statuto entrato in vigore nel 1848. Le ultime elezioni libere si erano svolte nel 1924, ventidue anni prima, gli anni del regime fascista mussoliniano. L’Azione Cattolica aveva svolto un ruolo molto importante nella formazione politica delle masse, in particolare delle donne. Dal voto popolare uscì la scelta per la repubblica e per un regime istituzionale di democrazia popolare, in quanto prevalsero i partiti che si proponevano di realizzarlo.

 Ma non si festeggia solo un evento storico, accaduto ormai tanti anni fa. Le persone ancora viventi che vi parteciparono hanno oggi dai 92 anni in su (la maggiore età e quindi il diritto al voto erano fissati all’epoca a 21 anni). Si festeggia, in fondo come per i compleanni delle persone, che la repubblica democratica sia ancora in vita e vitale. Essa è affidata al popolo, che si rinnova di generazione in generazione: vanno tramandati principi e procedure, nel tempo in cui le generazioni più anziane coesistono con le più giovani, prima di sparire. I regimi politici sono parte della cultura di un popolo, del sistema di costumi, concezioni e regole che rendono possibile l’organizzazione della vita collettiva. Le culture cambiano, di generazione in generazione, e così i sistemi politici. Chi è al potere cerca di solito di resistere al cambiamento: è stato l’assillo di tutte le dinastie regnanti, ma anche di ogni altro gruppo egemone nei regimi  politici. Se si è convinti della bontà del regime politico democratico repubblicano, allora c’è da festeggiare constatando che è durato fino ad oggi. Non si è mantenuto sulla forza delle armi. Per questo la Repubblica non dovrebbe essere festeggiata con una parata militare, ma con una grande  evento gioioso di massa in cui ci sia spazio per la riflessione politica. Dovrebbe sfilare il popolo. La repubblica in Italia è sorta con il ritorno della pace e, fino ad oggi, non ha mai dovuto essere difesa con le armi. Questo perché ha scelto la via della pace e ha sviluppato politiche di pace, all'interno di grandi organizzazioni internazionali che avevano il medesimo obiettivo, in questo distinguendosi nettamente sia dalla politica del regime fascista, ma anche da quella dei governi del Regno d’Italia dall’Unità nazionale all’avvento del regime fascista, che si fa risalire al 1922. Attualmente l’Italia è impegnata con proprie forze militari in diversi fronti di guerra, ma non per ragioni di difesa. Il più sanguinoso è quello dell’Afghanistan, con 59 morti e oltre 600 feriti. La motivazione di questi impegni militari è il mantenimento della pace nel quadro dell’azione di organismi internazionale.

  Oggi repubblica e democrazia sembrano strettamente collegati e addirittura sinonimi, come se volessero dire la stessa cosa, ma non è così.

  Democrazia è quando il potere viene condiviso tra molti secondo regole che consentono la partecipazione collettiva, limitando  i poteri di ciascuno e stabilendo principi giuridici di giustizia sociale per contenere  gli arbitri dei potenti. Cominciò ad essere praticata e teorizzata nell’antica Atene, in Grecia, nel Sesto secolo dell’era antica.

  La repubblica, termine che deriva dal latino e che in quella lingua significava “cosa pubblica”, è invece un’invenzione culturale dei romani. All'inizio equivaleva a “stato” e significava la separazione giuridica, stabilita quindi da norme pubbliche formali, tra i poteri, gli interessi e i patrimoni della classe politica egemone e quelli destinati all’uso pubblico nell'interesse della collettività. Fu  un notevole progresso culturale. Nelle monarchie arcaiche, dei tempi molto antichi, che in genere si erano sviluppate come estensione del potere di un maschio adulto sulle persone della propria famiglia a lui soggette e sui suoi beni, tutto apparteneva al sovrano, persone e cose, non c’era distinzione tra le cose “sue” e quelle della collettività. Nell'antica civiltà romana continuò ad esserci uno stato, quindi una “repubblica” in quel senso, anche quando in essa si svilupparono degli imperi di tipo dinastico, nei quali quindi la successione al vertice poltico avveniva tra generazioni di un’unica famiglia.

  Qual è la distinzione fondamentale tra repubblica e monarchia? In una repubblica chi domina lo stato lo fa nell'interesse pubblico, non nel proprio interesse o in quello della sua famiglia. Pensa di aver ricevuto un mandato, un incarico, in tal senso. In una monarchia, invece, il sovrano pensa di avere personalmente, o come membro di una dinastia, il diritto di supremazia politica, come cosa che gli appartiene. Si è visto che all'origine di ogni monarchia vi è un atto di forza, di violenza. Stabilizzandosi, ogni monarchia cerca una giustificazione sacrale del proprio dominio, per collegarlo a una volontà divina e renderlo più stabile.

  In una monarchia dinastica, come era quella dei Savoia nel Regno d’Italia, il diritto politico del sovrano passa di genitore in figlio, secondo regole giuridiche, quindi formali. Ma, all'inizio di ogni dinastia monarchica, vi è sempre un capostipite che non ha giustificato in tal modo il suo potere: è il caso di Napoleone Bonaparte, quando dal 1804 divenne imperatore dei francesi,  cambiando la forma di stato da repubblica democratica a monarchia assoluta.

  Chi ci assicura che il figlio del monarca sia all'altezza, o migliore, del suo genitore? Nessuno. Spesso, anzi, è accaduto proprio il contrario. Questo è il limite delle monarchie dinastiche. E comunque il potere monarchico tende a degradarsi nel tempo, perché è legato alla persona, anche fisica, del monarca, che con l'invecchiamento degrada, e non di rado degenera al modo in cui accade ai poteri assoluti o con pochi limiti. Nelle repubbliche democratiche si cerca di mandare al potere supremo i migliori, e comunque se ne prevede la periodica sostituzione: non vi sono poteri a vita. Nell’Italia della repubblica democratica questo in genere è accaduto, se si considerano i Presidenti della Repubblica, che hanno preso il posto dei re.

 Storicamente ci furono repubbliche, nel senso di sistemi politici non dominati da un sovrano, dinastico o non, non democratiche. Non fu democratica, ad esempio, la Repubblica Sociale Italiana mussoliniana, che controllò l’Italia del Centro-Nord, con capitale a Salò sul lago di Garda, tra il 1943 e il 1945. Né lo fu lo stato repubblicano franchista, che dominò la Spagna tra il 1939 e il 1975 (paradossalmente in Spagna il ritorno della democrazia coincise con la restaurazione di una monarchia dinastica). Non fu, di fatto, democratica l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, durata dal 1917 al 1991, perché dominata da un’oligarchia di partito. Non furono democratiche, in parte della loro storia, diverse repubbliche Latino-Americane, quando caddero nel dominio di oligarchie dispotiche, in genere di origine militare, che si sottrassero al controllo politico attuato mediante libere periodiche elezioni politiche. La democrazia di popolo, come oggi la intendiamo e pratichiamo, è stata un’importante conquista culturale anche per le repubbliche.

 Vi sono state e vi sono monarchie che incorporano principi repubblicani e democratici. Sono così tutte le attuali monarchie europee, a seguito di un processo politico iniziato nel Settecento (ma in Inghilterra addirittura nel Duecento). Attraverso statuti, che significa sostanzialmente  costituzioni, si stabilirono dei limiti ai poteri delle dinastie regnanti e questo fece spazio alla politica democratica. Nello stesso tempo furono giuridicamente distinti patrimoni, poteri e interessi delle dinastie regnanti da quelli degli stati.

  Storicamente si è pensato che le monarchie producessero un ordine sociale migliore e più stabile. In realtà la storia non conferma questa opinione. E’ un’idea che deriva dalla sacralizzazione del potere monarchico e quindi da una cultura indotta per stabilizzarlo, sottraendolo al cambiamento sociale. La realtà  è che le monarchie hanno sempre teso ad assolutizzarsi, ad estendere il loro potere, e questo le ha poste in conflitto con gli altri poteri sociali compresenti: sono state quindi sempre impegnate,  in genere e fino ad epoca piuttosto recente, in congiure di palazzo violente e sanguinose. Le democrazie vennero diffamate dalle monarchie come poteri disordinati e arbitrari: nell'epoca moderna si sono manifestate tutto l’opposto, quando e finché sono rimaste tali. Questo perché le democrazie moderne sono non solo un sistema di limiti a poteri arbitrari, ma anche  di principi di giustizia sociale.

  In un sistema repubblicano nessuno deve arrogarsi il potere di appropriarsi della cosa pubblica e di identificare i propri interessi con quelli dello stato. Questo significa che si deve combattere la corruzione della politica, che consiste appunto in quello. In un sistema democratico nessun potere è senza limiti, sia in durata che in estensione, e si attivano procedure di controllo di come il potere pubblico viene esercitato. Tutto questo richiede una intensa e costante partecipazione popolare. L’idea che il popolo entri in ballo solo al momento delle elezioni politiche non è né repubblicana né democratica, ma da aspiranti oligarchi, futuri monarchi assoluti. In un sistema realmente democratico, chi vince alle elezioni, e governa, deve sopportare il costante controllo popolare. Lo dice la nostra Costituzione repubblicana  all’art.49, dove si riconosce il diritto dei cittadini di associarsi liberamente per concorrere a determinare la politica nazionale. Il primo indice della degenerazione di un potere democratico è quando chi comanda vuole mani libere fino alle elezioni successive.

  Il papato domina da sovrano assoluto la Città del Vaticano, l’entità indipendente che ha contrattato con il Mussolini, nel 1929 concludendo i Patti Lateranensi. E’ un simulacro di stato stabilito nel quartiere Borgo di Roma (nel Trattato che lo istituisce non viene mai definito stato).  Il regno papale sulla Città del Vaticano è un regime politico arcaico che non è indispensabile né per motivi religiosi, per difendere e propagare la fede, né per motivi politici, per garantire l’indipendenza del papato: infatti nessuno stato oggi è veramente sovrano, tutti devono soggiacere a limiti internazionali, compresa la Città del Vaticano e il suo monarca. Anche la nostra Chiesa, che è cosa distinta dalla Città del Vaticano anche se ha lo stesso re, è organizzata come una monarchia assoluta. Anche in questo caso non ve n’è una necessità teologica o politica.Primato  non significa necessariamente impero.  All'interno della nostra organizzazione religiosa si stanno sviluppando, dagli scorsi anni Sessanta, processi democratici. L’organizzazione monarchica assoluta, al modo di un impero, è un portato storico, in particolare dell’epoca feudale, dall’Ottavo secolo, in cui il papato acquistò una indipendenza politica via via sempre più estesa e intensa. Che ne dobbiamo fare? Non è necessario fare una rivoluzione per cambiare le cose, perché comunque stanno già cambiando. I connotati politici di quel potere si sono infatti molto affievoliti. Le altre monarchie ancora vigenti non sentono più la necessità di una loro sacralizzazione secondo la nostra fede: in Europa la stabilità del loro ruolo è garantita dalle norme costituzionali. Anche nel papato si comincia a ragionare in questo modo per quanto riguarda la politica ecclesiastica: la politica del papato si va anch'essa desacralizzando. I principi repubblicani e democratici mettono la gente al riparto dagli eccessi che nel passato i nostri sovrani religiosi hanno manifestato. Dal 1991 il papato ha accreditato la democrazia come regime politico preferibile, in quanto rispondente alla dignità degli esseri umani. Questo, nel lungo periodo naturalmente, produrrà delle conseguenze. Innanzi tutto possiamo fin da ora cogliere l’occasione per approfondire la riflessione personale e collettiva sulla democrazia e per farne pratica.  Teniamo conto che la Costituzione vigente è piena di principi che sono originati dalla nostra dottrina sociale e che, addirittura, uno dei principi fondamentali che regola il funzionamento dell’Unione Europea, quello di sussidiarietà, ha la stessa fonte. I principi repubblicani e democratici non ci possono più rimanere estranei. Gente nostra è stata protagonista nel loro sviluppo e nella loro affermazione. Anche da persone di fede, benché ancora sudditi di una monarchia religiosa assoluta, possiamo quindi fare festa oggi.

 

60. Il lavoro dell’istituzione

 

 

  Le collettività umane nascono e muoiono, così come gli esseri umani. Le istituzioni, queste invenzioni delle culture umane fatte di storie, tradizioni e norme, danno  loro continuità, consentendo loro di rigenerarsi: in questo modo si cerca di tramandare ai più giovani il patrimonio di  concezioni, conoscenze, costumi acquisito dalle generazioni più anziane. Ogni istituzione vale se fa questo lavoro senza impedire il progresso dell’umanità. Di solito chi comanda in una società cerca, in misura maggiore o minore, di strumentalizzare le sue istituzioni per rendere più stabile il proprio potere. E’ cosa che si produsse con effetti spettacolari nelle monarchie sacralizzate europee. Sacralizzare, vale a dire collegarle a una volontà soprannaturale, le istituzioni della politica ha consentito di proiettarle molto avanti nel futuro e di conservarne molto efficacemente l’ordine. Ma si è trattato pur sempre di una strumentalizzazione, perché rimane vero che ilregno  immaginato nella fede non è di questo mondo. Sono le istituzioni che dovrebbero rimanere  strumento, non la fede. Se avviene l’inverso, e nella nostra confessione è accaduto nei due millenni della sua storia, la fede ne risulta impoverita, quanto le istituzioni in tal modo sacralizzate vengono esaltate immaginificamente.

  Una parrocchia è anche un’istituzione, ha dimostrato di saper dare continuità alla socialità umana, e lavora nel campo dell’integrazione tra vita personale e sociale e la fede religiosa, ma non è sacralizzata, non strumentalizza la fede, la serve. Nel 2015 la nostra parrocchia era  sostanzialmente morta come corpo sociale, aveva esaurito un suo ciclo storico, ma continuava a rimanere come istituzione. Questo ha consentito di attivarne una rigenerazione sociale. Non è più tanto importante capire il perché della crisi, perché si tratta del passato e del resto le sue cause sono molto chiare: ora è importante partecipare alla rigenerazione. Possiamo riconoscere che, come istituzione, la parrocchia ha fatto ciò che ci si attendeva, quello per cui era stata costruita. Ora deve rigenerarsi come collettività.

  Quello che  è successo nella nostra parrocchia è accaduto molte volte, storicamente, ed anche su scala molto maggiore, nelle nostre collettività sociali. Si osserva una continuità nei secoli, che è in gran parte di istituzioni e di cultura, ma le società dei fedeli sono morte e si sono rigenerate molte volte. A volte si pensa, sbagliando, di poter riproporre il passato. Ma i morti non ritornano. La via reazionaria non è mai quella giusta.

 La nostra fede non c’è stata da sempre, ha avuto un inizio, dal punto di vista sociale. Prima c’erano altre religioni, molto antiche. Non bisogna mai pensare che gli antichi non fossero religiosi. Per convincersi del contrario basta osservare i ruderi dei grandi templi dell’antichità. Anche le religioni che c’erano prima della nostra avevano delle istituzioni. Quand'è che quelle fedi si sono dissolte? Quando sono mutate le istituzioni che le sorreggevano. In particolare quanto non servirono più per sacralizzare la politica. Questo dimostra che erano piuttosto strumentalizzate. Ma la gente comune vi faceva affidamento ed è proprio per questo che le si strumentalizzava: servivano a chi dominava le società di allora a rafforzare la propria egemonia politica.

 Perché la nostra fede è sopravvissuta alla desacralizzazione delle politica che si è prodotta in Europa e nelle parti del mondo che seguivano i costumi degli europei tra il Settecento e l’Ottocento? Fondamentalmente perché ha prodotto un sistema di valori che si è tradotto in un codice di diritti umani che è al fondo della nostra civiltà e che orienta anche la politica, indipendentemente da questo o quel gruppo egemone e da qualsiasi strumentalizzazione. Le istituzioni sociali, animate da quei valori, cooperano a mantenere la fede come un’opzione sensata nella società. Ma la desacralizzazione dei poteri politici impedisce di strumentalizzarla: è l’applicazione del principio della  laicità dei poteri pubblici e della politica.

  In un’istituzione come la parrocchia viene custodito anche il patrimonio culturale di quei valori, ma esso può sopravvivere senza apporto sociale fino ad un certo punto, non indefinitamente. Ecco perché è urgente impegnarsi nella rigenerazione sociale della parrocchia. Non si tratta più tanto di seguire un capo o delle regole: la parrocchia è istituzione ormai desacralizzata,        questo non basta. I valori che propone devono rivivere nella gente, in particolare nelle nuove generazioni. Riviverli, di vita in vita, significa anche attualizzarli, reinterpretarli: le generazioni si riproducono ma non sono mai la copia identica le une delle altre. In chiesa non si mette in scena sempre lo stesso spettacolo, come certe volte accade a teatro, e allora ci sono una serie infinite di repliche, anche per anni, che però, ad un certo punto, finiscono. Se uno  viene in chiesa da spettatore, solo da spettatore, ad un certo punto vedrà lo spettacolo liturgico-religioso tolto dal cartellone. E' accaduto. Tante chiese sono state riciclate come certi cinema sono diventati grandi magazzini,  quando molto a lungo sono stati disertati dal pubblico. Però, ciò che si mette in scena  in parrocchia è in realtà il valore dei valori, l’agàpe, che è incontrarsi gioiosamente facendo spazio a tutti: essa non morirà mai, è scritto. Riuscire a farlo dipende da come ciascuno e tutti collettivamente viviamo, oggi,  i valori della nostra fede.

 

61. Politica e conflitti sociali

 

Le società umane si manifestano sempre in tensione, tra individui, gruppi più o meno estesi, aspiranti al dominio. Uno degli scopi della politica è di impedire che i conflitti distruggano la società. A questo serve, in particolare, il diritto, lo si è capito fin dall’antichità: si vuole evitare che le persone corrano alle armi, era proprio questa l’espressione usata dagli antichi giuristi. Chi fa le leggi? Chi riesce a dominare la società in un certo tempo. Cambiando questa situazione, cambiano anche le leggi. C’entra qualcosa la giustizia? Bisogna intendersi, innanzi tutto, su che cosa essa sia.

   Nel Sesto secolo, in Grecia, l’imperatore romano  Giustiniano, in una monarchia imperiale ormai sacralizzata secondo la nostra fede, comandò di creare una grande raccolta di leggi e opere giuridiche e vi fece inserire anche un manuale di diritto. Quest’ultimo si apriva con una definizione di giustizia: la costante e perpetua volontà di  dare a ciascuno il suo, non fare male agli altri, vivere onestamente. Ci basta? Su piccola scala, nei rapporti tra privati, sì,  ma quando si parla di fatti sociali, della dimensione pubblica,  non basta più, bisogna ragionarci sopra ancora, ma fondamentalmente le idee di base rimangono quelle.

  Se in una società aumentano molto le diseguaglianze sarà necessaria una violenza sempre maggiore per mantenerla pacifica, vale a dire per impedire che insorgano conflitti che ne mettano in pericolo l’integrità. Se non si è disposti a organizzare e sviluppare la violenza che è necessaria, occorre cambiarla rendendola meno diseguale. Non è cosa molto lontana da noi. E’ il problema sociale che ci assilla proprio di questi tempi, anche in Italia.

  Rendere meno diseguale la società ha a che fare con la giustizia? Alcuni dicono che ognuno ha ciò che si meritaHa meritato  nel senso che non ha rubato ciò che ha, lo ha guadagnato in modo legale. Perché dovrebbe privarsene per darne una parte agli altri? E’ l’argomento che si utilizza di solito per chiedere una riduzione delletasse. In democrazia le tasse servono appunto anche a rendere la società meno diseguale: in passato venivano considerate come uno strumento di giustizia sociale, ai tempi nostri vengono al contrario considerate come un arbitrio ingiusto. Perché poi si dovrebbe tassare maggiormente chi  è più ricco, come stabilisce la nostra Costituzione all’art.53? Non sarebbe più giusto stabilire una percentuale di tassazione uguale per tutti, per i grandi ricchi come per i meno ricchi? E perché tassare ciò che si lascia in eredità?

  In realtà si può argomentare che nessuno ha poi veramente meritato tutto ciò che gli è capitato di ottenere  in società. L’ha ottenuto perché ne ha avuto l’opportunità sociale. La ricchezza, nella complesse civiltà contemporanee, è sempre un fatto sociale, a cui tutti collaborano, e dipende dalle regole che ci sono in un certo momento, fatte da chi la società riesce a dominare, la parte che spetta ai singoli. Ciascuno, naturalmente, collabora in maniera diversa, ma tutti  collaborano. Sono le regole sociali che danno un valore alla collaborazione di ciascuno, a distribuire le parti. E, allora, se tutti  collaborano, non è giusto  che alcuni siano esclusi dal benessere che quella  ricchezza   sociale  dà.Dare a ciascuno il suo. Ricordate? E’ uno dei criteri di giustizia stabiliti dagli antichi. Perché, poi, se la ricchezza è un prodotto sociale, ma in definitiva viene privatizzata a beneficio di troppo pochi, alla fine le masse di chi sta peggio, organizzandosi, possono anche decidere di farla finita con regole sociali che le umiliano e le escludono e lottare per averne di diverse. Per mantenere soggette le masse allora occorrerà una violenza sempre più estesa e intensa, ma essa richiederà anche molta gente che vi collabori, molta polizia e sempre più violenta, e ad un certo punto, peggiorando molto le cose, perché l'ingiustizia tende a moltiplicarsi, ad espandersi, generando sempre maggiore sofferenza sociale, essa non basterà più. E comunque, a quel punto, la politica avrà fallito in uno dei suoi scopi principali: evitare che la gente corra alle armi.

   Se uno eredita un patrimonio, come ha meritato? Chi glielo ha lasciato ha avuto l’opportunità sociale  di metterlo insieme e la società, alla sua morte, non ha veramente alcun diritto? E, soprattutto, la regola per cui il patrimonio passa agli eredi è una costruzione sociale, conferisce agli eredi una opportunità sociale veramente privilegiata. Grandi patrimoni significano anche maggior potere sociale. un tempo anche gli stati passavano di genitore in figlio, tra generazioni di monarchi di una dinastia, ma ora si sono posti dei limiti sociali, le regole sono cambiate, e anche nelle monarchie ancora regnanti  il potere che passa da una generazione all'altra è molto meno, la società ha preteso il suo. Sono i processi democratici che lo hanno reso possibile: essi infatti sono anche un sistema di limiti ai poteri che si esercitano in società. Si è visto che i poteri condivisi stabilizzano meglio la società, funzionano meglio nel creare opportunità sociali di benessere, richiedono meno violenza per essere mantenuti. Nella stessa linea è razionale stabilire dei limiti anche alle successioni ereditarie tra privati (lo si è fatto nel grande e non lo si dovrebbe fare nel piccolo?), restituendo alla società ciò che in definitiva da essa proviene, una parte dei patrimoni lasciati da chi muore: lo si fa non arbitrariamente, ma secondo regole precise, che stabiliscono delletasse.

 E’ onesto  questo modo di pensare, o è voler rapinare  i patrimoni privati? La dottrina sociale ci dice che è onesto, perché  i beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. Ma ci si può arrivare anche a prescindere da argomentazioni religiose. La ricchezza è un fatto sociale e la società quindi deve avere il suo.

  Si parla di pace,  ma da ciò che ho scritto è evidente che ci può essere una pace giusta e una ingiusta. La pace giusta è di solito condivisa da più persone di quella ingiusta, che di solito è imposta con la violenza e genera risentimento e voglia di rivalsa. La pace giusta deve essere difesa dall’arbitrio dei gruppi più potenti, ma è più stabile perché è condivisa da molti;  quella ingiusta è sempre precaria, perché esposta alla reazione dei più. La pace giusta è quella che dà alla società il suo.

 Si sostiene che la politica ha un valore religioso, ma naturalmente ci si riferisce, oggi, alla politica volta ad una pace giusta. Non è sempre stato così, ne dobbiamo essere consapevoli. Tutto sommato ci è andata bene, per il tempo e il posto in cui siamo nati e viviamo. Ad altri storicamente, e anche nei nostri stessi tempi, è andata molto peggio. Ma che accade quando l’ordine giusto è minacciato? Bisogna difenderlo con coraggio. I conflitti insorgono: occorre affrontarli. Spesso in religione si è tentato solo di sopirli o di negarli, quando addirittura non si è parteggiato per un ordine ingiusto ma conveniente per l'organizzazione religiosa. Questa è la religione che è stata definita come un anestetico per chi sta peggio. Oggi è diverso, certo. C'è unadottrina sociale  che insegna autorevolmente i principi della pace giusta. 

  Come affrontare i conflitti sociali avendo come obiettivo una pace giusta, che comprende anche riconoscere agli altri, anche nei conflitti, il bene fondamentale, quello della vita, per cui non si ammette con leggerezza di farli fuori a fini di pace sociale?

  Nel secolo scorso c’è chi ha escogitato una via veramente nuova: lateoria e la pratica della nonviolenza, che  è metodo di lotta sociale basato sull’idea di non fare del male agli altri (un altro dei principi di giustizia formulati dagli antichi).

 

62. La giustizia come metro dei sistemi sociali

 

 

  Ci sono diversi metodi per misurare gli effetti dei sistemi sociali.

 Si possono valutare, ad esempio, secondo i morti che producono.

 Se una potenza regionale cambia politica, si potranno contare i morti in più che ci saranno, specialmente se diventa meno sensibile al valore della giustizia. Se lo fa una potenza globale le conseguenze saranno molto maggiori. Ma accade anche su scala molto più piccola ed anche molto piccola. Si  è osservato, ad esempio, che una classe scolastica in cui prende piede il bullismo tra ragazzi può fare morti e che quindi questa non è più una cosa da ragazzi, ma veramente molto seria. In Italia da poco ci hanno fatto addirittura una legge sopra, per combattere il bullismo informatico, quello praticato mediante i  telefonini, in danno dei minori.

  Un metro abbastanza efficiente per valutare i fatti sociali, in particolare le organizzazioni, è quello della giustizia. Anche in questo caso può essere impiegato su piccola scala, ad esempio nel caso di una parrocchia.

  La giustizia è un valore sociale e ha a che fare con l’etica, vale a dire con i criteri che in società si scelgono per definire il bene e il male e per orientare al bene. Ma vi possono essere etiche ingiuste, come avviene nei regimi politici totalitari, classisti o in quelli schiavisti. La giustizia è un valore meno malleabile dell’etica. Finché gli altri esistono, sorge un problema etico, che consiste nel decidere come comportarsi con loro, che può essere risolto in modo giusto  o ingiusto. Un’etica  ingiusta suona come paradossale. Se però consideriamo che una delle esigenze della giustizia è il   non fare male agli altri, come ritenevano gli antichi giuristi, allora un’etica come quella proposta dal fascismo storico, che si proponeva la guerra, risulta  ingiusta, perché fa male agli altri. Se l’ambiente naturale, che serve a tutti per vivere, è minacciato dalle attività umane e una grande potenza decide di ignorarlo perché fare diversamente comporterebbe una riduzione del suo benessere sociale, questo è ingiusto  perché fa male agli altri, propone un'etica ingiusta come quella che dice la "mia nazione viene prima di tutto". Ragionare in questo modo, in un mondo interconnesso su scala globale come il nostro, rende impossibile la sopravvivenza di tutti. E quelli che sopravvivono, perché riescono con la forza a mettere sotto i piedi gli altri, si ritrovano in ambiente degradato, che fa male anche a loro. 

    In una parrocchia bisognerebbe praticare la giustizia, perché quest'ultima è anche un valore religioso. Uno dei principi della giustizia è dare a ciascuno il suo. Se comprate l’Osservatore romano, il quotidiano edito dal papato, nell’intestazione trovate scritto, in latino, proprio quel principio, “unicuique suum”, a ciascuno il suo. Ma se troppa gente non trova più in una parrocchia quello che avrebbe dirittodi trovare, vale a dire  il suo  in questo senso, allora significa che qualche cosa non va. Non è giusto. Una parrocchia dovrebbe essere un sistema sociale inclusivo fondato sulla giustizia. A lungo abbiamo avuto problemi in questo campo, da noi alle Valli, e dall'ottobre 2015, con l'arrivo di un nuovo pastore, si sta cercando di cambiare. Lediversità che c’erano ancora negli anni ’80 sono state ritenute ad un certo punto come cattive e si è cercato di ridurle, costruendo una certa etica piuttosto esigente. L’etica non dovrebbe esserlo? Dipende da che cosa esige. L’altro giorno, qui a Roma,  al raduno di un movimento religioso che ha molto successo in società, si è proposto il modello delle  diversità riconciliate. Ci si riconcilia quando si dialoga e si trova un modo di convivenza, che è anzitutto  coesistenza.  L'etica dell'uniformità, mediante riduzione della diversità, e quella dellariconciliazione delle diversità possono essere entrambe esigenti, vale a dire molto impegnative, ma, innanzi tutto sono diverse e hanno effetti sociali  diversi. Ma non solo sono diverse, sono anche incompatibili,alternative,  o l'una o l'altra. Bisogna scegliere. E non basta essere in buona fede, quasi sempre lo si  è in religione, perché la scelta siagiusta; occorre anche tenere conto realisticamente degli effetti sociali che vengono prodotti, come dovrebbero fare i politici di governo quando scelgono una certa politica e allora dovrebbero tener conto dei morti in più che faranno.

  Ogni etica sociale è collegata ad un assetto politico, perché è chi comanda in società che fa le regole. Questo accade nel grande come nel piccolo. Se si vuole che la riconciliazione prenda piede in una società, occorre aumentare il livello di giustizia conformandovi l’etica.

  Nelle scritture sacre vi sono delle storie di tremenda violenza. La violenza è un fatto umano. Ad un certo punto i profeti immaginarono che dall’Alto si sarebbero  stroncate  le guerre, ma questo non è mai diventato realtà, se non per breve tempo. Se uno immagina di essere,oggi, alle porte di Gerico e che il Cielo gli ordini di urlarle e di cantarle contro, contro la città pagana e  infedele, perché poi le sue mura crolleranno e si potrà, e anzi si dovrà, sterminare (nel senso di rendere uniforme o escludere) tutto ciò che di vivente c’è dentro, e ci costruisce un’etica sopra sviluppando una politica corrispondente, poi avrà più o meno ciò che ha immaginato, più  o meno, intanto però avrà una situazione di conflitto insanabile, in cui lui urla contro gli altri, che rimangono a guardarlo dietro le mura. Il fascismo volle la guerra, l’ebbe, ma non andò come immaginava dovesse andare. Così va la storia umana. Si miete ciò che si è seminato, ma non sempre si raccoglie ciò che si immaginava di ricavare.

  Adesso si sta cercando di rendere la parrocchia un ambiente molto più accogliente per gli altri, cambiando atteggiamento verso di loro. E’ una scelta etica, naturalmente, che è in linea con le regole dettate da chi comanda ora nelle nostre collettività religiose e che ci spinge a una diversità riconciliata. Ma è cosa che ha a che fare con la giustizia, perché accogliendo, quindi  includendo, dà a ciascuno il suo, una parte del bene che si può trarre dalla vita religiosa e che non è giusto riservare ad una piccola minoranza: non è per questo che pensiamo di essere stati mandati  al mondo intorno. Ma durerà poco,  forse quanto il tempo assegnato al nuovo pastore che ci è stato mandato, nove anni, dei quali è trascorso già un anno e mezzo, se a questa esigenza di giustizia non corrisponderà una nuova organizzazione sociale, per metterla al riparo della volubilità umana. E’ a questo che servono le istituzioni, anche una come la parrocchia: a dare continuità alle società umane consentendo loro di rigenerarsi  periodicamente. Da qui l’esigenza di attivare processi democratici, gli unici a poter produrre questo risultato includendo. Le carenze in questo campo hanno consentito che, all’inizio degli anni ’80, tutto cambiasse piuttosto rapidamente quando cambiò il pastore. All’epoca c’era molta partecipazione in parrocchia, i più anziani ne parlano e nelle interviste raccolte  nel libro di Bonomo sul quartiere risulta molto chiaramente, ma non c’era una tradizione democratica che consentisse di fare resistenza, quando sarebbe stata necessario farla, per dialogare in condizione di pari dignità e impedire i problemi che poi si produssero. Si determinò un conflitto latente che venne risolto non apertamente, ma con il ritiro dei dissenzienti, e che quindi venne deciso secondo il principio d’autorità, obbedendo. L’obbedienza: la più subdola delle tentazioni, nelle cose sociali. L’obbedienza, in religione, è dovuta solo al Cielo. Per tutto il resto vale la libertà di figli.

 

63. Non rassegnarsi

 

 Un tempo la religione venne accusata di spingere alla rassegnazione, alla rinuncia all’impegno sociale per il cambiamento. L’accusa era vera: la religione è stata anche questo. Una fede così non merita di essere mantenuta, giustamente la si è combattuta. Non fa bene la gente. E’ facilmente strumentalizzabile da oligarchie che riescano a conquistare il dominio della società: quando pochi fanno prepotenza ai più e non accettano di essere messi i questione. Tutto ciò che fa male, abitudini, concezioni, movimenti, partiti, religioni, ma anche modi di consumare, di agire sul mercato, di sfruttare l’ambiente va combattuto per cambiarlo. Non sono convinto che ogni religione faccia bene alla società. Si dice che ne è necessaria l’incessante riforma, se si vuole che orienti al bene. Non basta la buona fede, la convinzione sincera di mirare al bene. Occorre valutarne realisticamente gli effetti. In ciò che fa male va cambiata: nella nostra lo si  è fatto molte volte, niente è più esattamente come era alle origini e ciò ha fatto bene alla nostra religione. Recentemente, intorno all’anno 2000 e in occasione del Grande Giubileo di fine millennio, questo processo ha preso il nome di purificazione della memoria, a cui siamo stati spinti da san Karol Wojtyla, ed è sostanzialmente un processo di riforma: significa valutare criticamente il male che s’è fatto in religione, ma non per condannare coloro che lo fecero e che non ci sono più, ma per non farcene incauti discepoli.

  La storia della nostra fede deve convincerci che la religione può anche non spingere alla rassegnazione. Viviamo una fase storica in cui essa ci spinge all’impegno sociale e cerca di convincerci che c’è da fare e che la nostra azione sociale può cambiare il mondo. In passato questa fu la convinzione di minoranza di gente di fede, ora lo si vorrebbe sentire comune. Insomma, questo non  è il tempo del dopolavoro  religioso, che è quando si va in chiesa terminato tutto ciò di altro in cui si è coinvolti e allora si vuole solo avere un po’ di tregua da tutti gli affanni, stare con gli amici più cari per passare qualche ora lieta immaginando un mondo diverso.

 E’ proprio tutto ciò che facciamo nel mondo, a partire dallo studio e dal lavoro, ma anche come agenti nel mercato, che si vorrebbe fosse coinvolto nel nostro impegno sociale: siamo spinti a non dimenticare il mondo, ma a conoscerlo molto meglio, per fare resistenza al male e creare il bene sociale, quello che nella dottrina, sull’insegnamento di una tradizione molto antica, viene definito bene comune. Si veniva accusati di somministrare droghe sociali a gente in catene, per far dimenticare la loro condizione; si agisce invece proprio nel senso opposto. Si è spinti all’azione solidale, per venire incontro ai sofferenti e sollevarli. E’ l’esempio che ci viene dato dai tanti religiosi impegnati nelle parti più disperate del mondo. Ma è un lavoro di tutti e, in particolare, di noi che viviamo inseriti nella società che (ancora) domina il mondo, l’Occidente che fa ciò che vuole, con le buone o con le cattive. E che ora è spinto emotivamente ad usare le cattive, la forza delle armi, anche in Europa.

  Ma per fare ciò che oggi si vorrebbe da noi, in particolare da noi laici, occorre un impegno molto più intenso e costante di quello della religione  dopolavoro. Come orientarsi in società se non facciamo uno sforzo per capirla realisticamente, a partire dal quartiere in cui viviamo. Non si resiste da soli, occorre organizzare una forza sociale, perché è dalla società che viene il male che ci minaccia.

   La  religione può divenire rapidamente inutile  quando si decide che capire  non è più importante e ci si barrica in una serra religiosa, rassegnandosi al male che c’è  fuori e illudendosi, così facendo, di immunizzarsene. Prendere in mano un libro, ad esempio un libro di storia, e provare a rendersi conto  di ciò che sta succedendo, e in particolare dell’origine dei mali sociali e dei risultati dei tentativi che in passato si sono fatti per rimediare,  è molto più impegnativo che rispondere SI’ o NO  a certe offerte commerciali  che talvolta ci vengono da chi oggi comanda in società e ha interesse prevalentemente ad indurci a tracciare un segno sul suo simbolo in una scheda elettorale, proponendoci uno scambio  tra consenso e favori sociali alla categoria. Richiede uno studio,  che per essere efficace deve essere collettivo, per considerare le cose da diversi punti di vista ed averne quindi una visione più affidabile e innanzi tutto realistica, e la disponibilità a mettersi in gioco  partecipando, innanzi tutto riconoscendo che, di fronte ai mali sociali, siamo sempre in debito di partecipazione verso gli altri. Che abbiamo fatto, ad esempio, per  la parrocchia nell’ultimo anno?

 

64. Dignità

 

  L’idea che l’essere umano abbia un particolare valore tra i viventi, per cui gli debba essere riconosciuta una  dignità, è molto importante nella cultura democratica contemporanea e ha origine religiosa secondo la nostra fede. La si esprime anche dicendo che l’essere umano è una  persona.  Su di essa nel secolo scorso, negli anni bui dei totalitarismi fascisti europei, è stata costruita una ideologia politica che è stata sviluppata in modo originale dai cristiano-democratici europei e che, nella Nuova Europa sorta dopo i rivolgimenti politici e costituzionali prodottisi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, è chiaramente avvertibile in alcune nuove costituzioni, quindi nelle leggi fondamentali, di alcuni stati, tra le  quali quella italiana, e in quella dell’Unione Europea. Ai tempi nostri questo personalismo  contrasta nettamente con l’impostazione competitiva, secondo le leggi di mercato, dell’economia capitalista globale alla quale si è consentita mano libera nel mondo, secondo la quale ognuno e ogni cosa hanno un prezzo, non c’è alcun valore a prescindere dal mercato in cui si vende e si compra, e tutti lottano egoisticamente per spuntare i prezzi migliori secondo il proprio interesse, chi vende i prezzi più alti e chi compra i prezzi più bassi e alla fine pesce grosso mangia pesce piccolo. In passato, quando si sviluppò, tra le due Guerre mondiali del secolo scorso, contrastava anche con ogni ideologia di tipo totalitarista, sia politica che religiosa, secondo la quale si pensasse che una qualche autorità fosse autorizzata a fare dell’essere umano ciò che voleva assegnandogli valore. Per questo motivo essa  inizialmente fu vista con sospetto nella nostra confessione religiosa, organizzata come una specie di impero religioso assoluto, e ancora oggi ciclicamente si levano al suo interno voci contrarie nei nostri ambienti religiosi. Proprio recentemente si è sviluppata una polemica del genere sul quotidiano Avvenire.

   Il movimento democratico moderno partì dall’idea che gli esseri umani fossero creati  uguali: essa fu espressa nella Dichiarazione di indipendenza  dei rivoluzionari nord americani, nel 1776, dalla quale nacquero gli Stati Uniti d’America, che si apre con questa frase:

Riteniamo verità evidenti che tutti gli esseri umani sono stati creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi inalienabili Diritti, e tra questi quello alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità”.

  Tutta la storia successiva di quel movimento è consistita  in uno sviluppo  di quell’idea e, in particolare, in una lunga serie di lotte sociali  con tutte le strutture ideologiche e politiche che vi si opponevano. Dal punto di vista degli esseri umani che volevano conquistare la dignità di  persone, questo processo sociale appare come una liberazione, connotato quindi da principi di libertà.  Quest’ultima è stata una difficile conquista nella nostra confessione religiosa.

  L’altro giorno su una rivista che ricevo ho trovato notizia di un saggio di prossima pubblicazione del prof. Alberto Monticone, storico esponente del laicato di fede italiano, dal titolo Essere laici. Quale spiritualità laicale?. Secondo Monticone questo spiritualità è  una devozione-programma  che si affida alla libertà interiore, alla  libertà spirituale, alla libertà di coscienza e di intelligenza delle persone.

  C’è chi prega  “Fa di me ciò che vuoi, sono tua proprietà”: io mai e poi mai lo farò. Non è vero che siamo stati chiamati amici, non servi o peggio schiavi? E che seguiamo una verità che  ci farà liberi? Sono cose che vanno prese sul serio.

   L’idea che ogni essere umano sia  persona  e che abbia una propria dignità  inviolabile  è un principio rivoluzionario, nel vero senso della parola, capace di cambiare il mondo. Viene messa alla prova ogni giorno, nella nostra vita quotidiana: non sempre si è all’altezza dei grandi principi proclamati. Arriva gente dall’Africa sui barconi: che ne facciamo? “Rimandiamoli a casa loro”, dicono alcuni.   Se però riconosciamo ai nuovi arrivati la dignità di persona, questa  è anche casa loro. Quella dignità dissolve infatti la condizione di straniero. Possiamo rimandarli a casa loro, una casa  che in realtà non hanno più altrimenti non sarebbero mai partiti, solo non riconoscendo loro la dignità di persona. Ma lo stesso problema si ripropone ogni volta che, profittando di condizioni sociali che ci sono favorevoli, facciamo degli altri ciò che vogliamo, ad esempio ci serviamo del loro lavoro pagandolo secondo certe condizioni di mercato loro avverse, vale a dire troppo poco. “Il lavoratore ha diritto  ad una retribuzione proporzionata  alla quantità e qualità del  suo lavoro e in ogni caso sufficiente  ad assicurare a sé e alla famiglia  una esistenza libera e dignitosa è scritto nell’art.36 della nostra Costituzione. E’ chiaro che l’economia italiana  non funziona secondo questo principio: chi crede ancora nella nostra Costituzione lotterà per cambiare l’economia, chi non vi crede brigherà per cambiare la Costituzione. Dico brigherà perché cose come quelle vanno fatte senza troppo clamore, sotto traccia, sotto-sotto, pezzetto per pezzetto, perché contrastano con gli interessi dei più: li si deve far trovare davanti al fatto compiuto e far loro capire che la resistenza è inutile e impossibile, che ogni procedura democratica può essere aggirata, perché il mercato è il mercato ed esso è l’unico vero dio e le sue leggi sono le uniche veramente inviolabili, non possono essere sottoposte a referendum popolare e anche se si sono raccolte le firme necessarie per indirlo bisognerà sempre ricominciare da capo, e comunque sarà sempre tutto inutile. Le lotte sociali democratiche esigono invece di essere fatte apertamente e con cognizione di causa, dopo avere capito bene le questioni che si pongono, perché devono coinvolgere quei più, le masse. Pagare con giustizia il lavoro è anche un principio religioso: violarlo rientra nei peccati più gravi, quelli di cui si insegna che  gridano. Il grido degli oppressi sale al Cielo e viene ascoltato, è scritto. Ma, come è stato detto durante la nostra Resistenza storica, dal gruppo di Barbareschi e Olivelli,  non ci sono liberatori, ma persone che si liberano.

   Fede e politica a volte sono viste come cose distinte. Ma è attraverso la politica che si trasforma la società e questo ha anche un valore religioso, perché è nella società che ci vive e manifesta la dignità di persone che la fede invoca. Occorre quindi anche costruire una specifica spiritualità, come sostiene il prof. Monticone. E’ cosa di cui si dovrebbero occupare i laici in una parrocchia, con l’aiuto dei preti. Innanzi tutto cercando di  capire: non è scontato che si abbia una visione realistica della società  e dei suoi moti sociali. E poi cercando di cambiare, a partire dalle realtà di prossimità. Quando ci si tiene sui massimi sistemi le cose, paradossalmente, si fanno più  facili. Se si volesse, ad esempio rivoluzionare  l’urbanistica della nostra via Val Padana, per renderla conforme alla dignità di persona di chi abita nel quartiere, le cose si farebbero più difficili. Perché l’ovale davanti dello slargo avanti alla chiesa parrocchiale deve essere sequestrato dalle autovettura private, usandolo come parcheggio?  Non potrebbe farsene una piazza costruendo una continuità urbanistica con il vicino giardino al centro del viale? Però una ventina di persone dovrebbero parcheggiare un po’ più lontano da casa. Provate  a proporre una cosa simile e le avrete accanitamente contro. Non c’è nessuna conquista sociale senza una lotta. Questo  è vero, ad esempio, per i principi di civiltà proclamati nell’enciclica Laudato si’. Ma se anche quelli che parcheggiano nell’ovale si convincessero che loro stessi e le loro famiglie vivrebbero meglio? Convincere  è una parte importante di ogni programma realmente democratico. Si contrappone al fascinare, al modo dell’industria commerciale, che è invece la strategia generalmente seguita da chi comanda oggi in politica, e consiste nel procedere per comunicati commerciali  che cercano di far leva sulla pancia  della gente, invece che sulla testa. Come quando si sostiene, spregiando i principi di quell’enciclica, “la mia nazione prima di tutto” e i più vengono indotti a credere che da questo ne avranno un vantaggio perché saranno abbandonati solo gli altri, salvo poi a dovere prendere atto che loro stessi e i loro figli  stanno facendo la stessa fine. Accade nell’Italia di oggi. Abbiamo occhi preoccupati solo per chi arriva sui barconi e non per i nostri figli che, anche loro, stanno partendo verso settentrione, e c’è chi non li sopporta più e vorrebbe rimandarli a casa loro.

 

65.Non siamo formiche

 

  Da ragazzo mi piaceva osservare le formiche. Costruiscono delle società complesse. Hanno precisi ruoli sociali a cui corrispondono caratteristiche fisiche e fisiologiche. La maggior parte sono operaie  e fanno la spola tra l’ambiente e il formicaio portando qualcosa. Ci sono quelle che fanno la guardia al formicaio e hanno testa e tenaglie più grosse. Dentro il formicaio ce n’è una che produce le uova. I maschi durano pochissimo, giusto il tempo per fare quello che devono. Le femmine vanno a rinchiudersi nel fondo di un formicaio e trascorrono tutta la vita producendo uova, assistite dalle altre formiche. Femmine e maschi nascono con le ali. Quando una femmina inizia a fare uova e diventa regina  nel formicaio se le strappa, non le servono più. La maggior parte delle formiche non sono né maschi né femmine: non serve loro esserlo per fare ciò che devono. Dicono che le formiche usino poco gli occhi: è la chimica che le guida nel mondo circostante. Le formiche sono sempre in attività, dentro e fuori il formicaio, non oziano mai. Tengono nei formicai degli altri insetti, gli afidi, dai quali ricavano una sostanza nutriente, e questo richiama un po’ le nostre abitudini di allevatori. Le formiche nascono e muoiono e sono sempre in giro a fare qualcosa. A volte ci danno fastidio e le combattiamo. Dentro casa ci riesce di averne ragione, fuori è molto più difficile, come ben sa chi ci ha provato. La strategia è quella di trovare e bloccare tutte le uscite di un formicaio. All’aperto è lavoro quasi impossibile. Poi, in una certa stagione, nascono le regine, volano via e fondano nuovi formicai.

  Ad un certo punto, dopo aver guardato per un po’ le formiche, mi chiedevo: ma a che serve tutto questo?  Il mondo animale è organizzato un po’ tutto come il formicaio. Gli animali superiori conoscono il gioco e l’ozio. I carnivori sono quelli che sembrano avere più tempo libero. Mangiano cose, gli altri animali, che nutrono velocemente. Da un certo punto di vista sembra che tutto sia organizzato in modo che tutti mangino tutti. C’è questa catena alimentare che fa risparmiare energia. Tutti cercano di non farsi mangiare, con diverse strategie, o che, comunque, di loro ne sopravviva sempre a sufficienza perché la specie continui. Questo continuo cercarsi per mangiarsi rende la natura piuttosto violenta, su piccola e su grande scala. Anche le formiche lo sono. Alcune specie fanno schiavi. Tutte attaccano e smembrano altri insetti. La visione idilliaca che abbiamo della natura è un po’ irrealistica. E quando guardo i gigli del campo  e gli uccelli del cielo,  secondo l’esortazione evangelica, non sono mica poi tanto tranquillizzato, appunto per tutta questa violenza che vedo nella natura e che coinvolge anche loro. Le società umane sono organizzate in modo da porvi in qualche modo rimedio e questo le distingue nettamente da tutte le altre società dei viventi. Questo però ha un costo in termini ambientali. Le nostre società sono molto meno violente, ma consumano molta più energia e, soprattutto, molto più ambiente. Dove vivono di solito gli altri primati, vale a dire i viventi che dal punto di vista biologico ci sono più simili?  Non hanno tutte le nostre pretese.  Ma le nostre non sono solo velleità. Sperimentiamo la  gioia del vivere che negli altri viventi, tutti impegnati a mangiarsi tra loro e a non farsi mangiare, non è particolarmente evidente. Chi ci indica la strada del ritorno verso la natura ci vuole ricacciare in quello che, da un punto di vista umano, è un inferno in terra.

Questo sforzo di ridurre la violenza della vita sociale è una invenzione specificamente umana. In natura nessun vivente ci ha mai pensato e ci pensa. Ci si mangia a vicenda senza tanti problemi, senza remore morali: la morale della natura è appunto quella di mangiarsi gli uni gli altri. I carnivori diventano vegetariani solo per estrema necessità, se non c’è nient’altro di meglio da mangiare, e i vegetariani rimangono sempre tali, per ciò che so. Del resto di vegetali c’è n’è tanti in giro. Ognuno rimane ciò che è e non si preoccupa della sofferenza degli altri che ammazza. Gli umani vorrebbero essere diversi.

  Tutta la nostra ingegneria sociale è volta a questo: a ridurre la violenza tra gli umani. E le guerre? Ci sono sempre, ma si cerca di regolarle, di contenerle. C’è anche un diritto di guerra. Anche i guerrieri più accaniti della storia dell’umanità, i mongoli, ad un certo punto crearono una società globalizzata,  veramente molto estesa, pacificata. Nel Duecento ci capitò dentro Marco Polo e ne rimase meravigliato.

  C’è però un settore della nostra organizzazione sociale che si vuole regolato dalla legge della giungla, quella per la quale  tutti mangiano tutti e cercano di non farsi mangiare: è l’economia. Dicono che questo ordine sia razionale, fa risparmiare energia. Ma dà gioia? Non la dà. Ci spinge a farci come le formiche. Provate a vedere la cosa sotto questo punto di vista: non è che in tante cose, nelle nostre vite, ci siamo fatti formiche? E non parlo delle virtù proposte dall’apologo della  formica e della cicala. Dico proprio formiche, con quella vita che ho descritto sopra. Tutti incastrati in un’organizzazione sociale, nei propri ruoli strumentali alla produzione, in cui la vista, che ci dà tanta gioia, conta poco e molto di più la chimica.

  La gioia  è fondamentale nella vita religiosa. La religione attira ancora perché dà gioia, e la gioia dà senso alla vita. Questa importanza che dà alla gioia della vita la pone in rotta di collisione con l’economia basata sulla legge della giungla. Era scuro in volto il nostro Francesco quando ha incontrato il potente signore d’oltre oceano che gli ha detto che guiderà il suo popolo secondo la legge della giungla. Dicono che quest’ultimo non sia un appassionato lettore di libri. Francesco gliene ha regalati alcuni. Parlano della necessità di non seguire la legge delle giungla nelle faccende umane, se non si vuole la catastrofe ambientale e sociale. L’americano  ha detto “li leggeremo”, ma non credo che sia un plurale di maestà, come quelli che una volta usavano i sovrani. Ha poco tempo uno come lui, dominatore del mondo. Beh, spero che chi li leggerà gliene faccia un sunto affidabile che poi lo invogli alla lettura personale. 

 Sotto certi aspetti una parrocchia potrebbe essere vista come un formicaio: tante persone operose che vanno e vengono in un posto con tante stanze, e ciascuna ha il suo da fare. Ma non è governata secondo la crudele legge della natura. Risuonano canti e campane e non è come accade agli uccelli, che cantano per sfidarsi e marcare il loro spazio, anche se a noi sembrano tanto carini: è la gioia della vita che si vorrebbe evocare e suscitare. Un prete che fu tra noi diversi anni fa, osservava sconsolato che la gente usciva dalla Messa ingrugnata, scura in volto. Voleva migliorare la situazione, ma, come ho detto, alla fine vidi anche lui scuro in volto è se ne andò. Tutto il lavoro religioso, a ben pensarci, è volto a diffondere quella che il nostro Francesco ha chiamato la gioia del Vangelo, scrivendoci sopra anche un’esortazione, che non sarebbe male tenere a mente.

 

66. Magistero costituzionale

 

 

  Qualche giorno fa a Genova e sabato scorso a Roma, in visita al Presidente della Repubblica, papa Francesco ha sviluppato un magistero costituzionale, ricordandoci alcuni dei valori più importanti della nostra Costituzione, in particolare quello del lavoro come fondamento della dignità sociale e della laicità delle istituzioni pubbliche, e l’importanza di collaborare alla costruzione della democrazia politica rafforzando i legami tra la gente e le istituzioni, perché da questa tenace tessitura e da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia. Riporto di seguito il testo dell’intervento del Papa. Lo storico Alberto Melloni ha segnalato la grande rilevanza di quel magistero per la vita pubblica italiana e ha ricordaro  come in altre occasioni critiche per l’Italia vi siano stati interventi simili. Aggiungo che, a mia memoria, mai i papi hanno sviluppato un magistero centrato sui valori democratici repubblicani. E, quanto alla laicità, si sono sempre mostrati piuttosto diffidenti e sospettosi, in quanto essa è un limite interno anche al loro potere religioso, non solo a quello che esercitano di fatto nella società civile: mai hanno parlato, a mia memoria, di laicità addirittura amichevole. Di solito subivano la laicità, cercando di delimitarla puntigliosamente, specialmente all’interno dell’organizzazione religiosa e si capiva bene che avrebbero preferito gente più docile, mentre secondo il principio di laicità ci si propone di non esserlo.

VISITA UFFICIALE DEL SANTO PADRE AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
 SERGIO MATTARELLA

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Palazzo del Quirinale
Sabato, 10 giugno 2017

[da http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170610_visita-quirinale.html]

 

Signor Presidente,

La ringrazio per le cordiali espressioni di benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome dell’intero popolo italiano. Questa mia visita si inserisce nel quadro delle relazioni tra la Santa Sede e l’Italia e vuole ricambiare quella da Lei compiuta in Vaticano il 18 aprile 2015, poco tempo dopo la Sua elezione alla più alta carica dello Stato.

Guardo all’Italia con speranza. Una speranza che è radicata nella memoria grata verso i padri e i nonni, che sono anche i miei, perché le mie radici sono in questo Paese. Memoria grata verso le generazioni che ci hanno preceduto e che, con l’aiuto di Dio, hanno portato avanti i valori fondamentali: la dignità della persona, la famiglia, il lavoro… E questi valori li hanno posti anche al centro della Costituzione repubblicana, che ha offerto e offre uno stabile quadro di riferimento per la vita democratica del popolo. Una speranza, dunque, fondata sulla memoria, una memoria grata.

Viviamo tuttavia un tempo nel quale l’Italia e l’insieme dell’Europa sono chiamate a confrontarsi con problemi e rischi di varia natura, quali il terrorismo internazionale, che trova alimento nel fondamentalismo; il fenomeno migratorio, accresciuto dalle guerre e dai gravi e persistenti squilibri sociali ed economici di molte aree del mondo; e la difficoltà delle giovani generazioni di accedere a un lavoro stabile e dignitoso, ciò che contribuisce ad aumentare la sfiducia nel futuro e non favorisce la nascita di nuove famiglie e di figli.

Mi rallegra però rilevare che l’Italia, mediante l’operosa generosità dei suoi cittadini e l’impegno delle sue istituzioni e facendo appello alle sue abbondanti risorse spirituali, si adopera per trasformare queste sfide in occasioni di crescita e in nuove opportunità.

Ne sono prova, tra l’altro, l’accoglienza ai numerosi profughi che sbarcano sulle sue coste, l’opera di primo soccorso garantita dalle sue navi nel Mediterraneo e l’impegno di schiere di volontari, tra i quali si distinguono associazioni ed enti ecclesiali e la capillare rete delle parrocchie. Ne è prova anche l’oneroso impegno dell’Italia in ambito internazionale a favore della pace, del mantenimento della sicurezza e della cooperazione tra gli Stati.

Vorrei anche ricordare la fortezza animata dalla fede con la quale le popolazioni del Centro Italia colpite dal terremoto hanno vissuto quella drammatica esperienza, con tanti esempi di proficua collaborazione tra la comunità ecclesiale e quella civile.

Il modo col quale lo Stato e il popolo italiano stanno affrontando la crisi migratoria, insieme allo sforzo compiuto per assistere doverosamente le popolazioni colpite dal sisma, sono espressione di sentimenti e di atteggiamenti che trovano la loro fonte più genuina nella fede cristiana, che ha plasmato il carattere degli italiani e che nei momenti drammatici risplende maggiormente.

Per quanto riguarda il vasto e complesso fenomeno migratorio, è chiaro che poche Nazioni non possono farsene carico interamente, assicurando un’ordinata integrazione dei nuovi arrivati nel proprio tessuto sociale. Per tale ragione, è indispensabile e urgente che si sviluppi un’ampia e incisiva cooperazione internazionale.

Tra le questioni che oggi maggiormente interpellano chi ha a cuore il bene comune, e in modo particolare i pubblici poteri, gli imprenditori e i sindacati dei lavoratori, vi è quella del lavoro. Ho avuto modo di toccarla non teoricamente, ma a diretto contatto con la gente, lavoratori e disoccupati, nelle mie visite in Italia, anche in quella recentissima a Genova. Ribadisco l’appello a generare e accompagnare processi che diano luogo a nuove opportunità di lavoro dignitoso. Il disagio giovanile, le sacche di povertà, la difficoltà che i giovani incontrano nel formare una famiglia e nel mettere al mondo figli trovano un denominatore comune nell’insufficienza dell’offerta di lavoro, a volte talmente precario o poco retribuito da non consentire una seria progettualità.

È necessaria un’alleanza di sinergie e di iniziative perché le risorse finanziarie siano poste al servizio di questo obiettivo di grande respiro e valore sociale e non siano invece distolte e disperse in investimenti prevalentemente speculativi, che denotano la mancanza di un disegno di lungo periodo, l’insufficiente considerazione del vero ruolo di chi fa impresa e, in ultima analisi, debolezza e istinto di fuga davanti alle sfide del nostro tempo.

Il lavoro stabile, insieme a una politica fattivamente impegnata in favore della famiglia, primo e principale luogo in cui si forma la persona-in-relazione, sono le condizioni dell’autentico sviluppo sostenibile e di una crescita armoniosa della società. Sono due pilastri che danno sostegno alla casa comune e che la irrobustiscono per affrontare il futuro con spirito non rassegnato e timoroso, ma creativo e fiducioso. Le nuove generazioni hanno il diritto di poter camminare verso mete importanti e alla portata del loro destino, in modo che, spinti da nobili ideali, trovino la forza e il coraggio di compiere a loro volta i sacrifici necessari per giungere al traguardo, per costruire un avvenire degno dell’uomo, nelle relazioni, nel lavoro, nella famiglia e nella società.

A tale scopo, da tutti coloro che hanno responsabilità in campo politico e amministrativo ci si attende un paziente e umile lavoro per il bene comune, che cerchi di rafforzare i legami tra la gente e le istituzioni, perché da questa tenace tessitura e da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia e si avviano a soluzione questioni che, a causa della loro complessità, nessuno può pretendere di risolvere da solo.

La Chiesa in Italia è una realtà vitale, fortemente unita all’anima del Paese, al sentire della sua popolazione. Ne vive le gioie e i dolori, e cerca, secondo le sue possibilità, di alleviarne le sofferenze, di rafforzare il legame sociale, di aiutare tutti a costruire il bene comune. Anche in questo, la Chiesa si ispira all’insegnamento della Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, che auspica la collaborazione tra comunità ecclesiale e comunità politica in quanto sono, entrambe, a servizio delle stesse persone umane. Un insegnamento che è stato consacrato, nella revisione del Concordato del 1984, nell’articolo primo dell’Accordo, dove è formulato l’impegno di Stato e Chiesa «alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese».

Questo impegno, col richiamo al principio della distinzione fissato nell’art. 7 della Costituzione, esprime e ha promosso al tempo stesso una peculiare forma di laicità, non ostile e conflittuale, ma amichevole e collaborativa, seppure nella rigorosa distinzione delle competenze proprie delle istituzioni politiche da un lato e di quelle religiose dall’altro. Una laicità che il mio predecessore Benedetto XVI definì “positiva”. E non si può fare a meno di osservare come, grazie ad essa, sia eccellente lo stato dei rapporti nella collaborazione tra Chiesa e Stato in Italia, con vantaggio per i singoli e l’intera comunità nazionale.

L’Italia ha poi il singolare onere ed onore di avere, nel proprio ambito, la sede del governo universale della Chiesa Cattolica. È evidente che, nonostante le garanzie offerte con il Trattato del 1929, la missione del Successore di Pietro non sarebbe facilitata senza la cordiale e generosa disponibilità e collaborazione dello Stato italiano. Se ne è potuta avere una ulteriore dimostrazione nel corso del recente Giubileo straordinario, che ha visto tanti fedeli venire a Roma, presso le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, nello spirito della riconciliazione e della misericordia. Nonostante l’insicurezza dei tempi che stiamo vivendo, le celebrazioni giubilari hanno potuto svolgersi in maniera tranquilla e con grande vantaggio spirituale. Del grande impegno assicurato dall’Italia al riguardo la Santa Sede è pienamente consapevole e sentitamente grata.

Signor Presidente,

sono certo che, se l’Italia saprà avvalersi di tutte le sue risorse spirituali e materiali in spirito di collaborazione tra le sue diverse componenti civili, troverà la via giusta per un ordinato sviluppo e per governare nel modo più appropriato i fenomeni e le problematiche che le stanno di fronte.

La Santa Sede, la Chiesa Cattolica e le sue istituzioni assicurano, nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità, la loro fattiva collaborazione in vista del bene comune. Nella Chiesa Cattolica e nei principi del Cristianesimo, di cui è plasmata la sua ricca e millenaria storia, l’Italia troverà sempre il migliore alleato per la crescita della società, per la sua concordia e per il suo vero progresso.

Che Dio benedica e protegga l’Italia!


Parole a braccio del Papa rivolte ai bambini nei Giardini del Quirinale

Cari ragazzi e ragazze, grazie tante di essere qui. Grazie tante per il vostro canto e anche per il vostro coraggio. Andate avanti con coraggio, sempre su, sempre su! E’ un’arte salire sempre. E’ vero che nella vita ci sono difficoltà - voi avete sofferto tanto con questo terremoto - ci sono cadute, ma mi viene in mente quella bella canzone che cantano gli alpini: “Nell’arte di salire il successo non sta nel non cadere ma nel non rimanere caduto”. Sempre su, sempre quella parola “alzati”, e su! Che il Signore vi benedica!

 

67. Religione e democrazia da poco sono tra loro contemporanee

 

  Religione e democrazia possono essere viste come forme di organizzazioni sociali fondate su determinati valori. L’attrito tra di esse è determinato dal fatto che solo di recente sono divenute contemporanee, da poco più di due secoli. Prima è nata la religione e poi la democrazia come noi la intendiamo. Per di più quest’ultima ha subito rapidi cambiamenti, cercando includere sempre più persone. Anticamente era basata sull’idea di cittadinanza, vale a dire sulla particolare dignità riconosciuta a certe persone nel contesto civile e ciò significava escludere  chi cittadino non veniva riconosciuto, vale a dire gli stranieri, gli schiavi, e, in genere, le donne. L’idea di democrazia contemporanea propone una democrazia universale, che include tutti. In questa universalità si è avvicinata ad alcune concezioni religiose.

  In religione si pensa spesso che l’antichità sia una conferma di autenticità, valore ed efficacia. Questo è paradossale, perché sappiamo che il progresso è andato in genere dal passato al futuro, non all’indietro. Così appunto la pensano i democratici, che hanno alle spalle sistemi politici non democratici dai quali la democrazia è emersa combattendo.

  Le religioni appaiono in genere strutturate per sistemi politici del passato. E’ il caso della nostra confessione religiosa, organizzata come un impero feudale. Le democrazie vorrebbero religioni più adatte ai loro ideali. E’ cosa che si tentò di fare durante i processi democratici che si produssero nella Francia di fine Settecento, ma non funzionò. Attraverso le religioni ci colleghiamo agli avi e vorremmo che i nostri posteri pensassero a noi come noi pensiamo a chi ci ha preceduto. E’ esperienza comune aver appreso gran parte di ciò che si sa e che è utile in società dai genitori, ma è anche l’identità sociale che è legata a loro. Parliamo di patria  e richiamiamo l’idea di un padre. L’archetipo, il modello più antico, di società civile è la tribù, piuttosto vicina alle esperienze sociali che osserviamo in altri primati, i viventi che dal punto di vista biologico ci somigliano di più. Nelle società tribali sono sorte le più antiche religioni.  L’idea che le potenze soprannaturali alle quali si rivolgono le religioni fossero compassionevoli verso l’umanità è uno sviluppo tutto sommato piuttosto recente. Le religioni più antiche si affannavano a accattivarsi il favore di potenze capricciose e crudeli. Nelle religioni compassionevoli troviamo l’origine delle idee di base delle democrazie. Ecco il collegamento ancora vitale.

  Accordare religioni compassionevoli e democrazia ha creato problemi per la politica che c’era in mezzo. Infatti la politica si era sacralizzata  secondo quelle religioni, vale a dire che proponeva il proprio potere come assoluto, quindi insindacabile, come le potenze soprannaturali alle quali le religioni si rivolgevano. E la politica sacralizzata non era democratica: dominavano dinastie di sovrani. In democrazia si vorrebbe che  tutti  divenissero sovrani. E’ questo quello che si propone proclamando che  la democrazia appartiene al popolo.

  Agli inizi del Novecento l’idea che democrazia e religione potessero andare d’accordo fu considerata eretica in Italia. Ma non era considerata tale, ad esempio, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America. Non c’è una incompatibilità assoluta, ma tutto dipende da che politica tenta la mediazione.

  Sabato scorso, visitando il Quirinale, il Papa ha parlato di collaborazione e amicizia tra religione e repubblica democratica. Occorre costruire relazioni virtuose, ha detto. Quella è la via che va seguita anche in realtà sociali come le parrcchie, sperimentando una democrazia che abbia nella religione una risorsa, non un problema.

 

68. Dialogo come metodo e mentalità

 

 E’ da un bel po’ che non partecipo ad assemblee di istituzioni di partecipazione della Diocesi, quelle in cui i laici dovrebbero dare una mano come consulenti. Devo dire che quelle esperienze non furono esaltanti. Ci si convergeva da estranei e si stringevano alleanze per le nomine. Non c’era molto altro. Mi parevano dominate dai gruppi. Del resto le parrocchie tendono a diventare piccoli mondi isolati e nel lavoro collettivo gli isolati contano poco o nulla.

  Ci sono istituzioni da cui partono direttive d’azione e i gruppi maggiori vogliono avervi voce, mandare gente propria. Per farlo bisogna accordarsi con gli altri, se non si ha la forza sufficiente. Il tempo quindi viene impiegato in queste trattative. Lo si fa in cenacoli riservati, mentre sul palco parla qualche esperto. Ai tempi nostri di solito gli esperti spiegano come vanno le cose, e ognuno più o meno lo sa già, ma non danno soluzioni. Sembra che la cultura non se ne senta più responsabile, lo osservò Zygmunt Bauman, ma anche lui fu piuttosto sintetico nelle proposte operative, anche se ne fece.

 Il problema è che, quando ci si incontra per quelle faccende, si è e si rimane estranei, perché il tempo è poco e, per di più, non si è veramente interessati agli altri. In religione, da noi, si preferisce passare il tempo tra gli amici propri. Non conoscendosi, riesce difficile sviluppare il dialogo, che è un modo di mettere in relazione i punti di vista e le storie  delle persone. Presuppone una mentalità, quella di essere interessati agli altri. Spesso si è impegnati, invece, a fare proselitismo, che significa aggregare gli altri al proprio gruppo, assimilandoli. Nel dialogo gli altri rimangono tali, ma è possibile farsene degli amici. Il lavoro collettivo è più produttivo se collaborano amici, se si collabora da amici. Allora non prevale la logica dello scambio, per cui si è disposti  a dare esattamente quanto si riceve o si prevede di ricevere.

   Si potrebbe pensare che, in religione, con tutto il parlare di amore che si fa, sia più facile intendersi, ma non è così. In religione, in genere, ci si odia ferocemente. Del resto la lunga storia della nostra fede ce lo conferma. La pace  è diventata un valore realistico,  da perseguire anche nella vita reale, molto di recente nelle nostre concezioni religiose. A che cosa è dovuto tutto questo odio? In parte viene naturale, è il nostro istinto di antiche belve che si fa sentire. In questo ci manifestiamo simili agli altri viventi, come lo siamo nella biologia e nella fisiologia. In parte è dovuto proprio alla religione, quando si pensa di avere un filo diretto con il Cielo e si sacralizzano  le proprie concezioni, vale a dire che non si accetta che vengano poste in discussione. L’idea che, in società, vi siano valori  non negoziabili è espressione di questo modo di pensare. Se non si negozia si va allo scontro frontale. In una mentalità di dialogo non vi sono valori non negoziabili, perché è ammessa la discussione su tutto. Ma il dialogo è possibile quando ci si accorda su questo principio: che tutti siano uguali in dignità. L’altro va rispettato in questa dignità che ci si riconosce reciprocamente. Questo poi comporta dei limiti sia nella dialettica, sia nelle relazioni concrete, in ciò che si fa agli altri. Nel pensiero di Ghandi [Mohandas Karamchand Gandhi, mahatma,  grande anima,  capo spirituale e politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948], i primi rientrano nell’idea di nonmenzogna, gli altri nella  nonviolenza.

  In religione ci si propone, in linea di principio, una grande apertura verso gli altri. Vorremmo fare dell’intera umanità un’unica famiglia. Bello. Poi però qualche volta si parte male, pensando di inaugurare una sorta di casting, di selezione per scegliere chi può partecipare ai nostri eventi religiosi. E’ questo che succede quando si sbotta che non si vuole “abbassare l’asticella” (l’ho sentito dire da un esponente in un nostro gruppo) o “fare un compromesso al ribasso” (l’ho sentito dire da un’esponente di un gruppo che a quell’altro si oppone). Poiché queste espressioni, simili nel  contenuto, sono venute da gente di opposti schieramenti ecclesiastici, credo che si tratti di una mentalità piuttosto diffusa. Chi l’ha detto che la religione deve essere, per la gente comune, una gara di salto in alto? E che cos’è poi questo snobistico disprezzo per gli altri, come se ci fosse un basso in cui far rimanere confinati quelli che non saltano abbastanza in alto? Uno come Ignazio di Loyola [vissuto nel Cinquecento; è il fondatore dei Gesuiti] consigliava invece di abbassarsi il più possibile e di far mostra di ritenere gli altri sempre migliori di sé stessi, tacendo di ciò di cui di loro non si poteva parlar bene. Il nostro padre Francesco ci dà ogni giorno degli esempi di questo modo di fare con gli altri. Non sarebbe male prendere lezione da lui, che, in definitiva, è quello che è. Invece vedo che alcuni storcono il naso e, a mezza voce, dicono di rimpiangere quelli di prima. Ma non è che questi ultimi poi la pensassero diversamente. Perché: gli umili saranno innalzati. È scritto. E’  umile chi vuole alzare l’asticella  e rifiutare di trattare con gli altri  se sono troppo in basso?

  Tutti questi problemi che ho descritto fatalmente si ripropongono anche in realtà di prossimità come i consigli pastorali parrocchiali. E questo anche se ci si dovrebbe conoscere molto meglio, perché si hanno più occasioni per frequentarsi. Ma questo non accade anche nei condomini? Eppure sappiamo che le assemblee di condominio non sono, di solito, esattamente un modello di dialogo e di rispetto della dignità degli altri. La prossimità aiuta, ma occorre un cambio di mentalità.

  C’è una difficoltà a sviluppare un dialogo costruttivo e deriva in particolare dai confusi concetti teologici che noi laici spesso abbiamo in testa. La teologia è una cosa seria. Raramente però un laico ha la possibilità di una sufficiente formazione teologica, ma, in definitiva, non gli è nemmeno necessaria. Uno come Giuseppe Dossetti la riteneva addirittura controproducente. Viviamo in un mondo plasmato dall’ingegneria (delle costruzioni, meccanica, idraulica, elettronica, telematica, biologica ecc.), ma non abbiamo bisogno di prendere una laurea in ingegneria per viverci. In religione è indispensabile una buona spiritualità, che si acquisisce con la pratica liturgica, la frequenza al magistero e la meditazione personale sulle Scrittura. Dovremmo concentrarci su questa faccenda dell’amore, che è agàpe, il lieto convito a cui tutti devono trovare posto. Questa  è una buona base per una convivenza religiosa.

 Dal pensiero religioso ho sintetizzato alcune regole  che mi porto sempre dietro:

Fuggi il male

Segui con fermezza il bene

Ama gli altri come fratelli

Sii premuroso nello stimare gli altri

Sii impegnato e non pigro

Allegro nella speranza

Paziente nelle tribolazioni

Perseverante nella preghiera

Sii pronto ad aiutare i tuoi fratelli quando hanno bisogno

Fai di tutto per essere ospitale

Chiedi a Dio di benedire quelli che ti perseguitano; di perdonarli non di castigarli;

Sii felice con chi e’ nella gioia, piangi con chi piange;

Vai d’accordo con gli altri

Evita le discussioni sulle parole e le chiacchiere inutili

Non inseguire desideri di grandezza, volgiti piuttosto verso le cose umili

Non ti stimare sapiente da te stesso

Non rendere a nessuno male per male

Preoccupati di fare il bene dinanzi a tutti

Se possibile, per quanto dipende da te, vivi in pace con tutti

Non vendicarti

Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene

Sii paziente e generoso

Non essere invidioso

Non vantarti

Non gonfiarti di orgoglio

Non cercare il tuo interesse

Non cedere alla collera

Dimentica i torti

Non godere dell’ingiustizia

La verità sia la tua gioia

Tutto scusa

Di tutti abbi fiducia

Tutto sopporta

Non perdere mai la speranza.

 Con Google potrete trovare da dove le ho prese: è anche questo un esercizio spirituale.

 Vedete che non ci sono i comandamenti “Non abbassare l’asticella”,“Non fare compromessi al ribasso”.

   Spesso si ha l’idea che sia in atto un conflitto all’ultimo sangue tra ortodossi, quelli della propria parte, ed eretici, quelli dell’altra. Si preferirebbe che questi ultimi sparissero. Abbiamo la scomunica facile, noi laici, e questo anche se  i nostri capi religiosi fanno diversamente. Ora si vorrebbe scomunicare i corrotti, ho letto, ma non si è presa la cosa tanto alla leggera, pubblicando presto presto la bolla, il decreto che la commina: ci si è fatta una commissione sopra, che sta studiando la cosa. Noi, per faccende infinitamente meno importanti, andiamo invece per le spicce. Ma chi siamo noi per scomunicare? No, lo dico sul serio, non come fa il nostro padre Francesco, che, se volesse, potrebbe scomunicare chi crede debba esserlo! Chi siamo noi per alzare le asticelle, far saltare i compromessi, indicare agli altri la porta in uscita e via dicendo?

 In un consiglio pastorale parrocchiale ci si dovrebbe riconoscere amici, volerlo veramente essere, cercare di esserlo, sforzarsi in questo. Ricordiamo ciò che ci ha diviso solo per proporci di non dividerci più. Dobbiamo fare memoria  delle esperienze di divisione per imparare l'unità tra noi. Questa è memoria purificata, secondo l'insegnamento di san Karol Wojtyla.  La nostra miserella teologia da incolti teniamola da parte e piantiamola con l’ecclesialese di cui ci riempiamo la bocca per non dire nulla.

  In parrocchia abbiamo un problema: includere.  Chi? Tutta la gente del quartiere che si riconosce nella nostra fede. Ma perché non pensare addirittura più in grande? Perché non pensare addirittura a chi non si è mai riconosciuto o non si riconosce più nella nostra fede? Questo è il nostro dovere, ce lo dicono chiaramente i nostri maestri. Ma se non riusciamo a includere nemmeno tutti quelli che vivono la nostra fede, come possiamo pensare di andare oltre? Cominciamo a fare pratica di inclusione e di dialogo, il resto verrà, e non sarà nemmeno tutta opera nostra, perché il Cielo, in definitiva, c’è.

 

69. Interpretare il mondo contemporaneo

 

  Il mondo in cui viviamo può essere letto e capito, come un libro. I buoni lettori hanno quindi più risorse per viverci dentro perché a questo sono abituati. Ma a leggere si impara, non è  un’abilità innata. Chi insegna a leggere il mondo, oggi? Questo è appunto il nostro problema principale.

  Le religioni sono state storicamente chiavi di lettura dei mondi sociali. Insegnavano alla gente a leggerli e quindi a viverci meglio. Con la modernità, diciamo negli ultimi cinquecento anni, lo hanno fatto sempre peggio. Questa è stata una vera tragedia perché, in questo modo, i mondi sociali sono cominciati a divenire incomprensibili a molti. Le esperienze religiose hanno iniziato a distaccarsi dalla realtà e a rifugiarsi nell'immaginazione. Da esperienze sociali hanno preso a trasformarsi in esperienze psicologiche, interiori. E’ l’idea della religione come medicina dell’anima. Ogni religione, e in particolare quelle maggiori, quelle storiche, molto antiche, ha avuto un suo modo per trasformarsi così. Nella nostra è stata la sua antica organizzazione feudale a spingere verso quel modello: la politica diventava democratica e minacciava la stabilità del potere religioso, così si è assecondata l’interiorizzazione per bloccare quell’evoluzione sociale. Si è puntato sullo star bene piuttosto che sul vivere bene. Una volta che il risultato che ci si attende è prevalentemente interiore si può dar libero sfogo al sogno. Si costruiscono mondi immaginifici al modo in cui lo si fa nei videogiochi. Ci si pensa onnipotenti come le potenze celesti. Il confronto con la realtà non c’è più. Quello della religione diventa un mondo separato in cui si entra sognando. Si possono fare belle esperienze, dicono, ma è quello che succede anche assumendo stupefacenti. La religione così intesa è veramente una droga sociale, assimilabile ad esempio all’LSD, lo stupefacente dei sogni formidabili, che si diffuse tra gli occidentali a partire dagli anni Sessanta. Questa è una religione psichedelica,  vale a dire che induce stati di coscienza alterati e che introduce in un mondo fantastico, in cui si sta bene. Ma questo, come sempre accade con le droghe, non è veramente  vivere. Si vive solo nel mondo vero, reale. Altrimenti si sogna.

  Il mondo così come veramente è non teme la religione psichedelica. Teme invece la nostra religione se si presenta come interpretazione realistica della società, se insegna a leggere il mondo. E’ appunto quello che sta accadendo tra noi, ora. Un’enciclica come la Laudato si’, del 2015, ne è un esempio molto chiaro. Questo tipo di religione non spinge verso mondi psichedelici, ma verso la realtà sociale così com’è, per cambiarla e vivere meglio.

  Un tempo i nostri capi religiosi vollero farsi imperatori e prìncipi al modo di quelli civili. Ora, invece, è all’organizzazione delle Nazioni Unite che si ispirano. Nella nostra organizzazione religiosa c’è tutto il mondo: è per questo che può capirlo realisticamente. Vedete che il nostro padre Francesco ci è venuto dall’altro capo della Terra? Basta entrare in una delle tante università religiose di Roma per incontrarsi con gente di tutto il mondo. Anche i docenti vengono da ogni parte dell’umanità.

  Di fronte ai grandi fenomeni sociali che hanno modificato il nostro vivere sociale molti si trovano impauriti e non capiscono. Perché non posso chiudere le porte della mia nazione come chiudo con le mandate le porte di casa mia, la sera? E, magari, se provassero a immaginare da dove sono venuti i loro avi, scoprirebbero che sono venuti da molto, molto lontano. L’umanità ha sempre girato molto: tutti sono stati spinti dalle circostanze a uscire da casa propria. Noi tutti che abitiamo oggi l’Europa siamo originari dell’Africa, ci dicono gli antropologi confortati dai genetisti. Il sanscrito, l’antica lingua dell’India, ha radici comuni con l’italiano: come è accaduto?

  Si pensa, ad esempio, che più gente arriva da noi, meno lavoro c’è, perché i nuovi arrivati rubano  il lavoro a quelli che c’erano prima. Ma non è così che funziona. Ce lo confermano le scienze sociali. Più gente lavora, più lavoro c’è. E i sistemi sociali più potenti della Terra sono oggi anche i più popolosi. La carenza di lavoro non dipende dalla gente che arriva, ma dallo sfruttamento ingiusto del lavoro. E’ cosa che non potrebbe essere realizzata senza la nostra collaborazione, di noi consumatori. Il lavoro non c’è perché noi consumiamo male. E la stessa cosa che accade con il voto. Com’è, è scritto in un libro che sto leggendo, che la grande maggioranza della popolazione vota secondo gli intessi dell’1% più ricco che detiene quote molto rilevanti della ricchezza sociale, tra il 30 e quasi il 50% di quella totale, a seconda delle nazioni? Consumare meglio aiuterebbe a vivere meglio, perché ci sarebbe più lavoro, ed essendovi più lavoro, più gente lavorerebbe e allora ci sarebbe ancora più lavoro. Queste argomentazioni le potete leggere nell’enciclica Laudato si’.

  Così, venire in parrocchia non significa rifugiarsi  in un mondo di sogno, come quando si entra in un posto come Disneyland. Significa non accontentarsi dei mondi psichedelici  in cui l’economia che sfrutta e ruba lavoro e anche le fedi di tipo psichedelico  vorrebbero rinchiuderci per dominarci meglio. Significa capire che non basta stare meglio, ma che occorre vivere meglio, e che per farlo bisogna imparare a leggere il mondo così com’è, per cambiare quello che non va. Capire>criticare>cambiare: questo è il percorso della liberazione sociale. Alla critica sociale non siamo più tanto abituati in religione. I nostri capi l’hanno temuta, ora però ci spingono verso quell’impegno. Che è una via di laicità perché comporta di desacralizzare  ogni oggetto sociale di conoscenza: non c’è alcun mondo sociale che può invocare l’esenzione alla critica. Perché, come si dice, la società deve sempre essere riformata, che significa cambiata per migliorarla. Questo vale anche per la stessa parrocchia. A volte si concepiscono le organizzazioni sociali come stampelle per le psicologie individuali e allora le si sacralizza, cercando di sottrarle ad ogni critica. Ma la società funziona solo se viene costantemente riformata, altrimenti delude. Non riesce a mantenere le sue promesse e allora, per resistere al cambiamento, spinge verso mondi psichedelici. Le religioni del miracolo  e delle esperienze psichiche aumentate sono un po’ questo. D’altra parte è così facile lasciarsi andare! Ma dove è scritto   che si debba fare così? Non è per esperienze psichedeliche che siamo stati mandati  fino ai più lontani confini.

 

70. Giustizia sociale come conversione. Papa Francesco: lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”.   Note sul discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017

 

 

Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato.

Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.

Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie; non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione.

Lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro.

Convertirsi: cioè fare un passo in meglio.

 

 

  Il 28-6-17 il nostro Padre Francesco, incontrando a Roma i sindacalisti della CISL, ha parlato di economia e società, di giustizia sociale, di sindacalismo buono e corrotto, della necessità di un sindacalismo buono per cambiare in meglio la società attraverso lotte sociali, della necessità di lottare anche per chi i diritti civili non li ha ancora, in primo luogo per i giovani senza lavoro, del legame tra lavoro e democrazia e di un capitalismo che induce in peccato, e in uno dei più grossi, perché disconosce la natura sociale dell’economia e dell’impresa.

   Vedremo come i giornali riporteranno le sue parole oggi. Ieri quelli  che pubblicano su internet e quelli televisivi sono stati un po’ superficiali, si sono concentrati sulla sua critica alle pensioni d’oro, che sono quelle troppo alte, che perpetuano una ingiusta diseguaglianza sociale. Ognuno di noi, naturalmente, ha pensato a quelle degli altri e tutti, in definitiva, a quelle dei parlamentari. Ma, tutto sommato, questo tema non era al centro delle argomentazioni di quel discorso.

  Persona e lavoro devono sempre andare insieme, ha sostenuto Francesco all’inizio, nel senso che il lavoro non deve diventare disumano e che ogni persona deve avere un lavoro. Il lavoro è importante perché l’individuo  si faccia  persona. Nel lavoro  si coopera con gli altri, ci si apre alla società. Ma il lavoro non è tutto. Anche il riposo è importante. Ricordiamocelo ora che cominciamo a vedere esercizi commerciali aperti giorno e notte, senza giorni di festa, senza mai interruzioni. Il nostro Padre Francesco ha parlato addirittura disana cultura dell’ozio.  Ma oltre al riposo c’è lo studio: lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi, ha detto Ma non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi, e anche questo è un diritto. Ci sono le pensioni, per quelli che sono malati o troppo vecchi per lavorare. Ma devono essere pensioni  giuste. Altrimenti si perpetuano le diseguaglianze sociali, diventano perenni. E’ a questo punto che ha criticato le pensioni d’oro, che creano scandalo in un tempo in cui c’è tanta gente che la pensione non l’ha o ce l’ha insufficiente. Le pensioni troppo alte, come quelle troppo povere, sono un’offesa al lavoro,  proprio perché perpetuano le diseguaglianze del lavoro. Il lavoro, quindi, nella concezione del nostro Padre Francesco, dovrebbe avere la funzione anche di ridurre le diseguaglianze sociali, in particolare elevando quelli che stanno peggio. E ha anche ricordato che, a volte, per i malati, che tendono ad essere scartati dal mondo del lavoro, lavorare è parte della terapia: si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.

  Non è ragionevole, sostiene il nostro Padre Francesco, che in una società gli anziani siano costretti a lavorare troppo a lungo, mentre i giovani rimangono disoccupati. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità, ha detto. Il lavoro dei giovani non fa bene solo ai giovani stessi, ma a tutta la società. Occorrerebbe, quindi, ha proposto, un nuovo patto sociale che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare.

  Il lavoro rientra nei fatti economici e in quelli dell’impresa. E’ il mercato che deve dominare tutto? No!, sostiene il nostro Padre Francesco. Economia di mercato, no! Economia sociale  di mercato, invece. Il capitalismo del nostro tempo  ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa,  è per questo che disprezza il sindacato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti.  E’ per questo che occorre un lotta per affermarla: questo è il compito del sindacato. La sua azione, se fa bene il suo lavoro, migliora la società. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari. Non si tratta di scontri tra interessi privati, dei datori di lavoro e dei lavoratori, ma di una questione di  giustizia sociale. Lo si capisce pensano da dove viene la parola sindacato. Dice Francesco: Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”: in questo svolge una funzione profetica. Dice Francesco: “[il sindacato] deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia”. In definitiva occorre lottare. Se la società non apprezza il sindacato, forse è perché non lo vede lottare abbastanza, in particolare nei luoghi dei “diritti del non ancora”, nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro; non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Nelle nostre società capitalistiche avanzate, ammonisce Francesco,  il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia.

  Dimenticare o negare la natura sociale dell’economia e del lavoro è un peccato, e uno dei più grossi, sostiene il nostro Padre Francesco. Allora, non è solo questione di lottare, ma anche di convertirsi. Significa fare un passo in meglio.

Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi: è sbagliato pensare solo al proprio interesse privato, non è il mercato che deve decidere tutto, lì dove i più grossi e potenti prevalgono sui più deboli. E’ attraverso le lotte sindacali che la situazione viene riequilibrata, perché insieme si ha più forza. Se l'economia, con la legge del più forte, minaccia la dignità del lavoro, con la forza del numero e della solidarietà occorre cambiare l'economia. Ma occorre lottare anche per chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.

  I primi commentatori hanno notato che l’apprezzamento di Francesco per il lavoro del sindacato va controcorrente. I sindacati si sono fatti più deboli, hanno meno presa sui lavoratori, anche perché il lavoro si è fatto più precario, meno garantito, addirittura svalutato, e chi ce l’ha teme di perderlo, di essere preso di mira in quanto lavoratore sindacalizzato. Ma è proprio l’eclisse del sindacato uno dei fattori che ha svalutato  il lavoro.

 Le idee esposte dal nostro Padre Francesco ieri sono dagli anni ’70 parte del magistero sociale, della dottrina sociale della Chiesa. Le ritroviamo, ad esempio, in un’esposizione estesa e sistematica nell’enciclica Lavorando [l’essere umano deve procurarsi il pane quotidiano …] , di san Karol Wojtyla, diffusa nel settembre 1981.

[testo sul Web: 

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091981_laborem-exercens.html ]

 Come scrisse il Wojtyla nel finale di quel documento, l'enciclica avrebbe dovuto essere diffusa il 15 maggio 1981, ma il 13 maggio ci fu l’attentato in piazza San Pietro e poté essere riveduta dal Papa solo dopo la sua degenza ospedaliera. Andare contro l’economia egemone può essere molto rischioso.

 Di nuovo, nelle parole di Francesco di ieri, c’è sicuramente la considerazione del dovere di lottare, come sindacato, da lavoratori sindacalizzati, anche per chi il lavoro non ce l’ha, per gli esclusi. Ma come dev’essere questa lotta? La lotta è necessaria e doverosa quando le giuste pretese di una parte sociale vengono rigettate dall’altra. Non ci si può rassegnare all’ingiustizia. La parte forte rifiuta di ascoltare, di sentire ragioni. Ha dimenticato la natura sociale dell’economia. La legge del mercato è a favore dei più forti? Nelle società democratiche ci sono strumenti legali per non accettare questa posizione. I deboli possono farsi forti facendo massa e agendo in modo solidale. Le libertà civili servono anche a questo, a non finire schiavi del mercato. C’è la libertà di parola, di manifestazione, c'è la politica democratica, c’è lo sciopero. In Italia lo sciopero è un diritto sociale riconosciuto dalla Costituzione. E in Costituzione c’è anche la natura sociale dell’economia e della proprietà privata. L’impresa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; in base alle leggi, deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art.41 Costituzione). La proprietà privata deve essere resa accessibile a tutti e deve esserne assicurata la funzione sociale (art.42 Costituzione). Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata  alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art.36 Costituzione). L’organizzazione sindacale è libera (art.39 Costituzione) e lo sciopero  è un diritto (art.39 Costituzione), anche se la legge può regolarne l’esercizio. Queste sono leggi fondamentali della Repubblica.

  L’evoluzione sociale recente richiederebbe modifiche costituzionali per rinforzare la natura sociale dell’economia e del lavoro, ma in genere le proposte vanno in direzione opposta. Si è di solito d’accordo nel notare che il lavoro si è svalutato  e ha perso garanzie. Si giustifica questo con le leggi del mercato: queste leggi però sono incostituzionali e, in particolare dall’inizio dell’attuale fase recessiva, nel 2008, hanno fatto e stanno facendo disastri sociali. In Costituzione non ci sono principi per essere consumatori responsabili. Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, in un’Italia tanto più povera di oggi, non ci si pensava. I consumatori, in genere inconsapevolmente, sono complici dell’ingiustizia sociale.

  Il lavoro che c’è da fare, da fedeli che vogliano rendere ragione delle loro convinzioni religiose, è quello di ragionare sui temi richiamati dal nostro Padre Francesco ieri. Condividiamo la sua posizione? Se sì, perché? Se no, perché? Si tratta di temi sociali e politici sui quali non siamo obbligati a pensarla come un papa. La nostra posizione su di essi ha comunque un significato religioso. Farsi complici di ingiustizie sociali è peccato: questo è magistero etico, sul quale il Papa insegna da papa, autorevolmente. Del resto possiamo facilmente evocare fondamenti biblici: nelle note dell’enciclica Lavorando  che ho citato prima ve ne sono diversi. Dunque, riparare alle ingiustizie sociale richiede propriamente una  conversione. Specialmente quando si pensa che siano ingiusti l’esclusione, l’emarginazione, l’essere senza diritti, in particolare senza lavoro.

 

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI DELEGATI DELLA 
CONFEDERAZIONE ITALIANA SINDACATI LAVORATORI (CISL)

Aula Paolo VI
Mercoledì, 28 giugno 2017

dal Web: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170628_delegati-cisl.html

 

Cari fratelli e sorelle,

vi do il benvenuto in occasione del vostro Congresso, e ringrazio la Segretaria Generale per la sua presentazione.

Avete scelto un motto molto bello per questo Congresso: “Per la persona, per il lavoro”. Persona e lavoro sono due parole che possono e devono stare insieme. Perché se pensiamo e diciamo il lavoro senza la persona, il lavoro finisce per diventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone dimentica e smarrisce sé stesso. Ma se pensiamo la persona senza lavoro, diciamo qualcosa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in pienezza quando diventa lavoratore, lavoratrice; perché l’individuo si fa persona quando si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro. La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione che l’umanità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di persone cooperano semplicemente lavorando: educando i nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando pratiche in un ufficio... Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né sempre intenzionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta avanti il mondo.

Certo, la persona non è solo lavoro… Dobbiamo pensare anche alla sana cultura dell’ozio, di saper riposare. Questo non è pigrizia, è un bisogno umano. Quando domando a un uomo, a una donna che ha due, tre bambini: “Ma, mi dica, lei gioca con i suoi figli? Ha questo ‘ozio’?” – “Eh, sa, quando io vado al lavoro, loro ancora dormono, e quando torno, sono già a letto”. Questo è disumano. Per questo, insieme con il lavoro deve andare anche l’altra cultura. Perché la persona non è solo lavoro, perché non sempre lavoriamo, e non sempre dobbiamo lavorare. Da bambini non si lavora, e non si deve lavorare. Non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi. Ci sono molte persone che ancora non lavorano, o che non lavorano più. Tutto questo è vero e conosciuto, ma va ricordato anche oggi, quando ci sono nel mondo ancora troppi bambini e ragazzi che lavorano e non studiano, mentre lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi. E quando non sempre e non a tutti è riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni. O quando un lavoratore si ammala e viene scartato anche dal mondo del lavoro in nome dell’efficienza – e invece se una persona malata riesce, nei suoi limiti, ancora a lavorare, il lavoro svolge anche una funzione terapeutica: a volte si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.

E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità. È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta.

Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento sindacale deve affrontare e vincere se vuole continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene comune.

La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindacato è espressione del profilo profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. Come dimostra anche la grande tradizione della CISL, il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. Ma nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è la profezia.

Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono delle sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.

Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa. Questo è uno dei peccati più grossi. Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro. Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni in giù, che non hanno lavoro. Qui. In Italia. E voi dovete lottare lì! Sono periferie esistenziali. Non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Non lasciatevi bloccare da questo. So che vi state impegnando già da tempo nelle direzioni giuste, specialmente con i migranti, con i giovani e con le donne. E questo che dico potrebbe sembrare superato, ma nel mondo del lavoro la donna è ancora di seconda classe. Voi potreste dire: “No, ma c’è quell’imprenditrice, quell’altra…”. Sì, ma la donna guadagna di meno, è più facilmente sfruttata… Fate qualcosa. Vi incoraggio a continuare e, se possibile, a fare di più. Abitare le periferie può diventare una strategia di azione, una priorità del sindacato di oggi e di domani. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari. Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.

Vi ringrazio per questo incontro, vi benedico, benedico il vostro lavoro e auguro ogni bene per il vostro Congresso e il vostro lavoro quotidiano. E quando noi nella Chiesa facciamo una missione, in una parrocchia, per esempio, il vescovo dice: “Facciamo la missione perché tutta la parrocchia si converta, cioè faccia un passo in meglio”. Anche voi “convertitevi”: fate un passo in meglio nel vostro lavoro, che sia migliore. Grazie!

E adesso, vi chiedo di pregare per me, perché anch’io devo convertirmi, nel mio lavoro: ogni giorno devo fare meglio per aiutare e fare la mia vocazione. Pregate per me e vorrei darvi la benedizione del Signore.

[Benedizione]

 

71. Le culture, veri miracoli dell’umanità

 

 Le culture umane sono un vero miracolo, un evento prodigioso.

 Cultura significa complesso di costumi, conoscenze, tecnologie, concezioni sul mondo, metodi di relazioni sociali e comprende anche le religioni. Le culture sono in continuo mutamento, per adattarsi alle condizioni delle società umane che le esprimono. Ci consentono di superare i nostri limiti individuali e di specie.

  Come persone abbiamo angusti limiti cognitivi, possiamo intrattenere vere relazioni con più o meno duecento nostri simili, che corrispondono all’incirca a una famiglia allargata di una volta. Del resto è questo l’ambito sociale dei viventi che ci sono più simili. La nostra mente, che governa le relazioni sociali, si è formata circa duecentomila anni fa, è uno strumento biologico molto, veramente molto più antico di ogni nostra civiltà. Le più antiche vengono situate intorno ai diecimila anni fa. La storia  viene fatta iniziare intorno ai cinquemila anni fa, con la pratica della scrittura. Quindi i limiti che abbiamo come individui corrispondono a quelli che abbiamo come specie.

 Come riusciamo a  far funzionare società che globalmente comprendono circa otto miliardi di individui? E’ appunto questo il miracolo ed è prodotto dalle culture. Tra i fenomeni culturali le religioni sono tra più potenti strumenti di integrazione sociale. Mediante la spiritualità consentono di collegare la persona alle società più vaste, che rimarrebbero inconoscibili al singolo per i suoi limiti cognitivi. E anche di collegare passato e futuro, dando una direzione all’evoluzione sociale. E, infine, di pensare una paternità/maternità condivisa, sia come genitori sia come figli, e quindi ad una famiglia umana.

  Ci si può occupare di un’altra persona come fanno un padre o una madre, biologici o adottivi? E’ occupazione che richiede di spendersi totalmente per l’altro. Anche i genitori non lo fanno per l’intera loro vita con la stessa intensità. In questi giorni è stata ricordata la figura di un maestro straordinario, Lorenzo Milani, il quale, in definitiva, si occupò, esercitando anche una vera e propria paternità spirituale e civile, di poche decine di ragazzi. Come estendere quell’intensità ad otto miliardi di persone? E’ appunto l’opportunità che ci è data dalla cultura di una società.

  Ecco perché, nella formazione religiosa e nelle relazioni che si hanno in religione, è importantissimo quel lavoro che si definisce mediazione culturale.

 

72.Partire da lontano per capire i vicini

 

Ma che ci serve ragionare su fatti di duecentomila anni faper lavorare in parrocchia? Ma anche solo diecimila anni indietro non sono troppi? Non basta guardare ciò che si ha intorno?

 Non basta.

 Non è così che si ragiona in religione.

 C’è una parte delle Scritture che mi ha sempre terrorizzato. E’ dove si legge di com’era prima che arrivassero gli esseri umani. Si comincia veramente da molto lontano. Da un universo informe che man mano diventa più simile a quello che ci  è familiare. Ci sono state ere in cui non c’eravamo! Poi  comincia a girare gente simile a noi, ma le civiltà vengono dopo. Tornare indietro non si può. E’ scritto che degli angeli sbarrano la strada, con spade fiammeggianti. Il tempo, il nostro tempo, ha una direzione, un orientamento, va avanti. C’è un prima, c’è sempre un dopo diverso dal prima,  e noi che brulichiamo in mezzo, un po’ come gli altri viventi. Brulicare? Per gli esseri umani si capisce che non si tratta solo di questo. Ad un certo punto è scritto delle nazioni. Ce n’è un lungo elenco, veramente difficile da ricordare. La gente  si disperde  per tutta la terra, ma ormai ha un’organizzazione politica. La storia sacra comincia più o meno quattromila anni fa tra l’attuale Iraq e l’attuale Egitto, nel corso di una lunga migrazione, da Meridione a Settentrione e poi da Oriente a Occidente e di nuovo verso Meridione.. Più o meno nello stesso periodo si pensa che i Latini siano scesi in Italia. Facevano parte di popoli  che gli studiosi chiamano  indoeuropei  e che erano migranti.  Parlavano lingue che avevano caratteristiche comuni. Nell’Enciclopedia Treccani se ne elencano dodici rami: Indiano (sanscrito e altre lingue), Iranico, Tocario, Armeno, Albanese, Greco, Italico, Celtico, Germanico, Baltico, Slavo, Hittito. C’è anche una certa parentela tra i parlanti quelle lingue? Le indagini genetiche cominciano a darci risposte. Ci consentono di ricostruire lunghissime migrazioni di popoli dal luogo originario, in Africa,  a oriente della Valle del Rift, dalle parti tra la Tanzania, l’Uganda e l’Etiopia. Ma al centro della storia sacra ci sono i semiti, che parlavano lingue di una diversa famiglia. Gli Hittiti compaiono in Gen 15,20. Vengono riferiti loro discorsi in Gen 23.  Ma non  è sicuro che si tratti degli Hittiti che parlavano indoeuropeo. La loro civiltà infatti si diffuse più tardi. Tra tutte queste civiltà antiche, ognuna con la sua cultura, non è facile raccapezzarsi. Perché, poi è diventato più semplice? Assolutamente no. Quando la storia,  quindi le culture umane, fanno la comparsa nelle Scritture, tutto si complica. Di quella storia bisogna però raggiungere una memoria affidabile  e quelle culture vanno capite, a partire dalle loro lingue. Le Scritture sono fatte per essere lette e capite, ma non sono una lettura facile: vengono da varie culture, molto antiche, e molte generazioni ci hanno lavorato sopra per trasmetterne una memoria affidabile. Ma lo hanno fatto secondo le proprie culture, quindi, studiando, si può riconoscere la mano e il pensiero di chi ha collaborato nella tradizione.

  Che cosa sono quattromila anni, sui circa duecentomila della nostra specie? Non tutto ciò che è importante per noi è compreso negli ultimi quattromila anni. La nostra mente, ad esempio. E’ più o meno quella di duecentomila anni fa. Così come il nostro corpo. Le culture, invece, si sono evolute sempre più rapidamente, in particolare negli ultimi due secoli, ma in modo veramente frenetico negli ultimi cinquant’anni. Questo crea dei problemi. E’ come se il tempo accelerasse. E indietro non si può tornare. Ricordate, ci sono quegli angeli  a chiudere la strada.

  Oggi siamo preoccupati delle migrazioni umane. Perché? Possiamo considerare gli esseri umani dei migranti nati. E’ invece la rapidissima evoluzione delle culture che costituisce un bel problema. Ne va infatti della nostra vita. Per consentire la sopravvivenza di un’umanità di circa otto miliardi di persone occorre integrarle così rapidamente come evolvono. Capire  per trasformare  per sopravvivere: ecco che cosa c’è da fare, ma molto più velocemente di prima.

 E la religioni? Fanno parte di quelle culture che evolvono, si sono evolute anch’esse, alcune molto rapidamente, in particolare la nostra, che è stata quella praticata dai dominatori del mondo, gli europei. Ci sono segni che il loro, il nostro, dominio stia tramontando. Si sta affacciando nel mondo, tra  i dominatori, la cultura cinese, che è in cerca di una neo-religione; oggi è ancora piuttosto europeizzata. Forse, nell’era della fine, anche l’evoluzione della religione degli europei si farà più lenta. Ma per ora condivide quella, velocissima, delle culture che li caratterizzano.

 Ma c’è qualcosa che  rimane?

 E’ appunto questo il problema della mediazione culturale. Non si tratta, come sostengono i reazionari, di  adattare  la religione ai gusti  dei contemporanei. Si tratta di riconoscere nella religione ciò che è espressione di culture sorpassate dall’evoluzione sociale e ciò che non lo è, ma appartiene alla struttura originaria  della fede. Quando cambia quest’ultima si passa ad un’altra religione. Il resto può evolvere senza problemi. E se non si riesce a farlo, la religione diventa cultura inutile e passa tra le cose che vengono superate.  Nessuno oggi, nell’Europa di oggi, si sente, in genere, obbligato a sterminare i vinti, come troviamo prescritto in alcuni passi delle Scritture, molto antichi. Così, ai tempi nostri, in Europa, riteniamo barbaro punire con la morte gli eretici o i blasfemi. Nelle Scritture lo troviamo invece prescritto, anche qui in passi antichi. Ma molto a lungo in Europa la si è pensata così, fino a circa tre secoli fa: è stato l’emergere delle democrazie moderne ad aver cambiato, tra gli europei, quelle concezioni. Sterminare i vinti e massacrare eretici e blasfemi non rientrano, evidentemente, nella struttura originaria della nostra fede. Ci siamo convinti che si poteva farne a meno. Ci ha convinti un lavoro di mediazione culturale.

  Una cultura si può anche immaginare. L’immaginazione dà una certa libertà. I rivoluzionari in genere immaginano,  poi progettano  e infine agiscono. Ma fino a che punto è utile immaginare  in religione? Le Scritture sono piene di sogni  e di sognanti.  Ma che succede a quelli che immaginando  finiscono per vivere in un sogno? Ci sono quelli che, ad esempio, sognano  di riportare indietro la storia e di far rivivere culture del passato, recente o meno recente. Che succede poi, nel confronto con la realtà?

  Ad altri piace immaginarsi  un passato, liberamente interpretato, da calare nel presente. Allora non è neanche il passato che si vuole fare tornare, ma è un neo-passato  che si vuole costruire.

 Si tratta di esperienze realmente vissute in religione, tante volte.

 Non c’è mediazione culturale se non si resta ancorati alla realtà. Abusando dell’immaginazione si pensa di sopprimere uno dei poli da mediare.

 Nell’immaginazione le cose sembrano facili, perché, nel sogno, si superano i limiti della realtà sociale in cui si opera. Ma quando poi ci si sbatte contro? Non si è fatto lo sforzo di capirla e i sogni funzionano solo nel tempo dei sogni, che è limitato. Si costruiscono così Disneyland  religiose, belle per esperienze forti  limitate. Allora c’è il mondo del sogno, quello della religione, e quello reale: si va dall’uno all’altro, ma lo stacco  c’è, si avverte, le regole per vivere nei due mondi sono diverse. La cultura però è una sola, quella reale, l’altra è solo sogno. La religione in questo modo diventa psichedelica perché introduce in realtà di sogno, che realtà però non sono e presto svaniscono. Non è questo che, oggi, mi pare  ci venga  chiesto come fedeli.

  Tornare indietro non si può! Ci sono quegli angeli, di cui ho scritto sopra, che lo impediscono. Non si può essere reazionari in religione. E dove c’è, nei fondamenti della nostra religione, l’autorizzazione a vivere realtà psichedeliche? Non è vero che siamo stati mandati per il mondo a incontrare  tutte le genti? Anche alle Valli è così. Conosciamo la gente tra la quale viviamo, qui nel nostro quartiere? Capiamo la loro cultura? E’ questo il nostro problema, che è poi il problema di sempre dell’umanità, da quando c’è la storia  e ci sono le culture. I nostri limiti cognitivi di specie ci rendono difficile incontrare moltitudini: ma la spiritualità  è un mezzo potente per riuscirci. Nella comune spiritualità riusciamo a incontrare  gente che nella nostra vita non riusciremo mai a conoscere. La spiritualità religiosa, allora, non è necessariamente evasione dalla realtà, ma può essere  un mezzo molto efficace per immergervisi e capirla veramente. Accostando grandi maestri di spiritualità si ha la sensazione di uscire dalla cecità, di vedere finalmente le cose come sono. Come è scritto: “Si aprirono i loro occhi”.

 Restare ancorati alla realtà non è sempre facile, perché è in genere è faticoso, richiede un impegno costante, un’etica,  e può anche essere doloroso. La realtà infatti in genere è meno bella di come vorremmo, delude i nostri sogni. Di una parte del male che in essa c’è siamo corresponsabili; questo la rende, oltre che dolorosa, disonorevole. Si rivive l'esperienza della narrazione biblica della cacciata dal Paradiso terrestre. Tra cinquant'anni, probabilmente, gli storici tratteranno gli europei di oggi, per come si sono condotti con i migranti, come i peggiori criminali sociali del passato. Però noi, adesso, ci consoliamo con un’altra narrazione, in cui noi siamo poveri e buoni, e per questo incolpevoli, e gli altri sono gli aggressori. Eroici, siamo: è stato detto. Davvero ci crediamo? Qualche eroe c’è veramente. Ed è ogni persona che riesce a salvare una vita a rischio della sua. E’ benedetto chi fa così. Ha un posto nel Regno, è scritto. In religione si pensa che non ci sia segno di benevolenza   più grande. Incontrare  veramente la gente, capire  veramente le culture umane, spinge in genere a quel cambiamento profondo di mentalità che definiamo  conversione e che può essere espresso anche con le antiche parole metànoia  (greco antico, la lingua delle Scritture originate dalle nostre prime collettività di fede) o teshuvah (ebraico, la lingua delle Scritture più antiche). E’ questo che poi spinge a salvare le vite degli altri.

 

73. Come si è popolo in religione?

 

 Che cos’è un popolo?

 E’ una questione molto importante, perché, in religione, riteniamo di essere un popolo.

 La risposta che si dà rileva anche in sede locale, in una realtà come la parrocchia.

 Nel pensiero giuridico il popolo è gente soggetta ad un’autorità politica riconosciuta ed effettiva in un determinato territorio. Per circa mille anni, dall’Undicesimo secolo e fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965) la nostra gerarchia del clero ha voluto essere quell’autorità, in religione. Nel primo millennio, dal Quarto secolo della nostra era, quell’autorità è stata invece impersonata da monarchi civili, a partire dagli imperatori romani con potere politico sacralizzato  secondo la nostra fede. La conquista dell’autorità propriamente politica da parte del papato romano si ha tra l’Ottavo e l’Undicesimo secolo. Alla fine del processo, il papato romano si presenta e vuole farsi accreditare dagli altri monarchi civili come suprema autorità politico-religiosa. Questo storicamente ha generato conflitti politico-religiosi per tutto il Secondo millennio e, tutto sommato, anche ai nostri giorni. Un conflitto di questo tipo è quello che si nota tra l’autorità del Papa attualmente regnante e il presidente statunitense Donald Trump, che diffondono magisteri antitetici. In epoca contemporanea scontri del genere ci sono stati con il liberalismo, il nazionalismo italiano di impronta cavouriana-mazziniana, il cristianesimo-democratico e, particolarmente acceso e irriducibile, con il socialismo e ancor più con il comunismo di tipo marxista leninista, in particolare con quello, di tipo neo-religioso, diffuso dal regime sovietico.

 In sostanza, per circa mille anni, il papato romano si è fatto insegnare l’autorità politica dalla cultura dei propri tempi. Questo è accaduto anche quando iniziarono a svilupparsi processi democratici, dal Settecento. L’apprendimento della democrazia è stato però particolarmente faticoso, travagliato, controverso ed è ancora in corso.

 Le democrazie contemporanee teorizzano la sovranità  del popolo. Si tratta di una rivoluzione culturale di grande rilevanza nella storia dell’umanità. Il popolo è definito dalla soggezione ad un’autorità politica, ma quest’ultima la si vuole nelle mani del popolo.

 La riflessione sul popolo e sul suo ruolo nelle dinamiche religiose è stata al centro del dibattito svoltosi tra i saggi riuniti a Roma nel Concilio Vaticano 2°. Non è stata detta una parola definitiva. Si è lavorato anche su dogmi, sulle concezioni ritenute fondamentali per definire la fede. Il risultato è stato un compromesso: è stata mantenuta l’antica struttura feudale del potere del clero, affiancando i laici, vale a dire il resto del popolo come consulenti e forza operativa nella vita civile. Questo ha generato notevoli tensioni che si sono manifestate in particolare nel decennio seguente quel consesso, negli anni ’70, nella fase attuativa. Nel lungo pontificato di Karol Wojtyla si sospese d’autorità il dibattito, per quanto quel Papa avesse chiara consapevolezza della latenza del problema, in particolare della necessità di ridefinire il ruolo del papato. L’accettazione della democrazia politica nell’organizzazione delle società civili, venuta nel 1991 con l’enciclica Il Centenario, di quel Papa, conseguì a un decennio di sperimentazione in Polonia di un’azione politico-religiosa in cui i laici erano stati fondamentali, realizzando il passaggio da un regime di totalitarismo di tipo sovietico marxista leninista ad una democrazia di tipo Occidentale, realizzata a partire dal 1990, con la presidenza di stato del cattolico Lech Walesa, strettamente legato al Wojtyla. Tuttavia il modello di integrazione che aveva funzionato nella Polonia degli anni ’80 non lo ha fatto più bene in regime democratico: si ebbe l’affermazione di un nazionalismo sacralizzato, con sostanziale strumentalizzazione politica della fede. La società polacca, nel complesso, appare ampiamente laicizzata, molto distante dagli ideali religiosi nella vita pratica, al mondo delle altre società civili dell’Europa settentrionale.

  Negli sviluppi dell’attuazione dei principi del Concilio Vaticano 2°, si è riconosciuto:

-che clero e laici fanno parte di un medesimo popolo;

-che entrambi hanno diritto ad avere voce.

  Tuttavia, in genere, la voce del popolo  è silenziata da quelle dei centri di potere del clero. Tutto il potere politico-religioso è in fondo rimasto al clero. Negli istituti di partecipazione, i vari  consigli che si sono fondati, il ruolo dei laici, in genere, non va oltre quello di docenti  e di consulenti.

 Ai tempi nostri le democrazie occidentali manifestano una crisi generalizzata. E’ stato osservato che il potere politico si è trasferito ad entità diverse da quelle costituzionali. Niente di soprannaturale, anche se spesso soggetti come il mercato vengono presentati con caratteristiche di quel tipo. La globalizzazione, l’unificazione totale dei modi di produrre e di commerciare, ha richiesto accordi sovranazionali i quali hanno definito un’autorità politica globale che è la risultante delle potenze economiche che controllano i mercati e i flussi finanziari.  La creatura, originata da accordi tra stati, è sfuggita al controllo di questi ultimi. Il nostro stile di vita in Occidente, ma in genere anche nelle altre parti del mondo, dipende dal mantenimento di quell’assetto politico, che però impedisce di realizzare giustizia sociale perché consente una sorta di extraterritorialità  del capitale: significa che chi ha risorse da investire può rapidamente sganciarsi da ogni situazione di crisi sociale e industriale, mettendosi al riparo, con i propri soldi, altrove.   Da questo deriva la crisi dello stato del benessere, quello che correggeva le diseguaglianze con prestazioni pubbliche di benessere, come sanità e previdenza sociale. Ha sempre meno risorse.

  La crisi delle democrazia occidentali non favorisce certo l’acculturazione alla democrazia in religione. Si comincia a pensare di poterne fare a meno. In religione di praticano poco i processi democratici e, soprattutto, non si è sviluppata, o non a sufficienza, una spiritualità  adeguata. Coesistono, principalmente, spiritualità del passato. Quando si passa alla pratica, a cercare di impersonare quella spiritualità sorgono problemi.

 Ad esempio: il Papa regnante vive in un albergo, in un bell’albergo in Vaticano, ma pur sempre in un albergo. Questo urta molti. La spiritualità del Papa-Re è ancora molto diffusa. Ma è in genere il modello dell’episcopato monarchico che non soddisfa più. La linea infatti è data, in genere,  dalla Conferenze episcopali, organismi che risentono di processi democratici.

  In un documento come l’enciclica Laudato si’ il laicato è stato molto di più di un’accolita di consulenti. Lo ha riconosciuto espressamente il suo autore. Dal laicato sono emersi i principi di azione sociale, che poi si sono innestati in una nuova spiritualità nella quale si avverte l’impostazione del Papa regnante. Il compito del  popolo  di fede, oggi, non solo quindi del laicato, è di continuare in quella direzione, sperimentando il nuovo prima di teorizzarlo e teorizzandolo mentre lo si sperimenta.

 

74. Popolo sognato

 

  La teologia, in genere, non ha un’immagine realistica del popolo, ed essa è la parte più importante della formazione dei nostri capi religiosi. Eppure, teorizzando, dà molta importanza al popolo in tema di verità: in sostanza esso avrebbe un intuito innato per individuarla, anche se poi c’è sempre necessità di qualcun altro che gliela spieghi.

 Nella  Costituzione La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) si legge: «L'universalità dei fedeli, che hanno l'unzione ricevuta dal Santo (cf. 1 Gv. 2, 20 e 27), non può ingannarsi nel credere, e manifesta questa sua singolare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" (S. Agostino, De Praed. Sanct. 14, 27) esprime l'unanime suo consenso in cose riguardanti la fede e i costumi». Se ne è anche scritto come di infallibilità del Popolo di Dio (ad esempio nella Dichiarazione circa la Dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori d'oggi, diffusa nel 1973 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede).

  Mille anni di crudele polizia ideologica religiosa (modello di tutte le altre inquisizioni politiche) potrebbero però convincerci del contrario: questi sono fatti. Se è necessario trucidare la gente per mantenere la disciplina dottrinale, non è proprio evidente che verità  e popolo vadano naturalmente d’accordo. Ma che cos’è la verità? E’ una domanda che risuona anche nelle Scritture. Di fatto sembra che non sia mai stato facile stabilirlo. Se ne è discusso molto per tutti i due millenni della storia della nostra fede. Spesso non ci si è intesi e allora ci si è anche combattuti. Accade anche ora, ma i limiti all'accanimento contro gli altri imposti nei sistemi democratici impediscono esiti tragici.

 C’è un verità che riguarda anche il  popolo. Qui bisogna scegliere: averne una visione affidabile, corrispondente alla sua realtà, o immaginarsela per progettare qualcosa di diverso. Da chi è fatto il popolo che rileva per la fede? Oggi, in genere, si pensa che sia l’intera umanità, su tutta la Terra. Se ne vorrebbe fare una sola famiglia. In passato se ne ebbero altre concezioni, più limitate. E’ un po’ quello che accade ai tempi nostri con i migranti indesiderati, quelli che vengono dalle nostre parti senza permesso. E’ gente di cui dobbiamo occuparci? Una risposta, che è quella che è venuta l’altro giorno da uno dei capi politici italiani, e prima di lui da altri come lui, è che Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. Aiutiamoli a casa loro”. Che significa: respingerli. Di parere diverso è il nostro Padre Francesco, che ci esorta invece ad accoglierli. Entrambi ritengono che si debba aiutarli, ma, è chiaro, una cosa è darsi da fare subito, su gente che si ha vicina, su persone concrete, con necessità immediate, altra  programmare di farlo da lontano. Da vicino le persone sono veramente persone.  Da lontano le persone diventano gente  e poi  popolo, e popolo di cui, per la lontananza, si tende ad avere una visione confusa, come appunto accade quando si guardano le cose da lontano. E, aggiungo, quando ci si comincia a fare sconti sui doveri morali è poi tutta una china che va verso quella direzione e, in fondo, ripete la tragica situazione che troviamo all’inizio della storia  sacra con quel “Dov’è tuo fratello?”.

   Nella nostra confessione la verità  è stata legata storicamente all’autorità, non al popolo. Si è pensato che la verità,  scesa del Cielo, fosse proclamata in modo affidabile, ma anche obbligatorio, dall’autorità religiosa costituita, che a metà Ottocento è stata poi definita inderogabilmente nel papato, dal punto di vista dogmatico e giuridico. Vale a dire che si ritiene fondamentale, per la fede,  credere che il papato possa dire in merito una parola definitiva. E questo nonostante la catena infinita di errori  che il papato imperiale, come ogni altra autorità politica, ha commesso storicamente in ogni campo dello scibile umano, a volta correggendosi e a volte no. Insomma si confida che in materia di fede, quando  usa certe formule solenni  e impegna la propria autorità sacrale, il papato non sbagli.  La decisione di quella svolta dogmatica  venne in tempi turbolenti, nel corso di un travagliato Concilio Vaticano 1°,  quando, in fondo, la fiducia dei nostri capi religiosi nella capacità del popolo di intuire la verità era veramente ai minimi. Infatti sembrava che stesse per crollare un mondo. E’ un po’, in fondo, anche la situazione dei tempi nostri.

  In genere l’autorità religiosa si è ritagliata  il proprio popolo   a misura delle definizioni di verità di volta in volta escogitate. Il suo popolo era  quello che subiva il fascino della verità proclamata d’autorità e come gregge  seguiva il suo pastore e la sua voce, senza porre problemi.  Ma questo modo di procedere non ha funzionato più tanto bene quando si è trattato di interloquire in processi democratici. Questo si è reso necessario più o meno dall’Ottocento, in Europa, con la metamorfosi, e talvolta il  crollo, delle monarchie europee con cui il papato si era federato, con  concordati  o accordi simili. Questo in particolare in rapporto con   i movimenti nazionalistici italiani prima e con il Regno d’Italia poi.

  Innanzi tutto, con la fondazione dell’Azione Cattolica, all’inizio del Novecento (ciò che c’era prima nel laicato italiano era piuttosto diverso), si è tentato di costituire un corpo politico coerente agli ordini del papato. Poi, dal secondo dopoguerra, si è accettata una collaborazione politica dei laici con sempre maggiore autonomia, nelle istituzioni pubbliche civili, fino alla formale accettazione della democrazia politica nel 1991. In questa fase sono tornati utili il lavoro sistematico di formazione del laicato fatto nei decenni precedenti e il ripianare i contrasti con la componente cattolico-democratico del laicato, con la mediazione di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro. Negli anni a seguire, quindi negli anni ’90, si è provato a riprendere il controllo diretto del popolo che politicamente serviva, senza la mediazione dei cattolico-democratici, ma non è andata bene e ora non si sa più che fare. La lunga sfiducia manifestata sotto il regno religioso di Karol Wojtyla verso il laicato adulto italiano, vale a dire relativamente autonomo, quello che Fulvio De Giorgi ha paragonato in un suo fortunato libro al brutto anatroccolo, con il tentativo di silenziare il libero dibattito sulla maggior parte delle questioni per sospetto di deviazione in senso liberale o marxista,  e ciò  più o meno fino all’inizio del regno del nostro Padre Francesco, ha privato, in fondo, la gerarchia di un vero e proprio popolo. Del resto non se ne è curata a sufficienza la formazione, non si è assecondata una tradizione democratica, timorosi di perderne il controllo.

  Ora spesso si avverte, da come ne parlano, che i nostri capi religiosi non conoscono a sufficienza il loro popolo, impegnati come sono in prevalenza, per la gran parte della loro giornata che è di ventiquattro ore come quella di tutti noi, nell’amministrazione  del clero e dei religiosi degli istituti di vita consacrata,   e dei beni e aziende che al clero e agli istituti di vita consacrata fanno riferimento. Francesco vorrebbe che avessero l’odore del gregge, vale a dire che avessero maggiore dimestichezza con la gente, ma anche questa è una metafora che presenta qualche rischio. Quando si parla di pastori  ci si riferisce ai capi, che dovrebbero essere come il Buon Pastore, un pastore veramente particolare, che non sfrutta economicamente il gregge. Ma pensare poi al popolo come a un vero e proprio gregge, con la spiritualità, diciamo, della pecora, non aiuta. Le persone non sono pecore, non vanno dove si dice loro di andare: bisogna convincerle e spesso vogliono partecipare alle scelte.  Noi laici non siamo e non vogliamo essere pecore e, dico chiaramente quello che gran parte di noi pensa e non si azzarda in genere a dire, non riteniamo la docilità al modo di pecore una virtù. Tra pastore  e gregge non ci può essere dialogo. Tra persone sì. Ma la partecipazione e il dialogo, che è innanzi tutto confronto  tra diverse argomentazioni, richiedono un tirocinio che in religione in genere non si fa o si fa troppo poco.  In Azione cattolica, ad esempio, si fa.

  Il  gregge  ideale venne talvolta individuato nel mondo contadino. Accadde nell’Ottocento. Le popolazioni cittadine erano invece esposte, si riteneva, alle subdole insidie delle nuove ideologie che si venivano affermando. I pastori  dovevano proteggere gli uni e gli altri, contadini e cittadini, con atteggiamento intransigente, senza possibilità di mediazioni di qualsiasi genere. Si riteneva che non si dovesse, non si potesse,  ma in definitiva non si volle fare diversamente. Ruppero con  il nuovo stato nazionale italiano. Questa fu fondamentalmente la posizione del papato dal 1870 alla fondazione dell’Azione Cattolica nel 1906. Fu la privazione della democrazia per i fedeli cattolici: una tragedia culturale e politica durata circa cinquant'anni, e anni cruciali per la vita politica italiana. Ma il mondo contadino serviva a poco, al dunque, perché era una forza sociale subalterna e finché fosse rimasta tale, sebbene, almeno fino agli inizi del Novecento molto numerosa, molto più di oggi. Questo richiese la collaborazione delle classi colte e un lavoro di formazione sistematico tra la gente, a partire dai più piccoli: fu affidato all’Azione Cattolica. In Italia, si era iniziato spontaneamente a svolgerlo, da parte dei laici, nella seconda metà dell’Ottocento, ma erano sorti, verso la fine del secolo, gravi dissidi tra correnti  intransigenti  politicamente contrarie all’integrazione nel nuovo stato nazionale italiano e correnti democratiche. L’enciclica  Le novità, del 1891, dalla quale si fa iniziare la dottrina sociale contemporanea, venne dopo almeno due decenni di iniziative sociali di laici e preti.  Esse si manifestavano periodicamente in un’istituzione nazionale che era l’Opera dei Congressi, sede di incontro per coloro che in quelle azioni sociali erano impegnati. Non riuscendo a controllare la situazione, il papato ripartì da capo con l’Azione Cattolica, ad inizio Novecento, dopo aver posto termine d’autorità a ciò che c’era prima. Fino al 1958, quando terminò il regno religioso di Eugenio Pacelli, la struttura era centrata su un potere religioso-politico sacralizzato e centralizzato, il papato romano, regnante religioso alla cui maestà la gente si  accostava al modo in cui faceva con  i regnanti civili, con lo stesso timoroso e sottomesso ossequio, e su masse politicamente e sistematicamente formate a seguire gli indirizzi politici del papato nelle questioni civili (per sostenere i diritti della Chiesa). Una soluzione che ebbe notevole successo e che consentì un ruolo determinante dei cattolici nella fase politica successiva alla caduta del fascismo. Dal ‘58 si attivarono processi democratici e si ebbe una progressiva desacralizzazione del potere politico del papato, sostituita dal  fascino personale del regnante. Si cominciò con il Papa-buono, Angelo Roncalli, e poi con la spettacolare e lunga esperienza di Karol Wojtyla. In questa fase la relazione mediatica tra regnante e masse fu molto importante e la gente fu spinta a diventare popolo del Papa: un papismo ingenuo, non sacralizzato, in cui la personalità e la vita del regnante erano molto importanti e conosciute fin nei minimi dettagli (cosa inimmaginabile riferita ai papi  sacrali  regnanti fino al 1958). Dagli anni ’80 il lavoro di formazione del laicato progressivamente si fece meno efficace e i processi democratici annichilirono. Si riteneva, in definitiva, che fosse sufficiente l’immedesimazione  emotiva del popolo con il regnante, che, nei grandi eventi di massa, appariva così efficace. Questo ha creato un vuoto, una distanza, tra pastori  e  gregge, per cui ci si conosce poco. Per la gente comune c’è stata, dunque, e  a lungo, prevalentemente la spiritualità-spettacolo, di massa, senza vera partecipazione, ma solo presenza; per una stretta cerchia di consulenti c’è stata la possibilità di avvicinare i capi religiosi ma senza alcuna vera condivisione di responsabilità. Della partecipazione, in fondo, si diffidava e non si sapeva nemmeno come gestirla: per questo divenne carente anche la formazione.  Dal 2005, in Italia,  si è tentato di rimediare: è del marzo di quell’anno la Lettera ai fedeli laici  - “Fare di Cristo il cuore del mondo”   dellaCommissione Episcopale per il laicato  della  Conferenza Episcopale Italiana, nella quale si legge:

“A volte, può essere che il laico nella Chiesa si senta ancora poco valorizzato, poco ascoltato o compreso. Oppure, all’opposto, può sembrare che anche la ripetuta convocazione dei fedeli laici da parte dei pastori non trovi pronta e adeguata risposta, per disattenzione o per una certa sfiducia o un larvato disimpegno. Dobbiamo superare questa situazione. Una cosa è certa: il Signore ci chiama; chiama ognuno di noi per nome.

[…]

È indispensabile uscire da quello strano ed errato atteggiamento interiore che faceva sentire il laico più “cliente” che compartecipe della vita e della missione della Chiesa.

[…]

 Se lo Spirito Santo è il protagonista ultimo della vita personale, così come lo è della vita della Chiesa, non si può ritenere che ci sia un’isola spirituale, cioè la comunità ecclesiale in cui affidarsi alla guida dei pastori, e uno spazio operativo, cioè il mondo, dove si è soli con la propria autodeterminazione. La responsabilità laicale comincia nel partecipare attivamente là dove si assumono i grandi orientamenti delle scelte cristiane sotto la guida di pastori; la fedeltà a Cristo e alla Chiesa continua là dove si vive immersi nel mondo e nella relativa autonomia dei suoi ambiti. Parte integrante di questa sintesi di vita del laico è la capacità di raccordare sapientemente il suo essere e servire nella Chiesa, con il compito di animare cristianamente la realtà del mondo.

 […]

In questo momento storico, in cui si va plasmando la complessa fisionomia di una nuova civiltà planetaria; mentre la comunità cristiana italiana si prepara a celebrare nel 2006 a Verona il suo quarto Convegno ecclesiale nazionale, che ruoterà intorno a tali problemi, c’è bisogno di una nuova primavera del laicato, che possa letteralmente rianimare, in forme significative e comunicabili, tutti gli ambiti di vita in cui un fedele laico può essere apostolo: nell’evangelizzazione e santificazione, nell’animazione cristiana della società, nell’opera caritativa; nell’azione pastorale della Chiesa, così come nella famiglia e nella vita pubblica; in forme individuali e associate; delineando un nuovo stile di vita, segnato dalla conversione dell’intelligenza e degli affetti, in cui l’intera rete delle relazioni con se stesso, con gli altri e con il creato sia abitata dal soffio dello Spirito. Ma per fare ciò bisogna ovviamente pregare, riflettere, estrarre dal nostro tesoro «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52): essere cioè veri cristiani.”

   Da allora però non si è fatta molta strada.

    Venuto meno un regnante religioso  con la personalità e l’indole adatte agli eventi spirituali spettacolari, ci si è avveduti che la gente è preda del populismo, che è quando ci si fa massa dietro a colui che conferma la gente nelle sue paure o nelle sue tentazioni.  Ma anche l’immagine del popolo che danno i populisti  è poco aderente alla realtà. Il populismo, come certi fatti religiosi, è solo incantamento e, in genere, ha le gambe corte, come si dice delle bugie, e disillude presto. Rimangono le persone con i loro problemi di vita e accostarle costa fatica, ma alla fine produce, crea relazioni più significative. Nel contesto dell’individualismo dei nostri giorni, in cui sembra che ognuno viva per sé, o al massimo in famiglia, possiamo figurarci un popolo  disperso.  Le scorciatoie mediatiche per radunarlo si sono dimostrate piuttosto inefficaci: al massimo fanno convergere una folla, che rapidamente si disperde, nel giro di qualche ora o al più di qualche giorno. Eppure, come si sostiene fin dall’antichità, gli esseri umani sono viventi sociali. E’ sufficiente creare delle opportunità e si stabiliranno nuove relazioni. Ma bisogna accettare le persone per quelle che sono,  vale a dire esseri umani, non pecoregregge.  Sì, in effetti noi laici abbiamo avuto l’impressione di essere stati poco valorizzati,  ma anche più di questo: sappiamo di contare poco o nulla. Si parla di noi laici, nei convegni che fanno sulle nostre vite i nostri capi religiosi, ma ci è abbastanza chiaro che di noi, di quelle nostre vite, non sanno molto e, in più, decidono sulla base di molti partiti presi di dubbio fondamento. Così, si coesiste ignorando tutto ciò, facendo finta che tutto vada come deve. Quindi poi esistono due mondi, affiancati non integrati: quello delle vite dei laici e quello del clero e dei religiosi. Ci si accosta perché si ha bisogno gli uni degli altri, ma c’è poco più di questo. Potrebbe essere diverso? Potrebbe. Perché no? Ma certe cose occorre inventarsele, e prima ancora sperimentarle. Non sarà dall’ambigua teologia pastorale corrente, piena di distinguo e di riserve, per cui con una mano sembra che si dia ma con l’altra sicuramente si riprende, che verranno le soluzioni. Se il principio rimarrà “tutto il potere al clero”, non si andrà molto avanti. Il gregge  rimarrà tale e tanti saluti a tutto…

 

75. Grandi orizzonti

 

  Quando fu eletto papa Karol Wojtyla, nell’ottobre del 1978, ci trovammo in mezzo alla grande storia. Questo mentre il laicato italiano era prevalentemente occupato in faccende di rilevanza molto minore, nazionale. I  movimenti  della destra religiosa, quelli che volevano riportare le nostre collettività di fede ai tempi del papa Eugenio Pacelli, a prima del Concilio Vaticano 2°, battagliavano con i cattolico-democratici accusandoli dell’apparente dispersione della gente di fede, in particolare della crisi del nostro associazionismo. Si proseguì così per gran parte degli anni ’80, finché il mondo cambiò e sulle nostre collettività di fede scese una lunga era glaciale, in cui tutto fu silenziato, sospeso. Tutto fu sostituito dalla stupefatta adesione al magistero religioso e politico del Wojtyla, attorno al quale si costruì la leggenda che fosse l’artefice principale del crollo dell’impero sovietico. Come resistergli?

   Di quella storia fui testimone: ho l’età per esserlo e mi interessava molto.

   Il lungo regno religioso del Wojtyla fu caratterizzato da un attivismo politico internazionale intensissimo, al modo dei Papi della prima metà del secondo Millennio. Egli, profondo conoscitore della situazione politica dell’Europa orientale caduta sotto il dominio del sistema sovietico, aveva intuito la metamorfosi incipiente dei comunismi dell’Europa orientale, analoga e parallela a quella che si stava producendo anche in quelli dell’Europa occidentale. All’inizio degli anni ’80 ci credevano in pochi.  Egli si illudeva che ciò avrebbe aperto opportunità alla vita di fede: come ora sappiamo, in questo si sbagliava.

  Per capire il senso dei suoi orizzonti si possono leggere le sue encicliche politiche, la “Il Redentore dell’uomo”, la  “Lavorando” e la “Il Centenario”, quest’ultima per commemorare il secolo dalla prima enciclica  della dottrina sociale contemporanea, la “Le novità”, del 1891.  Erano grandi orizzonti, anche se centrati prevalentemente sull’Europa. Wojtyla previde che nel giro di pochi anni l’Europa si sarebbe unificata, sarebbe stata rimossa quella che Winston Churchill chiamò “cortina di ferro”, il confine corazzato e non oltrepassabile  che divideva le nazioni europee dominate dal capitalismo di tipo Occidentale da quelle dominate dall’economica collettivistica sul modello sovietico.

  Il Wojtyla non mancò certo di criticare il consumismo occidentale e lo sfruttamento dei lavoratori in ambiente capitalista. Ma, come osservano i suoi biografi [chi voglia approfondire può leggere  di Andrea Riccardi, Giovanni Paolo II, la biografia], egli fondamentalmente apparteneva al mondo comunista; il suo assillo principale era di ricongiungere quel mondo, il suo mondo, all’altra parte dell’Europa, che era dominata dal capitalismo, ciò che non poteva farsi senza abbattere l’economia comunista e i sistemi politici comunisti:   era per questo che, presentandosi  per la prima volta dopo la sua elezione ai fedeli in piazza San Pietro (tra i quali c’ero anch’io), ci disse di venire da un paese lontano,  “lontano, ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana.” Scrive Riccardi nel libro che ho citato (pag. 159):

“A Cracovia si soffriva la forzata lontananza dal cuore dell’Europa, proprio nella città che era divenuta  un punto di rifugio  della cultura polacca  nel  clima asburgico  e nel contatto con quella austro-tedesca. Un papa di Cracovia non è distante dal resto dell’Europa. Ma il papa viene da lontano non per la distanza geografica o culturale, ma perché appartiene al mondo comunista.

[…]

  L’utopia europea di Giovanni Paolo II si radica nella sua cultura che guarda all’Europa da quella particolare  giuntura  tra mondi che è la Polonia. Nell’enciclica Slavorum Apostoli [=Apostoli degli slavi; ci si riferisce ai santi Cirillo e Metodio], Giovanni Paolo II si definisce «il primo papa chiamato alla sede di San Pietro dalla Polonia e, dunque, dal mezzo delle nazioni slave». Il papa parla spesso di un’Europa che respira con «due polmoni», alludendo alla tradizione  occidentale e orientale (a questa espressione - disse a padre Duprey - lo aveva familiarizzato un suo professore di seminario). L’immagine dei «due polmoni» è del russo Viaceslav Ivanov, vicino a Solov’ev, esule a Roma, professore di letteratura russa al Pontificio Istituto Orientale. Ivanov, accostatosi al cattolicesimo senza abiurare l’ortodossia, morì a Roma nel 1949. E’ significativo che Giovanni Paolo II abbia ricevuto nel maggio 1983 i partecipanti  a un convegno su questo intellettuale russo.  In quell’occasione  ricorda le parole di Ivanov in una lettera del 1930, in cui affermava  di aver sofferto per la divisione «dall’altra metà di questo tesoro vivente di santità e grazia, e di respirare, per così dire, come un tisico con un solo polmone». Un cattolico, per il papa, «deve avere due polmoni, cioè quello orientale e occidentale.”

  Questo suo problema principale, riunire le due parti d’Europa portando l’oriente  verso l’occidente, portò Wojtyla a non comprendere l’evoluzione del socialismo dell’Europa occidentale, in particolare di quello italiano, e a diffidare di quello dell’America Latina. Trattò le questioni relative, per ciò che riguardava le collettività di fede, tagliando corto, senza accettare nessuna mediazione, costruendo un’angusta gabbia ideologica in cui volle rinchiudere la ricerca teologica, in particolare con l’imposizione normativa del  suo Catechismo della Chiesa cattolica,  del 1992-1997. A ciò si accompagnò una politica di severa polizia ideologica verso i dissenzienti tra il clero e i religiosi.

  L’azione politica del papa Wojtyla ebbe risvolti spettacolari in Polonia, con l’azione del partito-sindacato Solidarnosc,  che in fondo trovò il suo programma nelle encicliche Il Redentore dell’uomo  e  Lavorando. Le urgenze degli eventi polacchi portarono il Wojtyla piuttosto vicino all’amministrazione del presidente statunitense Ronald Reagan, espressa dalla destra politica. Ma vi furono contatti, e forse intese, anche con il comunista Michail Gorbacev, presidente dell’Unione Sovietica e ultimo segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica, negli anni ’80 impegnato in una profonda riforma del sistema sovietico, caratterizzata dai due principi della glasnost, che significa trasparenza, e della perestroika, che significa rinnovamento, ricostruzione. Il Gorbacev decise di non far intervenire le forze militari del Patto di Varsavia, l’alleanza tra gli stati comunisti dell’Europa orientale dominati dai sovietici, per bloccare gli sviluppi politici che si stavano rapidamente manifestando, e questo consentì la caduta dei regimi comunisti dell’Europa orientale e la riunificazione dell’Europa, in particolare della Germania, della quale fu protagonista il democristiano Helmut Kohl. La Germania riunificata fu il principale motore della costruzione dell’Unione Europea, che comprende anche stati che furono sotto il dominio dei sovietici e del comunismo di ispirazione marxista-leninista-staliniana, e ne è rimasta lo stato guida, con la democristiana Angela Merkel. Il disegno politico del Wojtyla si è così compiuto, anche se ciò che si sta manifestando negli stati dell’Europa orientale appare molto diverso dai suoi auspici religiosi.

  Mentre il Wojtyla era impegnato in questo grande disegno politico, che comprendeva anche la progettazione di un futuro democratico per gli stati usciti dai sistemi politici comunisti, secondo gli indirizzi dell’enciclica Il Centenario, le collettività di fede italiane svolsero ruoli marginali e prevalentemente centrati sui rivolgimenti italiani. I reazionari cercarono di accaparrarsi il favore del Papa, con un certo successo. Gli altri si chiusero in difesa, in particolare nella nuova Azione Cattolica uscita dall’attuazione del Concilio Vaticano 2° e intorno ad alcuni capi religiosi preminenti, come l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Dagli anni ’90 si ebbe la dispersione culturale e personale di tutto un mondo, quello del cattolicesimo-democratico, che era stato protagonista della travagliata marcia del cattolicesimo italiano verso la democrazia, da metà Ottocento fino all’inizio degli anni ’80. E questo proprio durante il regno di uno dei papi  più politici  di sempre.

  Dall’inizio del regno del nostro Padre Francesco, ci vengono esortazioni  a riprendere quel processo di acculturazione  e sviluppo verso la democrazia. L’altro ieri, in un’intervista, ha criticato le visioni distorte  di America, Russia, Cina e Corea del Nord. Questo implica un apprezzamento per la visione europea, non compresa tra quelle altre, negative. Ha detto che se non rafforziamo l’unità europea non conteremo nulla. Questo lo pensano in molti. In questa visione si va contro i nostri populismi  nazionali, marcatamente anti-europeisti. Anche Francesco viene di lontano, ma questa volta  veramente  di lontano. Sia in senso geografico che culturale. Sotto quest’ultimo profilo, nelle sue parole si sente l’eco delle molte voci che il Wojtyla volle silenziare d’autorità. Che fare, dunque?

 Mi piacerebbe che, questa volta, ai grandi orizzonti  del Papa ne corrispondessero anche di nostri.  Un lavoro che richiede di osservare, capire, progettare collettivamente e che può farsi anche a partire da realtà di prossimità come la parrocchia.

  Ai tempi del Wojtyla i fatti europei degli anni ‘80 ci colsero di sorpresa e, tutto sommato, non ci videro come protagonisti. Lo furono, invece, gli Stati Uniti d’America, ma non come azione di massa, come era avvenuto a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70 con la stagione dei diritti civili,  ma prevalentemente come politica presidenziale, supportata da vari centri d’azione amministrativa e militare, ciò che si ripercosse con tutta evidenza, e negativamente,  su ciò che si produsse, su come l’evoluzione dal comunismo al capitalismo si realizzò in Europa Orientale e anche in Russia.

  Ora che invece l’Europa Unita, fra tante visioni distorte delle altre potenze mondiali, può diventare potenza umanitaria, il germe di un mondo nuovo, in fondo secondo gli auspici del nostro Padre Francesco, potremmo diventare molto più attivi, noi laici di fede, innanzi tutto cominciando a familiarizzarci con società e politica, in modo, innanzi tutto, da non ricadere nel desolante populismo subalterno, quello che rischia di farci diventare docile massa di manovra per ambiziosi spregiudicati, quello che vuole confermarci in tutte le nostre paure e tentazioni, rendendo ragionevole il diventare infami, abbandonando al proprio destino chi sta peggio, ripetendoci che non c’è altra via d’uscita e che non dobbiamo vergognarcene, perché o noi o loro. Non si tratta più, come ai tempi del Wojtyla, del  riunificare l’Europa per l’Europa stessa,  ma di potenziare il processo di unità europea per creare un agente di massa sufficiente per iniziare a riformare il mondo intero.

 

76. Noi  e il mondo

 

  Nel 1982 fu pubblicata un’edizione in quattro volumi degli scritti di Enrico Bartoletti, segretario generale della Conferenza Episcopale italiana negli anni ’70, cruciali per l’attuazione dei principi enunciati durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Andai alla presentazione dell’opera, e un amico mi prestò  una copia di quei  libri. Confesso che sono rimasti sempre con me. In questo momento ho tra le mani il quarto volume, intitolato La Chiesa nel mondo.

   L’ultimo Concilio produsse un grandioso mutamento di prospettiva nelle nostre relazioni religiose con  il  mondo, vale a dire con tutto ciò che c’è fuori degli spazi liturgici. Come sempre accade in queste cose, prima  venne la sperimentazione, la pratica, e poi ci si ragionò sopra in teologia.

 A che cosa serve lo stare insieme, in religione?

 A rendere presenti realtà soprannaturali, ci insegnano i teologi. Non accade solo nella liturgia, non è faccenda solo da preti. Il nostro lavoro di fedeli in società non è indifferente, non serve solo ad acquisire meriti  personali: si è segno  di realtà soprannaturali e loro strumento. Ci sono un metodo  e una  via che conducono ad esse e tutti i fedeli ne fanno parte e ne sono, quindi corresponsabili.

  Per certi versi, nei secoli precedenti le società religiose secondo la nostra fede venivano viste come un mondo a parte. Un sopra-mondo  nel quale era molto visibile il clero, organizzato al modo di un impero religioso con una propria gerarchia molto ben definita. Di questa organizzazione era membri a pieno titolo i membri degli istituti di vita consacrata, monaci e monache, frati e suore, con loro speciali ordinamenti. Poi c’erano tutto gli altri, semplicemente soggetti al potere altrui, ma solo per una parte delle loro vite, perché per il resto erano sudditi dei sovrani civili.  La presenza di tutti questi altri non caratterizzava l’insieme: ci fosse o non ci fosse, in fondo, era indifferente. Potevano esserci o non esserci, ma quel sopra-mondo andava avanti lo stesso. Si cercava di coinvolgerli come sudditi religiosi, perché la missione  consisteva, in definitiva, in questo. O anche  in questo? Il bene principale era considerato infatti mantenere integra l’organizzazione gerarchica, il suo spazio di libertà nei confronti dei sovrani civili, l’integrità dei suoi beni, la maggiore esenzione possibili dagli altri poteri, sotto i profili politico, fiscale, giurisdizionale. Questo, naturalmente,  per portare tutti al Cielo. La sola via  per ottenere quella salvezza  era quella di farsi sudditi religiosi. Ancora ai tempi nostri vi è traccia di questa concezione, quando si dice la Chiesa fa, la Chiesa dice,   e si intende riferirsi al papa e ai vescovi, e qualche volta anche ai preti e ai religiosi. In questa concezione sono molto importanti i diritti  dell’organizzazione religiosa, intesi come il complesso di libertà, proprietà  ed esenzioni riconosciute dalle autorità civili. Si viene a patti con i sovrani civili, attraverso  concordati,  o altri accordi simili tra autorità religiose e civili, si stabilisce una sorta di condominio  sui sudditi, e, una volta raggiunte queste intese, non si sta a sindacare, dal punto di vista religioso, le politica dei sovrani civili ai quali in questo modo ci si è federati. Decidono la guerra? In questo caso i diritti  che si rivendicano sono solo:  l’esenzione  di preti e religiosi dal combattimento e la libertà  di assistere spiritualmente i combattenti  e, in genere, i morenti, compresi i condannati dalle corti militari secondo il diritto di guerra (negli opposti eserciti belligeranti, nel caso di conflitti tra nazioni che seguissero la nostra fede). Lorenzo Milani, negli anni ’60, in una polemica con i cappellani  militari, i preti inquadrati militarmente nel nostro esercito, fece notare che ai preti e ai religiosi il Concordato  stipulato nel 1929 con il Regno d’Italia, e rimasto in vigore in epoca repubblicana, riconosceva il diritto all’obiezione di coscienza  che invece costava il carcere ai nostri fedeli che lo invocavano. Questo rende bene l’idea della situazione dell’epoca.

  Di solito, quando si racconta degli eventi del Concilio Vaticano 2°, e nella prassi parrocchiale lo si fa piuttosto di rado, si inizia con il dire che fu richiesto un maggiore impegno dei laici. Questo essenzialmente perché dei laici oggi si ha bisogno per integrare il lavoro dei preti, che sono sempre meno. Così però finisce che i laici appaiono come arruolati  nei ranghi parrocchiali o di altri settori dell’organizzazione religiosa come una specie di preti onorari, o di  vice preti, al modo in cui accadeva nel West, in Nord-America, in cui lo sceriffo  per certe emergenze poteva nominare dei vice.

  In realtà l’impegno nuovo dei laici progettato dai saggi dell’ultimo Concilio conseguì ad una nuova idea della missione religiosa, che troviamo in particolare in due documenti molto importanti approvati e diffusi dal Concilio Vaticano 2°, le Costituzioni Luce per le genti  e La gioia e la speranza. Si ritenne che per la fede non potesse essere indifferente come andava il mondo, anche dopo aver sistemato le questioni dei  diritti  dell’organizzazione religiosa.

 Occorre infatti:  consociare le forze, risanare le istituzioni e le condizioni del mondo,  se ve ne siano che  provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano le virtù (Cost. Luce per le genti, n.36). Ed è qui che entrano in campo i laici in una nuova posizione, con una nuova  dignità. Servono per questo lavoro di trasformazione del mondo secondo i principi di fede, che, nel gergo teologico,  viene espresso  con “trattare le cose temporali [vale a dire del mondo] ordinandole secondo i principi di fede”  (Cost. Luce per le genti  n. 31).  Devono essere competenti, certo, per questo devono essere  formati adeguatamente,  certo,  ma il loro compito non si esaurisce nell’essere  consulenti. Devono anche lavorare nella società, in spirito di dialogo fraterno con le altre sue componenti (Cost. La gioia e la speranza  n. 92) per il conseguimento del  bene comune  (Cost. La gioia e la speranza  n. 73).

 Perché:

 Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. (Cost. La gioia e la speranza  n. 1).

e:

 Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità  a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito (Cost. La Gioia e la speranza  n.3)

pertanto:

 Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. (Cost. La Gioia e la speranza  n.4)

  Quindi non “ci sono anche i laici, troviamo loro da fare”, ma “c’è un lavoro in società da fare in cui i laici sono indispensabili”.  Il nuovo ruolo dei laici avrebbe richiesto anche modifiche organizzative, che però non si riuscì, in gran parte, non dico a realizzare, ma proprio a progettare. Come è evidente dalla lettura della Costituzione Luce per le genti, le nostre collettività religiose sono rimaste ancora organizzate come un impero religioso feudale, secondo l’impostazione data loro tra l’Undicesimo e il Sedicesimo secolo,  e questo  pur nel contesto di una diversa teologia.

 Secondo le statistiche del 2014, i  battezzati nella nostra confessione religiosa sarebbero un miliardo e trecento milioni, circa il 17% della popolazione mondiale.  dei quali circa un milione sono preti, diaconi, monaci e monache, suore e frati, in questa quota compresi il papa e i vescovi. E’ una popolazione mondiale più o meno uguale a quella dell’attuale Repubblica popolare cinese. I due sistemi politici, quello nostro eligioso e quello cinese presentano qualche somiglianza, anche se il secondo è molto più complesso. Fondamentalmente in entrambi il potere scende dall’alto. Non vi è ammessa la democrazia come la si intende in Europa. Nel primo, però, è tollerata nei sudditi una maggiore libertà ideologica, salvo che per i funzionari del clero e dei religiosi. Quando si viaggia su quei numeri, quella della democrazia è una vera sfida. Come tenere tutto insieme? Senza poi poter contare su di un apparato poliziesco come quelli degli stati.

 Certe volte si ha l’impressione che i nostri capi religiosi, tutti appartenenti al clero, vadano per la loro strada, come nei secoli passati. Parlano di noi, ma senza di noi. Noi parliamo loro della società e di noi, ma quelli sentono solo quello che vogliono sentire. Poi legiferano, ma noi obbediamo quello a cui ci sentiamo di obbedire. Noi e loro, poi, facciamo come se tutto andasse come deve. Perché, se si dovesse cambiare veramente, nulla sarebbe più come prima, nelle loro vite e nelle nostre vite, e per noi laici sarebbe molto più impegnativo di adesso. Così, in genere, ripieghiamo nel ruolo di sudditi, che fu del passato. Così però la religione diventa insignificante e inutile, un po’ la ciliegina sulla torta  delle nostre vite per il giorno della festa, come lamentano i nostri critici. Continuiamo a fare massa per garantire i diritti  della nostra organizzazione religiosa, le sue libertà, le sue proprietà  e le sue  esenzioni, e anche un ingente e automatico flusso di finanziamenti pubblici che, solo, consente di tenere in vita l’organizzazione religiosa. Ma, fatto questo, non ci sentiamo veramente impegnati a molto di più.  E i principi di condivisione delle  gioie, speranza, dolori, tristezze e angosce? Il lavoro di trasformare il mondo  secondo i principi di fede? Ci passiamo un po’ sopra, non è così? Ecco che poi, ad esempio, sentiamo proclamare nella nostra politica il proposito “aiutiamoli a casa loro”, che significa in definitiva  respingere, e non ci sentiamo interpellati religiosamente, in questo non nostro rifiuto dell’impegno etico di condividere  sofferenze altrui.

  Va bene, questa è l’analisi. Che si fa?

  Proviamo a sperimentare dei cambiamenti. Quello che appare tanto difficile nel piccolo regno vaticano, nel quale la Curia appare come prigioniera del proprio ruolo storico e delle alte muraglie dietro cui è arroccata, può essere più facile in una realtà di prossimità come una parrocchia. Impariamo a praticarvi la democrazia, che non è solo metodo di conta per decidere chi ha vinto, ma anche e soprattutto sistema di valori. Impariamo a rendere conto  pubblicamente di ciò che facciamo. Se si progetta, poi si facciano bilanci dei risultati. Si discutano apertamente le modifiche da fare. In ogni cosa, anche a partire dai più giovani, si attivi la corresponsabilità. Contrastiamo la clericalizzazione dei laici. Rendiamo pubblici i conti della gestione e l’inventario.

 

77. Che portiamo al mondo?

 

   Ho menzionato un libro di scritti di Enrico Bartoletti che avevo tra le mani, intitolato La Chiesa nel mondo, l’ultimo di un’opera in quattro volumi, del 1982.  Bartoletti morì nel 1976, da segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, l’istituzione che riunisce i vescovi italiani. Lo era diventato nel 1972. Si era agli inizi della fase di attuazione del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), al quale Bartoletti aveva partecipato. Chi ha studiato il suo lavoro concorda che il suo ruolo fu molto importante. Egli lo definì come quello di traghettare la Chiesa Italiana sulla sponda del Concilio. Fu scelto come segretario generale perché aveva iniziato a farlo con sapienza e efficacia già durante il Concilio, a Lucca, dove faceva il vescovo e poi  anche dopo, in particolare nel progettare il rinnovamento della catechesi. La raccolta di scritti a cui faccio riferimento inizia con un intervento del gennaio 1962 al Movimento dei Laureati Cattolici, un’organizzazione di Azione Cattolica che oggi, con maggiore autonomia organizzativa, si chiama MEIC - Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale. Il Concilio era stato indetto pochi giorni prima. Dalla lettura si capiscono le attese che si ebbero verso il Concilio. Il discorso comincia appunto con il riferirsi ad un  carico di speranze e di attese. Ma Bartoletti chiarì anche che non si trattava di un inizio di una nuova stagione, ma della presa d’atto di un inizio  che c’era già stato, già si  viveva. Era un fatto buono? Bartoletti riteneva di sì. Occorreva però ripensare il modo di stare insieme e, innanzi tutto, le ragioni e il senso dello stare insieme, in religione: quindi serviva una adeguata teologia.

   Che cos’è la teologia? E’  ragionare sulla nostra fede collettiva, sulla religione e sulla liturgia, sullo stare insieme nella fede. Spesso si ha presente prevalentemente quella che si occupa di esporre le verità individuate e ritenute come fondamentali e come tali anche proclamate dall’autorità religiosa: la teologia dogmatica. Questo perché i catechismi, specialmente quelli per la formazione degli adulti, vi fanno molto riferimento. Ma la dogmatica  non è tutto. Si tratta anche di capire il senso religioso di ciò che si fa. E’ per questo che praticamente ogni attività umana ha una sua teologia. C’è, ad esempio, una teologia del lavoro, ma anche, ne ha parlato il nostro Padre Francesco qualche giorno fa in un intervento che ho trascritto su questo blog, una specie di teologia dell’ozio. Se ragioniamo sul senso dello stare insieme in religione i due aspetti sono presenti entrambi: la dogmatica  e la riflessione religiosa sul lavoro che si fa. Che relazioni ci sono tra di loro, qual è la più importante? Nasce prima la seconda:  i dogmi, infatti, le concezioni ritenute fondamentali e caratterizzanti della fede, ne sono sviluppi. Nella nostra confessione vengono proclamati d’autorità dai concilio e dai papi. Individuato un dogma, si cerca di farlo entrare nella  tradizione e di trovargli anche precedenti in quella passata. Quindi l’altra teologia vi è soggetta. Ma ci sono anche sviluppi nei dogmi, successivi alla loro proclamazione, per approfondirne la comprensione. Ci lavorano la teologia dogmatica e l’altra teologia. E’ quello che è accaduto proprio nel Concilio Vaticano 2° su diversi temi, in particolare sulle ragioni,  il senso e il modo di essere delle nostre collettività di fede. Tra le leggi  date dal Concilio vi è infatti una grandiosa Costituzione dogmatica sulla Chiesa, denominata Luce per le genti dalle prime parole del suo testo: “Cristo è luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini della luce del Cristo che risplende nel volto della Chiesa”. Questa è dogmatica. Poi c’è la riflessione sul senso religioso del lavoro che si fa collettivamente: ad essa è dedicata un’altra grandiosa Costituzione, quella denominata La gioia e la speranza, che inizia così: Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.  L’intera mia vita di fede, così come quella dei miei coetanei credenti,  è stata  centrata su quei documenti. La prima vera acculturazione a quei testi la ebbi con la lettura degli scritti di Bartoletti, raccolti dal suo segretario Pietro Gianneschi, che oggi è parroco nella parrocchia di San Vito, nella diocesi di Lucca. E’ lui che mi prestò   i volumi di cui ho scritto ieri e oggi.

 Disse Bartoletti ai Laureati Cattolici, in quell’intervento del 1962:

[…] il Concilio sarà altresì, una nuova Pentecoste; più volte il Santo Padre ha parlato di ringiovanimento della Chiesa, di purificazione interiorecioè, e conseguentemente di rinnovamento delle sue strumentazioni apostoliche, in faccia alla realtà nuova del mondo moderno da evangelizzare ed assumere.

  E li esortò a prepararsi al Concilio:

[…]Prepararsi  a comprendere la vastità dell’impegno della Chiesa intera, che si mette a confronto con la realtà del mondo, così vasta e sconcertante.

  Prepararsi a percepire i due termini di confronto, nella loro piena accezione, e nella loro dimensione esistenziale.

  Prepararsi, soprattutto, a realizzare quell’incontro, salvifico tra la Chiesa e il mondo che non può avvenire senza di noi o fuori di noi, essendo tutti, in maniera diversa, compresenti all’una e all’altra realtà, sì da costituire naturale elemento di congiunzione e strumento di penetrazione.

 Prepararsi; in modo da dare ciascuno modestamente il proprio contributo, oltreché di preghiera, anche di studio e di esperienza cristiana, presentando difficoltà e insuccessi, offrendo disponibilità e collaborazione.

 Quindi c’era nelle sue parole l’idea di un Concilio che non fosse solo un congresso di dignitari religiosi, ma che coinvolgesse tutte le persone di fede perché dessero anche un  contributo di studio e di esperienza cristiana. Perché, in fondo, che cosa si porta innanzi tutto al mondo, da persone di fede, nell’incontro? Portiamo noi stessi in quanto  partecipi di un’unità soprannaturale, di cui ci sforziamo di farci  tramite verso gli altri, verso il mondo, perché “Per analogia con Gesù Cristo - lui solo dà una giusta nozione della Chiesa che è il suo corpo  e la sua manifestazione terrestre - il divino è in esse sempre legato all’umano. Fino alla fine dei tempi la Chiesa rimane mistero di Dio e opera dell’uomo, un unico ministero di luce e d’ombre [Hans Kung, Il Concilio e il ritorno all’unità, 1961, citato da Bartoletti nel discorso ai Laureati Cattolici del 1962].

 Proseguì Bartoletti:

 […] è possibile fissare un momento storico della vita della Chiesa; per questo è doveroso, per noi cristiani, confrontarla col mondo e vedere i suoi rapporti con esso.

  E’ chiaro, la Chiesa non è il mondo e non è del mondo; ma pure vive nel mondo - Chiesa peregrinante - e vi è immersa secondo il piano stesso di Dio, come in cosa che le appartiene, appartenendo a Cristo, che la riconduce a sé.

  Ché, anzi, il mondo è nella Chiesa attraverso di noi, che del mondo portiamo la cultura e la mentalità, i problemi e le istanze, il male da redimere, il bene da soprannaturalizzare [=rendere manifesto il senso religioso del bene che c’è],

  Chiesa di uomini e Chiesa anche di peccatori, che cerchiamo in lei redenzione e salvezza.

  Per questo il cammino della Chiesa è tanto difficile nei secoli: essa deve stabilire il suo incontro col mondo, senza restare “mondanizzata”[livellata ad un gruppo sociale tra i tanti  e come tanti], portare la nostra debolezza, senza per questo rimanerne indebolita; attraversare la nostra opacità, senza per questo perdere la sua lucentezza.

  Sta di fatto che il volto della Chiesa, adeguatamente considerato in un momento della sua storia, è la risultante di questa duplice componente: il dono permanente di Dio e la risposta degli uomini.

  La realtà e la vita della Chiesa, oggi, scaturisce da una sorgente che è in Dio e nell’atto costitutivo di Cristo; ma è anche frutto della sua storia precedente, come dei rapporti che essa assume col mondo attuale, in una convergenza della libera cooperazione dei suoi membri all’azione liberissima e sempre nuova dello Spirito Santo.

   Sono passati cinquantadue anni dalla fine del Concilio Vaticano 2°. E allora? Che ne è stato delle attese e speranze che ne accompagnarono l’annuncio?

  Si è, in fondo, ancora appena agli inizi del lavoro che si era progettato. Ma non solo. Quello che si stava realizzando ha spaventato. Ad un certo punto si è sospesa d’autorità l’evoluzione. Ciò accadde durante il lungo regno religioso di san Karol Wojtyla. Così, l’organizzazione delle nostre collettività religiose non è molto cambiata da com’era negli anni Cinquanta: vi si sono solo affiancate  altre componenti che fanno prevalentemente vita propria. La teologia si è molto rinnovata e ha visto anche la comparsa di una generazione di teologhe. Ma la formazione religiosa delle masse è ancora piuttosto carente: e, in fondo, sembra che a volte si preferisca che rimangano quello che sono, masse appunto, che vanno dove si dice loro e fanno ciò che si richiede loro, secondo quello che è scritto nel foglietto  che viene distribuito nei grandi eventi  che i nostri capi religiosi periodicamente organizzano. Nelle parrocchie la situazione non è poi molto diversa da quella di sessant’anni fa e, in fondo, sono proprio i laici ad essere riottosi al cambiamento. I preti, i quali una volta erano tanto partecipi della vita sociale della nazione, spesso si sono spiritualizzati, non riescono a spiegare bene il senso religioso della vita civile,  e se vengono da altre nazioni conoscono poco i fedeli. Si sono scoraggiate le sperimentazioni, timorosi di perderne il controllo. L’altro giorno a Roma è morto Giovanni Franzoni, che fu benedettino, abate della comunità monastica di San Paolo fuori le mura e che partecipò con il rango di vescovo al Concilio Vaticano 2°, il più giovane tra i saggi che vi presero parte. Le sue sperimentazioni religiose furono duramente represse, perse tutto come maestro e capo religioso, salvo l’affetto della sua comunità di base  e di molti altri che lo stimavano.  Una storia che lo accomuna a molti altri brillanti  sperimentatori  sulla via tracciata dai saggi del Concilio, come ad esempio il teologo Kung citato da Bartoletti.

  I documenti del Concilio sono poco conosciuti. Si  è spesso insegnato a diffidarne pregiudizialmente, propinandoli con un'avvertenza simile a quella che si legge sui pacchetti di sigarette: "può nuocere grandemente alla salute dello spirito". Lo avverto tutta la volta che provo a parlarne. Si è spinti ad accontentarsi di  compendi  di dogmatica. Ma è proprio dalla formazione e dalla sperimentazione che bisognerebbe ripartire. Un maggior impegno dei laici richiede, in particolare,  lo sviluppo di procedure democratiche anche nelle collettività religiose: consiglio, nella formazione, di partire da una specie di teologia della democrazia. Ci può essere? Certo, perché possiamo trovare il senso religioso di ogni nostro bene.

 

78.  Costruire democraticamente le basi della convivenza in religione

 

 

  Mi ha sempre stupito il malanimo con cui si sta insieme in religione. Ci si guarda in cagnesco e ci si sopporta a stento. Si sta prevalentemente con quelli della propria fazione. Praticamente in tutti gli ambienti che ho osservato è così. Fioriscono i pettegolezzi. E’ un male antico: se ne parla già nelle Scritture che risalgono alle prime nostre collettività di fede. Tra laici va peggio perché, in genere, si sa troppo poco di tutto. Viene a mancare una base comune. E’, questo della nostra incultura religiosa, un problema veramente generale, che periodicamente viene stigmatizzato. C’è proprio una letteratura che riporta gli strafalcioni e le baggianate che circolano. Tra i sapienti non è che le relazioni personali siano migliori: ci si detesta, però, sapendo bene perché, avendo chiare e distinte le ragioni per cui lo si fa. Ha quindi ragione il nostro parroco, quando sostiene che il vero problema è proprio quello di cominciare a volersi bene. E’ paradossale che sia così difficile in una fede in cui si parla tanto di agàpe, di benevolenza conviviale.

  Ciascuno entra in religione con la sua verità. Non ha poi tanta voglia di ascoltare quelle degli altri. Ma c’è poi la  verità? Come dubitarne? Sarebbe sorprendente che fosse diverso, dopo la serie infinita di conflitti su questioni di verità. Ai tempi nostri si è però più prudenti e si pone l’accento sulla ricerca  della verità, di generazione in generazione. Possiamo confidare, quindi, che la verità ci sia, ma non è nelle nostre mani, non la possediamo, non possiamo farne ciò che vogliamo, ne possiamo solo diventare discepoli. Infatti la  verità è di origine soprannaturale: così si pensa in religione. Ne abbiamo varie formulazioni, definizioni, che abbiamo tramandato nei due millenni della nostra storia, e praticamente ogni generazione di teologi ci ha messo mano, soprattutto nell’interpretazione e nelle rifiniture. Scrivono anche che ci sia una gerarchia delle verità, quindi un loro ordine per cui non hanno lo stesso grado di resistenza alle obiezioni e alle integrazioni. Ad esempio ne tratta un documento del Concilio Vaticano 2°, il Decreto sull’ecumenismo Ristabilire l’unità:  “[…]nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà. Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino cheesiste un ordine o «gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda cognizione e più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo.  Ma parlare di  verità  complica un po’ le cose. Può sembrare che mettere una qualche  verità  un po’ più giù in classifica sia relativizzarla. Oh, ecco il relativismo! Se però, per farci un’idea, parliamo di  definizioni, l’ansia diminuisce. Ho letto che anni fa san Karol Wojtyla parlò di epilessia a proposito di certi episodi evangelici che raccontavano di gente con la bava alla bocca, scossa da convulsioni  e via dicendo. Aggiunse che, in quelle condizioni, si poteva essere più esposti all’azione dei demòni, questo naturalmente per spiegare il contesto scritturistico, in cui si parlava di gente invasa da quegli esseri soprannaturali. Parlava un papa, ma questa cosa dell’epilessia che renderebbe più vulnerabili ai demòni non mi convince tanto. Non ne parlerei neanche come di una  verità. Del resto il santo non era un medico, ma un filosofo e teologo. Non mi faccio problemi a dissentire su quel tema. Do per certo, invece, che il Maestro si dedicasse a risanare gli ammalati e che collegasse questa sua azione benefica al suo insegnamento religioso.

  Ma in parrocchia non dobbiamo rifare un Concilio. Si è già provveduto. Né, preti a parte, siamo teologi. Abbiamo di solito un’immagine un po’ approssimativa delle  verità  della fede. Le conosciamo, non dico attraverso compendi, ma spesso attraverso sintesi di riassunti di compendi, per di più lette chissà quando. Infatti non di rado ce ne usciamo con opinioni discutibili, sulle quali però in genere, per amor proprio innanzi tutto, non accettiamo discussioni. E lacarità  umiltà consigliate sopra, dove sono? Siccome sappiamo poco di tutto, allora cerchiamo di tirare i preti dalla nostra parte; loro naturalmente resistono, e allora critichiamo anche loro. Fosse poi solo per le questioni che ammettono più opinioni! Ma sulla carità, come si fa a dissentire? Qui  siamo veramente molto in alto nella  gerarchia delle verità. Un papa ci dice: siate caritatevoli, soccorrete i fratelli in pericolo. Dico un papa. Fa il suo mestiere. E lo fa in linea con le Scritture e la Tradizione, il Magistero di sempre. Dov’è il tuo fratello? Ma a noi, a volte, pare eretico quando dice così. Quand’è però che i papi hanno mai detto qualcosa di diverso? E’ eretico rispetto all’opinione comune che consiglia di ributtare a mare  i sofferenti. Ecco che allora abbiamo rifatto in quattro e quattr’otto un Concilio, inaugurato una nuova dottrina, quella che approva chi sbotta “E che, sono il guardiano di mio fratello?”.

  In parrocchia dovremmo morderci la lingua tutte le volte che, da laici!, ci viene di scomunicare qualcun altro, di lanciargli conto l’antica invettiva  “Anàtema!”,  vale a dire “Maledetto!”,  come i saggi (si fa per dire) degli antichi Concili, che avevano la scomunica facile, ma comunque erano sapienti. Il passo successivo è infatti quello di indicare la porta in uscita a chi disapproviamo in quel modo.

 La gran parte del lavoro che da laici facciamo in parrocchia non mette in questione definizioni cruciali per la fede e questo, in particolare, quando programmiamo il lavoro da fare in società, ad esempio nel quartiere. Al fondo di quelle che appaiono controversie su verità in genere possiamo facilmente individuare ragioni politiche. E’ per questo che, in definitiva, ci si divide in religione. Ma la politica ha vie di risoluzione che sono diverse da quelle della teologia, che si occupa di definizioni relative a verità di vario livello. La base è accordarsi, con una specie di costituzione,  sul mantenimento di un ambiente di agàpe. In democrazia si esprime la stessa cosa dicendo che occorre rispettare la dignità e la libertà degli altri. Ogni potere abbia un limite, in estensione e durata. Nessuno deve cadere completamente in mani altrui. Nessuno deve essere costretto a svelarsi completamente, se non nel Sacramento della Confessione. Sia sempre consentito il dialogo e di seguire vie diverse se non pongano in pericolo l’agàpe. Ogni giudizio sia sempre collegiale, ammettendo più voci.  Non si disprezzi mai chi è con carità e umiltà alla ricerca del vero e si sforza sinceramente di capire. Si sappia distinguere l’errore dall’errante, perché quest’ultimo è persona umana che mai e poi mai può essere privata, per qualsiasi motivo, della sua dignità.

  Naturalmente in questo lavoro la presidenza dell’apostolo è molto importante. Deve sapere mantenere un ambiente pluralistico. Ma con il tempo, con il consolidarsi di tradizioni democratiche, bisogna anche suscitare una resistenza collettiva alle degenerazioni che possono esserci, come in ogni collettività umana, quindi produrre una vera e propria tradizione in quel senso. E’ una conquista culturale. A volte si è troppo clero-dipendenti. E’ problema che si manifesta anche su scala maggiore. Cambia un papa e cambia il mondo religioso. Allora c’è la tentazione di colpire il pastore per disperdere il gregge. Ma, in fondo, è proprio il gregge che deve uscire da quella sua condizioni di gregge, per farsi collettività umana. A questo appunto servono i processi democratici, su grande e piccola scala.

 

79. Sperimentare nuove forme di democrazia

 

  La democrazia come oggi la intendiamo, vale a dire come ordinamento  per l’universale partecipazione al potere politico sulla base di un sistema di valori umani, è esperienza piuttosto recente, risale infatti a circa due secoli fa,  a partire dall’Europa. Se ne sono avuto diverse concezioni, tutte molto diverse da quelle più antiche, ad esempio da quelle dell’antica Atene, dell’antica Roma o dei Comuni medioevali. Dalla fine della Seconda guerra mondiale si collegano democrazia e pace, nel senso che si ritiene che un ordine internazionale possa essere fondato solo su basi democratiche. Quest’idea è ancora più recente di quelle su cui si fonda la concezione moderna della democrazia: all’inizio non c’era e, anzi, le potenze democratiche si erano dimostrate storicamente piuttosto bellicose. Essa origina sostanzialmente dal pensiero cattolico. La troviamo nel primo documento nel quale il papato romano aprì alle concezioni democratiche, dandone anche una prima ideologia sua propria, il radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Eugenio Pacelli, in cui si legge, nel paragrafo intitolato Il problema della democrazia:

“[…] sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono [=richiedono] un sistema di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.

Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.

In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società?

  Fu il punto di arrivo di una lunga evoluzione, mediata dall’azione politica dei cattolico-democratici, in particolare nella fase di ripensamento della politica europea prodottasi durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945). All’inizio del secolo, invece, il papato, con le encicliche Le gravi controversie sulle questioni sociali (del 1901)  e Fin dal principio (1902) aveva condannato il pensiero e la politica democratici, considerando come eresia l’idea che potessero accordarsi con l’azione sociale ispirata dalla fede, vietando addirittura  ai sacerdoti di impegnarsi i movimenti  democratici-cristiani  e ai seminaristi di acculturarsi alla democrazia.

  Dal Settecento i processi democratici prendevano come loro soggetto attivo di riferimento  il popolo. C’era la convinzione che i sovrani degli antichi regimi non facessero gli interessi del popolo, non esprimessero la volontà del popolo. Si pensò di cambiare la situazione mediante nuove istituzioni che prevedessero una partecipazione del popolo, essenzialmente mediante elezioni di rappresentanti in organi più ristretti ai quali poi era attribuito di stabilire leggi  uguali per tutti. Questo sistema richiedeva maggiori spazi di libertà per la gente, che si voleva elevare dalla condizione di suddita a quella di cittadina. Nei primi ambienti democratici contemporanei, tuttavia, questa partecipazione aveva dei limiti piuttosto ristretti, a paragone con gli spazi che oggi sono consentiti. I periodi rivoluzionari avevano coinvolto le masse, ma al dunque, quando si trattò poi di prendere decisioni politiche nella gestione ordinaria delle nazioni, tutto andò diversamente. I sistemi elettorali posero in genere gravi limiti alla partecipazione delle classi più povere e incolte. Queste ultime erano però quelle che più risentivano dei disordini internazionali, in particolare delle guerre. La politica era fatta tuttavia dalla classi dominanti che non temevano le guerre, pensando di ricavarne profitti. Sembrava che un ordine pacifico internazionale fosse utopia da filosofi: l’aveva teorizzato, ad esempio, il filosofo illuminista Immanuel Kant (1724-1804), in un suo libretto intitolato La pace perpetua. Fatalmente ogni popolo sembrava finire per questionare con gli altri, in controversie non risolvibili che con la guerra, non essendovi un’autorità superiore universalmente riconosciuta. Ma chi era il popolo? Se ne ebbe a lungo un’immagine vaga e intellettualistica. Lo si concepì come un organismo che abitava la storia, un po’ come gli individui che lo componevano. Non se ne percepiva il pluralismo interno: fu lo sviluppo del pensiero sociologico, a partire da metà Ottocento, a metterlo in luce.

 Il pensiero cattolico, che non aveva il problema di definire il popolo come nuovo sovrano sociale in quanto riconosceva la sovranità, il potere supremo, ad un ordine soprannaturale del quale il papato era il rappresentante nel mondo, riuscì a rendersi conto di quel pluralismo, innanzi tutto perché iniziò a viverlo, nelle tante iniziative sociali che si svilupparono dalla metà dell’Ottocento, sugli esempi che venivano da altre parti d’Europa e, in particolare, per iniziativa del socialismo. Troviamo descritta questa realtà nella prima enciclica sociale  dell’era contemporanea, la  Le  novità  del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, del 1891. Quest’ultima era volta essenzialmente a far prendere al papato il controllo di quel vasto e vivace movimento per indirizzarlo politicamente secondo gli interessi del papato in quel momento. E’ proprio per questo che inizialmente se ne vietarono gli sviluppi democratici-cristiani: la politica, in particolare la gestione delle relazioni con il Regno d’Italia da poco fondato, competevano al papato. In questa concezione i movimenti  presenti nella società erano apprezzati in particolare nel loro effetto di critica sociale  contro l’ordine liberale-borghese dominante.  A cavallo tra Ottocento e Novecento il papato aveva in corso con il  Regno d’Italia la cosiddetta  questione romana, vale a dire la rivendicazione del papato della restituzione del suo piccolo regno nel Centro d’Italia, comprendente anche Roma. La cosa non era più fattibile e alla fine il papato, nel 1929, contrattò con il Mussolini, che in quegli anni egemonizzava politicamente il Regno d’Italia, risarcimenti, altre restituzioni e un piccolo regno di quartiere a Roma, e considerò la faccenda conclusa onorevolmente così. Durante il fascismo il potenziale di critica sociale del movimento cattolico fu silenziato. In particolare ciò riguardò la nuova Azione Cattolica, fondata nel 1903 con una struttura di partito popolare che rapidamente realizzò una vastissima azione di educazione sociale delle masse, comprese quelle femminili. A differenza dei movimenti che l’avevano storicamente preceduta, radunati nell’Opera dei Congressi sciolta d’autorità del papato nel 1904, l’Azione Cattolica non aveva l’obiettivo della critica sociale. Venne concepita come strumento sociale e politico sotto lo stretto controllo del papato, in un’epoca in cui si cominciò a pensare a sanare la frattura con il Regno d’Italia. Sotto il fascismo italiano la critica sociale in Azione Cattolica fu ammessa, in genere, solo nelle organizzazioni intellettuali,  come la FUCI, gli universitari cattolici, e i Laureati Cattolici. E tuttavia, l’esperienza del fascismi storici europei e gli sviluppi che avevano preso gli eventi bellici dal 1943, con la prospettiva imminente di un nuovo ordine europeo, fecero recuperare al papato l’idea di una critica sociale mediante una società con ordinamento pluralistico, per ripristinare un ordine pacifico tra le nazioni. Si ritenne infatti che questa critica sociale in ambiente pluralistico sarebbe valso a contenere l’aggressività dei poteri politici dominanti. Questa intuizione si rivelò fondata. La nostra nuova Europa, che ha realizzato il periodo di pace internazionale più a lungo vissuto sul continente storicamente, si fondò proprio su questo, sull’idea di popoli  animati da formazioni sociali che consentissero l’emergere degli interessi anche degli strati più umili della popolazione, quelli che in genere venivano ignorati o al più strumentalizzati e che erano contrari allo sviluppo delle guerre. Questo è il sistema politico centrato sul principio di sussidiarietà, che è quando il potere politico non cerca di comprimere o strumentalizzare le realtà sociali più piccole, ma anzi le aiuta e le promuove, consentendone l’azione sociale, intervenendo solo quando la società non riesce a esprimere ciò che serve per il bene comune. Bisogna dire che, però, quando, a partire dagli anni ’70, la critica sociale interessò la stessa organizzazione religiosa, essa fu di nuovo scoraggiata. In un ambiente politico come quello italiano in cui tanta importanza aveva assunto l’azione sociale di quelle  formazioni sociali animate dalla nostra fede questo aprì la strada al populismo, che oggi è appunto il principale problema della politica italiana. Il populista conferma la gente nelle sue paure e nelle sue tentazioni, la spinge all’azzardo morale, a farsi ragione da sé a spese degli altri, confermando che questa è l’unica soluzione.  Lo fa per montare sulle spalle della gente e spingersi in alto, al potere. La gente però rimane in basso, perché non è più capace di critica sociale e decide senza ragionare, ma emotivamente, divenendo succube del populista. Una volta al potere il populista continuerà sulla stessa via, potendo però contare su una disponibilità di mezzi molto superiore. E’ per questa via che in Italia si sviluppò il fascismo storico, che, nella sua forma matura, si presentò come un populismo e richiedeva anzitutto  conformismo.

   I sociologi ci avvertono che ai tempi nostri il potere politico è cambiato. Non è più accentrato negli stati o in istituzioni pubbliche sovranazionali. E’ in primo luogo un fatto dell’economia, la quale, favorita da un complesso sistema di accordi internazionali, ha preso il controllo delle società globalizzate. Si è riprodotta una divisione tra classi sociali analoga a quella osservata nell’Ottocento: dall’economia globalizzata riceviamo tutti i beni materiali della vita e una buona parte di quelli immateriali, ma essa ci domina in un sistema di scambi diseguali, che finisce per favorire un’esigua minoranza. Da qui diseguaglianze sociali molto accentuate, e sempre più accentuate. L’economia ci spinge al conformismo, minacciando che in caso facessimo diversamente non arriverebbe più ciò che ci serve per vivere. Spinge a fare ognuno per sé e in questo modo, avendo di fronte non società ma individui socializzati, ci domina meglio, confermandoci in tutte le nostre paure e tentazioni: ed è una forma di populismo dai mille volti. Siccome ci siamo convinti che ognuno debba fare per sé per salvarsi, non abbiamo argomenti per rimproverare i padroni dell’economia quando, in tempi di crisi, tolgono le tende e fuggono con il loro tesoro, lasciando tra noi solo macerie materiali e umane.

  Questo nuovo sistema è intrinsecamente disordinato, caotico, preda degli appetiti egoistici dei gruppi economici maggiori, in grado di condizionare ormai intere nazioni. E allora da questo disordine è riemerso il pericolo di una guerra guerreggiata molto estesa, non più solo dei conflitti limitati che furono caratteristici dell’epoca della  guerra fredda  (1945-1991) tra statunitensi e sovietici. Anche l’Europa ne risulta coinvolta.

 La soluzione è riprendere a contrastare i populismi di ogni tipo attraverso la critica sociale condotta in formazioni sociali pluralistiche, secondo l’intuizione del pensiero sociale cristiano. E’ molto importante l’educazione alla politica, fin da molto piccoli, con forme di tirocinio. Si tratta di rinsaldare quel sistema di limiti e valori che costituisce l’essenza della democrazia avanzata contemporanea. Far uscire la gente dallo stato di massa, soggetta acriticamente all’influsso di ogni specie di populismo. E’ una nuova democrazia  che occorre progettare e realizzare, o meglio una democrazia adeguata ai nostri tempi, che vanno anzitutto ben compresi.

 

80. Capire la democrazia

 

 Il pensiero sociale ispirato ai valori della nostra fede è arrivato a collegare pace e democrazia: si ritiene che il mantenimento della pace possa avvenire solo in un ordinamento democratico. Eppure questo nesso tra pace e democrazia è divenuto evidente solo in Europa a partire dalla caduta dei fascismi storici, dal 1945. Prima, e altrove anche successivamente, le democrazie non si sono mostrate particolarmente pacifiche e pacificanti. Un esempio di democrazia abbastanza bellicosa sono gli Stati Uniti d’America, la prima delle democrazie contemporanee, instaurata nei 1789, con l’entrata in vigore della Costituzione approvata nel 1787.

  Democrazia significa governo del popolo, ma che cos’è il popolo e come fa a governare? Di fatto il potere rimane nelle mani di una minoranza, per quanto legittimata da elezioni.  E che cosa ci assicura che il popolo  e i suoi rappresentanti prenderanno decisioni giuste? Le masse possono trasformarsi in belve, sotto l’influsso di chi riesce a dominarle. Lo avevano capito anche gli antichi greci, che furono i primi teorizzatori della politica. Infatti diffidavano della democrazia. Alcuni di loro avrebbero preferito dare il potere a dei sapienti.

 Erano democrazie i Comuni medievali, diffusisi in Europa nel Secondo millennio della nostra era e fino al Trecento, ed erano molto bellicosi.

  C’è qualcosa che è cambiato nell’Europa (Occidentale) del Secondo dopoguerra, per cui le democrazie sono divenute pacifiche? E’ successo proprio questo: è cambiato qualcosa nella concezione e nella pratica della democrazia. Ed è stata molto importante l’influenza delle ideologie e delle politiche sviluppate dai cattolici. La crisi delle democrazie europee è coeva dell’eclisse del pensiero e pratica della democrazia tra i cattolici: sono fatti avvenuti nella stessa epoca e certamente collegati.

  Parlo di pensiero cattolico, perché riconosco una specificità reale, che è nei fatti, non si tratta di mettere un’etichetta su cosa che si è formata in altro ambiente.

 All’origine delle democrazie contemporanee, dal Settecento, vi è l’idea di popolo e di legge: il popolo si dà le sue leggi, è quindi sovrano, e le impone a tutti. Attraverso delle procedure  il popolo  detta le   sue leggi: secondo questa concezione è in questo che consiste la democrazia. Si sostituisce agli antichi sovrani dinastici, quel complesso di autorità monarchiche (regna uno solo) o al più oligarchiche (il potere è del re e di un  senato  che con lui collabora) di prima, il popolo, vale a dire i suoi eletti. La legge del popolo limita tutti, si impone su tutti senza distinzione: è uguale  per tutti. Si  è uguali  perché tutti soggetti alla legge del popolo. Ma si è anche liberi, perché non si è più soggetti all’arbitrio altrui ma alla legge a cui tutti sono soggetti, che definisce i diritti e i doveri di tutti. Per tenere in piedi il sistema occorre anche imporsi doveri sociali, perché altrimenti non si sarebbe popolo, ma solo massa che si muove qua e là, a seconda delle emozioni che spazzano la gente come tempesta e la spingono. Ma anche questi doveri sono stabiliti dalla legge del popolo. Di fatto le leggi vengono scritte a fatte approvare da chi riesce a dominare le masse e così ad accaparrarsene i  consensi e il voto. In questo modo il potere del popolo, la democrazia, si può fare dispotica quanto il potere delle antiche monarchie. Il popolo può essere un sovrano dispotico. Si dice  popolo, ma sono gli strati sociali dominanti che legiferano: le guerre sono catastrofi per le masse di quelli che stanno peggio, perché da questi ultimi sono combattute nei posti più pericolosi e i vantaggi che dalle guerre si ricavano rapinando le ricchezze altrui  sono ripartiti in modo diseguale; tuttavia i conflitti vengono decisi da chi riesce a fare le leggi, da quegli strati dominanti che delle guerre possono beneficiare. Quindi le democrazie, secondo questo modello, non  sono in genere pacifiche.

  Il pensiero sociale cattolico, che poi si tradusse in una dottrina  sociale, non parte dall’idea di popolo sovrano. Nessuno può farsi sovrano, né uno solo, né pochi, né la maggioranza. Perché l’unico sovrano è in Cielo. L’atto di costituirsi sovrano  è in fondo sempre un arbitrio. Nasconde una prepotenza nei confronti degli altri esseri umani e del Cielo. Per cui, in definitiva, il lavoro politico del credente è sempre un rovesciare i potenti dai troni. La dottrina sociale non vede  il popolo, ma, più realisticamente,  un insieme di  formazioni sociali nelle quali ognuno ricava il senso della propria vita. Questo brulicare di formazioni, delle quali il papato aveva fatto esperienza nella seconda metà dell’Ottocento, descrivendola poi nella prima enciclica  sociale, la  Le novità, del 1891, costituisce un sistema di limiti sia verso l’alto, che verso gli individui, che intorno. A nessuna  sovranità deve essere permesso di abrogarlo. Ma anzi i poteri pubblici devono sorreggerlo, aiutarlo nel suo espandersi e, innanzi tutto, lasciare le formazioni sociali libere di operare per il bene universale, di tutti. Il principio di sussidiarietà. Perché appunto è questo, il bene universale, che distingue quelle esperienze sociali da altre tese a realizzare interessi privati, particolari, come le società che gestiscono imprese: ci si aiuta come fratelli nell’interesse di tutti,

Se uno cade, è sostenuto dall'altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi (Eccl 4,9-10). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prov 18,19). [enciclica Le novità, n.37],

per un fine  “universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione.” [enciclica Le novità, n.37]. E’ un fine  virtuoso  proprio perché ha di mira il bene comune, universale.

  E’ una visione di una società che cresce liberamente  dal basso, che non viene egemonizzata all’alto, da un qualche sovrano, sia pure esso  il popolo. E’ questo pluralismo incomprimibile, che i cattolico-democratici sono riusciti a inserire nella nostra Costituzione all’art.2, il limite più efficace a quella degenerazione del potere che porta alle guerre. In questa visione l’autorità opera secondo il principio di  sussidiarietà, che le vieta di inglobare tutta la società civile e di normarla dispoticamente a prescindere da essa. In una società brulicante di formazioni sociali virtuose e costantemente attive è difficile che gli interessi delle masse degli strati sociali inferiori possano venire completamente oscurati da chi detiene il potere, e che si decida di far guerra contro l’interesse dei più. L’interesse per la pace che è dei più contrasta efficacemente gli interessi bellicosi dei pochi. La politica delle masse non si manifesta saltuariamente di elezione in elezione, lasciando poi fare ai pochi che riescono a raggiungere il potere, ma è lavoro di continua generazione della società integrando gli individui che sempre richiede nuovi spazi e occasioni di bene ed è dunque azione continua in società. E’ limite che così si manifesta continuamente in società e che obietta a chi, giunto in alto, invita gli altri a farlo governare senza creare ostacoli, fino alle prossime elezioni.  Questo pluralismo è l’antidoto più efficace ad ogni potere che tenda a degenerare e a farsi assoluto, secondo la tentazione che è di ogni potere, anche in ambiente democratico, se non lo si contiene con limiti efficaci. Ma come evitare che il pluralismo sfasci la società? Occorre diffondere e sostenere un sistema di valori, primo tra tutti quello dell’agàpe, secondo il quale si ritiene che si debba far posto a tutti come in un lieto convito. Agàpe viene tradotto in italiano con  carità ed è per questo che nel pensiero sociale cattolico si sostiene che la politica  è una manifestazione di carità molto importante. Questa ideologia, di matrice sicuramente cattolica, il capolavoro dottrinale del papato romano dalla fine dell’Ottocento nonostante l’indole generalmente reazionaria dei singoli papi, è alla base dell’ordinamento politico della nostra nuova Europa. Ecco perché è così importante che i cattolici riprendano a ragionare e a fare di tirocinio di democrazia.

 

81. Comprendere gli esseri umani

 

  Siamo stati abituati ad ascoltare molti pregiudizi sulla nostra fede, come quello che non comprenderebbe a fondo gli esseri umani. Invece è proprio il contrario ed è un vero miracolo: una dottrina proclamata da una schiatta di veterani reazionari da sempre, per scelta estranei alla vita dei più, che coglie così bene nel segno. Vi si può vedere addirittura un segno soprannaturale. Ne rimango sempre stupefatto. Va bene, non hanno inventato nulla, hanno imparato dalla vita, ma non è da tutti farlo. C’è qualcosa di più della semplice osservazione, come potrebbe fare un antropologo che gira per le varie società umana, prende appunti, fa domande, vede come fanno quelli in mezzo ai quali è capitato e poi ci ragiona su. Come lo possiamo chiamare? Compassione, empatia, simpatia, misericordia… Non è mai uno sguardo distaccato quello religioso perché prende le mosse da una conversione. Quando lo spirito, che è in noi e che non è solo la nostra mente, ci porta a desistere dai nostri istinti di antiche belve e ad accostarci agli altri in modo nuovo. E’ un comandamento nuovo  che si segue  e che avvince, ma non come le altre regole a cui si  è soggetti e che pesa obbedire: è un giogo leggero, anche se ne può andare di mezzo la vita. Perché chi perde la propria vita seguendo il comandamento nuovo la salverà, come è scritto. 

  E’ un papa reazionario, Achille Ratti, ad avere collegato politica e carità, in un discorso agli universitari della FUCI tenuto il 18 dicembre 1927:

I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore. È con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari. Atteggiamento questo tanto più raccomandabile a giovani universitari che devono consacrarsi alla propria preparazione, senza la quale la loro futura attività non può essere né illuminata, né benefica. Come nel loro presente periodo essi attendono allo studio delle future professioni e non le esercitano, così anche per ciò che riguarda il viver sociale; essi devono ora attenersi al loro programma di preparazione, perché, quando prenderanno il loro posto nella società, possano poi dare a questa anche il contributo della buona, cristiana politica. 

  Abbiamo riflettuto bene su ciò che comporta? E’ la base di una vera e propria rivoluzione. Tradurre l’agàpe  in realtà sociale: niente di meno! Fare posto a tutti, perché si sa che la vita non è vita umana se si rinuncia ad anche uno solo degli altri intorno a noi.

  Parliamo di popolo  e ci sentiamo spaesati. Ma chi è questo popolo, riusciamo a figurarcelo? Se però parliamo di mondi sociali,  di un insieme di relazioni che creano il senso della vita e che si cercano e si conoscono continuamente tra loro e danno senso alla vita proprio nel cercarsi e incontrarsi, allora è diverso, perché vi è rappresentata la nostra vita. Siamo noi. Si parte dalle famiglie, al loro meglio naturalmente, quando non sono ancora sfigurate dalle convenzioni sociali e nascono da un cercarsi e un conoscersi, per incontrarsi, e allora sono innanzi tutto luoghi dell’anima, mondi vitali, come scriveva mio zio Achille. Perché non dovrebbe essere in tutto così? Questa l’utopia religiosa. Utopia però sarebbe un posto che non c’è, in un tempo che non viene mai. Ma tra gli esseri umani questo c’è già, lo si vive. Ma intorno c’è anche una realtà sociale che fa resistenza. Perché? La realtà dell’agàpe  ci è stata rivelata, ci si è imposta ad un certo punto, da un certo momento. Ci distoglie dalle nostre antiche e crudeli consuetudini naturali, pe cui pesce grosso mangia pesce piccolo. Non sono d’accordo con chi dice che le fedi religiose sono più o meno tutte uguali. Ma è vero che più o meno in tutte quelle che mi sono note si coglie questa aspirazione verso l’agàpe.  Ma poterla chiamare per nome? Nella nostra fede lo facciamo. Non  è questa una grande responsabilità?  Perla preziosa, tesoro nascosto, la definiamo con tanti paragoni. Si è spinti a lasciare tutto per conseguirla. E più si avanza negli anni, se si riesce anche ad avanzare in saggezza, questo diventa sempre più evidente.

  Non siamo macchine animate, pensanti: c’è in noi una realtà spirituale, che non è fantasia, ma, appunto, realtà, che ciascuno sperimenta. E’ attraverso lo spirito che entriamo in relazione con gli altri e costruiamo l’agàpe  in senso anche religioso.  I problemi sociali nascono più o meno tutti quando quella realtà viene negata, con vari argomenti e per varie ragioni. Ma fondamentalmente accade quando si vuole poter fare degli altri ciò che si vuole, farne docili strumenti della propria volontà. Qui viene però l’irriducibile obiezione religiosa che ha anche un valore politico. I papi storicamente immaginarono di essere plenipotenziari religiosi, vicari, in quel senso. Ma non riuscì loro granché bene. Furono storicamente sovrani mediocri, alcuni migliori degli altri, ma in genere mediocri. Penso che si possa trasferirli dai loro troni agli altari solo con una buona dose di immaginazione. Furono sovrani come tanti altri del loro tempo e anche prima e dopo di loro. Gli esseri umani posti sul trono in genere deludono, e ci si può fare poco, salvo prevedere procedure per la loro sostituzione senza esiti drammatici.  A questo appunto serve la democrazia, a porre un limite a qualsiasi potere. Ma i  papi, nell’indicare una sovranità celeste, nel relativizzare ogni altra sovranità, anche quella che si pretendeva fosse del popolo, funzionarono. Nessuno deve essere completamente in mani altrui. E ciò che non è agàpe  vale poco. Pervicacemente i papi da fine Ottocento proclamarono questa dottrina, che, nell’opera ostinata del cattolicesimo democratico, sovvertì, alla caduta dei fascismi storici, la bellicosa Europa di prima, creando un’Europa di pace, la nostra nuova Europa, fondata sul principio di sussidiarietà.

 Eccolo definito da un papa:

80. È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle. 

81. Perciò è necessario che l'autorità suprema dello stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta ; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell'attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso. 

82. Questa poi deve essere la prima mira, questo lo sforzo dello Stato e dei migliori cittadini; mettere fine alle competizioni delle due classi opposte, risvegliare e promuovere una cordiale cooperazione delle varie professioni dei cittadini. 

[Dall’enciclica Il quarantennale, del 1931, diffusa dal papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°]

  Che cosa potrebbe esserci di più distante dal fascismo italiano totalitario, che imperava nel 1931? Eppure solo due anni prima, nel 1929, il papato aveva concluso un compromesso proprio con il capo del fascismo che venne immortalato mentre, nel palazzo del Laterano, firmava i documenti dei Patti Lateranensi.

  E’ per questo che noi cattolici non abbiamo mai avuto veramente cuore di separarci dai nostri papi, pur come essi sono, con i loro limiti umani, che tanto più vengono in evidenza negli esseri umani, ed anche nei sovrani religiosi,  quanto più  si giunge in alto. Sì, ci sono state anche altre grandi anime che si sono spese in quella stessa direzione. Ma in fondo è proprio la  dottrina sociale, il lavoro organizzato dai nostri papi, ad aver prodotto, con una svolta cultura importantissima, con riflessi politici, giuridici, istituzionali, sociali, la straordinaria realtà sociale della nostra nuova Europa, un fatto unico nella storia dell’umanità, mai visto prima. Non  è un caso, credo, che l’Unione Europa sia attualmente guidata dalla Germania governata da democristiani. Ora è in crisi, certo, ognuno è tentato di fare per sé, il miracolo sembra dissolversi. Si preferirebbe lasciare i sofferenti al loro destino, non si pensa si avere bisogno, non ci si sente diminuiti se mancano all’appello. Non è forse perché la capacità politica dei cattolico-democratici è venuta progressivamente meno e, allora, la politica è vista come lotta di tutti contro tutti per far prevalere gli interessi dei più forti, gli altri abbiano le briciole, stiano indietro e spilucchino ciò che cade dalle tavole dei ricchi? Uno spirito religioso si sente rimordere dentro. Ma se uno vuole farsi macchina sociale, antica belva, perché, nel suo spirito, non vede altra soluzione e, inoltre, i populisti gli confermano che effettivamente non c’è altra soluzione che essere, farsi, cattivi? Ed ecco che anche oggi, però, ci giunge la voce di un papa, il quale, pur con tutti i suoi limiti che egli nemmeno nega, tanto che non manca mai di chiederci di pregare per lui, ci richiama l’anima e lo spirito, l’agàpe e l’insegnamento del nostro antico Maestro, la giusta via. Dal male nasce solo il male: oggi tocca ad altri, domani toccherà a noi, come accade in natura quando le bestie invecchiano e allora vengono lasciate indietro e muoiono, sopraffatte da bestie più feroci di loro o semplicemente dalla natura, senza più nessuno a dare aiuto.

 Democrazia, carità, pace, persona e mondi vitali: tutto il nostro pensiero sociale ruota intorno a questo. Quando c’era il conflitto tra socialismo e capitalismo se ne parlava come di una terza via, una specie di  via di mezzo, ma non è così: è veramente un’altra via. Lì dove i mondi vitali, invece di confliggere, come vorrebbe la crudele legge della natura, si cercano, si incontrano, e nell’incontro, nella relazione, non nel conflitto, crescono e si arricchiscono.

 

82. Fare politica in spirito di carità

 

 Quando il papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°,  nel 1927 diceva agli universitari cattolici della FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana, queste parole:

I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.

non pensava alla politica democratica, a quella che oggi dobbiamo praticare in Italia.

   In Italia si era all’epoca del fascismo storico trionfante e da tempo si stava trattando per superare la questione romana, le pretese rivendicate dal papato sulla città di Roma e sull’Italia dopo la conquista militare del suo piccolo regno nell’Italia centrale, nel 1870, da parte del Regno d’Italia. A breve sarebbero stati compiuti due atti formali che avrebbero spinto i cattolici italiani alla collaborazione con le istituzioni del regime fascista italiano, in particolare nel sistema delle Corporazioni che organizzava, inquadrandole nel sistema statale, le forze del lavoro. Si tratta dei Patti Lateranensi, conclusi nel 1929 dal rappresentante del papa Ratti e dal capo del governo Benito Mussolini, in rappresentanza del Regno d’Italia, e dell’enciclica Il quarantennale, del 1931, in occasione dei quarant’anni dalla prima enciclica sociale contemporanea, la  Le novità, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci.

  Tuttavia presto gli universitari cattolici e gli aderenti al movimento di Azione cattolica denominato Laureati Cattolici, sorto tra i fucini laureati, i rami intellettuali  dell’Azione Cattolica, colsero l’opportunità del collegamento tra politica e carità, che rendeva lecito dal punto di vista dottrinale conciliare  quelle due dimensioni, per progettare un futuro dell’Italia diverso da quello prospettato dal fascismo e, in particolare, una politica democratica. Bisogna ricordare che quest’idea era stata  scomunicata all’inizio del secolo, dallo stesso papa della Le  novità, il Pecci, con l’enciclica Le gravi [controversie]  sociali, del 1901. Lo stesso magistero papale virò verso questa concezione democratica a partire dal 1944, quando, constatando la rovina dell’Italia causata dalla guerra mondiale in cui dal 1940 il Mussolini aveva portato la nazione al seguito del despota nazista Adolf Hitler, il papa Eugenio Pacelli, nel radiomessaggio natalizio del 1944, incoraggiò i cattolici sulla via della democrazia. La piena accettazione delle democrazia come regime politico maggiormente conforme allo spirito di carità si ebbe però molto più tardi, con l’enciclica Il centenario, diffusa nel 1991 dal papa Karol Wojtyla in occasione dei cento anni dall’enciclica Le novità. Tra il 1891 e il 1991 si è avuto un completo ribaltamento del magistero papale sulla democrazia, condannata addirittura come eretica all’inizio e alla fine proposta come regime politico più conforme alla dignità umana. Con il Wojtyla si ebbe invece una ripresa della polemica con il socialismo, che era molto forte nell’enciclica Le novità. Ma quanto a questo la situazione storica era molto diversa: nel 1891 il socialismo era in forte espansione, in particolare tra gli operai europei, mentre nel 1991 era in crisi terminale.

  Che significa questo nesso tra politica e carità, che secondo il magistero ci deve essere? Dipende da che cosa si intende per politica e per carità. Politica significa governo della società. Carità, in senso religioso secondo la nostra fede, è  far posto agli altri in un benevolo convito dove ce n’è per tutti. In spirito di carità religiosa non è lecito fare esclusioni: tutti  significa tutti. Prefigura un nuovo ordine mondiale. C’è appunto questo in due documenti normativi molto importanti in religione, le Costituzioni Luce per le genti  e  La gioia e la speranza  diffusi dal Concilio Vaticano 2°, tenutosi a Roma tra il 1962 e il 1965. Tra quei due poli c’è la democrazia, che significa  governo del popolo, ma anche  per il popolo e  mediante il popolo. E’ appunto questa la definizione che ne diede il presidente statunitense Abramo Lincoln in un celebre discorso tenuto a Gettysburg  nel 1863, durante fine la Guerra civile tra gli stati del nord e quelli del sud, inaugurando un cimitero militare:

[…]we here highly resolve that these dead shall not have died in vain—that this nation, under God, shall have a new birth of freedom—and that government of the people, by the people, for the people, shall not perish from the earth.

 Siamo fortemente determinati a far sì che questi morti  non siano morti invano, che questa nazione, al cospetto di Dio, abbia una rinascita di libertà, e che il governo del popolo, mediante il popolo e per il popolo non scompaia dalla terra.

  Nella concezione fascista  il popolo  era il popolo italiano, intesa come gente che era nata da italiani da generazioni e che per questo aveva un po’ la stessa faccia. Si pensava ad una razza  fascista, una variante umana italica, che in realtà non è mai esistita. L’altro giorno un politico, parlando di sostenere le famiglie italiane, ha detto che bisogna farlo perché la nostra razza  non scompaia: non se ne è reso conto, perché è una persona che politicamente vuole collocarsi in ambito democratico, ma ha sviluppato un’idea fascista. C’è questa concezione al fondo della decisione di attribuire la cittadinanza italiana a persone che abbiano nonni italiani, anche se non hanno altro legame con l’Italia, e addirittura di farle votare alle nostre elezioni politiche. L’altro giorno si è saputo che il ministro australiano Matt Canavan si è dovuto dimettere perché ha scoperto di avere anche  la cittadinanza italiana e in Australia non si può essere ministri avendo la doppia cittadinanza. Nel 2007 sua madre, nata da italiani, chiese e ottenne la cittadinanza italiana, così sembra che si diventato cittadino italiano, a sua insaputa, anche il figlio, appunto Matt Canavan, all’epoca venticinquenne. Ma è davvero andata così? Davvero non c’è stato necessità di altro? Sulla stampa sono state riportate queste dichiarazioni del ministro dimissionario: “Non sono nato in Italia, non ci sono mai stato e per quanto ne sappia non ho neanche mai messo piede nel consolato o nell’ambasciata italiana.  Sapevo che mia madre fosse diventata cittadina italiana, ma non avevo idea di esserlo anch’io, né avevo mai chiesto di diventarlo”.  Ecco dunque un signore australiano che è diventato italiano senza aver altro legame con l’Italia che i suoi nonni, per diritto di sangue. E da noi ci sono tantissimi ragazzi che  sono nati in Italia, parlano italiano, hanno studiato in Italia, pensano in italiano, agiscono come italiani,  amano l’Italia e gli italiani, vorrebbero con tutte le loro forze essere cittadini italiani e non possono diventarlo perché sono nati da stranieri. Per  condanna di sangue  sono esclusi, l’Italia non è loro, né per loro, né mediante loro. Non potranno votare da noi e se vanno in visita alla Camera dei deputati con la loro classe scolastica, come è accaduto, vengono cortesemente accompagnati alla porta. Il Canavan vi sarebbe invece ammesso, caso mai gli capitasse di passare per l’Italia, perché è anche  cittadino italiano. Avrebbe probabilmente bisogno dell’interprete per farsi capire bene, perché l’italiano che sa risale all’infanzia, se mai la madre gli ha parlato nella nostra lingua.

 “Noi il popolo degli Stati Uniti”, con si apre la Costituzione degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel 1789, uno degli atti fondamentali della prima rivoluzione democratica moderna, quella statunitense, insieme alla Dichiarazione di Indipendenza nel 1776. Quel noi  non comprendeva la popolazione schiava, composta di genti africane deportate in America, che viveva negli Stati Uniti, una parte rilevante della popolazione residente. Ma neanche tutto il resto del mondo. Ma, con tutto ciò, era un atto lungimirante, che poteva prefigurare una rivoluzione molto più vasta, globale: in qualche modo i rivoluzionari statunitensi avevano parlato a nome dell’intera umanità, non solo di un  popolo,  ma di tutti  i popoli della Terra, quando avevano proclamato, nella loro Dichiarazione di indipendenza:

Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idoneo al raggiungimento della sua sicurezza e felicità.

  Non si può rivendicare il  diritto alla democrazia  senza riconoscerlo a tutti. Ne siamo consapevoli?

 Settant’anni di democrazia avanzata hanno inciso meno profondamente nella cultura popolare dei vent’anni del fascismo storico. Perché? La vera ragione è molto dura da accettare, specialmente per noi cattolici. E’ che fascismo e dottrina sociale si erano profondamente integrati e questo ha determinato una vera e propria tradizione, di genitori in figli, che è giunta anche tra noi. E qualche volta, quando si parla del buon cattolico, non ci si rende conto di tratteggiare la figura del fascista cattolico, approvata dal magistero ai tempi della compromissione con il regime fascista storico, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta. Lo si fa il più delle volte senza rendersene conto, ripetendo atteggiamenti che si sono imparati da piccoli, dai nostri genitori, i quali a loro volta li hanno imparati dai loro. Questa ideologia di  conciliazione  tra fede e fascismo si  è radicata fortemente nelle nostre genti di fede al tempo in cui l’Azione Cattolica, la potente agenzia culturale e politica  (oltre che naturalmente religiosa) creata dal papato nel 1906, si fascistizzò, ad eccezione dei suoi rami intellettuali, della FUCI  e dei Laureati Cattolici. Abbiamo, così, in qualche modo, succhiato il clerico-fascismo  con il latte delle nostre madri. Sarebbe possibile realizzare una tradizione democratica nella fede  altrettanto forte? Perché no? Tutto però dipende da che cosa, e soprattutto da chi, consideriamo per popolo.

 

83. Noi popolo

 

A chi pensiamo quando parliamo di "popolo"? È importante saperlo in un sistema politico come quello italiano che dà la "sovranità" al popolo.

  In diritto si parla di popolo riferendosi alla gente che sta sotto un potere pubblico, che si impone senza bisogno di consenso. Vi hanno mai chiesto se volevate essere italiani? Eppure, vivendo in Italia, siete soggetti alle leggi italiane. Siete popolo. Ma se siete anche "cittadini" rimanete parte del popolo italiano anche andando all'estero. In Italia c'è anche gente che fa parte del popolo, perché vive e lavora stabilmente da noi, è soggetta alle leggi italiane, ma non ha la "cittadinanza". Avere la cittadinanza significa poter partecipare, quando si hanno diciotto anni, alle procedure democratiche delle istituzioni pubbliche, quelle che esercitano i poteri pubblici. Un sistema politico è tanto più democratico, secondo la concezione che ai tempi nostri si ha della democrazia, quanto più la cittadinanza è estesa al popolo, quanto più si riduce il numero di quelli che sono popolo ma non cittadini. Nell'antica Atene, dove vennero ideate le "parole" della democrazia, non era così: i cittadini erano una minoranza, vale a dire tutti quelli che, non avendo l'obbligo di lavorare, avevano tempo di discutere dei problemi dello stato. A quell'epoca lavorano quasi solo gli schiavi. Il lavoro era un lavoro schiavo. La democrazia italiana di oggi dovrebbe essere invece  "fondata sul lavoro". È scritto nell'art.1 della nostra Costituzione. Che significa? Significa impegnarsi a non escludere i lavoratori dalle procedure democratiche. Questo però richiede che il lavoro non sia lavoro schiavo. È quindi un "impegno" perché si è visto storicamente che l'economia, lasciata a sé stessa genera lavoro schiavo.

 Di popolo però si può parlare anche in altro senso. Come di gente che, non solo è soggetta ad uno stesso potere pubblico, ma che è legata anche da altro, ad esempio da una lingua e da altre tradizioni culturali, modi di vita, modi di pensare, anche idee religiose. Era così che lo intendeva il rivoluzionario italiano dell'Ottocento Giuseppe Mazzini, al quale sono intitolate tante vie e piazze in Italia. Il suo motto fu "Dio e popolo".  Fino al 1861, quando fu proclamata l'unità nazionale sotto il Regno d'Italia, e sotto la monarchia dinastica dei Savoia, non ci fu "un" popolo italiano inteso come soggetto ad un unico potere pubblico, ma più popoli italiani, sotto diverse autorità pubbliche, ed anche ad un'autorità straniera, quella dell'Impero di Austria e Ungheria. Mazzini però ed altri intellettuali e rivoluzionari della sua epoca, pensavano che ci fosse una unità di cultura, intesa come storia,stili di vita, modi di pensare che faceva degli italiani un solo popolo anche se al momento erano sotto varie autorità pubbliche. Questo, nella sua visione, esigeva l'unità nazionale. Era, per lui, anche un problema di dignità. Come si canta nel nostro inno nazionale, scritto e musicato da rivoluzionari mazziniani, gli italiani erano "calpesti e derisi" proprio perché non erano "popolo", perché erano divisi. 

 

84. Serve un governo del popolo?

 

La democrazia ê governo del popolo. Ma serve? Le imprese, ad esempio, non sono dirette con criteri democratici, eppure sono prese spesso a modello quando si pensa come gestire al meglio gli affari pubblici. 

Se consideriamo realisticamente noi stessi, capiamo che sappiamo fare bene poche cose. Questo anche se in un certo campo arriviamo ad essere degli esperti. Come possiamo "governare"? Gli altri però sono nelle nostre stesse condizioni. Che cambia mettendosi insieme? Sono obiezioni alla democrazia che furono poste fin da quando su questi temi si cominciò a ragionare sistematicamente, nell'antica Grecia di circa 2500 anni fa.

 Si pensò, allora, che fosse meglio che lo stato fosse retto da competenti: si pensò ai filosofi, che nell'antichità si intendevano un po' di tutto. Ma, al dunque, fu sempre la forza a prevalere. All'origine di ogni potere politico c'era sempre un atto di violenza. Poi il potere tendeva a perpetuarsi e a trasmettersi in una piccola cerchia. In particolare si cercava di tramandarlo in famiglia, di genitore in figlio, quindi di renderlo potere dinastico. Del resto il governo monarchico era una tradizione molto antica. Ancora oggi l'idea di fare unità politica intorno ad una persona convince. Ma non regge ad una critica razionale. Perché i singoli rimangono sempre persone limitate: in genere, finiscono con il deludere. E, di solito, non vanno al potere dei sapienti. La storia rende chiaro, poi, che la capacità di governo non si trasmette di genitore in figlio e non si accompagna automaticamente alla sfrontatezza e alla violenza di quelli che con la forza ambiscono a conquistare il potere. Per impratichirsi nel governo occorre tempo, ma il protrarsi di un governo tende a produrre una degenerazione, in particolare una commistione di interessi privati e pubblici. Più si resta al potere, più si diventa dipendenti dal potere e non lo si vuole lasciare. Si ricorre ad ogni mezzo per non esserne esclusi. Le monarchie dinastiche europee dal Medioevo cercarono di accreditarsi come volute dal Cielo, ma anche prima c'era stato un impiego della religione a sostegno del potere pubblico. A volta si divinizzavano i sovrani, ma in un ambiente di religione politeistica questo aveva conseguenze meno serie: il sovrano era solo un dio tra molti altri, e nemmeno il più potente. La gente si accostava al sovrano-dio con lo stesso spirito con cui lo faceva con gli altri cercando di ingraziarsene i capricciosi favori. Se però l'autorità celeste è una sola e per di più è per definizione sommo bene, l'effetto di consolidamento del potere è molto maggiore, e i sudditi non devono solo obbedire, ma anche amare il sovrano. In questo quadro la democrazia viene considerata un'empietà. È in fondo questo il vero motivo per il quale si vorrebbe che la Chiesa non fosse democratica, ed effettivamente non lo è. Poi però si deve constatare che questi sovrani voluti dal Cielo, civili o religiosi che siano, non sono granché. Ancora oggi ci sono monarchie politiche dinastiche, sebbene contino poco nel governo dello stato, affidato a istituzioni democratiche. A parte dare spettacolo, con fastose cerimonie pubbliche di tanto in tanto, i monarchi di oggi fanno ben poco e, individualmente, non si distinguono molto dai loro sudditi. Non sono sapienti, ma non sono nemmeno competenti in qualche cosa, salvo l'etichetta di corte. Hanno il problema di come passare il molto tempo libero che hanno e spesso hanno sviluppato le abitudini di vita dei grandi ricchi tra i quali si sono formati. 

 Ma il "popolo" è meglio di loro? Se lo consideriamo solo come insieme di gente che è soggetto ad un potere pubblico, sicuramente no. Perché questa è una posizione puramente passiva. Diventa migliore quando si manifesta capace di critica sociale, a cominciare dall'autocritica. La critica induce a migliorarsi, ma è cosa che si impara. Uno come Giuseppe Mazzini (1805-1872) pensava, e infatti lo scrisse, che gli italiani fossero democratici per indole, per natura capaci quindi di migliorarsi mediante critica e autocritica. Così ribatteva a chi lo metteva in guardia che in realtà non era così. Gli obiettavano che era meglio procedere per gradi: conquistare l'unità nazionale sotto la monarchia Savoia, che dal 1948 si era fatta "costituzionale", concedendo uno Statuto e accettando di condividere il potere con istituzioni democratiche, poi educare la gente alla democrazia, quindi  farne "popolo" di cittadini da popolo di sudditi che era, poi, infine, proclamare la repubblica. Mazzini premeva invece per avere subito la repubblica per far fare precocemente tirocinio di democrazia alla gente. Pensava infatti che le dinastie regnanti dell'epoca, al di là dei periodici conflitti per ragioni di espansione territoriale, al dunque si sarebbero coalizzate contro i loro popoli, per mantenere il loro dominio dinastico su di essi. E in questo non sbagliava.

 Se il popolo si impegna nel governo democratico, divenendo capace di critica e autocritica sociale e accettando i limiti democratici ad ogni potere, in durata ed estensione, può essere un governante migliore di quando il potere finisce stabilmente nelle mani di pochi o di uno solo, perché più gente significa più risorse umane, più competenza, poter vedere le cose da più punti di vista e quindi meglio,ma soprattutto cercare di non trascurare nessuno. Per riuscirci il popolo deve proporsi di non essere un despota. Infatti nella nostra Costituzione, nello stesso articolo, il primo dei "principi fondamentali", in cui si attribuisce al popolo la "sovranità", vale a dire il poter più alto, si pone ad esso il limite della legge. Quello del popolo, se vuole essere democratico, non deve mai essere un potere "assoluto", vale a dire illimitato. I "populisti", quelli che cercano di ingraziarsi emotivamente il popolo per montargli sulle spalle e dominarlo, lo propongono invece come illimitato, contrapponendo democrazia e popolo. Ma la legge della storia è questa: il popolo che vuole farsi despota, cade in mano ai despoti. Quelli che si lasciano fascinare dalle parole d'ordine dei populisti di oggi, come "meno tasse!" e "aiutiamoli a casa loro!", costruiscono il nido del despota.

 

85. Diventare popolo?

 

  L'unità nazionale si fece tra il 1848 e il 1870 e ai moti e alle vere e proprie guerre per realizzarla parteciparono molti cattolici. Vi si opponevano le monarchie che dominavano all'epoca gli Stati italiani, tra le quali l'Impero di Austria e Ungheria e il Regno pontificio, ad eccezione di quella dei Savoia del Regno di Sardegna, con capitale Torino. Dall'altra parte del fronte c'erano altri italiani, oltre che i militari e funzionari  austro-ungarici, e questi nemici erano, in massima parte, cattolici. Giuseppe Mazzini, l'apostolo dell'unità nazionale, aveva scelto come motto quello di "Dio e popolo", e voleva costruire il nuovo stato unitario come una repubblica animata da valori umanitari. La scritta "Dio e popolo" era al centro del tricolore che fu adottato come bandiera della Repubblica romana, nel 1849, quando per alcuni mesi ebbe successo una rivoluzione democratica a Roma. In quell'occasione Mazzini partecipò con Aurelio Saffi e Carlo Armellini all'organo provvisorio  di governo del nuovo stato. Il papato non riuscì a fornire una teologia che indirizzasse tutti i cattolici, in questa tumultuosa fase politica, per costruire una pace democratica nei tempi nuovi, che la storia spingeva verso il superamento della frammentazione istituzionale italiana. I moti per l'unificazione nazionale non erano irreligiosi, ma divennero anticlericali per la strenua opposizione del papato. Quest'ultimo, addirittura, dopo la proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861, vietò ai cattolici la partecipazione alla vita democratica del nuovo stato nazionale. E, in un drammatico concilio tenutosi nel 1870, l'anno della conquista militare del Regno pontificio da parte delle truppe del Regno d'Italia, rafforzò il divieto proclamandosi infallibile nella materia di fede: e la conquista di Roma, con la perdita della sovranità politica del papato, la poneva in questione, perché riguardava anche la missione del papato. Fatto sta che, come osservò lo scrittore e politico Massimo D'Azeglio, fatta l'Italia bisognava fare gli italiani. In questo il papato si pose di traverso, realizzando una vera e propria tragedia nazionale, privando il nuovo stato dell'apporto dei cattolici, che proprio in quegli anni, dall'unità nazionale in poi, avevano cominciato ad esprimere numerosissime e vivaci iniziative sociali, in particolare a beneficio degli strati meno ricchi del popolo. In un certo senso, quello del "fare gli italiani" è un problema ancora attuale, sebbene in un senso diverso da come veniva inteso a metà dell'Ottocento. Non si tratta infatti di aderire ad un modello politico ideale di italiano, quindi di adeguare la realtà ad una teoria, ma di riscoprire le ragioni di essere popolo, e,innanzi tutto, di scegliere come esserlo e con chi.

  Come ho accennato negli interventi precedenti ci sono infatti vari modi di essere popolo. Un popolo democratico è qualcosa di più di gente soggetta ad un potere pubblico su un certo territorio. In democrazia il popolo esprime la cittadinanza, vale a dire una partecipazione al governo. Si parla in proposito di "sovranità", intesa come potere supremo, ma bisognerebbe trovare un'altra espressione per definire il potere democratico. Infatti, in democrazia, nessun potere, nemmeno quello del popolo, è veramente "sovrano", vale a dire illimitato. Nelle democrazie contemporanee il potere supremo, la "sovranità", è limitato da un sistema di  principi umanitari che valgono anche se non espressi in leggi formali e addirittura contro le leggi formali, fondando il diritto personale e comunitario di resistenza. È su queste basi che, tra il 1945 e il 1946, poterono celebrarsi processi giudiziari in sede internazionale contro alcuni del più alti capi del governo tedesco dei tempi in cui la Germania era stata governata da un regime nazional-socialista, vale a dire dal fascismo di Adolf Hitler. Questa idea, che nessun popolo possa finire completamente in mani altrui, fossero anche quelle di capi legittimati dallo stesso popolo, fa parte della dottrina sociale della Chiesa ed è molto antica, risalendo al pensiero medievale, come filosofia istituzionale. Ma i suoi fondamenti sono ancora più antichi e li troviamo nei Vangeli. Nelle varie encicliche sociali del papa Karol Wojtyla ne possiamo leggere  un'ampia e sistematica esposizione. La "costituzione" dell'Unione Europea si basa su di essa. Non appena i cattolici, dopo la Seconda guerra mondiale,  furono liberati dai vincoli clericali che ostacolavano la loro piena partecipazione alle democrazie europee, essi idearono un nuovo mondo, e parteciparono in ruoli determinanti alla sua realizzazione. Poteva accadere prima, fin dall'Ottocento? Le risorse culturali c'erano. Mancava la democrazia. Il nesso tra valori e democrazia è fortissimo. Certi valori richiedono un ambiente politico democratico per affermarsi. Mazzini se ne rendeva conto e contestava vivacemente quelli che pensavano che democrazia significasse solo anarchia. Oggi però il populismo corrente contesta appunto alla democrazia la mancanza di valori e propone di fare a meno di essa.  A ognuno dovrebbe essere consentito di esprimere preferenze via internet, poi si fa il conto: ma questa non è democrazia, è un sondaggio. Che cosa manca? Manca l'impegno personale. Che cosa si mette di sé, infatti, in questa procedura? Si è disposti a rischiare la propria vita o, comunque, ciò che di più importante si è o si fa? E mancano anche il dialogo e l'intesa con gli altri: il farsi partito, il modo in cui si dà ordine e prospettiva all'impegno politico collettivo. È per questa via che il Mazzini indusse moti popolari molto potenti, basati su un coinvolgimento etico e personale fortissimo, che furono determinanti nel realizzare l'unità nazionale. Questa è politica che cambia le cose. Il populismo invece è solo un inganno, per strumentalizzare il voto popolare e saltare sulle spalle di un popolo. Non cambia veramente nulla per il popolo, se non l'identità di chi è riuscito a dominarlo, domandolo. Per questa via la democrazia perde senso, rimane solo vuota procedura.

 

 

 

86. La società costruita

 

  Nell'organizzazione della società non c'è nulla di naturale: è integralmente una costruzione umana. È per questo che cambia continuamente e, in genere, abbastanza rapidamente. Il bene e il male che c'è dipendono da questo assetto della società. Senza un ordine la società non potrebbe esistere, non ci sarebbe più. Esso deriva dalle relazioni tra i gruppi sociali, e, al livello minore, tra le persone. Le consuetudini sociali sono le più antiche leggi umane. È come quando tante persone percorrono una certa via in un bosco e allora a terra si crea un sentiero visibile, che viene percorso quando si vuole arrivare da una certa parte. Quando sulle consuetudini si crea un accordo esplicito, nasce la legge come la intendiamo. Ma una legge può anche essere imposta dal gruppo sociale che riesce a imporsi sugli altri. Nasce un'autorità pubblica. Queste leggi, imposte da un'autorità, sono più resistenti al cambiamento, perché sono legate alla forza del gruppo sociale che le ha rese obbligatorie e che si occupa di punire chi non le segue. Si crea così una tradizione normativa. Per dare più forza a queste leggi le si può collegare ad un'autorità celeste e allora la violazione diventa anche un atto empio. Le violazioni più gravi lo sono ancora, ad esempio il furto o l'omicidio. In religione si sta in questi giorni discutendo se rendere tale anche il delitto di corruzione politica. Ma le leggi umane rimangono integralmente una costruzione sociale che dipende dal rapporto di forza tra i gruppi della società.

  Quando emergono nuovi gruppi sociali, cambiano le norme. È accaduto con l'affermarsi dei ceti popolari, degli strati più umili della società, nel corso del Novecento. Erano, e sono, quelli che stanno peggio. Chi stava meglio in società era una piccola minoranza. Sembrava che il Cielo volesse così. Reagire a questo stato di cose sembrò in origine un atto empio. È per questo che in religione spesso si ostacolò il processo di cambiamento sociale in senso più giusto. In particolare questa fu, a lungo, la posizione del papato. Nell'enciclica Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone 13*, si insegnava che la diseguaglianza tra i gruppi sociali non poteva essere superata, quindi che era "naturale", ma che i più ricchi e i padroni dell'economia non dovevano infierire su chi stava peggio. Poi la dottrina sociale cambiò molto e nell'enciclica Lavorando, diffusa nel 1981 dal papa Karol Wojtyla, regnante in religione come Giovanni Paolo 2*, per molti versi si insegnano idee opposte. Anche la Chiesa come gruppo sociale cambia? È certamente così. Nelle sue dinamiche sociali ha seguito quelle delle altre società. I suoi capi hanno esercitato l'autorità recependo il modo di comandare delle altre autorità. I papi, in particolare, concepirono sé stessi come imperatori, ma dagli anni Sessanta vorrebbero essere qualcosa di diverso.

 Il male che c'è in una società, quello collettivo e quello personale dipende in gran parte da come è stata costruita l'organizzazione sociale. I più interessati al cambiamento sono quelli che stanno peggio, che di solito sono la maggioranza. Senza correttivi, tendono infatti a prevalere minoranze di privilegiati che per varie ragioni hanno raggiunto posizioni di forza. In ambente democratico, in cui prevalgono le maggioranze, queste ultime dovrebbero poter riuscire a cambiare le cose, ma storicamente non è stato così facile. Questo perché la cultura, che spiega come vanno le cose, è in genere controllata da chi sta meglio e quindi dà molte buone ragioni per lasciare tutto com'è. il primo passo per suscitare un movimento popolare di riforma è di far prendere alla gente coscienza del fatto che certe sofferenze non sono ineluttabili, ma la conseguenza di un certo ordine sociale, che come è stato costruito può essere cambiato, e anche abbattuto se veramente malvagio.

 

87. Pensare come popolo

 

  Per fare politica, quindi per governare la società, bisogna pensare in termini collettivi, sia che lo si voglia fare con metodi democratici sia che lo si voglia fare in altro modo. Questo, il pensare sociale, ci viene oggi più difficile. Siamo stati diseducati a farlo, la società è stata intenzionalmente disarticolata. È un processo che si è sviluppato in tutto il mondo Occidentale a partire dagli scorsi anni '80 e che ha avuto nel capo del governo inglese Margaret Thatcher, in carica dal 1979 al 1990, l'ideologa più lucida, coerente e determinata. Sosteneva che la società non esiste e che esistono solo gli individui. In questa concezione ognuno vale per sé stesso o, come si dice ora in Italia, "uno vale uno". Questo modo di pensare impedisce alle masse di quelli che in società stanno peggio di cambiare le cose a loro favore democraticamente. Esse hanno di fronte i privilegiati che controllano il corso degli eventi politici da posizioni di forza raggiunte storicamente, di solito attraverso il controllo dell'economia, e possono prevalere solo con il numero, facendosi popolo da insieme caotico di individui che sono. Una persona da sola non conta nulla e la prima strategia di chi controlla il potere da un punto di forza è quella di disarticolare le opposizioni, di scoraggiarle, disperderle e dissolverle, in modo che tornino masse di individui scollegati. Perché, per fare politica, non basta pensare in molti in uno stesso modo e avere interessi comuni, ma occorre essere legati da un patto d'unità d'azione a cui essere strenuamente fedeli. E bisogna avere un progetto non solo per sé stessi e per il proprio gruppo, ma anche per tutti gli altri, compresi quelli che ci si oppongono. Infatti la società c'è ed è la rete di relazioni che ci consente di sopravvivere in tanti in un mondo che si è fatto molto complesso e che esprime stili di vita con molta sofisticata tecnologia dentro. In un progetto totalitario l'obiettivo principale sarà il dominio della società, in modo da rendere stabile il proprio potere. In un'ottica democratica si cercherà invece di organizzare la politica in modo che nella società la maggior parte possibile della gente, nonostante le sue diversità,  possa beneficiare delle attività collettive e, innanzi tutto, far valere i propri problemi di vita. Si cercherà quindi di individuare, in ogni momento storico, quale sia il "bene comune", che comprende anche la pace sociale e internazionale, in modo che non sia messa in pericolo la vita della gente. In una  visione non democratica, quando un gruppo riesce a conquistare il potere prevalendo sugli altri, si avrà invece di mira essenzialmente il benessere del ceto dominante, mentre quello degli altri verrà considerato quel tanto che basta ad ottenerne il consenso sociale che serve a disarticolare ogni opposizione. È appunto a questo che servono le politiche "populiste", che ebbero nel fascismo mussoliniano un esempio importante. Ma storicamente è una linea che era stata seguita anche dai monarchi dinastici dell'epoca dell'assolutismo regio, fin da tempi molto antichi. Nell'antica Roma, dopo la decadenza delle istituzioni repubblicane, nel primo secolo dell'era antica, il favore delle masse veniva conquistato con sistematiche elargizioni e spettacoli pubblici, "pane e circo" si diceva. In questo modo, di fronte al potere populista non democratico, le masse rimangono plebe informe, tumultuante per avere di più, ciascuno in lotta con gli altri. Farsi popolo richiede un'etica diversa e, innanzi tutto, un'etica, un senso del dovere per il quale si diviene insensibili alle lusinghe populiste e capaci di resistere alla violenza esercitata dal potere non democratico quando il populismo non funziona. Nelle drammatiche violenze di questi giorni in Venezuela assistiamo alla degenerazione di una democrazia verso l'autocrazia violenta dopo il fallimento di politiche populiste. 

  L'idea che in politica si debba seguire il "bene comune" è centrale nella dottrina sociale della Chiesa. Questo significa che l'egoismo sociale è riprovato. Questo condanna molte delle parole d'ordine populiste di oggi come l'idea che si debbano "rottamare" persone, o l' "aiutiamoli a casa loro" e, infine, il "meno tasse". Il pensiero sociale sviluppato in religione dagli anni Sessanta, dall'ultimo Concilio ecumenico, in cui gli affari sociali ebbero grande considerazione, ritiene che nessuno debba essere rottamato, che ognuno debba essere aiutato nel momento e dove si trova in difficoltà e che in società si debbano trovare le risorse necessarie per il benessere di tutti, a prescindere dalla distribuzione delle risorse che si ottiene nei rapporti di forza del mercato, il che richiede un adeguato livello di imposizione fiscale e, soprattutto, imposte che non gravino su tutti in modo eguale, ma di più sui ceti privilegiati. Infatti il privilegio, nella maggior parte dei casi, deriva da posizioni di forza sociale ingiustificate dal punto di vista razionale e di equità,  per cui alcuni vogliono di più e facendo forza sugli altri, ma anche sfruttando le opportunità offerte dal sistema sociale, riescono ad ottenere ciò che vogliono. Nel gergo, si dice che occorre quindi una "politica dei redditi", espressione che oggi suona strana, perché si ritiene sacro, e quindi intangibile, ciò che ciascuno riesce a conquistare in società, ma che è un fattore essenziale della democrazia, che rapidamente degenera nel caso dell'aggravarsi di generalizzate diseguaglianze ingiustificate. Lo strumento fiscale serve anche a temperarle.   Il populismo corrente non ha un progetto di politica dei redditi e, in merito, ha presentato come un grosso successo l'aver tagliato un po' le pensioni di alcuni vecchi parlamentari di lungo corso, disponendo che fossero ricalcolate secondo i diversi criteri vigenti per i parlamentari attuali: un risparmio tutto sommato irrisorio,che non tocca gli squilibri molto più rilevanti che ci sono in società, in un tempo in cui è enormemente aumentato, in particolare nel settore privato, il rapporto tra stipendi dei più alti dirigenti e quelli di base e in cui i risultati dei dirigenti vengono valutati tanto più positivamente, con aumenti di stipendi e premi, quanto più si riesce a risparmiare sui costi del lavoro, quindi sul numero e gli stipendi degli addetti. Una misura che, tra l'altro, come è stato osservato giustamente nel dibattito parlamentare, apre la via al ricalcolo di tutte le pensioni dei più anziani, che sono state determinate con criteri molto più favorevoli di quelli stabiliti per chi oggi ancora lavora.

 

88. La felicità di tutti

 

  Le scienze sociali e della mente ci avvertono che gli esseri umani sono viventi in relazione. Questo è anche il più profondo insegnamento della nostra fede. Quindi la nostra felicità dipende dai nostri rapporti con chi ci sta intorno e la condanna più dura è quella alla solitudine, se la vita, in quel momento, non è riempita dal soprannaturale, dal rapporto con il fondamento che vive. Non è avendo di più che si è più felici: spesso lo dimentichiamo. Ma, oggi più che in tempi passati, è la nostra stessa sopravvivenza che dipende dagli altri, e, ai tempi nostri, anche da gente che vive dall'altra parte del mondo. Sulle cose di nostro uso comune c'è quasi sempre un'etichetta o una scritta in una parte nascosta che dice dove sono state fatte. Gran parte di esse sono state prodotte in Oriente. Una guerra da quelle parti, dall'altra parte del globo, potrebbe privarci delle cose che ci servono quotidianamente o potremmo essere costretti a pagarle molto di più. Le vite di tutti sono interconnesse. Che succederebbe se tutto procedesse caoticamente, senza alcun ordine, solo secondo i rapporti di forza bruta? La società da cui dipendiamo per la sopravvivenza non potrebbe esistere. E infatti un'ordine c'è, disciplinato da una fitta rete di accordi internazionali, che fa sì che merci dall'altra parte del mondo possano arrivare fino a noi. Questi trattati sono stati costruiti dalla politica. Dunque, se vogliamo "fare politica" dobbiamo occuparcene, almeno a grandi linee e il destino di popoli lontani non ci può essere indifferente. E per loro è lo stesso.

  Spesso la politica è presentata come una via per avere di più, e invece dovrebbe servire a vivere meglio. Per questo è necessariamente legata ad un'etica. Se è  lotta di tutti contro tutti, per accaparrarsi un di più di risorse scarse, diventa inefficace e produce solo caos, in cui si vive peggio e addirittura si rischia di soccombere. È per questo che il mercato, in cui tutti competono con tutti, deve avere correttivi politici e non può fornire l'etica di una società, ma solo quella di un suo settore. Ma, in realtà, è proprio vero che  il mercato è quella specie di giungla come ci viene presentato, in cui i grossi cercano di mangiare i piccoli e, comunque, di fare fuori i più deboli? No, non è così. Tanto che è proprio in una società di mercanti che è nata, nell'antica Grecia, la più antica democrazia. Il mercato è un'istituzione che consente l'incontro e gli scambi, in sicurezza e anche a livello internazionale, tra genti che appartengono a sistemi politici diversi. E l'etica del capitalismo, in cui la produzione e gli scambi lasciano molto spazio all'autonomia privata, è appunto un'etica, vale a dire un sistema di limiti che ciascuno riconosce al proprio arbitrio e ai propri appetiti. Altrimenti diviene impossibile il commercio e rimane solo la rapina, per cui i forti profittano dei più deboli e li spogliano dei loro beni. Diverrebbe così impossibile lo stesso capitalismo se le vite e i beni fossero costantemente minacciati e nessuno potesse fidarsi degli altri. Questa condizione di insicurezza farebbe regredire la nostra civiltà a livelli primordiali, che non consentirebbero la sopravvivenza di otto miliardi e oltre di persone sul nostro pianeta. L'idea che si debbano "rottamare" i meno idonei sorse dalla seconda metà dell'Ottocento, sulla suggestione della scoperta dell'evoluzione  naturale delle specie animali secondo la lotta per la sopravvivenza, con la seguente selezione degli organismi più adatti alle condizioni ambientali. Si pensò che ciò che si era prodotto in milioni di anni nel mutamento delle specie viventi potesse essere applicato alla rapidissima evoluzione sociale degli umani. È il "darwinismo sociale", dal cognome dello scienziato Charles Darwin che nell'Ottocento studiò l'evoluzione delle specie. Ecco poi l'idea che la guerra sia un'igiene del mondo, diffusa nel secolo scorso dai futuristi e ripresa dal fascismo mussoliniano. Salvo poi constatare che la guerra è solo un immenso spreco di umanità, in cui spesso sono proprio i migliori a soccombere sul campo di battaglia. Era cosa nota da secoli, ma certe conquiste culturali vanno rinnovate di generazione in generazione.

  Si sostiene che i meno idonei in società dovrebbero essere rottamati per dare una specie di giustificazione alla propria crudeltà, a tutte le sofferenze che si producono e si ignorano negli altri. Si vorrebbe accreditare l'idea che questo sia "naturale", per scaricarsi la coscienza. Si ragiona in questo modo quando si dice che dovremmo selezionare i migranti per bisogno, tenendoci solo quelli che ci servono. Non si tiene conto che oggi tocca a loro e domani, affermato quel bestiale principio, potrebbe toccare a noi. E, del resto, già sta accadendo ai nostri figli che sono andati all'estero, perché da noi non abbiamo saputo costruire le condizioni per un loro impiego.

  La società costituisce ormai, a livello mondiale, un tutto integrato e inscindibile, da cui dipendono la nostra felicità e la nostra sopravvivenza. Non possiamo ragionevolmente pensare di poter sopravvivere in un nostro piccolo mondo separato, in cui ci sono solo quelli che ci vanno a genio. Dobbiamo pensare alla felicità di tutti e dobbiamo farlo razionalmente, programmando e costruendo relazioni. È questa anche la realtà dell'agàpe religiosa, che significa benevolenza per far posto a tutti, nessuno escluso. È questo che è al fondo della dottrina sociale, che contrasta duramente con la crudele ideologia dei rottamatori sociali. Nella visione del pensiero sociale animato dalla nostra fede la politica è agàpe. E, più o meno dagli anni Trenta del secolo scorso, si ritiene anche che sia un compito di tutti, non solo di quelli che si trovano al comando. Questo ora rende possibile costruire una teologia della democrazia, vale a dire rendere esplicito il senso religioso della democrazia come oggi là si intende, piena di valori umanitari, non solo procedura in cui vince la maggioranza. Una democrazia di tutti: questo è l'obiettivo che ci viene indicato dal nostro pensiero sociale ed esso è in grado di rivoluzionare il mondo in cui viviamo, nel quale c'è ancora tanta sofferenza. A questo si contrappongono i populismi correnti che sono profondamente antidemocratici e mirano a disarticolare le masse, rendendole schiave delle loro paure e delle loro tentazioni, per poi dominarle salendo loro sulle spalle e mantenendole schiave, come tutti i populismi hanno sempre fatto. Il paziente e pertinace lavoro di formazione sociale che in religione si va facendo sulle masse dal secolo scorso è teso invece a suscitare una realtà di popolo impegnato nell'agàpe, per trasformare la società avendo di mira la vera felicità. Laddove i populisti gridano "Avete ragione di avere paura!", la dottrina sociale esorta e incoraggia, invece, con un "Non abbiate paura!".

 

 

89. La politica e i valori

 

La politica democratica, in una democrazia popolare quali sono le democrazie dei nostri tempi, è quella che consente e richiede la partecipazione di tutti al governo della società. Questo richiede che sia piena di valori. Non si tratta infatti solo di dominare, ma anche, attraverso l'esercizio dell'autorità, e questo è appunto il governo, migliorare la vita di tutti. Ma come farlo senza stabilire dei principi che orientino in questo lavoro? Se invece la politica è solo dominio, allora non ha bisogno di tener conto di tutti, le basta creare le condizioni sufficienti per conquistare e mantenere il potere. In questo caso si comanda nell'interesse proprio e del proprio ceto, vale a dire di quelli che, dominando la società, vogliono avere o mantenere una posizione favorevole. Chi governa in questa prospettiva è tendenzialmente un conservatore, perché, conquistato il dominio sulla società, non ha alcun vantaggio a cambiare. In politica l'orientamento conservatore è di solito definito "di destra", perché, nel Parlamento nazionale, fin da quando ne esiste uno, dalle prime elezioni politiche tenutesi nel Regno d'Italia dopo la sua fondazione, avvenuta nel 1861, i conservatori si collocavano nei banchi di destra. Questo accadeva già nella Camera dei Deputati del Regno di Sardegna, trasformatosi nel 1861 in Regno d'Italia, dopo l'annessione di gran parte dei territori italiani. Non è detto però che un conservatore sia contrario al progresso, e quindi anche a cambiamenti piuttosto intensi. Storicamente, anzi, abbiamo assistito a movimenti politici conservatori che proponevano politiche volte al progresso, sia tecnologico che sociale. La tendenza conservatrice, quindi, riguarda essenzialmente solo l'assetto sociale, in particolare nel contrastare l'emersione politica di altri gruppi sociali che rivendicano vantaggi analoghi a quelli dei ceti dominanti. Quando a voler emergere sono i ceti popolari posti in società in posizione generalmente subalterna, allora questa tendenza politica è definita di sinistra, perché storicamente i parlamentari che l'hanno impersonata si collocavano nei banchi di sinistra del Parlamento. In Italia questa tendenza politica è stata storicamente manifestata dai mazzinianesimo, vale a dire dai seguaci del politico rivoluzionario repubblicano Giuseppe Mazzini (1805-1872), dal socialismo, nei diversi partiti che storicamente lo espressero, a partire dal 1892, con la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani, ma anche dal cattolicesimo democratico sulla base dei principi di giustizia sociale insegnati nella dottrina sociale a partire dall'enciclica Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione con il nome di Leone 13^.

  I processi democratici furono animati e diretti inizialmente, da metà Settecento, dai ceti che controllavano le nuove tecnologie di produzione e di commercio, detti "borghesi", nei confronti della nobiltà federata con i sovrani dinastici assoluti, la cui ricchezza era essenzialmente basata sulla proprietà terriera. Successivamente furono progressivamente sempre più influenzati da forze politiche di sinistra, nell'emergere alla politica delle classi popolari, dovuto principalmente all'azione delle forze socialiste, ma anche, e questo molto sensibilmente dagli anni '40 del Novecento, di quelle del cattolicesimo democratico ispirato alla dottrina sociale. Questo allargamento della base sociale dei processi democratici ha anche prodotto una notevole estensione dei valori democratici, al centro dei quali, per l'azione determinante di esponenti cattolici e socialisti nella progettazione della nuova Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, vennero a situarsi quelli della persona umana e del lavoro. Essi, in questa concezione politica, sono strettamente collegati attraverso l'idea di " dignità", che riassume un sistema di limiti etici a ciò che si può fare agli e degli altri. Il lavoro deve essere rispettoso della dignità della persona e, così, diviene essenziale per rafforzare e manifestare la dignità della persona. Si tratta di dignità che si vuole di tutti, quindi nella sua massima estensione. Per capire la differenza tra politiche di destra e di sinistra è molto importante studiare come si pongono su quei temi.

  Storicamente si manifestarono, in particolare in Italia con il fascismo storico, politiche populiste. Nel populismo le minoranze dominanti, in genere in quanto controllano l'economia, prendono atto della forza delle masse e concludono con esse un patto di dominio e protezione: le masse accettano di rimanere ordinatamente sottomesse e in cambio hanno prestazioni sociali, in genere in danno di un qualche nemico temuto dalla gente. In questo quadro le risorse per le politiche sociali non derivano da un riequilibrio delle diseguaglianze sociali, ma da strategie di potenza consentite dalla forza delle masse. Il fascismo mussoliniano le cercò mediante le guerre coloniali e, da ultimo, con la guerra imperialista al seguito della Germania dominata dal fascismo di Adolf Hitler. Queste politiche populiste vengono inquadrate solitamente in quelle di destra, perché si oppongono agli ideali e ai progetti di quelle di sinistra.

 Ai tempi nostri la politica è generalmente orientata in senso populista. È quindi conservatrice, ma tenta di avere un vasto consenso sociale prospettando prestazioni sociali. È piuttosto vaga quanto all'individuazione delle fonti delle risorse necessarie, che non si ritiene debbano conseguire a un riequilibrio delle diseguaglianze sociali. La prima prestazione sociale promessa è, in Italia, il contrasto all'immigrazione dalle nazioni povere dell'Africa e dall'Asia, ma anche quella di negare i diritti di cittadinanza alla gente straniera che già di fatto fa parte del nostro popolo, avendo acquisito cultura e stili di vita di carattere europeo. Ha quindi carattere xenofobo, parola che significa avversione verso lo straniero. Ragionandoci sopra si capisce che gli impegni xenofobi  non potranno essere mantenuti e, quindi, sono più o meno a costo zero: richiedono solo periodiche manifestazioni di rigore verso la gente che vorrebbe vivere tra noi, per convincere i cittadini che sia possibile risolvere il problema delle migrazioni mediante respingimenti di massa. Si tratta di misure contrastanti con la dignità della persona e del lavoro e, in questo, riconoscibili come non appartenenti ad ideologie di sinistra. Il populista di oggi mira a far votare per lui, poi si vedrà. Propone un cambiamento di chi comanda, ma non dell'assetto sociale. Quindi è un conservatore, perché non ha un progetto alternativo di società, anche se, nei discorsi che fa, appare un rivoluzionario. Spesso è molto bellicoso con chi nella società sta peggio e non pensa possa votare per lui, o perché non ne ha diritto o perché gli è irriducibilmente avverso. Il più importante capo politico populista del mondo è oggi il presidente statunitense Donald Trump. Tutti gli altri populisti del mondo gli fanno in genere eco. Fa eccezione l'odierno Venezuela, che ha sviluppato un populismo di altro segno, sul modello staliniano. Il principale esponente che nel mondo si oppone ideologicamente al populismo del tipo trumpiano è papa Francesco. La dottrina sociale, con la sua etica molto esigente, è infatti all'antitesi del populismo.

 

90. Cambiare le persone al comando o le politiche?

 

Questa serie di riflessioni estive possono servire a dare un orientamento su come affrontare i problemi politici nell'Italia di oggi, come siamo esortati a fare dai nostri vescovi. Hanno quindi una particolare attenzione agli insegnamenti di quel vasto corpo di documenti del magistero che contiene la dottrina sociale religiosa. La politica, quindi il governo della società, può essere una manifestazione dell'agàpe della fede, termine del greco antico che traduciamo in italiano con "carità" o "amore", ma che ha in realtà un senso sociale molto più intenso, facendo riferimento ad un lieto convito in cui c'è posto per tutti e in cui non manca nulla a nessuno.

  Di questi tempi ci viene proposto di cambiare classe politica, quindi le persone che comandano in politica, in Parlamento, nel Governo, negli altri posti dai quali si dà la linea all'azione sociale. L'idea è che cambiando le persone cambierà anche la politica è che, si sottintende, cambierà in meglio. Tuttavia può essere osservato che nel 2013 c'è già stato uno spettacolare cambio di classe politica: quelli di prima si sono ritirati e al comando c'è veramente gente nuova. Basta considerare le biografie degli attuali ministri, ma anche quelle dei parlamentari. Il mutamento è stato particolarmente accentuato nelle amministrazioni comunali di alcune grandi città, come Roma. Tuttavia, nonostante la "rottamazione" di tanta parte dei politici del passato, le politiche attuate non hanno presentato che mutamenti di dettaglio, piccole rifiniture. In passato le alternative non furono solo tra classi politiche, ma tra progetti politici ed erano veramente più impegnative, coinvolgendo addirittura lo schieramento internazionale dell'Italia rispetto ai due grandi blocchi all'epoca dominanti, quello dei capitalismi, guidato dagli Stati Uniti d'America, e quello dei comunismi, guidato dall'Unione Sovietica. In mezzo c'era un coordinamento di nazioni "non allineate" promosso dalla Jugoslavia.

 Il confronto, e anche lo scontro, tra disegni politici molto divergenti si risolse, in Italia, in ambito democratico, non nel caos, ma, nel dialogo culturale e sociale, in particolare nel Parlamento, con un conseguente risultato dialettico, per cui le due linee finirono per integrarsi, riconoscendo e inglobando gli elementi positivi ciascuna dell'altra. Questo è appunto il metodo raccomandato nella dottrina sociale della Chiesa, nella quale si prende realisticamente atto delle divisioni sociali, ma si invita a superarle nel dialogo, accentuando ciò che è il fondamento comune della convivenza civile. Un sistema di valori condivisi sorresse questa dinamica di dialogo:  si trattava dei valori costituzionali, con al centro quelli della persona umana e del lavoro. È appunto lo smarrimento di questo orientamento verso i valori che crea tanti problemi nella politica di oggi e impedisce di proseguire nella progettazione e attuazione di un mondo nuovo, vale a dire il lavoro iniziato dalle forze politiche dalle quali originò, nel 1948, dopo il lavoro dell'Assemblea Costituente, la nostra Repubblica democratica.

  Non basta cambiare le persone, occorre cambiare il progetto politico, se si vuole veramente cambiare una società in cui c'è troppa sofferenza. E innanzi tutto occorre averne uno. Ma, appunto, questo è un problema, oggi, perché i candidati a posti di comando non si azzardano ad essere troppo espliciti, rimanendo sulle generali, a livello degli slogan, che hanno la consistenza degli annunci pubblicitari. In effetti i candidati sono spesso consigliati dagli stessi specialisti in psicologia della decisione che strutturano gli annunci pubblicitari commerciali. Cercano di indurci a preferirli alle elezioni con le stesse tecniche.I loro appelli cercano di attivare la nostra mente più antica, quella che viene guidata dalle emozioni, che si basa sulla prima impressione è che ci serve a fare velocemente le scelte quotidiane ripetitive, dove è superfluo esercitare la nostra facoltà critica, ragionarci tanto sopra.  È stato dimostrato che, raggiunto quel livello, poi la coscienza critica che dovesse attivarsi successivamente, secondo la parte della nostra mente più evoluta, farà fatica a imporsi. Si rimane ancorato alla prima impressione, al primo giudizio emotivo, superficiale. Ma quando si tratta di fare scelte che implicano il futuro nazionale, è giusto fare così? Non si dovrebbe perdere un po' più di tempo per attivare la razionalità delle persone? Se però si punta solo a convincere gli elettori a tracciare un segno sulla scheda, non serve. Non è nemmeno necessario perdere tempo a ragionare ordinatamente e informandosi da fonti affidabili sui mali sociali e sulle soluzioni, come ad esempio si fa nell'enciclica Laudato si' del 2015. Non occorre avere un progetto di cambiamento. Ci si penserà quando si sarà al potere. Ma, allora, potrebbe essere troppo tardi. Fatalmente, non essendo preparati, si farà come quelli di prima, si seguirà la tradizione. Ecco dunque che gente nuova fa le cose di sempre.

 Per cambiare veramente occorre un nuovo progetto di società, altrimenti è scontato che si continuerà a fare come prima. Un criterio molto importante per valutare le proposte politiche e chi si presenta come candidato è quindi quello di individuare il progetto di società che c'è dietro, al di là degli slogan, delle parole d'ordine. Spesso i politici di oggi fanno appello alla fiducia verso di loro, dovremmo fidarci. Uno slogan di una pubblicità commerciale di alcuni anni fa diceva "La fiducia è una cosa seria, che si dà alle cose serie". È proprio vero. Nella politica decidiamo a chi affidare le vite nostre e dei nostri cari. Dovremo scegliere persone serie. È una persona seria il nostro Padre Francesco che ha scritto una lunga enciclica per spiegarci i mali d'oggi è le possibili soluzioni, acquisendo il parere di molti esperti; non mi pare che si dimostrino tali quelli che vanno per slogan tipo "rottamiamoli", "aiutiamoli a casa loro", e "meno tasse".

 

91. Partecipare al governo democratico

 

  Nella Costituzione è scritto che la sovranità appartiene al popolo, con il limite delle leggi che la regolano, ma in genere ciascuno pensa si contare poco, come singolo, nel governo della società. E in effetti è così, infatti la democrazia si esprime in azioni collettive e quindi i cittadini non contano come individui ma nella misura in cui sanno farsi popolo, quindi ad esprimere una forza collettiva. 

 Ma come?, noi "siamo" già "popolo", siamo italiani, viviamo in Italia dove la gran parte di noi è nata, parliamo italiano, vestiamo secondo la moda corrente in Italia, e via dicendo e precisando, in che senso dovremmo "farci" popolo? Questo è appunto il grande problema, e anche l'impegno, principale delle democrazie popolari, in cui il popolo non soltanto "è", ma anche "decide". Per essere "popolo che decide", per influire collettivamente sul governo della società, occorre fare unità nella gente al di là di quella che è manifestata da una certa somiglianza di elementi culturali, che, in fondo, è minimamente "decisa" dalla gente è in  massima parte subìta, per cui uno nasce e si ritrova in un certo ambiente sociale e si uniforma ad esso, facendo come gli altri. È per questo che ai rivoluzionari italiani del Risorgimento si presentò l'esigenza, dopo essere riusciti a "fare" l'Italia, unificando le genti stanziate in Italia sotto un'unica autorità politica, sotto un sovrano italiano, la dinastia dei Savoia, di "fare" gli italiani. Infatti dal 1848 la monarchia Savoia era del tipo "costituzionale", vale a dire che riconosceva limiti al potere del monarca e ammetteva la partecipazione democratica dei sudditi al governo dello stato, in particolare mediante l'azione politica di un Parlamento in cui la Camera dei deputati era eletta dai cittadini maschi e con certi requisiti di istruzione o di reddito. Quindi non bastava più, per essere popolo, essere sudditi di un unico re, occorreva un popolo con capacità politica. Ci si accorse che l'Italia era ancora "fatta" di popoli diversi, che addirittura parlavano lingue diverse e comunque avevano culture diverse: integrarli non si presentava facile. È un lavoro che fu in gran parte portato a termine solo negli anni Sessanta del secolo scorso, con quel potente strumento di integrazione culturale costituito dalle reti televisive pubbliche della Rai e con la realizzazione della scolarizzazione pubblica di massa, in particolare con la riforma della scuola media inferiore, che risale sempre agli scorsi anni Sessanta. La formazione è indispensabile per dare al popolo la capacità politica. Fin dall'Ottocento lo si era capito e ne aveva scritto, ad esempio, il rivoluzionario repubblicano Carlo Cattaneo (1801-1869), uno dei capi della rivolta milanese del 1848 contro gli occupanti austro-ungarici. Per fare politica non è sufficiente conoscere i problemi propri e di quelli che vivono nelle immediate nostre vicinanza, bisogna capire la storia in cui si vive, ed avere una prospettiva molto più ampia.

 Uno strumento molto potente per conquistare una capacità politica sono le encicliche sociali dei nostri  papi, in particolare a partire dalla La pace in terra, diffusa nel 1963, dal Papa Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23^. Esse sono strettamente connesse con l'attualità, non si tengono sulle generali, e hanno una visione veramente globale. Non sono sempre facili da leggere, richiedono quasi sempre degli approfondimenti, ed è bene tenere a portata di mano, affrontandone lo studio, il libro di storia di terza media o un Smart-phone che possa consultare Wikipedia e l'enciclopedia Treccani in lìne.

  Per farsi popolo democratico occorre elevarsi sopra il proprio particolare. Altrimenti si rimane solo fazione politica, in lotta con le altre per avere di più delle risorse nazionali. Oggi la politica democratica è diffamata dalle fazioni politiche con l'accusa di corruzione e di inconcludenza; ma la gran parte dei problemi della politica democratica sono causati dallo spirito di fazione, per l'incapacità di elevarsi al di sopra dei propri interessi particolari. Al centro degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa vi è invece l'esortazione a farlo. Questo perché, se non si riesce a farlo, la società vive nel disordine della lotta di tutti contro tutti, e allora prevale il più forte, finché rimane tale, ad imitazione della crudele legge della natura. Ciò contrasta con la dignità degli esseri umani come persone, per natura soggetti di diritti universali, inviolabili e inalienabili ( così si legge nell'enciclica La pace in terra, sopra citata, n.5). C'è un limite alle pretese politiche di fazione ed esso deriva da ciò che costituisce come persona l'essere umana: in religione lo si ritiene di origine soprannaturale. Quindi un buon inizio di politica democratica è quando non si tiene conto solo di ciò che è bene per la propria fazione, ma anche delle esigenze umane delle persone che la pensano diversamente da noi e sono diverse da noi. Le divisioni della società, se non risolte tenendo conto del bene di tutti, distruggono la società. Questa è stata un'importantissima conquista culturale nel nostro pensiero religioso e ha portato, con l'azione determinante di gente della nostra fede, alla realizzazione della nostra nuova Europa, che ha consentito una lunghissima era di pace e di prosperità, senza precedenti nella storia dell'umanità.

 

92. Vivere la politica democratica

 

 Parlo con la gente intorno a me e sento che è delusa della politica democratica. Mi pare anche che ne abbia perso dimestichezza. La vive al modo di sudditi e allora rivendica miglioramenti per sé, senza preoccuparsi degli altri e della società intorno.  Non sente la politica come propria. Le riescono difficili i temi che tratta e non intravede soluzioni. Anzi, peggio, sospetta che ogni soluzione che viene proposta nasconda un imbroglio, in particolare che chi comanda in politica non le dica tutta la verità. Sospetta anche che i "politici" non siano capaci di vero altruismo e che quando parlano di "sacrifici" da fare escludano sempre sé stessi e i propri favoriti. Si è quindi di fronte, per quello che mi appare, ad una spettacolare "crisi di legittimazione" della politica, analoga a quella che iniziò a manifestarsi negli anni '80 del Novecento, e alla quale si tentò con scarso successo di porre rimedio.

  Delegittimata dalla sfiducia della gente, la politica, allora, cerca di stare a galla con metodi antidemocratici, in particolare con strategie populiste. Nel populismo l'adesione della gente non viene ottenuta consapevolmente, ma suscitando reazioni collettive di tipo emotivo, confermando le persone nelle loro paure e nelle loro tentazioni, deprimendone il senso critico, presentando la situazione in cui si trovano come senza altra via di uscita che quella di abbandonare una parte dei sofferenti o di riuscire ad accaparrarsi risorse pubbliche a preferenza di altri, e infine garantendo ai propri seguaci che questo lavoro "sporco" sarà fatto senza che essi debbano insozzarsene le mani e le coscienze. Basta tracciare un segno nel posto giusto sulla scheda elettorale. Poi la gente dovrà lasciare mano libera agli eletti fino alle elezioni successive, non creare problemi, non impicciarsi, non essere mai forza critica, non manifestarsi più come popolo, perché, in fondo, in democrazia il popolo si potrebbe esprimere solo in occasione delle elezioni, o, al massimo, partecipando a periodici sondaggi, di cui la politica sarebbe libera di tener conto o meno. Questa però non è democrazia, come oggi la si intende. E non lo è perché è troppo povera di valori e di responsabilità critica collettiva e personale. Non consente alle persone di farsi un'idea realistica del loro tempo e punta a far sovrastimare la gravità di certi problemi, quelli che appunto servono a suscitare adesione emotiva, irrazionale e poco informata. I casi tipici sono quelli dell'immigrazione e dell' "Unione Europea". Sembra che tutti i nostri guai originino da lì e invece sono provocati dall'assetto irrazionale della nostra economia, che la politica non sa e non vuole cambiare, perché manca di un progetto. Così si limita ad esortare a cambiare le persone, con argomenti populisti: ma si è poi visto che i populisti al potere non riescono a cambiare granché, perché, come ho detto, non lo sanno fare e,soprattutto, nemmeno vogliono farlo. 

  La politica democratica è innanzi tutto un sistema di valori: se lo si dimentica si finirà prima o poi nelle mani dei populisti, o peggio. E poi è un sistema di limiti: bisogna sospettare di chi pretende di avere mani libere. Il primo limite è quello dei valori: bisogna delegittimare chi ci spinge all'azzardo morale, ad esempio a respingere i migranti sofferenti abbandonandoli, contro il nostro dovere, in inferni sociali. L'altro limite è quello della critica sociale, che in democrazia deve essere costante, non di elezione in elezione. Tenta di sottrarsene chi si esime dall'obbligo politico di presentare progetti compiuti di riforme sociali ai cittadini, che possano essere compresi e criticati, ma si limita a slogan come "rottamiamoli", meno tasse", "aiutiamoli a casa loro", "fuori dell'Europa".

  L'epoca che stiamo vivendo non è la peggiore che la nazione abbia passato. Ve ne fu una molto più grave durante la Seconda guerra mondiale, nella quale ci aveva trascinato il populismo mussoliniano. A quei tempi si fu veramente smarriti. È allora che, in Italia, ci si convertì alla democrazia, come popolo; quella democrazia della quale oggi in genere si diffida. Fu la nostra Chiesa a prendere un'iniziativa, nella linea dei precedenti interventi sociali, ma iniziando essa stessa dal riconoscimento delle colpe collettive, mutando sensibilmente i precedenti orientamenti verso la politica democratica. Fu un lavoro collettivo, che vide in prima fila l'Azione Cattolica, dalla quale scaturì molta della classe di governo della Repubblica democratica. Fu manifestato al mondo nei radiomessaggi natalizi del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12^, tra il 1941 e il 1944, ancora con il regime fascista egemone, documenti che vi invito a cercare mediante Google digitando a "radiomessaggio Natale” e l'anno, ad esempio “1941”. Ebbero il valore di vere e proprie encicliche. Sono tutti pubblicati su www.vatican.va. Si era nel mezzo del disastroso conflitto mondiale: furono rivolti ai "desolati senza speranza" e contenevano un invito alla conversione ad un nuovo ordine sociale internazionale che rivoluzionasse i sistemi totalitari, ma anche quelli dominati dal capitalismo dalla faccia feroce, e che fosse finalmente rispettoso della dignità umana. Un progetto compiuto di società, pieno di valori, che, con il contributo determinante dei cattolici-democratici, fu realizzato democraticamente nella nostra nuova Europa, a tutt'oggi diretta, in fondo, da una leader cristiano-democratica. Quando gli italiani, tra il 1946 e il 1948, e per la prima volta anche le donne, si trovarono a decidere tra monarchia e repubblica e poi tra democrazia popolare, democrazia liberale o democrazia sovietica, tra allineamento con nazioni occidentali o con l'Unione sovietica, scelsero tra quel progetto e altri progetti di società molto articolati, non su slogan populisti come quelli che erano stati proposti per un ventennio dal fascismo mussoliniano.

 

 

93. Fare la propria parte

 

È indifferente, per un cittadino italiano, vivere in Italia o altrove? Non dico dal punto di vista del clima, dell'ambiente naturale, degli stili di vita e anche degli amici che si frequentano. Mi riferisco ai propri doveri sociali. Sarebbe lo stesso vivere all'estero? Se il mondo va come va e non c'è nulla da fare per cambiare come va,  in fondo è lo stesso. Se poi una persona considera solo sé stessa, come individuo, è molto evidente la sproporzione tra le forze del singolo e le forze sociali che determinano la storia. Eppure queste ultime sono appunto "sociali", vale a dire umane, e la storia, fenomeni naturali a parte, è integralmente una costruzione umana. Come è stata fatta, può dunque essere cambiata. Procede per rapporti di forza, salvo in ciò in cui gli umani riescono ad affrancarsi dalla legge della natura, che è appunto quella della forza, e la legano a dei valori. Partecipare al governo della società, come si fa in politica, consente di affermarvi la propria volontà. Questo, fino a due secoli fa, era prerogativa dei sovrani. La democrazia è un sistema    di istituzioni per consentire un'ampia collaborazione in quel lavoro, tendenzialmente della maggior parte degli adulti di un popolo. Il cittadino ha diritto di farlo nel sistema politico che lo riconosce come tale. Questo però lo costituisce in una posizione di responsabilità, perché se può indurre un cambiamento e nella misura in cui può farlo. ha anche il dovere di farlo per il meglio. Perché deve? Perché in società si è tutti dipendenti da tutti per la propria sopravvivenza e quindi nessuno ha interesse ha far andare peggio le cose, o addirittura a distruggere la società da cui dipende, In democrazia nessuno può ragionevolmente chiamarsi fuori, esonerarsi dalla responsabilità. Nella misura in cui uno è venuto meno al proprio  dovere politico è responsabile della rovina della società, vale a dire di un bene molto importante. Ha promosso i valori? Si è adoperato a concorrere a limitare l'arbitrio altrui? Ha cercato di informarsi bene della situazione, o è stato troppo superficiale? Nei limiti della propria competenza, e aiutandosi con la competenza altrui, ha fatto proposte realistiche, buone per tutti, e ha cercato di affermarle in società? Ha studiato bene le proposte altrui, e valutandole criticamente, ha individuato quelle che meglio corrispondono ai valori mettendosi di traverso per ostacolare le altre?

  Se uno interagisce in società solo per fare i propri interessi e quelli della propria fazione, non vuole e non fa il bene di tutti. Questo comporterà la rovina e la distruzione della società e dei valori e la ripresa della legge della giungla. È così che agiscono le mafie, che sono tra le maggiori cause dei problemi sociali italiani, in particolare cause di spreco immane di risorse sociali. Nei contesti sociali in cui le mafie sono riuscite a dettare legge, la società dei valori scompare e in certi casi vengono vanificati i diritti politici dei cittadini e non si riescono più ad organizzare le elezioni locali. Le mafie, allora, impongono un duro servaggio.

 Ciascuno è parte del sistema democratico di valori e di limiti, con il voto e con tutte le altre attività sociali con le quali si può attivare il controllo democratico, ad esempio nella cultura, nelle manifestazioni pubbliche, nello sciopero, ma anche nelle azioni che fa come consumatore, lavoratore e datore di lavoro, fino ad arrivare all'esercizio del diritto di resistenza, vale a dire a svolgere quel tipo di opposizione sociale all'arbitrio  altrui dalla quale è nata la nostra Repubblica democratica. 

 La storia ci insegna che, dalle origini e fino all'ultima campagna per referendum costituzionale e ad oggi,  quando abbiamo davanti elezioni politiche cruciali per la nostra democrazia come poche altre, le masse coinvolte nei processi democratici hanno contato, e molto, contribuendo a mantenere sostanzialmente integro, di generazione in generazione,  il sistema dei valori che è alla base della nostra ideologia democratica, con al centro quelli della persona, del lavoro, della dignità dell'una  e dell'altro. Le scelte politiche che si prospettano di qui a poco non sono banali, e non riguardano solo l'identità anagrafica dei politici di comando, ma coinvolgono pesantemente quei valori, dei quali occorre innanzi tutto acquisire piena consapevolezza. Siamo ancora all'altezza di quei valori? Ad esempio, la persona, il lavoro. la pace, sono ancora per noi valori e valori importanti?

  L'impegno che il nostro dovere ci richiede va ben oltre il tracciare un segno su una scheda elettorale. Siamo di fronte a scelte che indubbiamente richiederanno un cambiamento dei nostri stili di vita, se vogliamo salvare la società dalla quale dipende la nostra sopravvivenza. Ne ha scritto il nostro Padre Francesco nell'enciclica Laudato si'", Altrimenti, che succederà? Altrimenti la società che ci ha finora garantito un lungo periodo di pace e un discreto benessere, per cui ad esempio i problemi dell'alimentazione insufficiente e dell'abbandono nella malattia,  nell'età anziana e nell'infanzia non sono generalizzati, cambierà e saranno molto di più i "sommersi", il cui numero è già ora in aumento; le relazioni umane incattiviranno; non ci si farà più scrupolo ad abbandonare i sofferenti e ci si dovrà augurare di riuscire ad avere sempre forze e le alleanze sociali sufficienti a rimanere tra i "salvati". Come pensiamo debba essere il nostro prossimo futuro sociale? Nelle pubblicità politiche correnti in questi giorni non viene precisato. Si fanno promesse, certo, in particolare promesse di cambiamento di ciò che va male,  ma non si spiega come si pensa di mantenerle. Chi le fa dunque, non avendo precisi progetti di cambiamento, se prevarrà si ritroverà probabilmente a fare come in passato, seguendo una tradizione amministrativa. Cambieranno i capi, ma non le politiche. È questo che in genere accade con i populisti. Le cose, quindi, non miglioreranno.   Migliorare richiederebbe infatti cambiamenti, perché c'è tanta gente che in una società ricca sta sempre peggio e questo è paradossale, irragionevole, segnala qualcosa che va corretto, ma in genere i cambiamenti vengono prospettati proprio in danno di chi in società sta già peggio, a cui si chiede di accettare "sacrifici",perché è lì che si vuole "risparmiare"; questo in una società tra le più ricche del mondo Occidentale, il quale a sua volta è, per ora, la parte più ricca del mondo intero. Il trattamento del lavoro è molto peggiorato negli ultimi vent'anni e questo colpisce la dignità delle persone il cui lavoro si è trovato ad essere svalutato. Ma disumanizza l'intera società. È facile osservare che questo è iniziato da quando, all'inizio degli anni '80 del secolo scorso, la forza delle organizzazioni che tradizionalmente avevano promosso l'affermarsi della dignità dei lavoratori si è indebolita. Fu l'epoca in cui il populismo all'epoca corrente nel mondo Occidentale cominciò a presentare la tutela del lavoro come un ostacolo all'arricchimento individuale. Gli slogan erano "Meno società! Meno tasse!".  A distanza di trent'anni possiamo studiare gli effetti sociali di questa politica, che sono andati, mi pare,  in danno dei più e a vantaggio di minoranze di privilegiati. Le diseguaglianze sociali sono enormemente aumentate, ma questo non ha aumentato il benessere collettivo né quello individuale dei ceti non favoriti, che comprendono la gran parte dei lavoratori e di chi lavoratore non può più esserlo, per disoccupazione sopravvenuta, malattia o vecchiaia,  o non è mai stato. Del  resto era irrealistico pensare che, scatenando la lotta di tutti contro tutti, abrogando le regole che impedivano che la competizione sociale incrudelisse, togliendo ai poteri pubblici sempre più risorse a beneficio di organizzazioni private, potesse andare diversamente. Ma certamente è ancora possibile che vada addirittura peggio. Basta unirsi al coro intonato dai populisti che oggi  gridano "Meno società! Meno tasse!" e seguirli, facendo come dicono.

 Questi che ho indicato sono i temi politici veramente cruciali di oggi. Ma in genere nel ragionare di politica si perde molto tempo sul tema dell' "aiutiamoli a casa loro", il quale, benché tutto sommato marginale rispetto a quegli altri nel senso che non mette in pericolo la sopravvivenza della società, pone in questione il valore della dignità della persona umana, sulla quale i populisti ci spingono ad incrudelire con il pretesto che si debba salvarci la vita senza tener conto di quelle degli altri. O noi, o loro. Non ci sarebbe alternativa. Attenti, però! Oggi tocca a disperati africani, ma presto potrebbe toccare anche ai nostri figli e a noi stessi se, in politica, abbandoniamo la fedeltà ai valori. Siamo proprio sicuri di poterci sempre salvare con le nostre sole forze di fronte ad ogni rovescio della vita? Basta poco, molto poco, ai più per passare nella parte dei sommersi. Basta ad esempio trovarsi nella fascia d'età degli ultrasettantentenni, quando presto si diventa sempre più fragili.

 

94. La dottrina sociale: una grande opportunità

 

 La dottrina sociale, vale a dire gli insegnamenti su come realizzare società conformi al l'etica religiosa, è stata sostanzialmente accentrata dai papi  nell'era moderna, a partire dal regno del papa Giovanni Maria Mastai Ferretti, in religione Pio 9^ (papa dal 1846 al 1878), cioè da quando il papato decise di organizzare una forza di popolo per sostenere le proprie politiche, in particolare nell'Italia dei moti nazionalistici e, successivamente, negli sviluppi del nuovo regno unitario, istituito nel 1861.  I papi furono, in genere, mediocri capi politici (fatta eccezione per San Karol Wojtyla con riguardo ai moti politici democratici nella Polonia degli anni 80), ma eccezionali maestri di politica. I radiomessaggi, le encicliche, le esortazioni e le lettere apostoliche in materia sociale diffuse dal papato a partire dal 1941, in particolare,  costituiscono, nel complesso, uno dei più completi manuali di democrazia correnti, l'unico con quella estensione e attenzione alla concreta prassi della storia, e inoltre continuamente aggiornato, fino all'enciclica Laudato si', diffusa nel 2015 dal papa attualmente regnante Jorge Mario Bergoglio, Francesco in religione. Si tratta di documenti in genere poco conosciuti. Per i più richiedono un aiuto per avvicinarli, come l'ho avuto io per tutta la mia vita, fin da universitario. Questo soprattutto per inquadrare il contesto storico e culturale in cui si inseriscono. La dottrina sociale è diffusa dal papato, per un ordine che viene di volta in volta dal papa regnante che ne firma i testi, ma naturalmente è stata sempre un lavoro collettivo, in cui i papi hanno svolto generalmente il ruolo di committenti, ispiratori, coordinatori, capi redattori e poi di divulgatori. Il nostro Padre Francesco ne ha parlato proprio in questi termini per quanto riguarda la genesi dell'enciclica Laudato si, nella quale tanta parte hanno avuto diverse scienze.

   Partita da posizioni francamente reazionarie, la dottrina sociale, in una lunga evoluzione prodottasi nel contatto vivo con la gente, ha superato l'iniziale diffidenza per la democrazia che caratterizzò la sua impostazione dal papato di Mastai Ferretti a quello del papa Achille Ratti, che regnò in religione dal 1922 al 1939 come Pio 11^. Essa non usò mai argomenti populisti. Questo ne fa un tesoro prezioso,una perla rara, nel desolante contesto politico italiano attuale, nel quale le maggiori forze politiche usano disinvoltamente il populismo. La ragione è che la dottrina sociale moderna, fin dalle sue origini, si presentò come forza critica, in particolare prima nei confronti del nazionalismo italiano, poi nei riguardi dello sviluppo del nuovo stato unitario, istituito nel 1861, e quindi nei riguardi del liberalismo, del socialismo, del nazionalismo, del capitalismo liberistico, dell'individualismo, del collettivismo, dell'imperialismo, del colonialismo, del razzismo, di ogni specie di suprematismo di gruppi sociali su altri. La dottrina sociale nacque come orientamento del popolo per organizzarlo a sostenere, in particolare in Italia e in ambiente democratico-liberale, le politiche del papato in un'epoca in cui esso era in polemica con le politiche di buona parte degli Stati europei, per varie ragioni. Essa, proprio in quanto forza critica, fa costante riferimento alla coscienza e alla ragione e in questo, oltre che che al rapporto con la fede, può individuarsi una sua continuità, pur nella sua evoluzione. La dottrina sociale non è solo teologia, anche se la teologia come riflessione sui doveri sociali che la fede comporta, indubbiamente la caratterizza. Essa si presenta essenzialmente come analisi critica del proprio tempo, del quale cerca di avere una visione realistica, ma anche come rassegna critica delle diverse soluzioni possibili ai mali sociali. Originariamente il  papato immaginò di poter dare autonomamente indicazioni normative per una completa ristrutturazione degli assetti sociali, quindi di poter esso stesso ricavare, con la teologia, le soluzioni di volta in volta necessarie, fin nei dettagli. Dsgli anni Sessanta capì invece di dover accettare una collaborazione più ampia, in particolare sulla base delle scienze sociali e della concreta esperienza politica svolta dai laici di fede. Ma già in precedenza aveva posto l'accento sulla necessità di laici di fede veramente competenti nelle questioni sociali e scientifiche promuovendone la formazione mediante le proprie organizzazioni di universitari.

  Un documento molto importante di quell'impostazione, di importanza veramente epocale, fu la lettera apostolica Octogesima AdveniensApprossimandosi l'Ottantesimo [anniversario dell'enciclica Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 13^], diffusa nel 1971 dal papa Montini, in religione Paolo 6^, che vi invito a cercare su Web e a leggere attentamente. Per la prima volta si accetta l'idea che in politica la fede possa esprimersi in diversi orientamenti, che però devono passare al vaglio critico della coscienza religiosa e della ragione. Si esortano i fedeli a collaborare alla realizzazione di una nuova democrazia. Un lavoro che è ancora in corso. Da allora è passata più di una generazione. Purtroppo è stato carente il lavoro di formazione. Questo ha esposto la gente di fede al pericolo, alla tentazione, e alla colpa sociale, di prestare fede alle politiche populiste. La nostra gente non appare più capace di essere veramente forza sociale critica e l'esperienza segnala che ha crescente difficoltà ad intendere gli insegnamenti della dottrina sociale.

 

95. Prepararsi alla cittadinanza

 

 La politica è una manifestazione della carità in senso religioso, ci insegnano. E, allora, che dobbiamo pensare di una persona che se ne esce con un "Io, non mi occupo di politica"?

  Si pensa, però, che della politica debbano occuparsi i "governanti". Li dovremmo accettare, e subire, un po' come accade con la pioggia e il bel tempo: vengono e ci si rallegra se non fanno danno. Ancora non abbiamo inventato metodi per mantenere il bel tempo stabile. Poi ogni tanto la terra trema e anche in questo caso non ci si può fare nulla, se non rimuovere le macerie e ricostruire. Però in politica è molto diverso e tanto più nei regimi democratici. Non occorre fare una rivoluzione violenta per cambiare, ma per cambiare in meglio non è sufficiente recarsi ogni tanto ai seggi elettorali. E, innanzi tutto, cambiare è possibile, perché la società intorno a noi è integralmente una costruzione umana e come è stata fatta può essere mutata. Nella storia dell'Italia democratica è avvenuto molte volte. La prima volta è stato nel giugno del 1946, quando si dovette scegliere tra Repubblica e Monarchia ed eleggere un'assemblea con il compito di scrivere e approvare una Costituzione, in sostituzione delle norme fondamentali sul funzionamento dello stato impartite nel 1848 dalla dinastia monarchica dei Savoia (lo "Statuto Albertino", imposto dal re Carlo Alberto accogliendo richieste sostenute da un imponente moto popolare). Più recentemente si è avuto nel 2013, quando, a seguito di elezioni politiche, si ê prodotto un significativo mutamento del ceto parlamentare, in gran parte rinnovato. Non è vero, quindi, quello che sento dire non di rado, che "Sono sempre gli stessi!". Tra queste due epoche ci sono stati molti altri cambiamenti nella politica nazionale, che negli anni '70 ha dovuto fronteggiare anche tentativi  di colpi di stato di opposta tendenza. In queste fasi le masse sono state determinanti, e non solo con il voto. La concreta possibilità di indurre collettivamente dei cambiamenti politici pone i cittadini in una condizione di responsabilità. Da un punto di vista etico, quindi anche della morale religiosa, vale a dire di ciò che si deve fare in quanto giusto, anche l'omissione, il semplice non fare, che in genere significa anche un "lasciar fare", è colpa. "Non fare" quando "si può" fare e nei limiti in cui si può. Questo insegnamento ci viene dal magistero in modo pressante, in particolare riguardo alla politica, dagli scorsi anni Sessanta. Lo troviamo, ad esempio, nella lettera apostolica Octogesima Aveniens - Avvicinandosi l'ottantesimo [anniversario dall'enciclica Le novità, del 1891], diffusa nel 1971 dal papa Giovanni Battista Montini, regnante in religione come Paolo 6^. Scrisse in quel documento:

"47. [...] Occorre inventare forme di moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la possibilità di tenersi informato e di esprimersi, ma impegnandolo in una responsabilità comune. I gruppi  umani così si trasformano a poco a poco in comunità di partecipazione e di vita. La libertà, che si afferma troppo spesso come rivendicazione di autonomia opponendosi alla libertà altrui, si sviluppa così nella sua realtà umana più profonda: impegnarsi e prodigarsi per costruire solidarietà attiva e vissuta.

[...]

48. È a tutti i cristiani che noi indirizziamo, di nuovo e in maniera esigente, un invito all'azione. [...] Ê troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale".

  Questa che ho citata è una delle più belle e coinvolgenti definizioni della politica democratica in cui mi sia mai imbattuto. Capite? La politica è molto più che accreditare proposte altrui tracciando un segno su una scheda elettorale o di referendum. Occorre una "conversione", vale a dire un profondo cambiamento di mentalità, che è anche conversione alla democrazia. È tanto facile, oggi, accodarsi a chi facilmente la diffama, innanzi tutti ai populisti di ogni colore, i quali sono accomunanti da uno stesso  rifiuto dei processi democratici e la cui proposta si riduce in definitiva ad una sola: far fare tutto a loro, rinunciando ad altra partecipazione che non sia quella di dar loro via libera.

 Da dove inizia il nostro dovere di cittadini? Dall'informarsi, dal capire il tempo in cui si vive. La prima colpa la dovremmo, allora, riconoscere quando, da ragazzi, passando al primo anno delle superiori, buttiamo o vendiamo i libri di storia del triennio delle medie inferiori, uno strumento essenziale per capire. Così facendo, rinunciando allo sforzo di capire, innanzi tutto facendo memoria, ci mettiamo nelle mani della politica spregiudicata, a cui basta il nostro voto ma a cui di noi non importa nulla. Per convincerci, se non ci fortifichiamo preparandoci, le basta poco, quel tanto che è sufficiente al successo di una campagna pubblicitaria commerciale, basata sull'emotività e su meccanismi logici elementari. Se io dico, ad esempio: "la ricchezza prodotta nell'ultimo trimestre è aumentata più delle aspettative e ciò è avvenuto dopo le riforme attuate da un certo governo, quindi accade a causa di quelle riforme", sostengo una cosa che potrebbe non essere vera, perché ciò che viene prima non è sempre causa di ciò che viene dopo, ma potrebbe essere vera però non fare onore a quel governo, se, ad esempio, nelle altre nazioni vicine la ricchezza fosse aumentata di più. Questo significherebbe che l'aumento più contenuto della ricchezza che si è avuto da noi è colpa, non merito, di quel governo. Da come viene posta la questione, cambia il risultato. E spesso viene posta nel modo più conveniente a chi vuole il consenso della gente. Se uno è un cittadino un po' superficiale, e non è mai bene esserlo nelle cose importanti, e non va a verificare, corre il rischio di accreditare come un merito di un governo ciò che invece potrebbe essere addirittura una colpa, o, forse, più probabilmente, se l'entità della variazione è piccola e si riferisce ad un periodo molto breve,  ad esempio uno "0,qualche cosa" in un trimestre, non dipendere dal!'azione di quel governo, ma da altri fattori.

  Un buon cittadino deve impegnarsi ad essere meno superficiale: ma questo, a ben considerare, dovrebbe essere anche una qualità della persona religiosa, la quale vuole essere addirittura capace di incontrare l'eterno lì dove apparentemente non c'è nulla, perché, come è scritto, "Nessuno l'ha mai visto".

 

96. Fare politica

 

 Non basta interessarsi di politica, occorre "fare" politica. Ci insegnano che è anche un dovere religioso. Spesso invece lo si ritiene una colpa in religione. Bisognerebbe tenere separate politica e religione, si sostiene.  Se esaminiamo i documenti della dottrina sociale possiamo facilmente renderci conto che non è questo l'insegnamento del magistero. Ad esempio, nella lettera apostolica Octogesima adveniens - Approssimandosi l'ottantesimo [anniversario della prima enciclica sociale moderna, la Rerum novarum - Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 13^], del papa Giovanni Battista Montini - Paolo 6^ in religione, diffusa nel 1971 leggiamo:

"L'attività economica rischia di assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si palesa necessario il passaggio dall'economia alla politica. [...] ciascuno sente che nel settore sociale ed economico , sia nazionale che internazionale, l'ultima decisione spetta alla politica. Questo, in quanto è il,vincolo naturale è necessario per assicurare la coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene comune.

[...]

 È a tutti i cristiani che noi indirizziamo, di nuovo e in maniera esigente, un invito all'azione [...] È troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale [...] nella diversità delle funzioni,delle organizzazioni, ciascuno deve precisare le proprie responsabilità e individuare, coscienziosamente,le azioni alle quali egli è chiamato a partecipare. Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi. La Chiesa invita tutti i cristiani al duplice compito di animazione e di innovazione per far evolvere le strutture e adattarle ai bisogni presenti."

  Un invito all'azione è più di un invito a informarsi, anche se lo comprende, perché è vano agire senza aver prima capito. La politica si fa collettivamente. Non è politica l'opinione che uno ha della politica. In quanti bisogna essere per fare politica? Direi almeno in due, purché si tratti di un rapporto vero, umano, forte, non virtuale, come invece sono quelli che si formano mediante internet. Si deve convivere, perché è appunto nella convivenza che si affrontano realmente i problemi politici, vale a dire quelli di governo delle società umane. Essi sorgono molto presto, fin da bambini, nelle prime esperienze sociali, le quali, ognuno lo sa bene, contengono quasi tutti i problemi politici delle società maggiori. È da quel momento che occorre iniziare a fare politica e, quindi, che occorre anche insegnare fare politica. Ad esempio a non dare ascolto a chi vorrebbe spingerci a dare il peggio di noi stessi. Così poi, da adulti, ci si sarà fortificati e si saprà come reagire di fronte a proposte analoghe. Non è in fondo questa la morale, il profondo insegnamento, di un libro come Pinocchio, che è per i bambini, ma anche per adulti ridivenuti bambini? Non è mai bene acciaccare al muro i grilli parlanti. È  in definitiva questo che si è fatto quando, all'invito del nostro padre Francesco di accogliere, proteggere, promuovere, integrare, i migranti e i rifugiati, gli si è replicato con una specie di pinocchiesco "Chetati , grillaccio del malaugurio!", invitandolo a farsi gli affari suoi e a rimanersene chiuso in Vaticano, "perché non possiamo accogliere tutta l'Africa". In effetti non tutta l'Africa è giunta da noi in un anno, ma, è stato osservato, più o meno tante persone quante ne potrebbero contenere due stadi di calcio. E non è nemmeno tutta l'Africa che si sta spostando verso l'Europa, quindi dai posti più poveri del pianeta ad uno dei posti più ricchi, e certamente il più sicuro per viverci. Ma indubbiamente vi sono veramente molti sofferenti in viaggio: non li si dovrebbe carcerare solo per questo, dice il nostro padre Francesco, ( "evitare ogni forma di detenzione in ragione della loro condizione di migranti"), ma le cronache ci dicono che in Libia, con i cui governanti abbiamo recentemente raggiunto accordo riguardo alle migrazioni umane, è proprio questo che sta accadendo, mentre l'Italia sta anche intervenendo militarmente laggiù. Sono in questione principi umanitari molto importanti, ma anche prettamente religiosi.  Scrive il nostro padre Francesco, nel Messaggio per la Giornata mondiale de rifugiati 2018: "Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è un'occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo straniero accolto o rifiutato in ogni epoca (confronta Mt 25,35.43).

 Nulla di nuovo per la verità. L'attuale Papa non fa che ribadire, precisandolo, l'insegnamento del suo predecessore Montini, il quale, nella lettera apostolica che ho sopra citato, scriveva, nel 1971, in un tempo in cui i tra i migranti da proteggere vi era ancora tanta gente nostra:

"Pensiamo altresì alla situazione di un gran numero di lavoratori emigrati, la cui condizione di stranieri rende ancora più difficile, da parte dei medesimi, ogni rivendicazione sociale, nonostante la loro reale partecipazione allo sforzo economico del paese che li accoglie. È urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico, per creare uno statuto che riconosca il diritto all'emigrazione, favorisca la loro integrazione, faciliti la loro promozione professionale e consenta a essi l'accesso a un alloggio decente dove, occorrendo, possano essere raggiunti dalle loro famiglie.

  A questa categoria si aggiungono le popolazioni che, per trovare lavoro, sottrarsi a una catastrofe o a un clima ostile, abbandonano le loro,regioni e si trovano sradicate presso altre genti."

  Perché Pinocchio dà ascolto ai cattivi compagni? Perché è solo di fronte a loro e, in fondo, sta bene cosi. Ne ha avuto abbastanza dei grilli parlanti. Se ne va, allora, al Paese dei balocchi, spregiando i suoi doveri. Era diventato umano, da burattino che era, ma, così facendo. diventa addirittura animale, un somaro. Recupererà l'umanità quando recupererà la capacità di misericordia, dandosi da fare per il padre. Ma, e questo nel Pinocchio di Collodi non c'è, non ci si può riuscire rimanendo da soli: da soli ci prende la paura e allora finiamo nelle mani di chi si attacca alle nostre paure per spingerci al male, per convincerci che non c'è altra strada per salvarci che essere cattivi, che scegliere il pace, ad esempio sostiene che tutta l'Africa sta venendo da noi e allora noi dovremmo, per non farci travolgere, per questo negare la cittadinanza a chi cittadino lo è ormai di fatto, perché parla come noi, pensa come noi, vive come noi, e dá il suo contributo al bene comune; e negare qualsiasi impegno per quelli che soffrono nella migrazione, e sono anche carcerati all'estero. La nostra salvezza dipende dalla pace, ma, questo ci insegnano i nostri maestri religiosi, non c'è pace duratura senza fraternità universale. Se oggi respingiamo chi invoca il nostro aiuto, poi introduciamo in società un principio malvagio che ci si potrebbe ritorcere contro, quando saremo noi ad essere nel bisogno. E a noi italiani sta già accadendo con l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. La condizione dei nostri giovani emigrati per lavoro in quella nazione si sta facendo precaria.

 

97.Informarsi, conoscere, capire

 

 Di solito gli adulti pensano di saperne abbastanza sulla società intorno. Quando però parlano tra loro scoprono tante curiosità non appagate. Non è sempre chiaro come funzionano le cose. Dove e come informarsi meglio? 

 Se una persona rimane da sola, non sempre avverte la necessità di sapere di più. Questo accade anche se la maggior parte delle relazioni che si hanno avvengono telematicamente, in gruppi sociali collegati mediante applicazioni internet. Questo perché, aderendo ai vari gruppi, ci si seleziona, si è molto simili in tutto, e ciò che si sa  In genere basta. A quei gruppi va bene una definizione delle masse che le chiama "folle solitarie", perché, anche se si dialoga convergendo in un'applicazione, non ci sono mai vere relazioni personali. Queste ultime sorgono solo quando ci si incontra realmente, faccia a faccia.

  Nel governo della società occorre sapere di più e, innanzi tutto, conoscerla meglio. In un regime democratico non è cosa da specialisti, ma compito, e addirittura dovere, di tutti. Non solo di quelli che possono votare alle elezioni, ma di tutti quelli che compongono la società e che con i loro comportamenti la determinano. Si partecipa alla società fin da bambini e anche se non si è cittadini. E il governo popolare di una società non si fa solo votando alle elezioni. Uno dei modi più importanti in cui si partecipa alla società è da lavoratori e da consumatori. Il lavoro comprende anche quello che si fa creando e organizzando un'impresa, vale a  dire una collettività che si dedica alla produzione e al commercio. Il sistema sociale delle relazioni tra lavoratori e e consumatori costituisce il mercato, che ai tempi nostri è esteso a tutto il pianeta, vale a dire su scala "globale". È regolato da norme giuridiche, parte delle quali sono di origine pubblica, sono imposte dalle leggi degli stati e da accordi internazionali, e parte sono concordate dai privati. Un esempio di queste ultime sono i contratti che firmiamo quando compriamo un servizio telefonico, come un numero di telefono cellulare.

  Ai nostri tempi le relazioni di mercato tendono a influenzare quelle politiche, che riguardano il governo della società. La legge fondamentale del mercato è quella del più forte, che non significa necessariamente il migliore. Gli operatori più forti sono in grado di influenzare il mercato e addirittura di determinare il comportamento dei consumatori, creando nuovi bisogni sociali. La politica regola il mercato in modo che questa legge sia moderata da norme che impediscano ai più forti di mangiarsi tutto. Se però la politica si fa più debole, e, in particolare, più debole nei confronti del mercato, allora può accadere che i più forti sul mercato divengano anche i più forti in politica. Essi però agiscono essenzialmente nel proprio interesse, mentre in democrazia la politica dovrebbe operare nell'interesse di tutti. Mirano al "profitto" che è la differenza tra quanto si ricava dal commercio sul mercato dei prodotti e quanto si è speso nella produzione (i costi). Chi opera sul mercato, anche i consumatori, tende al profitto maggiore. E gli operatori più forti sul mercato tendono a persuadere i consumatori che acquistando un certo prodotto avranno un profitto, anche se magari esso non c'è, o è minore dei quello prospettato o ha molte controindicazioni, ad esempio danni per la salute. Le norme della politica servono anche a impedire che la pubblicità, che può essere molto convincente, non inganni il consumatore. Se però il mercato prevale sulla politica, anche questa attività regolatrice di farà più debole. Governi meno attenti all'utilità pubblica si sono fatti, anzi, un vanto di aver "deregolamentato". È accaduto, in particolare negli anni '80. I politici più importanti che seguirono in quegli anni quella linea furono il presidente statunitense Ronald Reagan e il primo ministro britannico Margaret Thatcher. Essi confidarono nella capacità dell'economia di autoregolarsi e di creare ricchezza per tutti, pur se ciascun operatore mirava solo al proprio profitto, al proprio interesse.

  La dottrina sociale dà invece l'indicazione di regolare l'economia in modo che non danneggi il bene comune. Assegna questo compito alla politica, che in democrazia è compito di tutti.

 Leggiamo ad esempio nella lettera apostolica Octogesima Adveniens  - Approssimandosi l'ottantesimo [anniversario dell'enciclica Rerum novarum - Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 12^], diffusa nel 1971 dal papa Giovanni Battista Montini, Paolo 6^:

46.L'attività economica [...] rischia di assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si palesa necessario il passaggio dall'economia alla politica [...] ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico".

  L'appello alla politica chiama in causa tutti noi che, nel partecipare alla società, ad esempio da consumatori, siamo anche agenti politici. Siamo convinti che sia bene che la politica, vale a dire ciascuno di noi, possa regolare i fatti economici o, invece, riteniamo, come Reagan e Thatcher, che le leggi del mercato debbano fare il loro corso fino alle ultime conseguenze e che la società debba fare un passo indietro? Questo un primo tema su cui intendersi, innanzi tutto sulla base della nostra concreta e quotidiana esperienza. L'alternativa è attualissima ed è rappresentata oggi dalle linee del presidente statunitense Donald Trump e del Papa Francesco. Quest'ultimo, nella sua enciclica Laudato si' del 2015, non fa che ribadire l'insegnamento sociale dei suoi predecessori, in particolare gli sviluppi della dottrina sociale dal 1941. Dobbiamo però vagliare razionalmente le argomentazioni proposte, perché è da queste che, trattandosi di materia sociale e non di dottrina di fede, deriva la loro autorevolezza. Ma come farlo senza una sufficiente informazione, rimanendo soli o al più parti di folle solitarie su internet? Il lavoro che c'è da fare ci spinge quindi ad incontri reali e sistematici, per arrivare a persuaderci di un certo orientamento e a determinarci di conseguenza. Un'attività che può senz'altro farsi in parrocchia, fin dalla prima formazione alla fede, tenendo conto che la dottrina sociale non è fatta per un pubblico di esperti, ma per tutti.

 

98. Usare l'intelligenza

 

  Usare l'intelligenza fa parte dei doveri politici di tutti. È una fatica che i populisti, quelli che pretendono da noi mani libere confermandoci nelle nostre paure e incoraggiandoci a cedere alle nostre peggiori tentazioni, vorrebbero risparmiarci. Lasciando loro le mani libere, finiremmo poi nelle loro mani. E in che mani! Gente che non sente scrupoli a usare le maniere forti con chi sta peggio  e che ci propone di fare lei in società, per conto nostro, il lavoro sporco che ci ripugna, assicurandoci che non saremo tra quelli abbandonati. Possiamo credere loro? Una volta introdotto un principio disumano, di abbandonare i sofferenti al loro destino, quello poi si diffonde come un cancro, guastando la società. E la sofferenza tocca a tutti. A quel punto si vorrebbe solidarietà. Ma in nome di che? In un sistema in cui tutto ha un prezzo, bisogna avere di che pagarlo. E se non se ne ha o non se ne ha abbastanza? Potremmo scoprire che la società, caduta in mano ai populisti, non è più "casa nostra". E che "casa nostra" è ormai solo la nostra condizione di sofferenza e che noi siamo diventati, per la società intorno, gli scarti da rimandare a mani vuote "a casa loro". Troppo tardi, per noi, ci potremmo convincere che le cose sarebbero potute andare diversamente, solo se avessimo, al tempo giusto, voluto seguire gli insegnamenti dei nostri buoni maestri, come è ai tempi nostri il nostro Padre Francesco, disinvoltamente svillaneggiato sui giornali della nostra destra. Egli non fa che confermare l'insegnamento dei suoi predecessori. In politica occorre usare l'intelligenza, la testa e non la pancia, la ragione e non l'emotività. Questo per convincerci che non c'è alcuna via di salvezza per l'umanità che quella di seguire la via dei veri valori, quelli che l'animo religioso ritiene donati agli umani per virtù soprannaturale. Quelli che ci portano a distaccarci dalle leggi violente della natura, dove prevale il più forte. Se noi ci facciamo come bestie, rinunciando al l'intelligenza, avremo il destino delle bestie. Ma un'umanità di otto miliardi di umani non può sopravvivere se governata da bestie e riducendo a bestie gli umani.

  Di questo si tratta per esteso in molti documenti di quel magistero che viene indicato come dottrina sociale. Leggiamo ad esempio nell'enciclica Pacemaker in terris - La pace sulla terra, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23^:

"4. Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità con le stesse leggi che sono proprie delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l'universo; quando invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.

  Sono quelle, infatti, le leggi che indicano chiaramente come gli uomini devono regolare i loro vicendevoli rapporti nella convivenza; e come vanno regolati i rapporti fra i cittadini e le pubbliche autorità all'interno delle singole comunità politiche; come pure i rapporti fra le stesse comunità politiche; e quelli tra le singole persone e le comunità da una parte, e dall'altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune universale.

5. In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi un soggetto di diritti e doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili e inalienabili.

  Che se poi si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa appare incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono redenti dal sangue di Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna."

 

99. Uguali in dignità

 

 Voglio ricordare questa affermazione, che si legge al n.5 dell'enciclica La pace sulla terra - Pacem in terris, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23^:

"In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi un soggetto di diritti e doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili e inalienabili."

  Essa è molto importante perché contiene la definizione di persona in senso insieme religioso, filosofico, ideologico e politico. Quanto a quest'ultimo, esso deriva dal fatto che, nell'impostazione del Roncalli, che è poi quella della dottrina sociale moderna, il principio della dignità della persona deve essere posto a base di una convivenza ordinata, che comprende appunto ogni comunità politica, ad ogni livello. Si è parlato, a proposito dell'orientamento espresso nell'enciclica che ho citato, di principio personalistico. In politica esso trova un antecedente fondamentale in questa affermazione contenuta nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America, del 1776, nel punto dove si proclama:

"Consideriamo evidente [=che non ha bisogno di essere provato] che tutti gli esseri umani siano stati creati uguali, dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti, e tra di essi quello alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità".

 Si tratta di un principio che in Italia è attualmente legge fondamentale della Repubblica, agli articoli 2 e 3 della Costituzione. Inteso in tutta la sua estensione fonda un orientamento di solidarietà umana che va molto oltre quello che consegue alla cittadinanza di uno stato e ha di mira la pace universale, l'unica condizione in cui gli esseri umani possono essere veramente felici. È appunto in questo modo che viene insegnato nella dottrina sociale. Esso, mediante l'azione determinante dei cattolici democratici è stato posto alla base della realizzazione del processo di unificazione europea.  Avendo perseguito con determinazione la pace a livello continentale, proprio dove fin dall'antichità si era avuta una serie praticamente ininterrotta di guerre, si è effettivamente prodotto un periodo di pace molto lungo in Europa, come mai era accaduto prima, tanto che oggi, in Italia, chi ha meno di ottanta anni o giù di lì non ha memoria personale della guerra. Per un cittadino degli Stati Uniti d'America, ad esempio, è molto diverso, perché la sua nazione ha vissuto pochi periodi di pace e anche oggi vive il pericolo di diverse guerre contemporaneamente. Anche per l'Europa la situazione sta però cambiando. Un focolaio di guerra è in atto, ad esempio,  in Ucraina tra stati in cui prevalgono i cristiani. Ma gli europei sono impegnati in guerre in Afghanistan e in Siria e stanno intervenendo anche in Libia. 

  È chiaro che l'affermazione della dignità inalienabile degli esseri umani non ha mai impedito ai democratici statunitensi, come ad altri democratici nel mondo, fatta eccezione per la nostra nuova Europa, di fare guerra. L'apporto caratteristico del pensiero sociale orientato dalla nostra fede è stato invece quello di inserire la pace tra i diritti umani fondamentali. L'idea è che la dignità della persona non sia compatibile con l'azzardo morale della guerra, con lo sterminio di altri esseri umani. Questa dottrina politica è piuttosto recente anche  in religione. Gli stessi papi nel medioevo proclamarono delle guerre. Le ultime a cui parteciparono come sovrani politici furono nel 1848 la prima guerra d'Indipendenza italiana, con l'invio di un corpo militare nel lombardo-Veneto contro gli austroungarici, al quale fu però impartito l'ordine di ritiro prima che avesse impegnato il nemico (ordine che non fu obbedito dal capo della spedizione), e nel 1849 e nel 1870 la difesa della città di Roma rispettivamente dai rivoluzionari mazziniani e dall'esercito del Regno d'Italia. La svolta si ebbe durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e fu preceduta dalla riflessione filosofica e politica del pensiero sociale cristiano e preparata da una dichiarazione del papa Benedetto 15^ del 1917, contenuta in una lettera ai capi delle nazioni in guerra, in cui definì la guerra che si stava combattendo, la Prima Guerra Mondiale, una "inutile strage".

  La responsabilità delle persone di fede è maggiormente coinvolta in politica proprio perché è con il contributo determinante del pensiero religioso che nell'era contemporanea è scaturita l'idea di realizzare in concreto una politica di pace a livello mondiale come parte dei diritti umani inalienabili degli esseri umani. In passato l'aveva proposta, ad esempio, il filosofo cristiano Immanuel Kant (1724-1804), nel libro Per la pace perpetua, del 1795.

 

100. Veramente uguali

 

Si legge nell’enciclica Pacem in terris - La pace sulla terra,  diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23°:

“4. Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto che si ritiene di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità politiche con le stesse leggi che sono proprie delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l’universo; quando invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.

Sono quelle, infatti, le leggi che indicano chiaramente come gli uomini devono regolare i loro vicendevoli rapporti nella convivenza; e come vanno regolati i rapporti fra i cittadini e le pubbliche autorità all’interno delle singole comunità politiche; come pure i rapporti fra le stesse comunità politiche; e quelli fra le singole persone e le comunità politiche da una parte, e dall’altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune universale.”

e poi:

“5. In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili.

Che se poi si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa apparirà incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono stati redenti dal sangue di Gesù Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna.”

   Definire l’essere umano, ogni  essere umano, persona  nel senso sopra precisato, significa proclamare il principio dell’uguaglianza in dignità  tra gli esseri umani. Nella visione della dottrina sociale esso non varia a seconda dei rapporti stabiliti tra gli esseri umani. Nell’enciclica sono ricordati tutti: a) quelli vicendevoli tra le persone, b) quelli tra le persone e le autorità politiche; c) quelli tra le comunità politiche, d) quelli tra le persone e la comunità mondiale ed e) quelli tra le comunità politiche e la comunità mondiale. Il nostro magistero insegna che,  in ognuna di quelle relazioni sociali,  si è sempre persona nello stesso modo, con gli stessi diritti e doveri universali, inviolabili, inalienabili. Una conseguenza è che, per la dottrina sociale, se si finisce nelle mani di una comunità politica diversa da quella di origine, non per questo si è meno persona quanto a quei diritti e doveri fondamentali. Ai tempi nostri, tra le comunità politiche più ricche del mondo, come è la società italiana, si dissente su questa applicazione del principio di uguaglianza. Di fatto si vorrebbe limitare quest’ultima ai cittadini, ma se questa eccezione riguarda i diritti fondamentali, quelli che la dottrina sociale definisce universali, inviolabili e inalienabili, lo si fa non solo violando l’etica religiosa, ma anche le norme fondamentali vigenti, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, la quale all’art.2, riconosce  e  garantisce  i diritti inviolabili dell’uomo,  sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità,  richiedendo, contemporaneamente,  indipendentemente dalla condizione di cittadinanza, l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.  Ma la violazione riguarda anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,  anch’essa legge vigente in Italia. Essa stabilisce l’inviolabilità  della  dignità umana estendendo esplicitamente, in merito,  ad ogni  persona  umana  la  condizione di uguale dignità sociale,  anche con riferimento a diritti fondamentali previsti espressamente dalla nostra Costituzione per i cittadini (ma riconosciuti per via interpretativa anche agli stranieri dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale).

TITOLO III

UGUAGLIANZA

Articolo 20

Uguaglianza davanti alla legge

Tutte le persone sono uguali davanti alla legge.

Articolo 21

Non discriminazione

1.   È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.

2.   Nell'ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.

Articolo 22

Diversità culturale, religiosa e linguistica

L'Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica.

Articolo 23

Parità tra donne e uomini

La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione.

Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.

  Siamo veramente convinti della  pari dignità sociale delle persone? E se sì, siamo disposti ad agire conseguentemente? E se non lo siamo, come la mettiamo con la religione e la legge?

 E’ diverso agire in un certo modo perché si è convinti di fare il giusto o solo perché si temono le sanzioni per le violazioni. Se poi si è partecipi di una democrazia di popolo, in cui si tiene conto degli orientamenti della gente, potrebbe avvenire che le leggi, anche quelle molto importanti, vengano sostanzialmente disapplicate. Durante il regime fascista, quando vennero imposte per leggi discriminazioni sociali contro gli ebrei, accadde che molta gente rifiutò di applicare quelle più dure. Ora qualche volta sembra accadere l’opposto. Certe cose ripugnano, ma c’è che si propone di farle per nostro conto, senza che personalmente ci si debba sporcare le mani. Basta che si faccia fare a loro, senza legar loro le mani con questioni di principio. Abbiamo istintivamente paura del diverso e loro ci confermano che abbiamo ragione di temere.

  Sì, è vero, i più di noi temiamo per il futuro. Ce lo dicono i sociologi: viviamo una condizione di insicurezza sociale. Eppure le nostre società sono tra le più ricche del mondo. Com’è che, in società tanto ricche, c’è tanta gente che sta male e le autorità dichiarano di non avere di che pagare i servizi sociali per la collettività? Si sta male e allora chi può, in particolare i più giovani, emigrano. Lo possono fare liberamente nell’Unione Europea, perché è un diritto che è stato loro riconosciuto. Non vengono respinti, ma si trovano nella condizione di doversi trasferire all’estero. Non li rimproveriamo per questo. In altre nazioni europee il fenomeno è stato molto più imponente. Del resto il diritto di migrare è previsto  da un’altra importante convenzione internazionale che  è diventata legge dello stato, il Protocollo n.4 addizionale della Convenzione dei diritti dell’uomo  e delle libertà fondamentali: art.2, comma 2: Ogni persona è libera di lasciare qualsiasi Paese compreso il proprio”. I giovani europei migrano, ma di solito non rischiano la vita se non lo fanno. Molti di quelli che, rischiando la vita in lunghi viaggi per terra e per mare, giungono alle nostro frontiere, o vengono intercettati mentre vi stanno arrivando, invece fuggono da condizioni sociali tali a mettere in pericolo le loro vite. Da stati dove non è possibile procurarsi ciò che è indispensabile per vivere, in cui le abitazioni sono malsane, in cui non ci si può curare, in cui non ci si può procurare un’istruzione sufficiente. E’ chiaro che usiamo due principi diversi per valutare le condotte dei nostri cittadini che emigrano e quelle di quegli altri. E’ in questione la vita, quindi si tratta di diritti fondamentali. Ma quali sono le cause che costringono la gente a emigrare? Alcuni studiosi ci dicono che le cause sono le stesse per i nostri cittadini e per quegli altri e che è un’illusione pensare di risolvere il problema solo respingendo chi a rischio della vita certa di arrivare da noi. Occorre riformare profondamente i sistemi economici, sociali e politici che causano il problema. E occorre farlo su scala globale, perché il problema si è fatto globale. Chi si trova in condizione privilegiata, perché si è trovato inserito nella parte giusta del mondo, o è riuscito ad esservi ammesso, rifiuta di doveri di solidarietà  inderogabili per soccorrere quegli altri che sono rimasti esclusi, che quindi risultano essere uno scarto  del sistema. Ce ne ha parlato il nostro Padre  Francesco nell’enciclica Laudato si’, del 2015. O invece pensiamo che il mondo debba andare così come va, così come vengono i terremoti e non ci si può fare nulla se non cercando di mettersi in salvo e di scampare alla morte? Ma come la mettiamo con il fatto che i sistemi sociali sono integralmente una costruzione umana? Hanno una storia, cambiano, possono cambiare in un senso o nell’altro, in peggio o in meglio. E’ dalla metà degli scorsi anni ’80 che stanno cambiando in senso sfavorevole ai lavoratori che lavorano alle dipendenze altrui. In particolare si è passati da rapporti di lavoro più stabili a rapporti meno stabili. E il potere di acquisto dei salari è costantemente diminuito, salvo che per le categorie che si trovavano in rapporti di forza favorevoli o che hanno potuto conservare meccanismi di adeguamento automatico.

  Tutte le questioni a cui ho accennato rientrano in quelle comprese nel tema della  giustizia sociale. Quest’ultimo è in genere ritenuta collegato a quello della pace, nel senso che storicamente non si è mai riusciti ad assicurare veramente la pace  senza creare condizioni di giustizia sociale. Ecco come se ne parla nell’enciclica La pace sulla terra:

Secondo giustizia

51. I rapporti fra le comunità politiche vanno inoltre regolati secondo giustizia: il che comporta, oltre che il riconoscimento dei vicendevoli diritti, l’adempimento dei rispettivi doveri.

Le comunità politiche hanno il diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo: ad essere le prime artefici nell’attuazione del medesimo; ed hanno pure il diritto alla buona riputazione e ai debiti onori: di conseguenza e simultaneamente le stesse comunità politiche hanno pure il dovere di rispettare ognuno di quei diritti; e di evitare quindi le azioni che ne costituiscono una violazione. Come nei rapporti tra i singoli esseri umani, agli uni non è lecito perseguire i propri interessi a danno degli altri, così nei rapporti fra le comunità politiche, alle une non è lecito sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre. Cade qui opportuno il detto di sant’Agostino: "Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni, se non a grandi latrocini?".

Certo, anche tra le comunità politiche possono sorgere e di fatto sorgono contrasti di interessi; però i contrasti vanno superati e le rispettive controversie risolte, non con il ricorso alla forza, con la frode o con l’inganno, ma, come si addice agli esseri umani, con la reciproca comprensione, attraverso valutazioni serenamente obiettive e l’equa composizione.

   Nell’enciclica  Laudato si’, del nostro padre Francesco, questo lavoro di realizzare la pace nella giustizia è assegnato a tutti noi, a ciascuno di noi e noi nelle collettività di cui siamo partecipi, nel quadro di uno sforzo di conversione:

218 Ricordiamo il modello di san Francesco d’Assisi, per proporre una sana relazione col creato come una dimensione della conversione integrale della persona. Questo esige anche di riconoscere i propri errori, peccati, vizi o negligenze, e pentirsi di cuore, cambiare dal di dentro. I Vescovi dell’Australia hanno saputo esprimere la conversione in termini di riconciliazione con il creato: «Per realizzare questa riconciliazione dobbiamo esaminare le nostre vite e riconoscere in che modo offendiamo la creazione di Dio con le nostre azioni e con la nostra incapacità di agire. Dobbiamo fare l’esperienza di una conversione, di una trasformazione del cuore».[ Conferenza dei Vescovi Cattolici dell’Australia, A New Earth. The Environmental Challenge (2002).]

219. Tuttavia, non basta che ognuno sia migliore per risolvere una situazione tanto complessa come quella che affronta il mondo attuale. I singoli individui possono perdere la capacità e la libertà di vincere la logica della ragione strumentale e finiscono per soccombere a un consumismo senza etica e senza senso sociale e ambientale. Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, non con la mera somma di beni individuali: «Le esigenze di quest’opera saranno così immense che le possibilità delle iniziative individuali e la cooperazione dei singoli, individualisticamente formati, non saranno in grado di rispondervi. Sarà necessaria una unione di forze e una unità di contribuzioni». Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit, 72 (trad. it.: La fine dell’epoca moderna, 66).La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria.

  Ecco, politica è anzitutto costruire quelle reti comunitarie virtuose a cui l’enciclica si riferisce. Ogni ideologia democratica è partita da questo.

 

101. Populismo

 

  Gli studiosi di politica segnalano in Italia il pericolo del populismo. Quest’ultimo, per come lo si intende nel dibattito pubblico di oggi, è una strategia politica per conquistare e conservare il potere. Viene attuata da gruppi in crisi di legittimazione, vale a dire quando non riescono a convincere la gente con altri argomenti. Consiste nel confermare le persone nelle loro paure irrazionali, giustificando le loro tentazioni cattive. Si sostiene che la situazione è tanto grave che non c’è altro modo per uscirne che essere cattivi, come si fa in guerra. I populisti si offrono di fare il male per conto altrui: propongono un patto che consiste nel dar loro il potere senza stare tanto a sottilizzare e promettono di fare loro il lavoro sporco che occorre per salvarsi, liberando le coscienze dei loro mandanti politici. Però richiedono mani libere. Non vogliono sentire obiezioni in corso d’opera. E quando cominciano a far danno e qualcuno protesta, dicono che è troppo presto per farlo, che bisogna lasciarli lavorare. E’ sempre troppo presto.  E se si osserva che, continuando in un certo modo, le cose non potranno che peggiorare, allora accusano chi fa queste previsioni di essere un menagramo e un disfattista. Proposta questa impostazione politica, si è di fronte al populismo, nel senso che ho sopra precisato. E’ chiaro che si tratta di un atteggiamento che ricorre in misura maggiore o minore in quasi tutte le politiche italiane di oggi. E’ una manifestazione del degrado della politica. Si tratta di un fenomeno che è in corso dagli scorsi anni ’80, quando appunto gli studiosi cominciarono a parlare di crisi dei legittimazione della politica. E’ degrado per tre aspetti: per il fatto che non si dice alla gente la verità sui mali sociali; perché si propone come soluzione un lavoro sporco, che consiste nell’essere cattivi; perché, infine, si propone di dare fiducia incondizionata a certi politici, disertando un lavoro essenziale in democrazia che è quello della costante critica politica razionale.

  Il populismo può essere considerato come una grave malattia della democrazia. Infatti è una strategia che è stata attuata storicamente da correnti politiche non democratiche e dai loro principali esponenti. Fu sostanzialmente populista la politica del fascismo mussoliniano, fino alla sua prima caduta nel luglio del 1943. Successivamente esso fu caratterizzato essenzialmente dalla violenza politica, fino al disastro finale nell’Italia del Nord, nel 1945. Ma populismo e violenza politica spesso si accompagnano. Questo perché il populismo di solito prende di mira certi settori sociali, dai quali può venire una reazione alla quale si oppone una repressione violenta. Il populismo è insofferente dei limiti che caratterizzano le politiche democratiche e li considera parte del problema da risolvere senza tanti scrupoli morali. Il pericolo della violenza politica incombe quindi in tutte le politiche populiste.

  Parliamo di popolo  e di paure. Ma quali sono le paure esagerate artificiosamente dal populismo? Possono essere le più varie, a seconda degli strati sociali coinvolti. In questa prospettiva il popolo perde il suo aspetto unitario, di massa in cui non si riesce bene a distinguere granché, come in una fotografia dell’alto del grande pubblico di un concerto rock. Appaiono vari gruppi, ciascuno dei quali ha le sue specifiche paure. Il populista confermerà tutti nelle loro paure, senza curarsi di avere un atteggiamento coerente. A tutti dirà che penserà lui a mettere le cose a posto, andando al potere. Se si cerca di approfondire, andrà su generico, ad esempio dicendo di ispirarsi a qualche modello straniero  vincente. Ma le ragioni per cui ci sono nazioni  vincenti  e nazioni  perdenti sono appunto quelle che occorre studiare per capire che fare. Com’è successo che certi siano tra iperdenti? E come farà il nostro populista a ribaltare la situazione? Che competenza ha? Un discorso come questo dà fastidio al populista: a questo punto i fascisti storici iniziavano a menare le mani. Quando ci affidiamo ad una qualche azienda per le nostre esigenze, ad esempio per acquistare l’automobile alla quale affidiamo le nostre vite, ci informiamo delle referenze di chi produce e vende. Il populista in genere non è in grado di esibire curriculi impressionanti. A volte è veramente alle prime armi. O le sue esperienze di amministrazione riguardano situazioni piuttosto limitate. Ma è ambizioso, se gli si affidasse il mondo intero avrebbe la soluzione a tutti i suoi problemi. E fa una colpa a chi ha da obiettare in merito.

  Immaginate di dover subire un delicato intervento chirurgico. Preferireste affidarvi a chi capita o ad un medico con un buon curriculum?

  Tutti dovrebbero intendersi un po’ di politica. Non è come per la medicina, dove per capirci occorre aver seguito un impegnativo corso di studi. Ma governare una grande città, una regione o una nazione intera richiede molto più che l’intendersi un po’  di politica: occorre aver dimostrato di saper fare e, innanzi tutto, di conoscere veramente e realisticamente le istituzioni con le quali si deve avere a che fare, le funzioni da svolgere e i problemi che ci sono.

  Poi, a disastro avvenuto, ci sarà sempre qualcuno che dirà che il populista  qualcosa di buono l’avrà pure fatto. Questo argomento mi è stato proposto questa estate a proposito del Mussolini.

  Allora ho fatto l’esempio che segue. Qualche anno fa il secondo pilota di un aereo di linea, rimasto solo alla guida, ha mandato l’apparecchio a schiantarsi contro una montagna. Aveva deciso di farla finita. In quel momento gli è parsa una buona soluzione e si è trascinato dietro gli altri membri dell’equipaggio e i passeggeri. Si è scoperto che aveva avuto problemi psichiatrici, che però non erano stati segnalati alla compagnia aerea. Ma qualcosa di buono l’avrà pure fatto! Avrà voluto bene a qualcuno. Avrà avuto una famiglia che ha seguito amorevolmente. Prima di quell’ultimo volo, non aveva fatto  sempre quello che doveva? Eh, sì, qualcosa di buono certamente l’avrà fatto. Ma voi, se aveste saputo dei problemi psichiatrici che aveva maturato quel pilota, ci sareste saliti con lui su quell’ultimo volo? E’ così che vanno giudicati i politici di governo, prima e dopo il loro servizio. Sì, ad esempio, avranno pure fatto qualcosa di buono, ma ora sono in grado di pilotare  la nazione? Non è che ci manderanno a sbattere contro una montagna? Nel caso del Mussolini, non è che egli abbia nascosto le sue intenzioni: voleva fare guerra, diceva, per conquistare  uno spazio vitale, in cui erano comprese Libia ed Etiopia. Lo ha detto chiaro e forte e agli italiani, fin da piccoli, ha messo in mano libro e moschetto (un tipo di fucile utilizzato in guerra). Seguiva i futuristi, per i quali la guerra era l’unica igiene del mondo. Bene, l’Italia ebbe la guerra, diverse guerre, prima quelle coloniali e poi quella  mondiale. Gli italiani, che erano meno ricchi della gente di altre nazioni, speravano di guadagnarci.  Conquistare  non significa anche un po’  rapinare, che è quando con la violenza ci si impossessa delle ricchezze altrui? Gli italiani ritennero di averne il diritto, perché anche gli altri europei facevano lo stesso. Quindi poi alla fine sono andati a sbattere in una disastrosa guerra mondiale, dalla quale la nazione è uscita pressoché annientata. Alcuni sono ancora tentati da quella via, ma capiscono che qualcosa non è andato per il verso giusto e allora, quando non passano a menare le mani, propongono l’argomento principe dei populisti  di sempre a disastro avvenuto, appunto quello del ma qualcosa di buono l’avrà fatto. Altri sostengono che  però sarebbe  meglio vederci chiaro, realisticamente,  prima  ed  ora su come andrà a finire nel complesso con una politica; a loro non basta che chi comanda qualcosa di buono l'abbia comunque fatto E se poi la storia si ripetesse? E se ci si schiantasse? I saggi invitano ad imparare dalla storia, che è, dicono, maestra di vita.

   Ognuno ha delle paure per come vanno le cose in società. Il sociologo Zygmunt Bauman (1925-2017) ha scritto che la nostra epoca è caratterizzata dall’insicurezza  sociale, ed anche nelle società più ricche. Non si è più sicuri del lavoro, di avere una casa, di essere aiutati nelle difficoltà. Si cerca di trovare soluzioni private a questi mali sociali, ma di solito si è sempre indietro, in fondo impotenti, rimane sempre questa paura. Ma com'è che accade anche nelle nazioni più ricche? Non ci si potrebbe fare qualcosa con gli strumenti della politica? Probabilmente sì, perché si tratta di mali sociali che sono le conseguenze di  sistemi  di relazioni sociali che non funzionano bene. Si tratta di costruzioni umane che, come sono state fatte, possono anche essere cambiate. Però si tratta di sistemi molto complessi, di reti di relazioni che ormai coinvolgono tutto il mondo. Per cui, ad esempio, il pericolo di una guerra nucleare dall’altra parte del globo ci preoccupa, e veramente ci deve preoccupare ha sostenuto il capo del governo tedesco Angela Merkel,  non tanto perché potrebbe arrivarci addosso un qualche missile sparato da laggiù, ma perché gran parte delle nostre cose di uso quotidiano, che compriamo a basso prezzo, ci vengono da quelle parti. Prima di operare bisogna, quindi, innanzi tuttocapire e capire  in modo veritiero, realistico,  che significa  in modo aderente ai fatti  e   razionalmente. E, capendo, si  potrebbe avere la spiacevole sorpresa di concludere che le cose non possono cambiare veramente se non si decide innanzi tutto di cambiare il modo come è impostata la propria vita. Non serve essere cattivi  con qualcun altro. E’ appunto ciò che viene proposto nell’enciclica Laudato si’, diffusa nel 2015 dal papa Francesco. E’ un documento che contiene un’analisi realistica e razionale dei mali sociali di oggi. Ma non contiene populismo, come i detrattori del Papa sostengono: innanzi tutto perché si tratta di un’analisi realistica della realtà; poi perché non conferma la gente nelle sue paure, ma anzi esorta a non avere paura; non propone di essere cattivi per salvarsi, ma anzi di essere virtuosi, e, infine, e questo è molto importante per distinguere la sua prospettiva da quella populista, il suo principale problema non è di conquistare o di mantenere un potere politico, ma di migliorare la situazione sociale.

  Il principale intento del populista è invece quello di conquistare o di mantenere il potere politico, non di risolvere i problemi della gente. E’ per questo che non ha necessità di una visione realistica e razionale dei problemi della società. Gli basta avere una visione realistica e razionale dei  suoi  problemi, che pensa di risolvere andando al potere e mantenendolo. Ma a mente fredda gli altri non gli darebbero credito perché non ha mai dimostrato di essere granché come politico:  bisogna allora che la gente abbia paura e abbandoni la razionalità, il  costume della critica sociale, e, insomma, si fidi senza stare troppo a sottilizzare, si fidi sulla parola di chi le garantisce che la salverà, anche se a costo di sofferenze altrui, il lavoro sporco del quale il populista promette di occuparsi, senza farlo gravare sulle coscienze dei suoi mandanti. Così il populista incoraggia la gente ad avere paura perché in questo modo pensa che gli cadrà nelle mani, senza tante remore, scrupoli di coscienza, resistenze intellettuali o  morali. Il suo principale argomento è “non è il momento di fare tanto gli schizzinosi”. L’etica passa in secondo piano, come la razionalità. Ma come essere veramente sicuri di non rimanere vittime di questo abbandono dell’etica, di quello che gli economisti chiamano  azzardo morale, che significa appunto fare i propri interessi, egoisticamente, senza fare tanto gli schizzinosi?

  Attualmente la principale paura che le politiche populiste incoraggiano nella nostra gente è quella degli immigrati, in particolare dall’Africa. Sembra che tutti i nostri problemi dipendano da questo. E’ una paura irrazionale, naturalmente. Non è per questo che rischiamo, ad esempio, il posto di lavoro e che il lavoro viene pagato, in genere, sempre meno. E non è per questo che le risorse per i servizi sociali, ad esempio per l’istruzione o la sanità, appaiono sempre eccessive, troppo onerose, mentre quei servizi hanno crescenti difficoltà appunto per mancanza di risorse sufficienti. L’economia ha prodotto crescenti diseguaglianze sociali. E si vogliono spendere meno soldi per i servizi sociali, pubblici, che contribuiscono ad aumentare il benessere di tutti, correggendo quelle diseguaglianze in fondo ingiuste, quelle che il Papa chiama inequità.  Il tenore di vita di chi sta peggio  è attualmente sostenuto dal vantaggio di poter ancora acquistare a basso la gran parte dei prodotti di uso comune, perché vengono prodotti in Oriente, dove i lavoratori vengono pagati meno che da noi. L’aver spostato in Oriente la produzione di questi beni è una delle ragioni per cui ci sono meno posti di lavoro in Europa. Noi acquistiamo senza tanti problemi quei prodotti, anche se sappiamo che incorporano uno sfruttamento dei lavoratori delle industrie che li hanno realizzati. Come lavoratori siamo danneggiati, ma come consumatori avvantaggiati. In generale è il lavoro che, qui da noi e in Oriente, non è pagato il giusto. Bisognerebbe mettere in questione il sistema economico che attribuisce questo valore ingiusto al lavoro. E’ il  mercato. Non è una potenza della natura. Le forze del mercato hanno regole e non solo quelle economiche. Una serie di trattati internazionali consente alle cose di andare come vanno, creando una cornice giuridica in cui  poi si realizza questa ingiustizia per cui il lavoro non è pagato il giusto. Vi è chi si avvantaggia. Per questo,  appunto, in Occidente come in Oriente sono aumentate fortemente le diseguaglianze sociali. Sono una minoranza quelli che si trovano in una posizione privilegiata. E quest’ultima dipende dalle politiche correnti, che creano la struttura giuridica per mantenere un sistema economico che produce diseguaglianze e, quindi, sofferenze sociali. Ma, alla fine e in particolare nei sistemi democratici, non dovrebbero essere le maggioranze a prevalere? In astratto, sì. Di fatto, paradossalmente, la maggioranza della gente rimane soggetta alle minoranze dei privilegiati sociali e la situazione tende ad inasprirsi sempre più se i correttivi sociali si fanno più deboli, ad esempio se si fa più debole la resistenza dei sindacati nei rapporti di lavoro. Per mantenere il controllo dei più, le minoranze dei privilegiati sviluppano politiche populistiche. Significa che ancora la giustizia sociale non è di questo mondo? Ma potrebbe esserlo, si potrebbe tentare di fare in modo che lo sia,  sarebbe interesse dei più cercare di promuoverla. Questa è anche la posizione della dottrina sociale. Ecco come inizia, ad esempio, la lettera apostolica  Octogesima Adveniens - Avvicinandosi l’ottantesimo anniversario (potete leggerla sul WEB a questo indirizzo

http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_letters/documents/hf_p-vi_apl_19710514_octogesima-adveniens.html

diffusa nel 1971 dal papa Giovanni Battista Montini, in religione Paolo 6°:

1. L'80° anniversario della pubblicazione dell'enciclica Rerum novarum, il cui messaggio continua a ispirare l'azione per la giustizia sociale, ci spinge a riprendere e a prolungare l'insegnamento dei nostri predecessori, in risposta ai nuovi bisogni di un mondo in trasformazione. La chiesa, infatti, cammina con l'umanità e ne condivide la sorte nel corso della storia. Annunciando agli uomini la buona novella dell'amore di Dio e della salvezza nel Cristo, essa illumina la loro attività con la luce dell'evangelo, aiutandoli in tal modo a corrispondere al divino disegno d'amore e a realizzare la pienezza delle loro aspirazioni.

Appello universale a maggiore giustizia

2. Con fiducia, noi vediamo lo Spirito del Signore continuare la sua opera nel cuore degli uomini e radunare dovunque comunità cristiane coscienti delle loro responsabilità nella società. In tutti i continenti, tra tutte le razze, le nazioni, le culture, in mezzo ad ogni sorta di condizioni, il Signore continua a suscitare autentici apostoli dell'evangelo.

Ci è stato dato di incontrarli, di ammirarli, di incoraggiarli durante i nostri recenti viaggi. Abbiamo avvicinato le folle e ascoltato i loro appelli, grida di miseria e di speranza al tempo stesso.

In queste circostanze, i gravi problemi del nostro tempo ci sono apparsi con un nuovo rilievo, come particolari, certo, a ciascuna regione, ma tuttavia comuni a una umanità che si interroga sul suo avvenire, sull'orientamento e il significato dei mutamenti in corso. Differenze evidenti sussistono nello sviluppo economico, culturale e politico delle nazioni: accanto a regioni fortemente industrializzate, altre sono ancora allo stadio agricolo; accanto a paesi che conoscono il benessere, altri lottano contro la fame; accanto a popoli ad alto livello culturale, altri continuano a occuparsi della eliminazione dell'analfabetismo. Da ogni parte sale un'aspirazione a maggiore giustizia e si alza il desiderio di una pace meglio assicurata, in un mutuo rispetto tra gli uomini e tra i popoli.

   Il populista cerca di accattivarsi la fiducia dei più promettendo di farli privilegiati o, comunque, di trattarli come tali. Non ha di mira la giustizia sociale. Qualcuno ci rimetterà, ma, assicura, non saranno quelli a cui promette un patto richiedendo fiducia incondizionata.

  Siamo terrorizzati da chi ha la pelle di un colore diverso dalla nostra, non si esprime (ancora) bene in Italiano ed è povero. Sembra che finirà per sottrarci qualche cosa. Ma, se consideriamo bene, non è vero che le principali sofferenze ci sono inflitte, invece, da connazionali? Ad esempio da chi ci licenzia dall’oggi al domani e magari era tanto tempo che lavoravamo per lui. Oggi le leggi danno più libertà di licenziare. Nella maggior parte dei casi oggi è previsto solo un indennizzo pecuniario. Fino a qualche anno fa era diverso: le cose, dunque, sono cambiate in peggio. Uno oggi può essere licenziato più facilmente, pagandogli qualcosa. Ma, perso il lavoro, e quindi poi anche la dignità, che se ne fa uno di un gruzzoletto che presto finisce? Siamo disgustati se si spacciano stupefacenti o ci si offre in prostituzione sotto casa nostra, ma chi sono i clienti? Chi sta peggio cerca di imitare i costumi di vita di chi sta meglio, ma essi sono costosi. Allora può accadere che si rubi o si rapini. Magari per scoprire che quello che si è ottenuto non serve per una vita buona, non dà la felicità e che si è sempre gli stessi, poveri in umanità e dunque infelici,  pur in mezzo a case a volte trasformate in delle  specie di magazzini in cui sono affastellate alla rinfusa cose costose ma di cattivo gusto. E’ questa l’impressione che si ricava, ad esempio, dalle foto, diffuse dai giornali e dalle televisioni, delle perquisizioni nelle abitazioni di certi criminali che si sono arricchiti. Bisognerebbe invece imparare la vita buona e la virtù, da qui viene la felicità: questo è l’insegnamento della dottrina sociale.

  Di fatto agli immigrati africani si sono chiuse certe vie per raggiungere le nostre coste. Questo è costato violenza. Avviene tutto lontano dai nostri occhi, così cerchiamo di dimenticarcene. Il populista ci rassicura: abbiamo ragione a non avere scrupoli di coscienza. Non si poteva fare diversamente. Il Papa, invece, ci ricorda il tremendo rimprovero biblico a Caino e  ai suoi seguaci, "Dov'è il tuo fratello?". Gente viene ora respinta in massa. Questi respingimenti collettivi non sarebbero consentiti dalle norme internazionali in vigore, ad esempio dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Articolo 19

Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione

1.   Le espulsioni collettive sono vietate.

2.   Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.

 Un divieto analogo è contenuto nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata proprio a Roma nel 1950. Nel 2014 la Repubblica italiana è stata condannata con sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani per averli attuati. Ma ora tutto si svolge in un’altra nazione, considerata insicura dalle autorità internazionali ma anche dalle nostre autorità: e tutto si fa in base ad accordi che abbiamo concluso laggiù, anche con autorità locali. Le nostre paure hanno trovato una specie di conforto, effettivamente l’immigrazione africana si è ridotta, senza che ci tocchi la violenza che è stata necessaria per riuscirci, ma rimane la gente che è già riuscita a giungere tra noi, anche quella ci fa paura. E quando  riuscissimo a sistemare  anche quella, ma sarà più difficile farlo perché certe soluzioni sbrigative  non le possiamo proprio attuare sul nostro territorio nonostante tutte le nostre   cattive intenzioni, poi le cose andrebbero veramente meglio? Alcuni sono convinti di sì e le politiche populiste li incoraggiano, come appunto i populisti sono soliti fare. Ma poi, in genere, non si soffre veramente a causa degli immigrati, che al più, se poveri, possono essere un brutto spettacolo, come la povertà in genere è, ma null’altro. Si soffre, ad esempio, per il taglio della spesa pubblica, che determina una riduzione delle spese sociali, di benessere di tutti, e consegue anche, ma non solo, al proposito di tagliare le tasse. Meno tasse, meno entrate fiscali, meno spesa pubblica:  i conti così tornano. Il populista, però, a chi è preoccupato per le tasse, promette di ridurle, e a chi è preoccupato per la riduzione della spesa pubblica, promette di aumentarla. Come farà? Di solito si tiene sul vago. Promette di colpire l’evasione fiscale, ma allora poi protesteranno i suoi sostenitori che sono preoccupati per le tasse e forse hanno già scelto quella via per proteggersene. O propone di liberarsi dai vincoli europei e di uscire dall’area dell’Euro, la moneta comune della nostra Unione Europea, la nostra nuova Europa, riacquistando la sovranità  monetaria, per tornare così, rapidamente, all’inflazione a due cifre che chi ha la mia età ha sperimentato. Negli anni ’70 arrivò, in concomitanza con la crisi energetica,  quasi fino al 25% annuo e così stipendi e risparmi della gente evaporavano. Una soluzione  che, secondo molti studiosi, ci manderebbe a sbattere. Non è stampando  più carta moneta che si risolvono i problemi dell’economia, tanto più che è molto aumentata la nostra dipendenza dall’estero, dove acquistiamo praticamente tutti i prodotti di uso comune. Che  mercato  potrebbe avere una moneta svalutata?

  Perché il populismo ha preso tanto piede, venendo utilizzato, in misura più o meno ampia, anche da forze che non se ne servirono in passato? E’ appunto, come ho scritto, per la crisi di legittimazione della politica, per cui la gente non ritiene più utile  fare  politica e non se ne vuole più occupare. Si è stufata di discorsi politici ragionevoli, li ritiene più o meno degli imbrogli. Tutti i politici sono uguali, pensa, e fanno solo i propri interessi. Servirebbe piuttosto farsene dei complici. E' appunto questa la proposta del populista. Allora si finisce per dare  ascolto ai tipi sbrigativi, anche se poco referenziati, che promettono di esonerare la gente da tutte quelle preoccupazioni: faranno tutto loro, promettono, anche il lavoro sporco, che poi potrebbe dare  problemi di coscienza, e lo faranno anche nel nostro interesse, ma sempre in danno di certi altri, quelli che di volta in volta sono additati come responsabili del male che c’è, assicurandoci che noi non saremo tra quelli. Sono promesse che assomigliano certe volte, appunto,  ad un arruolamento come complici. E può prevedersi che, quando le cose finiranno male, i populisti con cui ci saremo federati ci chiameranno a correi: diranno che noi siamo stati loro complici. Certe cose le avevamo chieste noi.  Ma anche di più, storicamente  è accaduto proprio questo: diranno che le cose sono andate male non per colpa loro, che hanno tenuto fede ai patti, ma per colpa nostra, perché non siamo stati abbastanza determinati nell'essere cattivi. Ci accuseranno di aver avuto troppi scrupoli, di aver guastato tutto per aver frenato mettendo di mezzo, ad un certo punto, la ragione e l'etica. Non si era concordato di non fare tanto gli schizzinosi? Ci troveremmo, allora, in questo caso, davanti al tribunale della storia, insieme a loro. 

  Non sarebbe meglio, invece,  seguire la via della virtù indicata dalla dottrina sociale?

 

 

FINE