Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia
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Parte 5
(dal n.37 al n.48)
(le parti precedenti sono
pubblicate nei post successivi, nei post precedenti sono pubblicate quelle successive.
Questo testo è pubblicato in 8 parti)
di
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
edizione ottobre 2020, con nuovi materiali
37
Una riunione “politica”
(23-11-12)
Per ragioni di lavoro non ho potuto
partecipare alla riunione del gruppo dello scorso 20 novembre. Mi è stato
riferito che è stata molto interessante. Ci si è confrontati sul temi politici,
in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento, in particolare sull’ideologia comunista e sul
suo carattere ateo, sul confronto tra i programmi di Obama e Romney alle
passate elezioni presidenziali statunitensi e tra i programmi proposti dalla
destra e dalla sinistra politica, qui in Italia, alle prossime elezioni per il
rinnovo del Parlamento.
La politica entra in chiesa? Certo che deve
entrarci, perché, specialmente dopo le decisioni assunte nel Concilio Vaticano
2°, all’impegno nella società civile, e quindi pure a quello politico, viene riconosciuta
una valenza anche religiosa. Religione e politica, fede e ideologia civile, non
sono mondi che non si toccano mai, per cui una persona possa passare con
disinvoltura dall’uno all’altro e viceversa semplicemente cambiandosi d’abito
ed assumendo in ciascun ambiente un contegno diverso, come quando, usciti
dall’ufficio, si va allo stadio e si fa il tifoso. I nostri capi religiosi ci
hanno inoltre avvertito: non dobbiamo confidare di poter avere da loro la
soluzione di tutti i problemi della nostra civiltà:
Se l'ufficio della gerarchia è
quello di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da
seguire in questo campo, spetta a loro [ai laici],
attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o
direttive, penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di
vita.
[dall’enciclica Populorum progressio – 1967 – del papa Paolo 6°].
Ragionare sulla società è un compito
necessariamente collettivo. Nessuno, da solo, senza compagni, può pretendere di
avere una visione completa dei problemi, specialmente in società complesse e
molto popolate, composte globalmente di sette miliardi di individui le cui vite
sono sempre più strettamente connesse (così argomentava la filosofa Hanna
Arendt). Quando ci si confronta sulla politica con spirito di dialogo, quello
che consente di prendere in esame le ragioni di tutti, occorre poi farlo con
metodo democratico, quindi innanzi tutto rispettando la pari dignità di
ciascuno. Questo non toglie che chi ne sa di più, per cultura ed esperienza,
potrà dare un contributo maggiore al dibattito, ma solo se renderà quello che
dice accessibile anche a chi ne sa di meno, non pretendendo quindi di essere
obbedito in virtù di un’autorità riconosciuta a priori alla stregua di un titolo
nobiliare. Certe volte anche i sapienti si ingannano e le virtù dei semplici
illuminano dotti sofismi.
In
ambito religioso e in particolar modo tra i cattolici c’è il problema di che
ruolo riconoscere in questo ai preti. Sarebbe strano escluderli da questi temi,
proprio loro che hanno tanti tesori di sapienza e di etica da comunicare. Essi
hanno quindi facoltà di parola, ma con pari dignità con gli altri laici che
partecipano al dibattito. Questo deve essere molto chiaro. Come laici dobbiamo
resistere alla tentazione di seguirli per spirito di obbedienza religiosa,
anche se, erroneamente, ci venisse d richiesto di farlo. Ragionando
diversamente si costruirebbe un partito
dei preti, in cui chi ubbidisce eluderebbe in fondo le proprie responsabilità storiche di
cittadino. Sappiamo poi che la nostra Chiesa rifiuta di essere organizzata
democraticamente: un partito della Chiesa
introdurrebbe una forza non democratica nel governo della nazione. Il
mantenimento di una organizzazione democratica della società è invece una delle
principali responsabilità dei cittadini, la base della pacifica coesistenza
civile.
Sappiamo del resto che l’organizzazione del
clero storicamente non sempre ha espresso decisioni illuminate in materia
politica, essendo stata spesso bloccata dal timore di rompere con i potenti di
turno e di subire persecuzioni contro il suo personale o espropriazioni o
danneggiamenti di suoi beni (che in Italia costituiscono un patrimonio
imponente). In generale si è attestata, specialmente dall’Ottocento in poi su
posizioni attendiste, a volte opportuniste, se non francamente reazionarie,
timorose del nuovo. Nel Novecento hanno fatto eccezione i papi da Giovanni 23°
in poi. In Italia dobbiamo sempre avere ben presente l’esempio storico della Conciliazione con il Regno d’Italia, stipulata dai capi della nostra Chiesa nel
1929 con il dittatore Mussolini. Molti laici illuminati del tempo l’avevano
vivamente sconsigliata e poi se se sono vergognati. Con il senno del poi la
possiamo considerare una pagina veramente controversa nella storia della nostra
Chiesa. Quei Patti hanno pesato, e
molto, sui destini della cattolicità italiana, e non in senso positivo. Vennero
superati solo nel 1984. Prima di allora, in forza del Concordato lateranense,
le cui disposizioni vennero quasi interamente sostituite con l’accordo del
1984, vescovi, preti e religiosi non avrebbero potuto intromettersi in alcun
modo in politica. Quel Concordato venne a contrastare con la Costituzione
italiana entrata in vigore nel 1948 che non consentiva una discriminazione dei
cittadini su base religiosa. Tuttavia, per espressa disposizione
costituzionale, i rapporti tra la Repubblica italiana e la Chiesa continuarono,
fino al 1984, ad essere regolati dai patti del 1929, pur se certe norme limitative
caddero progressivamente in desuetudine. Con il protocollo addizionale
all’accordo del 1984 di revisione del Concordato lateranense la Santa Sede e la
Repubblica italiana si diedero reciprocamente atto di non considerare più in
vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della
religione cattolica come sola religione dello Stato italiano. [art.1 del protocollo addizionale]. Si pose in tal modo rimedio a una decisione
che non era più accettabile neppure nel 1929 e che nondimeno era stata
condivisa in sede di stipula degli accordi del 1929, i quali, fra l’altro,
istituirono a Roma la Città del Vaticano, strutturata come un vero stato, con
un piccolo esercito, giudici propri e, oggi, anche un solo suo prigioniero,
come sappiamo dalle cronache.
Ai tempi nostri la Chiesa cattolica italiana,
intesa in senso stretto come organizzazione strutturata per l’esercizio di
attività religiose, ha suoi specifici interessi politici che riguardano le a)
erogazioni che riceve dalla Repubblica Italiana, le quali ammontano ogni anno
ad oltre un miliardo di euro, alle quali si aggiungono altre elargizioni che
sotto varia forma le pervengono per altre vie da organizzazioni statali o da
altri enti pubblici (in particolare per la conservazione dell’imponente
patrimonio architettonico ed artistico di sua proprietà), b) il regime fiscale
delle sue attività, c)le erogazioni che le pervengono per attività sanitarie
svolte da strutture religiose in convenzione con il Servizio Sanitario
Regionale e c) gli aiuti che intenderebbe ottenere per le attività nel settore
dell’istruzione privata svolta da enti religiosi. In questo campo, come è
agevole intendere in base ai principi generali, non vi è per il fedele che in
quanto cittadino italiano abbia la possibilità di influire sulla politica
l’obbligo religioso di aderire a
tutte le pretese dell’organizzazione del clero. Si tratta di valutare priorità
che richiedono di considerare realisticamente tutte le attività svolte dallo
Stato e dagli enti pubblici che funzionano su base di partecipazione
democratica in relazione alle risorse disponibili e alle esigenze comuni,
innanzi tutto di chi sta peggio. Noi fedeli cattolici non siamo, in questo, una
sorta di sindacato cattolico o
addirittura una lobby (vale a dire un
gruppo di pressione politica) in difesa di quegli interessi particolari. Questo
rileva in particolare in un’epoca, come quella che stiamo vivendo,
caratterizzata da una progressiva diminuzione delle risorse destinate ai
servizi pubblici.
La Chiesa cattolica italiana, intesa come i
suoi capi, i vescovi italiani, ha anche una piattaforma di richieste
specificamente politiche in alcuni settori dell’organizzazione della società
civile. Esse, in particolare riguardano: a) la disciplina legale dell’aborto
volontario, che si vorrebbe abolire; b) la disciplina legale del divorzio, che
si vorrebbe abolire o rendere meno facile da ottenere; c) la disciplina legale
della procreazione assistita, quindi della fecondazione al di fuori dell’utero
nei casi in cui la coppia di aspiranti genitori abbia difficoltà a generare,
con il correlato problema della sorte da dare agli embrioni generati in
soprannumero, disciplina che si vorrebbe molto restrittiva; c) la disciplina
legale delle famiglie composte da persone omosessuali, che si vuole
impedire; c)la disciplina legale
dell’interruzione di terapie non più utili e della respirazione artificiale e
dell’alimentazione e idratazione artificiale nel caso di persone in coma
irreversibile o che, sebbene non in quella condizione, si trovino in gravi
condizioni di menomazione fisica e chiedano la sospensione di quegli ausili per
porre fine a sofferenze non più necessarie a fini terapeutici, per morire con
dignità, secondo natura, disciplina che si vorrebbe molto restrittiva. Su
questi temi la posizione dei capi cattolici è fortemente minoritaria nella
popolazione italiana. Le materie del divorzio e dell’aborto sono state già, nel
1974 per il divorzio e nel 1981 per l’aborto, sottoposte a referendum
abrogativi e le leggi che le contemplavano sono state mantenute in vigore dalla
volontà popolare. Da allora molti indici sociali denotano che il consenso
popolare a quegli istituti si è fatto ancora più forte. E’ esperienza comune di
coppie di fedeli cattolici che divorziano (anche se nel caso di matrimonio
religioso si parla di cessazione degli
effetti civili del matrimonio, perché le leggi religiose considerano ancora
indissolubile il vincolo religioso tra i coniugi), tanto che anche il recente
Sinodo mondiale dei vescovi (ottobre 2012) ne ha trattato, auspicando
un’apertura verso le persone che dal punto di vista religioso vivono in una
condizione irregolare a seguito di divorzi. Nella mia esperienza è piuttosto
comune anche il ricorso all’aborto volontario in strutture pubbliche da parte
di donne cattoliche. Lo possono confermare i sacerdoti che, abilitati a
rimuovere la scomunica che consegue di diritto alle pratiche abortive, operano
nei grandi santuari religiosi italiani. Sulle leggi riguardanti il divorzio e
l’aborto la Democrazia Cristiana, il grande partito dei cattolici italiani
cessato come esperienza unitaria agli inizi degli anni ’90, anche se si ritiene
che giuridicamente sopravviva ancora per questioni procedurali relative alla
sua trasformazione nel 1994 in Partito Popolare, si trovò in minoranza in
Parlamento già in epoche in cui il consenso alle tesi dei vescovi era maggiore.
Comunque, su tutte quella piattaforma politica dei nostri capi religiosi, i
cattolici, pur in minoranza, nella nuova realtà bipolare prodottasi dal 1994,
con una forte de-ideologizzazione di tutte le formazioni politiche, sono
riusciti spesso ad influire nel senso desiderato dai vescovi, con alleanze
informali al di là degli schieramenti politici di appartenenza. I risultati
qualche volta non possono essere considerati pienamente soddisfacenti. La legge
sulla procreazione assistita è incorsa in censure di incostituzionalità ed è
dubbia la sua conformità alla Convenzione di Strasburgo sui diritti umani e
allo stesso diritto dell’Unione Europea. Il ritardo nella regolazione
legislativa del fenomeno dei nuovi tipi di famiglia, che si sono affiancati a
quella naturale fondata sul
matrimonio tra uomo e donna, ha impedito di dare stabilità e certezza a
rapporti non illeciti che già ci sono nella società e non ha risposto a una
domanda di normazione che espressamente viene dalle persone coinvolte. Anche la
nuova disciplina sul cosiddetto accanimento
terapeutico, che sta per essere varata, ha sollevato molte critiche, anche
in ambito cattolico.
Bisogna considerare, in merito alla
piattaforma politica, di cui ho
detto, che tutte le attuali principali formazioni politiche sono altamente
laicizzate, nel senso di scarsamente connotate dal punto di vista religioso,
tranne piccole formazioni che ancora si richiamano all’esperienza democristiana
e alla dottrina sociale della Chiesa. La vera differenza tra destra e sinistra
è che a destra si ammette la libertà di opinione tra i parlamentari, mentre
a sinistra si tende a imporre ai
parlamentari scelte che non vanno nel senso desiderato dai nostri capi
religiosi. Questa è stata la causa di
alcune defezioni di parlamentari cattolici dalla sinistra. Quelle
materie, tuttavia, non sono al centro del dibattito politico di oggi.
Nessun partito politico di un qualche rilievo si propone di realizzare
integralmente questo programma politico
dei nostri vescovi, perché in Italia, su quelle idee, non c’è consenso maggioritario e, anzi, su alcuni temi il consenso si
va riducendo sempre più. Talvolta vi si fa riferimento in politica, ma
spesso ciò appare strumentale ad ottenere un appoggio politico
dall’organizzazione religiosa, senza una vera condivisione dei moventi ideali.
In passato ci sono stati effettvivamente indizi di tentativi di uno scambio
politico su singole e limitate questioni,
su questa o quella proposta di legge, nel senso di promettere un certo orientamento parlamentare su questa o quella
proposta di legge a fronte di un consenso politico della Chiesa verso certe
formazioni. Per quanto mi riguarda, penso che non vada comunque mai perso di
vista il contesto generale; occorre sempre considerare, tenendo conto della
situazione reale della nazione, che cosa si vada a produrre con alleanze
contingenti di quel tipo, posto che, come ho detto, la piattaforma politica dei
vescovi riguarda aspetti marginali della politica di oggi. Bisogna chiedersi
che cosa si produrrà per quanto riguarda gli altri aspetti politici, che, ad
esempio, riguardano anche gli impegni bellici della nazione, l’equità fiscale e
i servizi pubblici che consentano ai meno ricchi una vita dignitosa. Sarebbe
accettabile, ad esempio, barattare un’azione di interdizione parlamentare su
singole proposte di legge con un impoverimento delle classi svantaggiate, alle
quali tradizionalmente la destra politica è meno sensibile (consideriamo in
merito le questioni e prese di posizioni emerse nel confronto politico negli
Stati Uniti tra Romney e Obama)?
Per quanto riguarda la tematica del comunismo ateo, osservo innanzi tutto
che parlare genericamente di comunismo
non rende bene l’idea di ciò a cui ci si
vuole riferire. Storicamente infatti vi sono stati molti comunismi e non tutti sono stati atei, in particolare quelli che regolano la vita di alcune società
primitive. L’idea di mettere in comune i beni in attesa della manifestazione del
soprannaturale in cui si confidava era presente anche in alcune della comunità
cristiane delle origini; se ne parla negli Atti
degli apostoli. Tuttavia, nonostante che qualcuno definisca comunistico quel modo di organizzazione
di gruppo, non si può parlare a quel proposito di comunismo, perché era assente in quella esperienza l’idea di
instaurare un nuovo ordine di tutta la società.
I comunismi di impronta marxista, dei quali di
solito si vuole parlare quando si parla di comunismo
ateo, furono in genere effettivamente antireligiosi in quanto
anticlericali. Essi consideravano infatti la religione, quindi la fede nel
soprannaturale organizzata in una collettività strutturata, come un imbroglio
organizzato dai preti ai danni dei ceti più poveri, per mantenerli sottomessi a gruppi di privilegiati con i
quali il clero era in combutta, sopendo
su basi fideistiche ogni conato di rivolta. Noi, con spirito religioso,
sappiamo naturalmente che la fede non è un inganno, ma certamente nella storia
vi sono state epoche in cui il clero ha appoggiato i dominatori delle società
contro masse sottomesse ad ordinamenti ingiusti. L’affermazione della
democrazia, in particolare, è avvenuta anche contro la Chiesa cattolica, ricordiamolo bene, la quale solo nel 1944 ha accettato il regime
democratico come quello preferibile.
Fu fortemente antireligiosa l’ideologia
sovietica, tanto da propagandare l’ateismo tra le popolazioni dominate. Ma non
tutti i comunismi furono allo stesso modo antireligiosi e anticlericali.
In particolare il comunismo italiano si è
caratterizzato per un significativo apporto dei cattolici (si veda ad esempio
la figura di Franco Rodano), specialmente dopo la Seconda guerra mondiale. Nel
1946 con una modifica dell’art.2 dello statuto del Partito comunista italiano
venne consentita l’adesione al partito anche a coloro che non professavano
l’ideologia marxista leninista, ma condividevano il programma del partito.
Ciononostante anche la sola iscrizione al quel partito o il sostenerlo vennero
ufficialmente dichiarati peccato
mortale, passibile anche di scomunica come forma di apostasia, con un
provvedimento del 1949 del Sant’Uffizio (una
congregazione della Curia Vaticana che oggi ha diversa denominazione). Nel 1976
il segretario del Partito Comunista Italiano dichiarò di accettare l’adesione
dell’Italia all’Alleanza Atlantica (che all’epoca si contrapponeva al sovietico
Patto di Varsavia) e nel 1977, durante la celebrazione a Mosca del sessantesimo
anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, esplicitò al cospetto dei massimi
leader comunisti del mondo la
peculiarità del comunismo italiano e la presa di distanza dall’esperienza
sovietica. Nel 1979, durante il 15° Congresso, venne modificato l’art.5 dello
statuto del Partito comunista italiano che faceva obbligo agli iscritti di
conoscere e praticare l’ideologia marxista leninista. Da questo momento può
considerarsi venuta definitivamente meno la pregiudiziale antireligiosa di quel
partito, anche se permaneva indubbiamente una sospettosità anticlericale
determinata essenzialmente dagli schieramenti politici dei vertici della Chiesa
cattolica, in sede nazionale e internazionale, e, in parte, anche dall’idea che
in genere i preti tendessero a stare con
i padroni e promuovessero una
pacificazione sociale intesa come sottomissione ad un ordine sociale ingiusto.
Nel corso della presidenza Gorbaciov dell’Unione Sovietica, dopo la crisi dei
regimi europei vassalli dei sovietici (a partire dal 1989) e con la fine
dell’Unione sovietica (1991), il Partito comunista italiano ha subito profonde
metamorfosi, espresse anche nel cambiamento della denominazione e del simbolo,
nell’accettazione della democrazia interna, nel ripudio del monolitismo, tanto
che andò incontro a diverse scissioni, e, infine, alla fusione con formazioni di
diversa ispirazione e tradizione. Oggi nessuno dei gruppi che sono derivati dal
quel processo di metamorfosi, frazionamento e fusione, benché alcuni di essi
mantengano la denominazione comunista, si rifà alle ideologie antireligiose e
anticlericali di matrice sovietica. Tutti, in particolare, hanno pienamente accettato l’ideologia
democratica contemporanea. Possiamo quindi concludere che oggi il comunismo ateo non è tra le proposte
politiche in lizza per le prossime elezioni. Mette conto di farne ancora menzione
in un dibattito sull’attualità politica?
Questa evoluzione del comunismo italiano
comincia a non essere più nota nemmeno agli italiani. Possiamo pretendere che
ne abbiano consapevolezza, ad esempio, gli immigrati che giungono da noi da
ogni parte del mondo? C’è in questo un compito da svolgere, per chiarire bene
le cose, in vista di un maggiore reale loro coinvolgimento nelle questioni
italiane, che possa preludere anche all’acquisizione della cittadinanza. Ad
esempio, per un ucraino parlare di partito
comunista può suonare veramente minaccioso, perché il suo modello di
riferimento è il PCUS (Partito comunista
dell’Unione sovietica di un tempo).
Posto quindi che a)non sarebbe degno della
nostra comune cittadinanza politica determinarsi, nel voto prossimo, sulla base
di direttive od ordini precisi ricevuti dal clero e non veramente condivisi, b)
che la piattaforma politica dei
nostri capi religiosi è tutto sommato
marginale e non ha nessuna possibilità
di essere attuata nelle attuali dinamiche democratiche, potendosi al massimo
esercitare un’influenza per attenuare certi estremismi e che c) il comunismo ateo non c’entra nulla con la politica di oggi,
quali sono i temi centrali della prossima campagna elettorale?
A mio parere sono due: rendere più coerente la
struttura istituzionale della Repubblica, correggendo certi eccessi di
autonomia locale che sono derivati dalle politiche del cosiddetto federalismo e in particolare,
ristrutturando il sistema e i poteri degli enti pubblici minori che governano
porzioni locali del territorio nazionale e consentendo al governo nazionale di
intervenire con maggiori poteri nel sistema delle autonomie locali; contrastare
la criminalità organizzata che sembra essere riuscita ad infiltrare la
politica, venendo a costituire una minaccia per l’ordinamento democratico della
nazione; individuare interventi per rivitalizzare l’economia nazionale e, al
tempo stesso, per mantenere un accettabile livello di servizi, in particolare
nel sistema sanitario e in quello scolastico, pur continuando a seguire la
linea di contenimento della spesa pubblica e di riduzione del debito pubblico
convenuta in sede di Unione europea. La crisi della finanza pubblica, correlata
a quella dell’economia nazionale, lascia meno spazi di azione. Per questo i
programmi delle varie formazioni in lizza non divergono molto e la competizione
tra di loro si fa su giornali, televisione e internet essenzialmente sulla base
della personalità dei candidati. Tuttavia differenze ci sono, quanto ai
risultati sperati. Bisogna solo avere la pazienza di ragionare sui dati.
Perché, ad esempio, tutti si propongono di ridurre “le tasse”, ed è chiaro che
di questo beneficerebbero i più ricchi che hanno aliquote più alte e redditi
maggiori, ma se poi le tasse fossero ridotte veramente di molto mancherebbero
le risorse per assicurare i servizi pubblici universali, vale a dire che si
vuole destinati a tutti, anche ai meno ricchi, sulla base di certi livelli di
prestazioni. Mi riferisco in particolare ai trasporti pubblici, alla
manutenzione delle strade, agli ospedali e alle scuole.
Concludo dicendo che uno dei fondamentali esercizi di laicità che la nostra
associazione ci propone di fare è proprio quello di acquisire, nel dialogo con
gli altri, maggiore consapevolezza dei problemi della società in cui viviamo,
al di là delle solite parole d’ordine
e frasi fatte che non accrescono di
nulla la nostra conoscenza delle cose, tendendo a farci assumere decisioni
d’impeto invece che sulla base di mature e ragionevoli considerazioni, in cui
tener conto non solo del nostro particolare interesse, o di quello della nostra
Chiesa, ma anche di quello ti tutti gli altri.
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38
Noi e la storia. Chi siamo veramente?
(28
novembre 2012)
Su quale bilancia si pesa la vita di un uomo?
Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui risultano il guadagno e la
perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso ultimo? Di fronte alla
natura non si può parlare di bilancia, perché tutto va come deve andare secondo
la sua legge intrinseca. Ma nell’uomo l’agire e l’essere sono affidati alla
libertà, e libertà significa che si può fare qualcosa di giusto, ma anche di
sbagliato, che si può preservare qualcosa ma anche che qualcosa si può
corrompere. Qual è dunque la bilancia, e quale l’ordine?
[In: Romano Guardini, La Rosa Bianca, Morcelliana, 1994, pagine 84, € 8. Commemorazione di Sophie e Hans Scholl,
Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf e prof. Dr Huber* – discorso pronunciato
a Tubinga il 4-11-1945]
*membri
del gruppo di resistenti tedeschi La Rosa
Bianca, giustiziati dal regime nazista nel 1943.
Di solito quando si pensa all’espressione scrutare i segni dei tempi, che venne
usata nella costituzione pastorale Gaudium
et spes (n.4) del Concilio Vaticano
2° (1962-1965), si pensa ai tempi correnti, a quelli che stiamo vivendo
nell’oggi. Il grande insegnamento del papa Giovanni Paolo 2° (regnante dal 1978
al 2005) fu di considerareil dovere di fare memoria veritiera anche del
passato, per discernere anche in esso ciò che merita di essere preso ad esempio
e quello che invece deve essere lasciato alla storia come manifestazione non
più attuale o addirittura negativa: si tratta del lavoro che egli chiamò di purificazione della memoria.
In un
certo senso siamo abituati a farci narrare la nostra storia di collettività
religiosa dai nostri capi, ma questo non rientra nel compito che riteniamo
essere esclusivamente loro. Tutti siamo chiamati a ragionare sulla nostra
storia, in particolare noi laici che abbiamo il compito specifico di ordinare secondo Dio le realtà temporali,
vale a dire di costruire, in ciò che è umanamente possibile, un ambiente e una
società dove gli esseri umani possano essere felici, secondo le nostre
prospettive religiose.
Non si tratta naturalmente di mettersi al
posto di Dio e di anticipare presuntuosamente il giudizio finale sull’umanità e
sui singoli suoi membri, evento sul quale in questo tempo liturgico di Avvento
poniamo particolare attenzione. Poiché però noi non siamo stati creati dal
nulla e in un nulla, ma siamo nati una determinata storia nella quale ci siamo
progressivamente inseriti con un ruolo sempre più attivo e dalla quale siamo
stati anche determinati e condizionati, innanzi tutto in ciò che si definisce
la cultura del nostro popolo, il complesso di concezioni, abitudini,
schieramenti, modi di esprimersi e via dicendo,
è nostro dovere, anche religioso, darne una valutazione, che ci riguarda
da vicino, in quanto ha ad oggetto una esperienza di cui siamo parte.
Nella coscienza religiosa si è sempre saputo
che intere società possono andare contro i
valori religiosi: è questo anche l’insegnamento biblico. Molto più
recente è la consapevolezza di doversi attivare religiosamente per combattere
quelle che vengono definite strutture
sociali di peccato. Questa espressione si trova in particolare nel
magistero degli anni ’80 del papa Giovanni Paolo 2°. Certe organizzazioni della
società, intese come istituzioni o movimenti, favoriscono o inducono al
peccato, cioè a violare doveri religiosi. E’ un fenomeno che i cristiani hanno
sperimentato fin dalle origini, fin da quando le istituzioni dell’impero romano
pretendevano da loro l’ossequio religioso agli dei antichi. Ai tempi nostri
abbiamo preso coscienza che lo schiavismo
fu una struttura di peccato, ma si è trattato di una evoluzione culturale
piuttosto lunga e travagliata. E’ stata considerata una struttura di peccato
quella dei movimenti che inducevano alla lotta
di classe, ma parallelamente, e su base biblica, si è anche presa maggiore
consapevolezza che pure l’ingiustizia su
base classista, dunque quella di coloro contro i quali si dirigeva la lotta
di classe, è una struttura di peccato. Nel 2000, durante il Grande Giubileo che
si celebrò quest’anno, si assistette a una spettacolare evoluzione di questa
concezione: la Chiesa, guidata dal Papa, si impegnò a riflettere su ciò che nel
proprio impegno storico aveva costituito struttura di peccato, proponendosi di
distaccarsene.
Di solito, quando riflettiamo sulla nostra
esperienza religiosa, tendiamo a schierarci tra i buoni e poi partiamo con varie critiche, più o meno veementi, che
riguardano quelli che non la pensano o non fanno o non sono come noi e facciamo
loro la morale. Non sto a fare esempi, perché sicuramente ciascuno li ha in
mente. Pensiamo di essere gente
pacifica, ma in realtà l’Italia ha un corpo di spedizione militare in Asia.
Facciamo parte della parte più ricca dell’umanità e siamo piuttosto preoccupati
del processo globale di ridistribuzione di una parte delle ricchezze del mondo
che si sta producendo a favore di popoli che solo recentemente sono usciti dal
sottosviluppo. E se dovessimo fronteggiare strutture sociali di peccato che
furono quello che schiacciarono i resistenti tedeschi del gruppo della Rosa Bianca, come ci comporteremmo.
Innanzi tutto: saremmo capaci di esprimere una veritiera, coraggiosa ed
efficace critica sociale?
Qualche volta, quando si parla dell’impegno
dei laici cattolici nel mondo, li si pensa un po’ come dei piazzisti del sacro, dei venditori porta a porta di religiosità,
sulla base delle indicazioni espresse dai capi della ditta, del loro catalogo.
Si ha qualche difficoltà nel vederli invece impegnati un una riflessione
creativa che riguardi anche i principi e
i valori, sulla base del lavoro di purificazione
della memoria e di approfondimenti
personali che facciano reagire fede e vita. Questo accade all’interno della
nostra Chiesa, ma anche fuori di essa. Spesso la persona di fede viene vista
come un soggetto eterodiretto e incapace di autonomia di giudizio. Un credulone
affascinato dal sacro.
Riprendere in mano i documenti del Concilio
Vaticano 2° può far apparire la sproporzione tra gli impegni che, già negli
anni Sessanta, si ritenne di affidare al laicato e ciò che poi si è fatto in
questo campo. E tuttavia dobbiamo tener conto che un lavoro religioso non è
condizionato dalle forze concretamente disponibili in campo o dal tempo che si ha a disposizione
per agire. Esso vive nella prospettiva degli ultimi tempi ed è sempre svolto
nella prospettiva dell’Avvento. Per quanto effettivamente la nostra buona
disposizione d’animo e i nostri sforzi concreti contino, e siano manifestazione
della nostra adesione interiore alla fede comune, il compimento di tutto non
dipenderà da noi e c’è tutto il tempo che occorre per fare quello che si deve.
Anche il piccolo gruppo dei resistenti della
Rosa Bianca, che agiva anche in una prospettiva religiosa, non fu paralizzato
dal considerare la scarsità del numero dei propri aderenti rispetto al mostro
sociale contro il quale si dirigeva la loro critica sociale. A maggio ragione
non dobbiamo esserlo noi, del gruppo parrocchiale di A.C. in San Clemente papa,
che viviamo, tutto sommato, in tempi tanto meno complicati e pericolosi. Forse
dovremmo però riscoprire l’entusiasmo dei nostri anni di gioventù, questo sì. E
pregare che il nostro lavoro sia continuato anche da gente più giovane, nel
nostro stesso filone ideale. Anche il sacrificio della Rosa Bianca fu fecondo in questo senso.
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39
La parrhesia*
evangelica
(29
novembre 2012)
*parrhesia: vocabolo del greco antico.
Significa franchezza, libertà nel parlare. Parlare pubblicamente, apertamente,
coraggiosamente
…in condizioni di innegabili (ma non
imprevedibili) necessità, piuttosto che tacere tutti, occorre che qualcuno si
assuma l’iniziativa –non per velleità di protagonismo, ma con cuore umile e
mosso solo da “parrhesia” evangelica- di professare pubblicamente la legge
evangelica dell’amore e del rispetto dovuto ad ogni uomo
“Parlerò delle tue testimonianze davanti ai re
e non ne avrò vergogna” (Sa 119,46)
E poiché ciò avvenga occorre
che –nelle forme e con lo spirito dovuti, sempre di più nell’educazione interna
e nella formazione della Chiesa di Cristo di faccia spazio non solo ai singoli
episcopati, orientandoli a una coscienza eclesiale propria ma non nazionalista,
veramente “cattolica” ma che anche si dia respiro alle grandi componenti in cui
si articolano le Chiese locali, specialmente le loro associazioni qualificate
di laici: perché divenga sempre più vero quello che si dice, e cioè che ai laici
particolarmente spetta intervenire direttamente nella costruzione politica e
nella organizzazione della vita sociale, agendo di propria iniziativa e
cooperando con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la
propria responsabilità.
…occorre compiere una revisione
rigorosa di tutto il proprio patrimonio culturale e specialmente religioso,
purificandolo radicalmente da ogni infiltrazione emotiva e da ogni elemento
spurio che non attenga al nucleo essenziale della fede e che possa favorire
anche solo in maniera indiretta ritorni materialistici o idealistici capaci di
alimentare miti classisti, nazionalisti, razzisti ecc.
[Da Non
restare in silenzio mio Dio, di Giuseppe Dossetti, introduzione scritta per
il volume di L. Gherardi, Le Querce di
Monte sole; ora in Giuseppe Dossetti
– La parola e il silenzio – Discorsi e scritti 1986-1995, Paoline
Editoriale Libri, 2005, €22,00]
Su
certi temi religiosi è inutile cercare istruzioni
nei vari catechismi in commercio. Si tratta infatti di materie sulle quali
ancora si discute e si sperimenta e non si è ancora trovata una posizione
stabile, se non definitiva. In particolare questo accade per quanto riguarda
l’impegno religioso nei laici nella
storia per influire sulla costruzione degli ambienti umani e delle società.
Occorre
riassumere brevemente alcuni punti che ho trattato precedentemente:
-alle
origini, diciamo nei primi quattro secoli della nostra era, le Chiese cristiane erano ben distinte dalle
istituzioni civili, alle quali prestavano obbedienza
in ciò che non contrastava con doveri religiosi ma sentendosi come stranieri (“ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera”, citazione dalla Lettera a Diogneto, scritto anonimo che
si fa risalire alla fine del
secondo secolo della nostra era);
-dal
quarto secolo il cristianesimo diviene l’ideologia unificante dei sistemi politici delle nazioni dominate dalle
istituzioni imperiali romane e poi, nell’Europa
occidentale dei sistemi politici succeduti al crollo delle istituzioni imperiali romane; in questa nuova
situazione si instaura una dialettica, fatta di
accordi e scontri tra le autorità religiose e quelle civili, in cui i popoli vengono in rilievo essenzialmente quali
sudditi di una specie di condominio in
cui è molto importante stabilire chi
comanda nelle varie questioni, a seconda che abbiano rilievo
esclusivamente o prevalentemente religioso o rilievo
civile; oggi può sembrare strano, ma, in queste dinamiche e concezioni, la pace tra i popoli non è un veramente un valore nella prassi politica, compresa quella delle
autorità religiose; non lo è neanche l’autodeterminazione
dei popoli (le concezioni democratiche contemporanee sono molto lontane);
-Dal
Cinquecento comincia ad affermarsi l’idea che i sistemi sociali possano essere mutati per corrispondere ad
esigenze razionali. Si tratta dei movimenti
ideali precursori delle concezioni democratiche contemporanee. In queste epoche i popoli cristiani
sono dominati da monarchie ereditarie, che
si sentono minacciate dalle nuove idee. Il Papato solidarizza con le dinastie monarchiche diventa una forza di reazione. Questo atteggiamento
si inasprisce di fronte ai
sommovimenti politici della fine del Settecento e poi nell’Ottocento. I movimenti democratici vengono
essenzialmente concepiti dai Papi
come fonte di disordine sociale e di disubbidienza anche alle autorità religiose. In Italia la
situazione è particolarmente grave perché l’unità
nazionale si costruisce anche contro il Papato, che domina Roma. Le ultime condanne papali della democrazia, sia
pure orientata in senso cristiano,
risalgono agli inizi del Novecento;
-la
situazione muta molto con l’esperienza delle due Guerre Mondiali del Novecento (1914/1918; 1939/1945) e, in
particolare, in nel confronto con i regimi
totalitari fascisti e nazisti (la Chiesa cattolica invece in quel periodo non fece esperienza diretta del totalitarismo sovietico, in
quanto quest’ultimo dominava
nazioni cristiane ortodosse); in quell’epoca comincia a diventare centrale il tema del perseguimento
della pace universale e perpetua non
più solo mediante accordi con i
capi delle nazioni (che con i capi fascisti, nazisti non avevano funzionato e che non si era neppure potuto
iniziare a intavolare con i capi
sovietici), ma attraverso un’azione collettiva di masse illuminate;
-da
quell’esperienza, dalla quale la posizione morale del Papato esce gravemente pregiudicata pur se la nuova
Europa era andata strutturandosi anche
in base si riallaccia a principi cristiani
soprattutto per merito di movimenti
laicali che, allontanandosi dall’atteggiamento
prudenziale del Papato, avevano
partecipato alla resistenza
europea contro i fascismi e i nazismi,
scaturì un diverso atteggiamento verso la democrazia, vista ad un certo punto come una forza che
poteva impedire il riaffacciarsi dei totalitarismi.
Richiamo il celebre Radiomessaggio Natalizio del 1944 del papa Pio 12°:
“Il
problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto
più importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete,
travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla
persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se
non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei
poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso
della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile
catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi
è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?”
-Bisognerà però arrivare agli anni Sessanta, al Concilio Vaticano 2°
(1962- 1965) e all’enciclica Populorum Progressio (1967)
del papa Paolo 6°, perché il
Papato chieda ai popoli cristiani una autonoma e originale iniziativa dei laici cattolici per la realizzazione di un ordine giusto e
pacifico.
Siamo arrivati ai tempi nostri,
caratterizzati da discussioni e sperimentazioni sul tema dei rapporti tra
impegno religioso, promozione umana,
in particolare elevazione degli umili, e
contrasto di strutture
sociali di peccato, in esso compresa la liberazione
degli oppressi. Il fine è di pacificare la società costruendo ordini
sociali fondati sulla giustizia (per il legame che biblicamente si vuole vedere tra giustizia e pace).
Tuttavia si è vista che un’azione di pacificazione
di questo tipo può non essere del tutto o per nulla pacifica, richiedendo di combattere le forze che promuovono e
mantengono l’ingiustizia. In Italia questa è stata appunto l’esperienza storica
delle forze cattoliche che aderirono alla resistenza armata al fascismo e
all’occupante nazista, tra il ’43 e il ’45: si definivano ribelli per amore.
Il più notevole tentativo di
costruire un movimento di quel tipo, che si situasse tra l’organizzazione
ecclesiale in senso proprio e le organizzazioni della società civile, non
caratterizzate religiosamente, è stato quello delle varie teologie della liberazione, che originarono negli anni Sessanta e
vennero duramente contrastate e represse, in particolare sotto il Papato di
Giovanni Paolo 2°, per motivi prettamente teologici e per motivi politici, in
quanto le si sospettava di cedimento alle ideologie marxiste e di assecondare i
disegni sovietici nell’America latina.
Negli anni ’80 e ’90 abbiamo
assistito ad un forte attivismo politico internazionale, nel senso di cui
dicevo, da parte del papa Giovanni Paolo 2°. Esso lasciò poco spazio ad
autonome iniziative laicali. Si affermò in questo il modello di impegno laicale
della Polonia, molto legato al collegamento con i vescovi. In Italia, dopo la
fine dell’esperienza unitaria democristiana, poco spazio è stato lasciato ai
laici e sui temi specificamente politici con rilevanza religiosa ha inteso
esercitare un’azione di coordinamento la Conferenza Episcopale Italiana. Negli
ultimi due anni ha ripreso ad essere molto attiva anche la Segreteria di stato
Vaticana, qualche volta con iniziative che divergevano dalle concezioni della
Conferenza Episcopale Italiana. Insomma, il laicato italiano è continuato ad
essere quel brutto anatroccolo di cui
ha parlato Fulvio De Giorgio nel suo bel libro omonimo del 2008.
Un momento di particolare
tensione si ebbe al tempo del referendum abrogativo in merito ad alcune norme
della legge sulla procreazione assistita (2005), in cui la gerarchia cattolica
aveva, indirettamente naturalmente, consigliato l’astensione, per non far
raggiungere il numero minimo di votanti perché la consultazione fosse efficace
e invece diversi cattolici decisero di andare a votare, pur votando contro
l’abrogazione della legge (che era conforme alle concezioni dei vescovi).
Volarono parole grosse tra laici schierati su posizioni opposte. Chi era
conosciuto come cattolico e andava a votare veniva visto come in aperto dissenso
con la gerarchia. In quell’occasione si manifestò chiaro il problema aperto
dall’attivismo autonomo che si era iniziato a pretendere dai laici cattolici:
esso doveva necessariamente svolgersi con metodi democratici e quindi
rispettando la dignità morale e la libertà di coscienza di ciascuno. Questa
convinzione fa fatica ad affermarsi nella nostra Chiesa, dominata da una
gerarchia che rifiuta il metodo democratico nei compiti che sono suoi propri,
ma è costretta a tollerarlo nell’azione nella società, se vuole veramente
coinvolgere le masse nello sviluppo di una società ispirata a valori religiosi.
Le cose si sono complicate
ulteriormente per l’alta laicizzazione delle attuali formazioni politiche, per
cui l’adesione a un determinato orientamento religioso, ad esempio alla
dottrina sociale della Chiesa, non è più presentato come caratterizzante e da
tutti si fa professione di tolleranza e multiculturalismo. Ma sono più
complicati anche i problemi e i dilemmi davanti ai quali ci si trova. Vi è la
necessità di ragionare bene sulle cose e sugli effetti delle proprie decisioni,
in uno spirito che, in democrazia, non può tener conto solo degli interessi
della propria parte, fosse anche la
propria Chiesa, ma del bene di tutti i consociati. E allora certi sbrigativi
appelli a votare questo o quello, che sicuramente verranno anche in occasione
delle prossime elezioni politiche, come sono venuti nel passato, vengono
accolti spesso con fastidio, perché gli anni del dopo Concilio non sono stati
senza effetto e quindi non si tollera più umiliarsi nell’atteggiamento di
sudditi di un potere indiscutibile, fosse anche a base sacrale, ma ci si sente
impegnati a un atteggiamento responsabile che impone di capire e di convincersi
bene sui vari temi. L’autorità, nelle cose della politica e, in genere, della
costruzione delle società umane, la Città
dell’uomo di Lazzati, non va data per scontata, ma deve essere conquistata
giorno per giorno con buoni argomenti ed esempi edificanti.
L’Azione Cattolica si sente
particolarmente impegnata nell’azione di formazione delle coscienze necessaria
per svolgere responsabilmente la missione che ai laici compete nel mondo di
oggi.
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40
Eterno presente o apertura verso un futuro
diverso?
(30
novembre 2012)
Da parte di Abramo dunque … emerge una
disponibilità all’accoglienza dei tre uomini, dei tre stranieri che,
inesplicabilmente, si trovano improvvisamente davanti a lui. La tradizione
mistica di Israele qualificherà questa disponibilità come bontà o carità
(“chesed”) ... li riceve: non come dei simili o degli uguali, ma come esseri
misteriosi … e di grande importanza. […] Il presente di Abramo …
improvvisamente è messo allerta da un mistero. Li riceve come se dei visitatori
fossero, per principio, sempre messaggeri dell’Eterno, esseri che bisogna
servire senza chiedersi se lo meritano. Messaggeri che per di più dovrebbero
essere serviti prima di Colui che li ha inviati. Il che sembra –in ogni caso
qui- il modo migliore per servirLo. [… ] Il presente … si trova liberato dalle
limitazioni insopportabili e mortali perché si mostra capace di essere toccato
dal mistero dell’altro, dalla sua presenza discreta e inafferrabile.
In
questo racconto della Torà è questo mistero che
fa dell’altro un inviato dell’Eterno –un angelo- e non è il fatto di
aspettarsi dall’altro che risponda finalmente al mio desiderio e sia lo
strumento della mia soddisfazione che porta a vedervi un angelo. [… ]
Ricevere un angelo –il soffio e le parole
dell’Eterno incarnati, fugacemente, qui e ora, in un uomo, in uno straniero – è
dunque prendere delle iniziative –
preparare da bere e da mangiare –senza cercare prima di familiarizzarsi con
l’identità dell’altro e ancor meno chiedersi come trarne profitto per sé ,,, è
considerare l’altro … irriducibile a ogni conoscenza che si pretenda di avere
di lui.
[…] Il
racconto studiato qui mostra come, grazie all’accoglienza di questo mistero, la
chiusura nel presente si schiude e come ciò che sembrava impossibile è
annunciato come possibile, la novità, l’avvenire, la nascita di un figlio […]
Infatti solo l’alleanza della Parola e della carne fa vedere a una persona ciò
che, fino a quel momento, restava invisibile, impercettibile o senza presenza
di carne.
[In:
Catherine Chalier, Angeli e uomini, Giuntina,
2009, pag.53-55; commento al racconto biblico di Gen 18,1, l’apparizione ad
Abramo di tre uomini alle querce di Mamré]
Uno dei pregi maggiori che alcuni pensatori
del passato hanno visto in alcuni tipi di religiosità è l’apertura al futuro,
all’inaspettato. Nel cristianesimo è
l’aspetto della speranza che ha
colpito particolarmente anche fuori del nostro mondo.
In religione si confida di essere liberati
dalla morte e di essere salvati dalla pena eterna. Quando accadrà questo?
Nessuno lo sa, ci viene insegnato; è scritto. Nei travagli dell’oggi siamo
convinti però che qualcosa è cambiato, proprio nel mondo in cui viviamo, con la
nascita di Gesù, migliaia di anni fa. E che alla fine dei tempi si avrà il
compimento beato di tutto ciò che nella fede religiosa crediamo, con il ritorno
glorioso di Cristo. Nel frattempo siamo però invitati a non rimanere inattivi.
Bisogna rimanere vigili e pronti, come le sentinelle nella notte (così
sosteneva Dossetti). In particolare bisogna scrutare
i segni dei tempi, come fanno gli agricoltori nel loro mestiere, per capire
quando è tempo di seminare e quando di raccogliere. Ma c’è di più: abbiamo la
possibilità di influire sul corso dei tempi, su come vanno le cose nel mondo,
e, in particolare noi laici, siamo stati invitati a farlo dai padri del
Concilio Vaticano 2° e i nostri capi religiosi non cessano di ricordarcelo.
Questa nostra attività sembra che non abbrevierà di un secondo il tempo che
manca alla fine di tutto, ma manifesta il nostro assenso a ciò che religiosamente
crediamo, è il nostro concreto amen.
A parole sembra tutto facile, nella pratica
molto meno. Chi decide che cosa si fa per cambiare il mondo? Il Papa e i
vescovi, i quali hanno formazione prevalentemente teologica e ci chiedono aiuto
in tutto il resto? Decidiamo a maggioranza? E se poi le maggioranze, come è
accaduto, si pervertono e, invece di tendere a ciò che conta, pensano
prevalentemente al proprio tornaconto? E se non andiamo d’accordo su ciò che
deve fare, come mantenere l’unità della nostra collettività religiosa?
Come ho
scritto, si tratta di temi sui quali soluzioni soddisfacenti non sono state
ancora trovate, a mio parere naturalmente.
Nella nostra parrocchia, ad esempio, convivono
stili di religiosità molto diversi, che in qualche campo sono addirittura
contrastanti. Alla fine allora si tende a stare con chi la pensa come noi e si
fanno molte chiacchiere, spesso malevole, sugli altri. Una ricerca sul WEB ci
convincerà facilmente che circolano in rete le accuse più tremende contro gli avversari,
e sono sotto accusa addirittura Papi e Concili ecumenici.
Non è che al di fuori della Chiesa le cose
vadano meglio. Si parla in merito di estesa
frammentazione sociale e di corporativismo.
Ognuno pensa per se e, di scontro in scontro, si arriva solo a provvisori
compromessi.
Un esempio storico di ciò a cui voglio
riferirmi lo abbiamo nella Palestina contemporanea. Proprio lì, in luoghi sacri a tre religioni,
sembra rivivere l’esperienza desolante della biblica Babele. E anche noi
cattolici pretendiamo di dire la nostra al massimo livello, concludiamo
accordi, intavoliamo trattative. Ma con che risultati, poi? La mia spiritualità
è poco legata a quei posti, che mi sembrano anche piuttosto inospitali come
ambiente naturale, visti con gli occhi di un italiano. L’unico luogo a cui sono
legato emotivamente è il “mare” di Galilea, che è tanto simile al lago dove
vado in vacanza d’estate, quello di Bolsena. Ma capisco che il mio è un punto di vista particolare, limitato, e
che ci sono buoni motivi religiosi per occuparsi di quelle terre. Farlo
pacificamente sembra però piuttosto difficile e la storia ce lo ha confermato e
lo conferma ancora.
Eppure l’attesa del futuro, la vera speranza, può avere in fondo
solo natura religiosa.
Un primo atteggiamento che vorrei provare a
sperimentare è confrontarsi con gli altri senza preventivamente calcolare i vantaggi che ci verrebbero
da un’alleanza con loro o, viceversa, gli svantaggi. E’ l’insegnamento che la
Chalier ricava, sulla base della riflessione dei saggi ebrei, dal racconto
biblico dell’incontro misterioso di Abramo alle Querce di Mamre. Quindi di
cogliere negli altri ciò che supera l’utilità materiale che le loro vite
possono darci.
La religione ci dà la capacità di uno sguardo
soprannaturale che consente di cogliere ciò che prima restava invisibile,
impercettibile, e che quindi veniva trascurato. E’ così che ho spiegato alle
mie figlie la protezione che i cattolici vogliono fornire a organismi umani che
non hanno ancora o non hanno più la capacità di entrare in relazione con noi
nei consueti modi degli esseri umani. E questo a prescindere da altre questioni
più complicate come quelle che riguardano l’anima e via dicendo. Ma anche nei
riguardi dei morti, di quelli che dal punto di vista scientifico non vivono
più, che mi capita di incontrare spesso in certi miei turni di lavoro, l’animo
rimane incredulo di fronte alla realtà fisica della fine, del disfacimento dei
corpi, della cosificazione dell’essere umano, disgregabile in pezzi minuti
nelle pratiche autoptiche, e, potente, emerge l’esigenza di aderire alla
promessa di salvezza che in religione abbiamo accettato e professato.
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41
Sollecitudine nel lavoro relativo alla terra
presente e rilevanza religiosa della democrazia
(1
dicembre 2012)
…l’attesa
di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la
sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel
corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione
che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere
il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, tale progresso, nella misura in cui può
contribuire a meglio ordinare l’umana società, è di grande importanza per il
regno di Dio.
Ed
infatti quei valori, quali la dignità
dell’uomo, la comunione fraterna
e la libertà, e cioè tutti
i buoni frutti della natura e della nostra operosità dopo che li
avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto,
li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e
trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre “il regno eterno e
universale: che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia,
regno di giustizia, di amore e di pace” [ dal Prefazio alla festa del Cristo Re]. Qui sulla terra il regno è già
presente, in mistero; ma non la venuta del Signore, giungerà a perfezione.
[ dalla
costituzione pastorale Gaudium et spes sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo, n.39 Terra
nuova e cielo nuovo, del Concilio
Vaticano 2° -1962/1965]
Il tempo che ogni martedì dedichiamo alla
riflessione sui temi dell’Anno della Fede
è troppo poco per un vero aggiornamento, se già certe cose non le abbiamo
conosciute e assimilate molto prima, nel corso della nostra vita. Può al più
dare spunti per ulteriori approfondimenti. Siamone consapevoli: se vogliamo
esercitare utilmente il diritto di parola che ci viene riconosciuto su certi
temi, dobbiamo fare uno sforzo per apprendere, innanzi tutto leggendo i
documenti che oggi generano i dibattiti più attuali. Potremmo quasi dire che ci
competono compiti a casa. Ma non si
tratta solo di questo. Poiché questa è azione religiosa ne dobbiamo fare materia di preghiera, perché ogni cosa sia vista, pensata e agìta, come è
scritto nel brano della Gaudium et spes che
ho sopra trascritto, nello Spirito del
Signore e secondo il suo precetto.
Molti anni fa, quando facevo ancora le medie,
mio zio Achille, che era un importante sociologo italiano, piuttosto seguito
anche nel mondo cattolico, mi parlò della discesa della Gerusalemme celeste (Ap 21), nuovo
cielo e nuova terra. All’epoca ero molto appassionato di fantascienza,
leggevo ogni due settimane i fascicoli della collana Urania, e mi figurai la cosa come una grandissima astronave che
atterrava da noi. Mi sorprese che uno scienziato come mio zio, una persona che
nel suo lavoro era molto legata al dato
statistico, all’immagine realistica delle società del suo tempo attraverso
sondaggi condotti con metodi precisi e razionali, si appassionasse a cose come
quella. Per me, allora, la religione significava la Messa la domenica e le
altre feste tradizionali, le preghiere al mattino e alla sera (quando me ne
ricordavo), non eccedere in certe abitudini personali che i preti deploravano,
fare quello che i miei genitori mi dicevano, confessarmi ogni tanto. Non
immaginavo che ci fosse molto di più. La società andava come andava e io stavo
ancora imparando a vivere in essa, non mi passava per la mente di cambiarla.
Pensavo anche che, tutto sommato, mi era capitato di nascere tra gente
buona. Poteva andarmi peggio. Sapevo che
c’erano anche i cattivi e quelli che soffrivano, ma li situavo in regioni
lontane. Della morte avevo un’immagine vaga, in genere collegata ai film eroici
di guerra, in cui si facevano belle morti,
nel senso di apprezzate dagli altri. “…adesso
e nell’ora della nostra morte” erano soltanto parole per me, frasi mandate
a memoria.
Certe idee ho cominciato a capirle e ad
apprezzarle veramente solo crescendo.
Dunque c’è,
in religione, un lavoro
da fare. Non c’è solo la parte,
come dire, liturgica. E non si tratta
solo di sforzarsi di non cedere agli istinti. C’è una fatica che dobbiamo
sobbarcarci ed essa riguarda il mondo in cui viviamo, il tempo presente. Essa consiste nell’ordinare meglio la società in cui siamo inseriti. Perché è fatica?
Perché, in genere, le società resistono
ai cambiamenti, tanto più in quanto sono fondate sull’ingiustizia, quindi su
privilegi di alcuni rispetto ad altri. Non è questa anche la vostra esperienza?
Questo lavoro nella società, ci dice il
Concilio Vaticano 2° sulla base della tradizionale teologia, non è senza
importanza per il regno di Dio. Ma, come? Non doveva venire dal cielo, la santa
città, la nuova Gerusalemme, già
tutta pronta per noi, come una sposa
pronta per andare incontro allo sposo? La nostra idea religiosa è che ciò
che avremo costruito sulla terra secondo i precetti di fede lo ritroveremo ai
tempo del compimento beato, illuminato e
trasfigurato. Capiremo quindi che esso era già una manifestazione del regno
beato, eterno e universale. Cose come la
dignità delle persone umane, la comunione fraterna, la libertà. Siamo ben
consapevoli, naturalmente, dei limiti insiti in tutte le nostre costruzioni, per
cui, qui e ora, non ci azzarderemmo mai a dire il regno è qui. Confidiamo,
ma senza poterne avere la sicurezza, che certe cose che facciamo possano averci
a che fare: è questo il mistero di
cui si parla nel brano che ho sopra citato. Ma perché mistero? Perché, anche se contemplando l’opera nostra non possiamo,
in fondo, concludere, come nel Sesto giorno, che è cosa molto buona (Gn 1,31), perché non ci illudiamo e ne vediamo
le imperfezioni, tuttavia l’animo nostro
è pur sempre pieno, religiosamente, non tanto razionalmente, di speranza, confidando che ciò che per
mezzo nostro è stato generato dal contatto con un appello soprannaturale, poi sarà portato a
termine, quindi al compimento, da colui che ci ha chiamati e attirati verso di
sé.
Ora, bisogna prendere coscienza che in quel
brano della Gaudium et spes ci sono
cose che appartengono da sempre alla tradizione cristiana e cose nuove. Queste
ultime le possiamo considerare come manifestazione viva di quel lavoro di cui si parla nel brano
medesimo. La cosa veramente nuova è l’appello
a tutti coloro ai quali il Concilio volle rivolgersi, vale a dire a tutte le persone umane [Gaudium et spes, 2], alla
sollecitudine nel lavoro per il progresso delle società umane verso la dignità
delle persone umane, la comunione fraterna e la libertà, attraverso nuovi e
migliori ordinamenti.
Vogliamo approfondire un po’ di più? Come potremmo dire in modo
diverso gli obiettivi di quei nuovi e
migliori ordinamenti sociali indicati nella Gaudium
et spes? Butto lì: uguaglianza, fraternità, libertà, i
principi cardine delle democrazie moderne.
Si
legge nella nota 793 del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (2004)
793« Libertà, uguaglianza, fraternità » è stato
il motto della Rivoluzione francese. « In fondo sono idee cristiane » ha
affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia
a Le Bourget (1º giugno 1980), 5: AAS 72 (1980) 720.
Per oggi finisco qui. Per
riflettere su certe cose serve tempo. Quando parlo con gli altri non noto una
grande consapevolezza della natura anche religiosa del lavoro che si fa in democrazia per il miglioramento della società.
Anzi sento spesso contrapporre religione e democrazia ed alcuni con
compiacimento proclamano che la logica
della democrazia non ha posto nella Chiesa. Ne siamo proprio sicuri?
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42
La pace universale come finalità religiosa
(3
dicembre 2012)
Tutti
gli uomini quindi sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che
prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo
appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in
Cristo, si infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama
alla salvezza.
[dalla
Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen
Gentium – n.13 -, del Concilio
Vaticano 2°]
La prima volta che mi posi veramente il
problema della pace come finalità religiosa fu quando partecipai, la sera
dell’ultimo dell’anno del 1981, a una Marcia
della pace che fu percorsa qui a Roma, dal Colosseo a piazza San Giovanni e
che terminò con la Messa nella basilica lateranense. All’inizio pronunciò un breve discorso il rabbino capo di Roma prof.
Elio Toaff e il tema che svolse fu quello del rapporto tra pace e giustizia: non si poteva
essere vera pace senza giustizia e la vera giustizia non era quella dei
compromessi che si fanno nelle storie umane ma quella religiosa.
Negli anni ’70, che pure erano stati piuttosto
turbolenti in Italia, si era parlato molto di pace nel mondo giovanile, ma in genere non se ne era colto il senso
religioso e questo nonostante la dottrina sociale della Chiesa cattolica e il
Concilio Vaticano 2° l’avessero molto messo in risalto. Il mondo all’epoca era
diviso in due blocchi, quello capitalista e quello comunista, e la Chiesa
cattolica veniva annoverata nel primo. Nella società italiana, poi, la Chiesa
cattolica veniva vista come alleata di chi comandava, in politica con la
Democrazia Cristiana, nelle relazioni di lavoro con i padroni, tanto che c’era
l’uso di chiedere raccomandazioni di lavoro al parroco, quando non c’era di
meglio.
Il problema è che, in genere, il conseguimento
della giustizia richiede una lotta,
non è una cosa naturale nelle società umane. In esse i rapporti vengono
strutturati sulla base della forza
delle componenti che si scontrano per l’affermazione dei propri interessi.
Questo lega la stabilità delle società umane all’impiego della forza e quindi,
come conseguenza, la possibilità del mutamento di un ordine sociale
all’esercizio di una forza maggiore. Le democrazie contemporanee sono i regimi
politici in cui si fa un minor impiego della forza, ma anch’esse si sono
affermate con la forza, per scardinare ordini politici precedenti, i quali
resistevano al cambiamento.
Ma anche se si riuscisse a realizzare un
ordine giusto esso tuttavia non
potrebbe fare a meno di prevedere l’impiego di una certa forza, per resistere a sua volta a cambiamenti prodotti
dall’aggressione opportunistica di chi voglia di più per sé o per il proprio
gruppo. Nell’antichità romana si era soliti ricordare il detto secondo il quale
se si vuole la pace, bisogna preparare la
guerra, ma poi quel tipo di pace sarebbe veramente tale? Tacito scrisse la
celebre frase, a proposito della politica romana: fanno un deserto e lo chiamano pace.
Il problema della pace universale è piuttosto
recente. Risale fondamentalmente al periodo storico in cui si affermò il
movimento filosofico detto dell’Illuminismo, nel Settecento. L’idea che in
questo movimento per la pace universale possano essere coinvolti tutti
i popoli della terra, anche, per dire, gli aborigeni o le genti
socialmente meno sviluppate, è ancora più recente: risale al periodo tra le due
guerre mondiali del Novecento. Le immani stragi che ne conseguirono, che non si
erano mai verificate in alcun altro periodo della storia dell’umanità, e
soprattutto la possibilità concreta di stragi ancora maggiore derivanti da un
conflitto con l’impiego di armi nucleari, portarono alla revisione delle idee
che si avevano sul problema della guerra. Fino ad allora la guerra, vista
essenzialmente come manifestazioni di conflitti tra dinastie regnanti, non era
stata un vero problema per la Chiesa cattolica, che vi si era, anzi, trovata
spesso invischiata e, in ogni caso, aveva sempre voluto dire la propria sulle
guerre che coinvolgevano potenze europee.
Del resto nella Bibbia ci sono molte guerre, alcune che vengono presentate come
giuste, quelle a beneficio degli
israeliti e dell’unità del loro popolo, e altre malvagie, quelle contro gli israeliti e che comportano la divisione
di quel popolo. Fondamentalmente l’ideologia cattolica sulla guerra si era
sempre rifatta a quell’ordine di idee. Nell’Apocalisse, l’ultimo libro del
Nuovo Testamento e della Bibbia cattolica, si narra di molte guerre sanguinose
e si situa alla fine dei tempi l’avvento della pace religiosa, ma non come
opera degli esseri umani, ma come iniziativa portentosa soprannaturale, per cui
la nuova Città dell’uomo la si vedrà
venire dall’alto, già tutta pronta, adorna come la sposa per lo sposo.
Nelle guerre tra popoli in prevalenza
cristiani, i rispettivi preti e religiosi parteggiavano per i propri stati e i
propri eserciti, invocando il soccorso divino per le pretese nazionali. Alla
fine delle guerre, nelle nazioni dei vincitori si celebravano Messe di
ringraziamento per la vittoria e pochi
vi videro un’incongruenza religiosa, mentre il filosofo tedesco Emanuele Kant
(1724-1804) vi scrisse sopra pagine roventi nella sua opera Per la
pace perpetua (1795). Secondo lui si sarebbero invece dovute celebrare
Messe funebri e riti penitenziali per ricordare i tanti morti che la pace era
costata sui due lati del fronte e, soprattutto, l’insuccesso della ragione
umana che non era riuscita se non con quella barbarie a regolare i rapporti tra
nazioni.
Un precursore come don Lorenzo Milani entrò in
contrasto con i cappellani militari per discorsi come quelli e, quando si disse
a favore dell’obiezione di coscienza su basi anche religiose al servizio
militare, fu messo sotto processo penale.
Si era negli anni Sessanta, e si era già dopo il Concilio Vaticano 2°.
Il modo in cui nel Novecento la Chiesa
manifestò per un certo tempo la sua adesione alla pace fu quello della neutralità.
Dopo la Seconda guerra mondiale esso risultò profondamente insoddisfacente. Si
disse, ad esempio, che non era stato detto e fatto abbastanza di fronte
all’enormità del disegno criminale hitleriano dello sterminio delle popolazioni
ebraiche europee, manifesto fin dall’inizio come proposito e noto alla Santa
Sede anche nella fase attuativa attraverso i suoi canali diplomatici. Rimanere neutrali
è un modo debole di promuovere la pace:
semplicemente si cerca di non accrescere le ragioni di conflitto e di non
portarvi nuovi combattenti, ma si rimane sostanzialmente indifferenti sulle
cause della guerra, che in genere si fondano su pretese ingiustizie sociali.
Dopo la Seconda guerra mondiale la Chiesa
cattolica parteggiò apertamente per il blocco capitalista, che si contrapponeva
a quello sovietico, in cui si era apertamente avversi alla religione e al
clero. Si vide un senso religioso allo stallo per cui le grandi potenze
nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si trovavano nelle condizioni
di dover evitare un conflitto globale con l’impiego di armi nucleari per il
concreto pericolo di sterminare le loro stesse popolazioni. Si trattava in
effetti di un paradosso: la pace poteva essere mantenuta mantenendo un
equilibrio nelle armi più devastanti che andava sempre situandosi al rialzo.
In Europa si andò ideando un ordinamento
diverso da quelli che avevano preceduto nella storia dell’umanità, nel quale la
pace fosse mantenuta attraverso una
forma di collaborazione e di integrazioni dei popoli. Questo processo vide
protagonisti politici cattolici, ma non la gerarchia cattolica, in genere
piuttosto sospettosa verso iniziative del genere. Essa infatti ragionava
essenzialmente, nella politica internazionale, in termini diplomatici e una nuova entità europea sovranazionale sarebbe stato
un altro organismo con cui patteggiare un accomodamento, una specie di nuovo concordato, qualcosa che metteva in
questione gli accordi che già in varie parti si erano raggiunti con gli stati
nazionali.
In questo periodo, e ancora oggi, l’idea di
un’istituzione di promozione della pace universale che la gerarchia cattolica
ha è quella di una potenza sovraordinata a tutte le altre potenze, capace di
imporre una sorta di polizia internazionale per il mantenimento della pace. Essa confida molto
nell’organizzazione delle Nazioni Unite.
Si è visto però che quest’ultimo organismo, che realizza una forma di effettiva
concertazione permanente tra nazioni, è in definitiva alla mercé delle potenze
maggiori, che oggi non sono più solo le potenze vincitrici della Seconda Guerra
mondiale. E la concertazione di maggior rilevo è quella che si assume nel
Consiglio di sicurezza in occasione di crisi internazionali, quando viene data
l’autorizzazione a una superpotenza militare di intervenire in un teatro di
guerra, come ripetutamente accaduto negli anni passati.
L’ordinamento pacifico su cui si fonda l’idea
europea è profondamente diversa, perché la si vuole fondare dal basso e, in
particolare, attraverso la realizzazione in concreto di diritti umani
fondamentali e di una comune dignità delle persone dei popoli coinvolti nel
processo di pacificazione. Questa soluzione si è dimostrata capace di mantenere
la pace in Europa dal 1945, tra popoli che si erano storicamente combattuti per
secoli, anche su basi religiose. Essa ha anche determinato un moto centripeto,
per cui i popoli d’intorno chiedono di unirsi a quelli che si sono già in
tal modo federati. Addirittura questo
moto ha coinvolto un popolo erede di uno storico nemico come la Turchia,
islamica.
Attualmente la dottrina sociale della Chiesa
oscilla tra l’idea di una pace mantenuta con la forza da un’autorità mondiale e
quella realizzata a partire da popoli profondamente federati. La prima
soluzione è conforme alla storica tradizione diplomatica della nostra Chiesa, quindi alla sapienza con cui ha
saputo intavolare di volta in volta trattative con i sovrani, la seconda
presenta l’incognita della volontà popolare. La gerarchia cattolica è piuttosto
diffidente verso quest’ultima, tanto da rifiutare la democrazia come metodo organizzativo al proprio interno. Eppure è
proprio dalla pace come obiettivo culturale dei popoli che sono venuti i
migliori risultati, lì dove si è avuto un disarmo
degli spiriti che ha reso inutili le armi materiali. La convergenza dei
popoli ha prodotto l’abbattimento di storiche e sanguinose frontiere come
quelle tra l’Italia e l’Austria o tra la Francia e la Germania. Ma il suo
fondamento ideologico, pur dovendo molto alle idee religiose dei cristiani, in
particolare a quelle che erano state meno sviluppate nella storia europea, non coincide
totalmente con la dottrina cattolica e, anzi, su certi punti può addirittura
contrastare con essa, in particolare in sviluppi recenti, come quelli che
riguardano le libertà religiose o la discriminazione su base sessuale.
C’è inoltre il problema di costruire un nuovo
ordine economico, fondato su principi di giustizia sociale ma anche di
efficienza economica. Questo è prettamente un lavoro in cui devono impegnarsi i
laici cattolici, ma che succede quando sono in questione interessi economici
della Chiesa cattolica intesa come organizzazione?
Per la prima volta nella storia i cattolici
sentono che la questione della giustizia come fondamento della pace universale
coinvolge anche la loro Chiesa, la sua struttura e i suoi interessi come
organizzazione sociale. In particolare è centrale il tema del ruolo delle
donne, le quali, con varie argomentazioni, vengono tenute fuori dai centri di
elaborazione della dottrina comune. Ma vengono in rilievo molte alte questioni
che sono rimaste irrisolte e che in qualche modo possono essere riassunte nel
dibattito sull’appartenenza ecclesiale come unica
via di salvezza. Questa è stata storicamente l’occasione di infiniti conflitti
a base religiosa.
In queste settimane sono stati tra noi membri
del movimento che si è formato intorno alla comunità ecumenica di vita
religiosa di Taizé, in Francia. Lì è concretamente dimostrata e prefigurata la
possibilità di una coesistenza pacifica tra diverse idealità religiose
cristiane che, dal punto di vista teologico, non è invece ancora del tutto
scontata.
Nel processo ideale di unificazione europea la
gerarchia è stata come trascinata dagli eventi, non ne è stata protagonista. La
dottrina sociale in merito è ancora insufficiente. In questo noi laici siamo
chiamati ad avere oltre che un ruolo esecutivo,
un ruolo ideativo, a pensare un modo
nuovo di essere persone religiose nella nuova Europa. Poi, come sempre è
accaduto, seguiranno la teologia e la dottrina, per sancire ciò che si sarà
dimostrato valido.
Azione
cattolica è anche tutto questo. Non
consiste solo nel portare gente in chiesa.
E’ un compito molto complesso nella società del nostro tempo. E’ un lavoro che
supera le capacità del nostro piccolo gruppo parrocchiale? In realtà no, perché
noi ragioniamo religiosamente. Così come nella Messa pensiamo di rendere
presente l’unica Chiesa universale, allo stesso modo possiamo ragionare tra noi
sentendoci parte dell’intera umanità, per escogitare, secondo la terminologia
del filosofo e giurista Norberto Bobbio, le vie
della pace (1966, ripubblicato da Il Mulino nel 2009).
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43
Che fanno i laici cattolici nel mondo?
(3
dicembre 2012)
Col nome di laici si intende qui l’insieme dei
cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso
sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a
Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale,
profetico e regale di Cristo, compiono nella Chiesa e nel mondo, la missione
propria di tutto il popolo cristiano.
[…]
Per la
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e
lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale,
di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico,
e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la
testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro
speranza e carità. A loro quindi
particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali,
alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano
costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e al Redentore.
[Dalla
Costituzione dogmatica Lumen Gentium
(n.31), del Concilio Vaticano 2° (1962-196)]
Vi propongo come pio esercizio per questa
settimana di imparare a memoria i due brani della Lumen Gentium che ho sopra riportato. Sono legge molto importante
della nostra Chiesa. E contengono alcune delle affermazioni più rilevanti del Concilio Vaticano 2°. Dalla mente devono
scendere nell’anima e poi di nuovo devono tornare alla mente, per progettare il
futuro con la determinazione che è richiesta dal carattere religioso
dell’impegno a cui siamo chiamati.
Abituati forse ancora a considerare Chiesa il Papa, i vescovi, i sacerdoti e
i loro stretti collaboratori, i monaci e le monache, i frati e le suore,
dobbiamo sforzarci ora di figurarci l’immane massa di persone, quasi un
miliardo di cattolici, che compone il resto,
quella parte del Popolo di Dio che
viene denominata il laicato
(l’espressione, usata in questo senso, risale agli scritti di San Clemente
papa, I secolo della nostra era, al quale è intitolata la nostra chiesa
parrocchiale).
L'occasione immediata della
lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento
sull'identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati
degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell'affievolimento della
carità e di altre virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i
fedeli all'umiltà e all'amore fraterno, due virtù veramente costitutive
dell’essere nella Chiesa: “Siamo una porzione santa”, ammonisce, “compiamo
dunque tutto quello che la santità esige” (30,1). In particolare,
il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso “ha stabilito dove e da chi
vuole che i servizi liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta
santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà... Al
sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie,
ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei
servizi propri. L'uomo laico è legato agli ordinamenti laici” (40,1-5: si noti
che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella
letteratura cristiana, compare il termine greco “laikós”, che significa “membro
del laos”, cioè “del popolo di Dio”).
[dalla meditazione svolta dal papa
Benedetto 16° all’udienza generale del 7-3-07]
La
valorizzazione dell’impegno religioso dei laici è uno dei temi chiave lanciati
da padri conciliari soprattutto per sviluppi futuri, che ancora sono in corso.
Naturalmente considerare quasi come un resto la gran massa dei fedeli,
detratti i membri dell’ordine sacro e i
religiosi, è una particolare prospettiva che risente del metodo della teologia
di ordinare le argomentazioni. Per la gran parte della storia della chiesa i
laici sono stati poi considerati essenzialmente come sudditi della potestà religiosa esercitata dal clero, allo stesso
modo in cui lo erano, nel campo civile, delle dinastie regnanti e dei loro
vassalli e funzionari. In effetti i Papi ebbero anche, e ancora hanno sebbene
in un ambito poco più che simbolico, la condizione giuridica di monarchi, ad un
certo punto equiparati come dignità agli imperatori, ai re dei re, e i vescovi
ebbero effettivamente la condizione di feudatari e così i capi degli ordini
religiosi maschili. Un suddito onora il proprio Signore e gli ubbidisce e lo
serve. Il potere religioso trovava limitazione in quello politico civile e
storicamente si ebbero varie combinazioni tra gli stessi, con accomodamenti e
anche conflitti. La gente del popolo era, come dire, oggetto di una sorta di condominio tra autorità religiose e
civili. Questo assetto c’era nella Bibbia e, in particolare, nel Vangelo?
Diciamo che ci si costruì una teologia sopra, imposta ai fedeli laici per
vincolo di obbedienza religiosa. Il Concilio
Vaticano 2° consacrò al massimo
livello un profondo ripensamento (già in corso da diversi anni), il quale
naturalmente venne espresso in termini teologici, collegandolo alle Scritture e
alla Tradizione, ma fondamentalmente originò dall’esperienza storica dei
movimenti laicali cattolici nell’Ottocento e nel Novecento e dalla
constatazione che solo l’azione di masse illuminate poteva contrastare i
moventi ed esordi di conflitti catastrofici come quelli che si erano prodotti
in Europa fin al 1945. Ricordo di nuovo il Radiomessaggio natalizio del 1944
del papa Pio 12°, la prima manifestazione pubblica della nuova mentalità:
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più
profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa,
ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e
di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato
trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per
l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo
stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi
è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
Forse,
per una certa pigrizia e rassegnazione, che anch’io, ormai
cinquantacinquenne, comincio ad
avvertire, pensiamo al nostro impegno religioso come un farci intrattenere con discorsi edificanti e belle liturgie. E
invece dovremmo essere costruttori di
mondi, questo appunto significa l’espressione trattare le cose temporali ordinandole secondo Dio. E lo dobbiamo
fare in modo creativo, perché si tratta di cose per i tempi nuovi. Con competenza e guidati dallo spirito evangelico. E’ qualcosa che
viene anche espresso anche con il concetto di regnare. Ma siccome dobbiamo farlo tutti insieme e pacificamente, lo dobbiamo fare democraticamente rispettando la dignità
di ciascuno, compresa la libertà e la franchezza (in greco parrhesia) di espressione. Ne siamo consapevoli?
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44
Laicità dello stato: nuovo fronte religioso?
(9
dicembre 2012)
1. Il Discorso alla città
pronunciato lo scorso 6 dicembre 2012 dal cardinale arcivescovo di Milano
Angelo Scola sul tema L’editto di Milano:initium
libertatis (l’editto era quella del 313 dell’imperatore romano Costantino
che concedeva libertà di culto e di professione religiosa pubblica ai
cristiani) interroga sull’apertura di un nuovo fronte religioso in materia di laicità e aconfessionalità dello
stato.
Aconfessionalità
dello stato significa che lo stato non riconosce come propria alcuna religione, in particolare quella cattolica, e quindi
non si impegna a integrarla nel proprio sistema di potere, anche solo come sistema di valori etici.
Nello Statuto
del Regno d’Italia del 4-3-1848 e nel Trattato Lateranense dell’11-2-1929 (uno dei due accordi che sono
noti come Patti Lateranensi; l’altro
è il Concordato) era previsto, con
forza di legge (ai Patti Lateranensi fu
data esecuzione nel Regno d’Italia con legge n.810 del 1929) che la religione
cattolica, apostolica romana fosse l’unica
religione dello stato.
Con l’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1984, la Repubblica Italiana e la Santa
Sede:
· tenuto
conto del processo di trasformazione
politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi
promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano 2°
· avendo
presenti da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla
Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano 2° circa la libertà
religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la
nuova codificazione del diritto canonico:
nell’art.1
del Protocollo addizionale di
quell’accordo, stabilirono:
· “Si considera non più in vigore il principio,
originariamente richiamato dai Patti
Lateranensi,della religione cattolica come sola religione dello Stato.”
L’aconfessionalità
della Repubblica Italiana si ricava poi ulteriormente dal fatto che tutte le
confessioni religiose sono dichiarate libere davanti alla legge (art.8, 1° comma della Costituzione). La
posizione della Chiesa cattolica risulta particolarmente rafforzata in quanto
la si dichiara con norma costituzionale (art.7 della Costituzione), indipendente
e sovrana nel proprio ordine, quindi
un vero e proprio potere autonomo, di cui lo staterello di
quartiere Vaticano vorrebbe essere una sorta di rappresentazione, e in quanto, con l’art.7 della Costituzione
si è prodotto un riconoscimento costituzionale del diritto concordatario e,
innanzi tutto, del principio
concordatario, che esclude modifiche unilaterali da parte dello stato, per cui si ritiene anche che il diritto
concordatario cederebbe solo dinanzi ai principi supremi dell’ordinamento dello
stato.
Il principio di laicità dello stato è qualcosa di più della semplice aconfessionalità dello stato. Significa
che la dignità civile dei cittadini non
deve essere discriminata sulla base della religione professata.
Ricordo, ad esempio, che quando mio padre mi
mandò a Dublino, negli anni ’70, per imparare un po’ di inglese, all’epoca,
nelle contee settentrionali ancora sotto dominio britannico, si era nel periodo
dei cosiddetti Troubles, dei moti
degli irlandesi di religione cattolica che lamentavano di essere discriminati
nell’organizzazione statale e nell’economia nazionale a motivo della loro religione.
Il principio di laicità dello stato si ricava dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della
Costituzione ed è considerato un principio
supremo dell’ordinamento della Repubblica italiana, capace di prevalere
anche su norme di rango costituzionale, ““uno
dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della
Repubblica” (sentenza della Corte costituzionale n.3 del 1989).
Per i principi di aconfessionalità e laicità
dello Stato le religioni non possono ottenere che lo stato imponga ai cittadini le loro norme etiche e le proprie visioni del
mondo. Esse dovranno conquistarsi
autorevolezza conquistando il consenso delle persone. Comunque nessuna maggioranza religiosa potrà mai
ledere il principio di laicità e quello di aconfessionalità dello stato, a
meno di fare una rivoluzione, di
rovesciare uno dei principi supremi della Repubblica.
L’accordo di revisione del Concordato Lateranense concluso nel 1984
menziona i deliberati del Concilio
Vaticano 2°.
Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo, al n.76 è enunciato il principio della laicità dello stato:
· La
comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel
proprio campo
Segue
tuttavia un temperamento che corrisponde anche all’attuale concezione delle
nostre autorità religiose:
· Ma tutte
e due, anche se a titolo di verso, sono a servizio della vocazione personale e
sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio
di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana
collaborazione tra loro, secondo le modalità adatte alle circostanze di tempo e
di luogo.
Questa formulazione è stata ripresa nell’art.1
dell’Accordo del 1984 di revisione del Concordato
Lateranense:
· La
Repubblica italiana e la Santa sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa
cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani,
impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti per la
promozione dell’uomo e il bene del Paese.
I
conseguenti problemi (che ci sono sempre quando organizzazioni che si
riconoscono reciprocamente lo stato di poteri
devono necessariamente coesistere, condividendo, al modo condominiale, dei
sudditi) si sono fatti più acuti in Italia per tre ragioni:
· il decremento della popolazione che si
riconosce cattolica (secondo una statistica pubblicata ieri si tratta di poco
più del 60%);
· la vasta inosservanza pratica da parte di chi
si riconosce cattolico dei precetti religiosi riguardanti l’esercizio della
sessualità (compresa quella omosessuale), la contraccezione, l’indissolubilità
del matrimonio;
· il favore di larga parte dei cattolici a una
regolazione giuridica di forme di famiglia diversa da quella tradizionale
(basata su matrimonio eterosessuale tendenzialmente di lunga durata) e di
limitazioni su base volontaria a sussidi meccanici o farmacologici alla
sopravvivenza in condizioni di sofferenza estrema in cui non vi è alcuna
prospettiva di miglioramento;
· il vasto dissenso, anche tra i cattolici e
specialmente in periodi crisi, all’aumento delle erogazioni di fondi pubblici a
sostegno di attività della Chiesa cattolica e di altre confessioni religiose e
a forme di esenzione fiscale che riguardano in particolare molte attività
svolte da organizzazioni della Chiesa cattolica;
· l’aumento, a seguito di imponenti fenomeni
migratori, di fedeli appartenenti ad altre confessioni religiose, i particolare
a confessioni islamiche e cristiane ortodosse.
La Chiesa cattolica appare oggi
particolarmente preoccupata sulle seguenti questioni:
· la progettata introduzione di una disciplina
giuridica del matrimonio tra persone omosessuali, con la conseguente
possibilità di adozione di figli;
· l’equiparazione, ai fini degli interventi
pubblici di sostegno, alle famiglie tradizionali basate sul matrimonio
eterosessuale tendenzialmente di lunga durata ad altri tipi di famiglia, basate
sulla semplice convivenza o su forme di matrimonio omosessuale;
· il potenziamento della rete delle strutture
sanitarie in cui possano essere praticati gli interventi di interruzione
volontaria della gravidanza (allo stato assai carente in alcune Regioni, in
particolare del Meridione);
· l’autorizzazione al commercio di farmaci
abortivi, che consentano l’interruzione volontaria della gravidanza senza
interventi chirurgici invasivi;
· la possibilità sempre più larga, a seguito di
sentenze dichiarative di incostituzionalità della legge in materia di
fecondazione assistita, di ricorrere a diagnosi di salute degli embrioni
realizzati al di fuori dell’organismo della donna e ancora da impiantare, in
modo da selezionare quelli non
affetti da patologie rilevabili;
· la possibile introduzione di una disciplina
giuridica sulla eliminazione, o impiego a fini di ricerca, degli embrioni
prodotti in soprannumero nel corso di procedure di fecondazione assistita;
· la revisione in peggio di esenzioni fiscali ad
attività svolte da organizzazioni della Chiesa cattolica o ad essa collegate,
in particolare nel campo assistenziale, scolastico e sanitario;
· il diniego di finanziamenti, sotto varie forme
giuridiche, a organizzazioni scolastiche della Chiesa cattolica o ad esse
collegate;
· la progettata introduzione di norme giuridiche
in materia di fine vita che attribuiscano al malato grave la decisione finale
dell’interruzione di sussidi meccanici o terapeutici alla sopravvivenza in caso
di patologie gravi, irreversibili e che creino grandi sofferenza, sia sulla
base di una volontà espressa al momento in cui si pone il problema, sia su
volontà anticipatamente espressa in un atto che debba valere per un momento futuro, al realizzarsi di certe
condizioni, sia sulla base della ricostruzione della presumibile volontà del malato
in base a certe sue manifestazioni di pensiero prodotte nel corso della sua
vita.
· l’esclusione di manifestazioni esplicitamente
cristiane (Crocifisso, Presepio, preghiera, visita di autorità religiose) nelle
scuole pubbliche con forte presenza di alunni di altre confessioni religiose o
non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica.
Complessivamente si tratta di quel principio
di valori che il papa Benedetto 16°
ha dichiarato come non negoziabili.
Si discute abbastanza su che cosa si debba intendere come non negoziabili. E’ stato fatto osservare che in democrazia non
esistono temi non negoziabili, su cui
quindi non si possa dialogare e discutere. In sede costituente lo si è fatto
anche sui principi fondamentali della Repubblica, come quello di laicità dello
stato. Quell’espressione è stata intesa anche nel senso che in nessun caso si
devono appoggiare partiti che non si impegnino espressamente a realizzare quei valori secondo l’interpretazione che di
essi dà in concreto la gerarchia cattolica. Ma, oggi, i
partiti maggiori non sono disposti ad accogliere in tutto la volontà dei capi
religiosi cattolici in materia e questo in quanto le posizioni espresse
dalla gerarchia in quelle materie che ho ricordato è in genere più o meno
minoritaria tra gli elettori, anche tra quelli cattolici. La differenza è tra quelli che manifestano in materia
agnosticismo e lasciano libertà di scelta ai propri parlamentari e quelli che
invece seguono una linea precisa, divergente da quella del Papa e del vescovi,
e pretendono fedeltà dalla propria forza parlamentare. Si è anche inteso quel non negoziabili come un invito al
massimo impegno per ottenere concretamente il miglior risultato possibile, ma
in realtà si tratterebbe di una
contraddizione in termini, perché questo risultato non potrebbe essere
raggiunto se non mediante un negoziato,
sia pure particolarmente agguerrito su certi punti sensibili.
2. Con il Discorso alla città del 6 dicembre 2012 il cardinale arcivescovo di
Milano, Angelo Scola, sembra voler
aprire un vero e proprio fronte
con le istituzioni pubbliche. Le
accusa di agnosticismo verso la verità.
Le accusa di voler promuovere, in tal modo, una propria visione del mondo (da lui definita mondovisione), in cui la religione e Dio non hanno parte. Propone
quindi di rivedere le interpretazioni che si sono date della dichiarazione Dignitatis humanae, del Concilio Vaticano 2°, in cui è stato
proclamato che “l’adesione alla verità è possibile solo in
maniera volontaria e personale e la coercizione esterna è contraria alla sua
natura”. Queste condizioni
non sono in realtà realizzabili, proprio per l’interferenza di uno stato che,
facendo professione di neutralità, impone di fatto una propria mondovisione,
con la forza derivante dalla propria pervasiva e autorevole organizzazione.
Scola giunge ad affermare che il contrasto in
atto non è, come generalmente si crede, tra credenti di diverse religioni, ma
tra le religioni e le culture secolariste di cui si fanno portatori gli
stati che finiscono in tal modo per proporre una propria mondovisione
alternativa a quella delle religioni.
Secondo il cardinale, per come ho capito, la
libertà religiosa non può essere disgiunta dallo sforzo di ricercare la
verità, compito nel quale anche lo stato deve impegnarsi, innanzi tutto per
distinguere tra religioni e sette
(queste ultime da considerarsi al di fuori della tutela della libertà
religiosa?)
·
“D’altra parte, ci si deve chiedere a quali condizioni un “gruppo
religioso” può rivendicare un riconoscimento pubblico in una società plurale
interreligiosa e interculturale. Siamo di fronte alla delicata questione
relativa al potere dell’autorità pubblica legittimamente costituita di
distinguere una religione autentica da ciò che non lo è.”[discorso citato, n.2]
e poi per discernere tra le proposte religiose
quelle che meglio corrispondono all’edificazione del bene comune. Secondo Scola
occorre quindi ripensare il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato
pensiero della libertà religiosa. In questo il cardinale, dopo aver dichiarato che il cattolicesimo
popolare ambrosiano è affetto da profonde
fragilità, conclude:
· Il
nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del
politico. I molti frammenti ecclesiali e civili che già oggi anticipano
3. Il
discorso del cardinale, con la prospettazione di un conflitto tra culture statali secolariste, in esse
compresi i principi supremi di laicità
dello stato e di aconfessionalità
dello stato, è suscettibile di aprire una gravissima crisi tra le
istituzioni democratiche della Repubblica e le confessioni religiose,
coinvolgendo i rispettivi credenti, costretti a scegliere tra fedeltà
costituzionale e fedeltà religiosa ai propri capi. Prima di rassegnarsi a un
disastro del genere, la persona di fede dà corso a tutte le proprie risorse
razionali e di discernimento per capire se è possibile un diverso sviluppo.
Innanzi tutto: in Italia non è in questione la
libertà religiosa. Qualcuno trova
veramente limiti nell’espressione privata e pubblica della propria fede? Io,
pur esse noto come cattolico “praticante” non ne ho trovato nessuno. In questi
ultimi anni si sono insediati nel mio quartiere numerosi islamici, provenienti
dal continente indiano, e anche loro non hanno trovato difficoltà
nell’espressione della loro fede. A due passi da casa mia c’è una delle più
grandi e belle moschee europee e un altro centro di preghiera islamico è stato
aperto proprio nella via in cui abito. Alcune donne islamiche girano velate e
nessuno ci fa caso, così come le non islamiche circolano vestite come credono e
nessuno le rimprovera.
In parrocchia ho detto che bisogna stare più
attenti al linguaggio che si usa, anche nella liturgia, perché offendere gli
dei altrui è ancora vietato (art.724, 1° comma- illecito amministrativo), così
come è vietato l’incitamento alla discriminazione su base religiosa (art.3
della legge n.654 del 75- reato). Quando
ero bambino ricordo che ci si prendeva spesso gioco di certe consuetudini
islamiche (si pensi a certi film con protagonista Totò): ora non è più possibile farlo.
Detto
questo. il vero problema è che alcune norme etiche promulgate dall’autorità
religiosa cattolica sono venute a contrastare con l’etica pubblica.
Quest’ultima trova il suo fondamento in movimenti diffusi nella società (che
trovano credito anche tra molti cattolici) i quali hanno espresso
democraticamente una forza parlamentare che si è determinata di conseguenza.
Pensare di riuscire a convincere le autorità pubbliche, con un discorso
razionale, che la verità è una sola,
precisamente quella sostenuta dalla Chiesa cattolica e, inoltre, che
quest’ultima su certe questioni deve avere maggiore voce in capitolo, perché migliore di altre confessioni
religiose è irrealistico. Pretendere di riuscirci con la forza è irrealistico
(tenendo conto degli orientamenti della maggioranza degli elettori) e, in fin
dei conti, anche immorale, in quanto
contrasta con principi fondamentali sanciti con forza di legge della Chiesa
durante il Concilio Vaticano 2°. Riuscirci negoziando
la propria forza ecclesiale di influenza
elettorale (che in Italia si stima intorno al 10% dell’elettorato) con i gruppi
che, opportunisticamente non per convinzione, si impegnino a seguire i desideri
della gerarchia in certe questioni, in particolare nell’impedire novità legislative sgradite potrebbe essere considerato umiliante per i
cattolici democratici, tale da ricacciarli in una condizione di minorità dalla
quale faticosamente sono emersi.
Mia opinione
La mia opinione è che occorra sempre negoziare, ma non per uno scambio politico-elettorale, ma per proporre con
sapienza le ragioni e i metodi che su ogni tema controverso consentano di
arrivare a soluzioni condivise che rispettino a pieno la dignità delle persone
umane, rifuggendo in particolare gli estremismi ideologici. Questo si potrà
fare nei vari schieramenti politici in cui i cattolici si sono attualmente
divisi, salvo poi recuperare l’unità quando si tratterà di decidere su certi
determinati temi sensibili in cui i cattolici hanno maturato convinzioni
comuni.
Concludo osservando è che, nella mia opinione,
andranno inevitabilmente riducendosi certe incrostazioni di confessionalismo
cattolico che ancora permangono nel costume delle istituzioni pubbliche
italiane e che, del pari, saranno inevitabilmente superate le discriminazioni
su basi sessuale che ancora travagliano il dibattito legislativo, in
particolare in materia di normative riguardanti le famiglie. A questo punto
tutto, nella mia visione, l’impegno dei cattolici dovrebbe essere centrato
sull’impegno a mantenere gli spazi di libera e pubblica espressione della loro
fede religiosa (compresi quelli negli spazi e nelle istituzioni pubbliche,
senza tuttavia imporli ai diversamente credenti) e nella particolare tutela
della famiglia tra uomo e donna fondata su un matrimonio tendenzialmente
stabile in vista della generazione della prole.
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45
Civiltà
cristiana e Azione Cattolica
(15
novembre 2012)
A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento la
polemica tra il movimento dei cattolici denominato “guelfo”, perché nella
spaccatura tra Regno d’Italia e Papa cattolico seguita alla presa di Roma nel
1870 parteggiava per il Papa, e gli altri movimenti politici che animavano
all’epoca la società civile italiana riguardò in particolare la questione del conflitto di civiltà. I cattolici consideravano
sé stessi come i veri eredi delle glorie della nazione e portatori di un ordine
sociale fortemente radicato nel popolo, minacciato dall’orientamento liberale
delle istituzioni del nuovo stato unitario. A quell’epoca vi era effettivamente
una larga base sociale che condivideva le idee guelfe e che, a lungo, rimase per tale motivo esclusa dalla
partecipazione politica alle nuove istituzioni democratiche del Regno d’Italia.
I movimenti precursori dell’Azione Cattolica e
l’Azione Cattolica, nel corso della sua articolata storia, si adoperarono per
sanare quel contrasto e per conquistare ai cattolici la piena cittadinanza
civile. Questo risultato fu conseguito realmente solo tra il 1946 e il 1948,
con la stabilizzazione del regime democratico scaturito dall’abbattimento
cruento del regime fascista e con la
partecipazione fondamentale delle forze democratico cristiane italiane (in
particolare nell’Assemblea Costituente), a lungo emarginate nella Chiesa
cattolica all’epoca della dominazione fascista e dei compromessi raggiunti in
quei tempi infausti dalla gerarchica cattolica con il Mussolini.
Per certi versi, nonostante che, nel sistema
dei diritti umani, importanti principi religiosi siano venuti a costituire le
basi delle nuove istituzioni europee, quel conflitto sembra oggi rinascere, in
particolare sulle questioni della laicità degli stati e del principio di non
discriminazione delle persone su basi religiose e sessuali.
E’ stato notato che permangono in Italia
importanti elementi di confessionalismo nelle istituzioni e che, in
particolare, la gerarchia cattolica pretende che le sia riconosciuto un ruolo
preminente nella collaborazione con le istituzioni pubbliche, in modo
corrispondente allo speciale regime giuridico che le viene riservato dall’art.7
della Costituzione. Essa inoltre ritiene di poter giungere a certe conclusioni
di natura anche politica sulla base di discorsi razionali
incontrovertibili e quindi di dover
avere udienza non solo per argomentazioni fideistiche, opinabili per i non
credenti, ma per la forza della ragione rettamente esercitata.
E’ chiaro però che la situazione italiana è
caratterizzata da:
-un pluralità di opinioni politiche tra
i cattolici, che evidentemente non può essere
risolta da quegli argomenti razionali;
-una diminuzione sensibile, di circa
trenta punti percentuali, delle persone che
dichiarano di accettare le regole della confessione religiosa cattolica e una percentuale molto minore dei praticanti (persone che vanno regolarmente a Messa la domenica e
nelle feste comandate) che seguono effettivamente in tutto quelle regole,
soprattutto in materia sessuale e matrimoniale;
-un forte aumento di persone per le
quali la religione non è una questione particolarmente
importante, perché non sentono la necessità di ricorrervi spesso nella loro vita quotidiana,
salvo che in alcune occasioni cerimoniali (nascita,
matrimonio, morte);
-un forte aumento di fedeli di altre
religioni, in particolare di confessioni islamiche
e cristiano ortodosse;
-la marcata insofferenza delle donne
verso le residue forme di discriminazione
nella Chiesa cattolica;
-la sempre più marcata insofferenza dei
giovani verso pratiche pastorali troppo
autoritarie nei loro confronti;
-il potente emergere del movimento
contro la discriminazione sociale delle persone
omosessuali.
Manca quindi, nel contesto sociale di oggi, la
base sociale per sostenere in
conflitto di quella natura, vale a dire per ripristinare
una specie di ordine sociale cristiano,
di una civiltà cristiana, secondo le
opinioni della gerarchia cattolica. Ma, in realtà, a parte alcune questioni
specifiche, che si fanno rientrare nel tema complessivo dei valori non negoziabili (contraccezione,
aborto, procreazione assistita, divorzio, patti matrimoniali tra omosessuali,
manifestazioni di volontà per il fine vita, sussidi alla scuola cattolica) la
Chiesa cattolica, pur con la sua complessa e
articolata dottrina sociale, non è più nemmeno portatrice di un progetto di società complessivamente
valido per i nostri tempi, anche considerando la sola Europa. Nell’attuale
epoca di crisi globale le istituzioni sovranazionali, in particolare l’Europa
Unita, stanno costruendo nuove modalità di intervento per il governo e la
risoluzione dei problemi che si sono manifestati. In questa dinamica può
prevedersi che tutte le residue forme ingiustificate di discriminazione tra le
persone verranno gradatamente rimosse, divenendo addirittura illecite.
Naturalmente rimane un possibilità di
influenzare i movimenti in corso nelle società civili, ma questo deve
necessariamente farsi non su basi fideistiche, non condivise all’esterno della
cerchia dei più volenterosi praticanti,
ma con argomenti razionali, tenuto conto però che questo metodo in genere non
consentirà mai di arrivare ad una e una sola conclusione che si imponga agli
altri per forza di ragione. Questo non accade sempre neanche nella matematica,
figuriamoci nei fatti sociali. Sarà quindi sempre necessario, su certe
questioni, un negoziato responsabile,
in cui l’identità di gruppo potrà valere come argomento sulla base dei buoni
risultati eventualmente conseguiti (non per l’argomento Dio lo vuole). In materia di discriminazione su base sessuale noi
cattolici non ne abbiamo molti. Piuttosto l’argomento che, a mio parere, va
sfruttato molto è quello del principio di precauzione, per cui intorno a realtà
umane sulle quali si sa ancora poco e che sono suscettibili di sviluppi
catastrofici, occorre imporre una serie di limiti per evitare che i pericoli
supposti si avverino. In questo lavoro l’Azione Cattolica può senz’altro
svolgere un’opera positiva, essendo stata fin dall’origine aperta ai tempi
nuovi e impegnata a comprenderli in una prospettiva cristiana, non invece
chiudendosi in un intransigentismo settario che porta solo soddisfazioni effimere.
Purtroppo questa esperienza di metodo non è più patrimonio culturale di larghe
fasce della popolazione dei più volenterosi nostri praticanti, che del resto lo ammettono francamente, essendosi formati in un diverso ambiente
ecclesiale.
Vi è la necessità quindi, in particolare
nelle nostre riunioni settimanali, di riprendere migliore conoscenza del senso
del lavoro e dell’associarsi in Azione Cattolica, che, a differenza di un
qualsiasi gruppo parrocchiale di spiritualità, riguarda la religione e la spiritualità
ma anche l’impegno nella società civile. Non si tratta di seguire un catechismo, quindi di farsi spiegare da altri quello che si deve
sapere, fare o non fare, ma di scoprire insieme, capendo bene la società del nostro tempo, ciò che è meglio fare.
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46
L’incontro della Chiesa col mondo
(23
dicembre 2012)
Nel 1982 un amico mi condusse alla
presentazione dell’ultimo volume degli scritti di mons. Enrico Bartoletti,
vescovo che ebbe un ruolo fondamentale, quale segretario della Conferenza
Episcopale Italiana, nell’attuazione del Concilio Vaticano 2°. L’opera
completa, in quattro volumi, era stata curata da don P.G.. So che ora è parroco
in Toscana. Quel giorno un suo amico e collaboratore, che era sacerdote e
svolge anch’egli il suo ministero in Toscana, mi diede da leggere tutti i
quattro libri e io lo feci. Non ebbi più occasione per chiedergli se intendesse
riaverli indietro. Da allora fanno parte della mia biblioteca, mi hanno sempre
accompagnato dove ho abitato e mi sono stati preziosi per formare la mia
spiritualità e, innanzi tutto, per capire il clima di quel Concilio.
Nel quarto volume dell’opera citata,
intitolato La Chiesa e il mondo, ho
trovato questa citazione, da un discorso che mons.Bartoletti tenne nel gennaio 1962 (nella fase
preparatoria del Concilio) al Movimento
Laureati Cattolici, che oggi si chiama MEIC-
Movimento ecclesiale di impegno culturale:
“E giacché il primo incontro della Chiesa col
mondo avviene in noi, che già siamo in lei, e pur portiamo la cultura, e
istanze, le incertezze del mondo, si tratta di offrirci alla Chiesa in
consapevole disponibilità, perché inizi o rinnovi in noi il suo compito di
penetrazione e di santificazione”.
Per
intendere la portata anticipatrice di queste considerazioni, bisogna figurarsi
la Chiesa come era a quell’epoca. Era un’organizzazione che vedeva in prima
fila il Papa e i vescovi, la gerarchia, poi i
loro collaboratori, i preti, e poi, come quasi come truppe scelte, gli
istituti religiosi, frati, monaci, suore e monache. Tutte le altre persone, gli
altri fedeli, erano oggetto di una normazione di carattere giuridico e morale:
si diceva loro che cosa dovevano fare e si pretendeva che lo facessero. Al più
si ammettevano libertà di dettaglio, per tradurre meglio nella società quello
che si era deciso in alto. Naturalmente c’erano eccezioni. Proprio nel Movimento Laureati Cattolici, che
all’epoca era una delle organizzazioni professionali
dell’Azione Cattolica, ci sforzava di
formarsi meglio, di approfondire le questioni, di dare un contributo più ampio.
Questo in particolare dopo che il cattolici, nell’Europa ricostruita dopo al
disfatta del nazismo tedesco e dei vari fascismi suoi alleati, avevano avuto
tanta parte nelle riconfigurazione delle istituzioni pubbliche e dei principi.
Le attese (e i timori) maggiori erano per
quello che saremmo diventati noi
laici, dopo tanti secoli di posizione subordinata nelle cose religiose, anche
se riguardavano poi le cose del mondo,
di ciò che si muoveva fuori dello spazio liturgico.
Nel corso degli anni ’50, sulla scorta di
riflessioni avviate già nei precedenti anni ’30 in Francia, si pensava che
l’efficacia dell’azione della Chiesa nella storia sarebbe stata in futuro molto
più condizionata dall’atteggiamento dei laici.
Da alcuni si temeva una deriva protestante dei cattolici, ma, in realtà, movimenti analoghi
si erano prodotti anche in alcune Chiese non cattoliche. Ad esempio nel
movimento promosso negli Stati Uniti d’America da Martin Luther King, pastore della
Chiesa Battista.
Certe storiche divisioni tra cristiani erano
state spesso già superate nella pratica. E in molte cose il Concilio Vaticano
2° più che essere un aggiornamento a ciò che si muoveva nel mondo, fu semplicemente un aggiornamento
a ciò che si era già prodotto nella Chiesa cattolica.
Bisogna dire che, dopo un inizio piuttosto
effervescente e promettente, qualcosa venne meno nello slancio sulla strada
indicata dal Concilio Vaticano 2°, i cui deliberati, più che bisognosi di
essere attuati chiamavano ad essere sviluppati. Ci furono resistenza da
varie parti, ci furono insufficienze in molti, in particolare nei laici.
Talvolta si assistette, nelle sperimentazioni che vennero promosse, a una clericalizzazione dei laici e a una laicizzazione dei preti e dei religiosi.
Questi ultimi entrarono in crisi, non riuscendo più a inquadrare bene il senso
del loro ruolo nella Chiesa, mentre i laici, spesso anche per remore clericali,
stentarono a conquistare il campo loro proprio, di ordinare secondo i principi
religiosi le cose del mondo, in cui erano immersi, di cui erano coautori e
partecipi.
Ci furono aspre controversie negli ambienti
laicali più impegnati, delle quali oggi solo i più anziani serbano lo
spiacevole ricordo. Non merita nemmeno di perderci ancora tempo su, visto che
ai tempi nostri sono divenute insignificanti. Ma certamente, specialmente nella
realtà italiana, i laici si sono formati
a due scuole con obiettivi
divergenti, per cui, quando in parrocchia ci si trova insieme e si cerca un accordo
sulle cose da fare e specialmente su come manifestarsi all’esterno, la
differenza di impostazione si sente. In realtà oggi si pensa di solito che
occorra agire dall’interno della società in cui si vive, come lievito, che fa
crescere l’impasto ma non è più riconoscibile nel prodotto finale, e nello
stesso tempo anche rendersi presenti come gruppi sociali organizzati. Sempre
più spesso assistiamo a vaste convergenze tra gruppi che in passato si
guardavano piuttosto in cagnesco.
Una parte del lavoro che dobbiamo fare in
Azione Cattolica, per la nostra vocazione specifica, è di fare unità, di
promuovere l’amicizia e la comprensione tra chi vive la fede nei tanti modi in
cui lo si può legittimamente fare, senza che ci si scambi arbitrariamente
scomuniche o simili.
L’altra parte di quel lavoro è di capire
meglio le società in cui viviamo e in cui democraticamente abbiamo diritto di
parola e di scelta, senza scegliere la via della separazione settaria, nel
presupposto che tutto il male sia fuori della nostra Chiesa e che il mondo in
cui viviamo sia la città del diavolo
destinata alla perdizione.
C’è infine un ultimo lavoro che occorre fare,
e che è la parte forse più dolorosa del nostro impegno, che è quello della purificazione della memoria, del
riconoscimento franco e veritiero del male che, come Chiesa vivente sulla Terra, è stato storicamente fatto, per
sterilizzare i conati reazionari che vorrebbero riproporre infelicemente ciò
dal quale solo di recente, in particolare sotto la guida del Papa Giovanni Paolo
2°, ci siamo distaccati. Non illudiamoci che sia un compito facile. Né che
l’arrendevolezza ai voleri altrui, spacciata per ubbidienza gerarchica, sia la
via più virtuosa. In questo si dovrà praticare la virtù della fortezza, della
fermezza sui principi acquisiti. E questo sforzo è tanto più difficile perché
sono stati veramente tanti i secoli bui dai quali velocemente, nella seconda
metà del Novecento ci siamo distaccati come confessione religiosa. L’Azione
Cattolica ha fatto parte storicamente del movimento laicale che ha spinto
per questo risultato, trovando udienza nei capi religiosi. Ricordiamo che le
radici del Concilio Vaticano 2° affondano addirittura nei moti religiosi
dell’Ottocento.
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47
Cattolicesimo forza di progresso?
(29
novembre 2012)
Dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa, del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), n.36
I fedeli perciò devono riconoscere la
natura profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla
lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una
vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo si
impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine
nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di
primo piano. Con la loro competenza quindi nelle discipline profane e
con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo,
portino efficacemente l'opera loro, affinché i beni creati, secondo i fini del Creatore e la luce del suo Verbo,
siano fatti progredire dal lavoro umano,
dalla tecnica e dalla cultura civile per l'utilità di tutti gli uomini senza
eccezione, e siano tra loro più convenientemente distribuiti e, secondo la loro
natura, portino al progresso universale nella libertà umana e cristiana.
Così Cristo per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera
società umana con la sua luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando
le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che
provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della
giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così
agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova
meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte
della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l'annunzio della pace
entri nel mondo.
Ai tempi nostri probabilmente la definizione
del cattolicesimo come forza di progresso non troverebbe un generale consenso.
Eppure è proprio questo, in fondo, il fine che durante il Concilio Vaticano 2°
si pensò di assegnare all’azione dei laici nelle società in cui vivono e operano.
Ne è un esempio il brano della Costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: Luce per le genti) che ho sopra trascritto. Possiamo considerarlo
una novità in un documento della gerarchia ecclesiale, tenendo conto delle
precedenti millenarie prese di posizione in merito.
Come ho osservato in altri miei interventi,
non è facile, leggendo le deliberazioni del Concilio Vaticano 2°, individuare
quelle parti che contengono sviluppi innovativi. Questo accade in particolare
in un documento di particolare rilevanza, normativo, come la Costituzione
dogmatica citata, che riguarda la Chiesa. Ad uno sguardo superficiale tutti i
temi che solitamente si facevano rientrare in questo argomento sono esposti
nell’ordine consueto. Infatti troviamo le parti che spiegano di dove, da chi e
come la Chiesa originò, la ripartizione dei compiti in esso, da chi e come l’autorità in essa venga esercitata, il
carattere sacro di alcune funzioni, come quelle del papa, dei vescovi e dei preti,
le caratteristiche dell’impegno dello stato religioso, la posizione degli altri
fedeli, la missione della Chiesa nella società del suo tempo, vale a dire in
quello che nel gergo teologico viene definito il mondo o anche il mondo
profano.
Eppure le novità ci sono, anche se esse non
vengono mai presentate come idee che si contrappongono alla precedente
tradizione, in particolare a quella che
riguarda i principi fondamentali, ma, al limite, come scoperta, o riscoperta,
di potenzialità di bene che storicamente erano state poco capite o praticate. E
ciò anche quando, sostanzialmente, si viene a ripudiare qualcosa di male che si
riconosce esserci stato nel passato.
E’ solo con il Grande Giubileo dell’anno 2000,
indetto e guidato dal papa Giovanni Paolo 2°, che si giunge a richiedere a tutti, come esercizio specificamente
religioso, un lavoro particolare per raggiungere una memoria storica veritiera
sull’azione della Chiesa del mondo e il ripudio,
vale a dire l’impegno a non riproporli in futuro, di certi modi di essere, di
organizzarsi, di entrare in relazione con le altre persone, individualmente
considerate o nei gruppi in cui sono inserite vitalmente.
Le conseguenze sono state molto rilevanti,
perché i principi normativi del Concilio Vaticano 2° sono stati fecondi e hanno
ispirato molteplici sviluppi, che, in larga parte, corrispondevano a modi di
vivere la religiosità che si erano già affermati, più o meno largamente, tra i
fedeli e che attendevano solo di essere riconosciuti in un documento normativo
della gerarchia. Questo in particolare ha riguardato i compiti dei laici
cattolici, anche se su questo tema in genere c’è ancora insufficiente
consapevolezza e ciò per vari motivi.
Il primo è di ordine culturale: mentre per i
sacerdoti e i religiosi è previsto e obbligatorio un processo di formazione
continua, questo non è previsto per i laici, dopo il periodo dell’iniziazione
ai Sacramenti nell’infanzia e nell’adolescenza, che di solito termina con la
Cresima, se non ancora prima, con la Prima Comunione.
Il secondo motivo è di ordine organizzativo: poiché nella
Chiesa cattolica i principi morali e di organizzazione e le linee guida delle
varie attività vengono formulati da appartenenti all’Ordine Sacro, quindi dal
clero, è ovvio che abbiano avuto il massimo risalto le questioni che riguardavano
questa parte qualificata dei fedeli, innanzi tutto per mantenere un loro ruolo
preminente in ogni settore e poi per conservare l’integrità della struttura
gerarchica del clero, centrata su centri di potere sostanzialmente monarchici,
con temperamenti di collegialità a vari livelli. Lo scopo è di rendere coerenti
su scala mondiale gli insegnamenti
religiosi, le liturgie e l’organizzazione ecclesiale, in modo, in particolare,
che la Chiesa appaia parlare con una sola voce, diventando manifestazione
dell’unità dei fedeli, secondo il comandamento ricevuto evangelicamente.
Il terzo motivo è che spesso i laici sono
appagati da una religiosità meramente liturgica, e in particolare sacramentale,
della quale essi, sebbene coinvolti molto profondamente nella loro interiorità,
sono partecipi ma non protagonisti, in quanto in tale campo emerge e prevale la
missione del clero. Del resto, per millenni è solo questo che, in definitiva,
si è preteso dai laici, vale a dire da chi non era prete, vescovo, monaco o
monaco, frate o suora.
Le società civili, e le loro popolazioni,
erano lasciate al dominio di monarchi, con i quali la Chiesa, a diversi
livelli, tramite suoi plenipotenziari, e al massimo livello in persona dei
papi, entrava in relazione innanzi tutto per garantire spazi di libertà alla
propria organizzazione (clero e religiosi, con esenzioni e privilegi che
riguardavano le persone e i beni) e poi per assicurarsi il riconoscimento di un
potere spirituale sui sudditi dei monarchi civili, venendosi in tal modo a realizzare
una sorta di condominio sulle
posizioni assoggettate al trono e
all’altare. I due tipi di potere, quello civile e quello religioso,
venivano poi a sostenersi a vicenda, specialmente dove il monarca civile
riconosceva quella cattolica come unica
religione ammessa nel suo dominio e/o le autorità della Chiesa riconoscevano la
qualifica di cattolica a una dinastia
monarchica civile. Per queste relazioni politiche
tra autorità civili e religiose, la critica sociale su base religiosa, di cui
si trovano tanti esempi nell’Antico Testamento e che quindi aveva una salda
base biblica, era in genere scoraggiata dalle autorità religiose, perché
avrebbe messo in crisi quegli accordi, a volte semplici armistizi piuttosto
precari, raggiunti con le autorità civili. Ad esempio nel documento normativo
denominato Sillabo (=elenco),
allegato all’enciclica Quanta Cura (1864)
del papa Pio 9°, con l’indicazione di quelli che la dottrina cattolica riteneva
essere i principali errori del tempo, si dichiarava erronea l’idea che fosse
logico negare obbedienza e anzi
ribellarsi ai prìncipi legittimi.
L’esperienza delle due guerre “mondiali”
combattute nel Novecento manifestò l’insufficienza dei princìpi che erano stati
seguiti per millenni nelle relazioni con i capi
delle nazioni, secondo l’espressione utilizzata dal papa Benedetto 15°, nel
1917, nel chiedere di fermare l’inutile
strage in cui si era risolta la Prima Guerra mondiale.
Il primo di quei due conflitti bellici
catastrofici era stato iniziato da monarchi cristiani
e combattuto fra popoli di antica civiltà cristiana. Il secondo era stato
scatenato da despoti rivoluzionari che si erano avvalsi in modo nuovo dei
popoli assoggettati, non più come storici sudditi di una dinastia, ma come
espressioni di una nuova condizione umana di dominatori, in virtù della quale
avevano il diritto, come sorta di stirpi elette, di predare e soggiogare il
mondo. Qualcosa di simile aveva travolto la dinastia imperiale cristiana russa,
portando all’ordine sovietico, in cui la religione era considerata una
impostura di classe per tenere soggiogata la parte subalterna delle
popolazioni. Risolutiva, in entrambe le guerre mondiali, era stata l’azione
della democrazia statunitense, la quale aveva fondamenti religiosi espliciti ma
che, nello stesso tempo, era struttura con un’organizzazione politica
pluralista. Ad essa, nel pensare l’Europa che sarebbe sorte dopo la fine dei
totalitarismi guerrafondai nazisti e fascisti, si cominciò a guardare come
esempio di coesistenza pacifica di popoli con diverse tradizioni etniche,
culturali, linguistiche, religiose. E’ questo il momento il cui, anche sulla
scorta di antecedenti storici risalenti all’Ottocento, comincia a prodursi
nella Chiesa cattolica quel movimento che ebbe piena manifestazione molto più tardi,
negli anni Sessanta, in particolare con il Concilio Vaticano 2°.
In Francia e in Italia ci si stava ragionando
fin dagli anni ’30, sullo spunto del pensiero dei filosofi Jacques Maritain ed
Emmanuel Mounier.
Maritain intervenne nel Concilio Vaticano 2°
quale rappresentante degli intellettuali e in tale veste ricevette uno
specifico messaggio del Papa.
L’idea era che la sfida lanciata dai regimi
popolari totalitari, quello nazista tedesco, i diversi fascismi europei e il
regime comunista sovietico, non poteva essere vita con i metodi e i principi
del passato, quindi con la riproposizione della restaurazione di una civiltà
cristiana europea retta da un condominio di dinastie civili e di monarchi
religiosi, ma che occorresse coinvolgere più profondamente, non solo
chiamandole all’ubbidienza, le masse dei popoli europei, rendendole
protagoniste della costruzioni di civiltà, intese innanzi tutto come
istituzioni politiche, economiche e sociali, che non configgessero con gli
ideali di sempre della cristianità.
Una prima pronuncia in questo senso della
gerarchia cattolica al massimo livello si trova nel radiomessaggio natalizio
del 1944 del papa Pio 12°, che ho più volte citato, in cui ci si chiede se gli
sconvolgenti avvenimenti dei decenni passati avrebbero potuto essere evitati se
i popoli europei avessero avuto più voce in regimi democratici.
Questa lunga premessa è stata necessaria per
comprendere il senso del brano della costituzione Lumen Gentium che ho trascritto all’inizio. Ci ritornerò sopra in
altri interventi. Vorrei però che chi legge lo facesse interiormente proprio,
direi quasi mandando lo a memoria.
La prima caratteristica di questa che è
giuridicamente una legge fondamentale della nostra Chiesa, parte di un
documento normativo molto importante, è che non
pone divieti e non indica nemmeno
precisi obblighi di fare, come, ad esempio, nel Decaloco, quando si
prescrive di non rubare (obbligo
negativo – di non fare) o di
santificare le feste (obbligo positivo – di fare).
Il discorso che viene sviluppato in quel brano
è in sostanza un appello, una chamata
ad un lavoro, rivolto in primo luogo ai laici,
a coloro che quindi non fanno parte del clero o dei religiosi (frati e suore,
monaci e monache).
Si riconosce ai laici una competenza, vale a dire un insieme di conoscenze e di saper fare,
nelle discipline profane, che sono
tutte quelle che non sono comprese nella teologia, in cui sono formati il clero
e i religiosi. Li si chiama ad essere, come persone singole ma ance
associandosi, forze di progresso a beneficio non solo della Chiesa cattolica,
ma di tutti gli esseri mani senza eccezione.
Ecco in che cosa consiste l’auspicato
progresso: a)nel far progredire i beni creati mediante il lavoro umano, la
tecnica e la cultura civile; n) nella giustizia distributiva, perché i beni
creati aumentati e migliorati dall’azione umana, siano più convenientemente
distribuiti perché aia fonte di libertà
umana e cristiana per tutti. L’obiettivo finale è risanare le istituzioni e le condizioni del mondo, perché siano rese
conformi alle norme di giustizia e in
tal modo favoriscano, anziché ostacolare, l’esercizio delle virtù e, in
particolare, quelle predicate nell’evangelizzazione dei popoli.
In sostanza l’appello è per operare per un progresso tecnologico,
culturale, civile e sociale, se del caso cambiando anche le istituzioni, perché
a tutti gli esseri umani sia aperta la via delle virtù nella libertà.
Questa è definita come opera di illuminazione
dell’intera società umana e l’utilizzo di questa espressione è analogo a quello
che ne fecero gli illuministi nel
Settecento. Solo che nella prospettiva cattolica non si vede contraddizione tra
la luce portata dalla ragione e la luce portata da Cristo.
Se volessimo individuare dal brano citato
della Lumen Gentium delle parole
d’ordine, potremmo individuarle in queste: progresso,
libertà, giustizia sociale, unità per risanare il mondo comprese le sue
istituzioni sociali, virtù, illuminazione religiosa. Esse non sono rivolte dalla gerarchia
cattolica (solo) ai capi delle nazioni,
ma in primo luogo a tutti i fedeli laici. E’, a mia conoscenza la
prima volta che accadde nella storia della Chiesa in un documento normativo
della gerarchia. Vi invito a verificare la correttezza di questa mia
osservazione.
Certamente nel passato nella dottrina del
magistero di era fatta questione del buon
governo, ama gli insegnamenti era rivolti essenzialmente ai capi delle nazioni e, a partire
dall’enciclica Rerum Novarum di Leone
13° (1891), alle parti sociali, imprenditori e lavoratori, invitate a trovare
una composizione dei reciproci interessi essenzialmente nello spirito di non
sfruttare le classi lavoratrici a tal punto dallo spingerle alla rivolta. La giustizia sociale, come la intende ai
nostri giorni a partire da movimenti politici che si diffusero nell’Ottocento,
era estranea a questa prospettiva.
Bisogna precisare che in questo la Chiesa
cattolica, scrivendo sue norme fondamentali, non intese, all’improvviso,
aggiornarsi a come andava il mondo, corrispondendo in tal modo alle attese di molta
gente. Non è di questo aggiornamento che si è trattato. In realtà la Chiesa
cattolica, nella sua dottrina teologica e nella sua normazione, si aggiornò a
come essa era già diventata nel corso
dell’Ottocento e del Novecento, soprattutto nell’impegno alla costruzione
della nuova Europa dopo la catastrofe bellica degli anni ’40. Già i cattolici
si stavano infatti da tempo impegnando nel senso auspicato dalla Lumen Gentium, trovando però difficoltà
nella normazione e nella teologia ufficiale della loro Chiesa. In qualche modo,
in questo campo, i deliberati conciliari
vennero semplicemente a ratificare e a
sistemare teologicamente, creando una continuità dogmatica tra il passato e
il presente, ciò che già i laici erano
diventati e stavano facendo.
E infatti questo che fu effettivamente un
significativo cambio di rotta nel magistero gerarchico no fu effettivamente
avvertito come una novità, mentre fecero molta più impressione le riforme che,
dopo il Concilio Vaticano 2° e sulla base dei suoi deliberati, vennero attuate
nella liturgia della Messa: in questo campo infatti fu effettivamente
introdotto un rito diverso, pur se articolato nelle parti tradizionali, e,
soprattutto, iniziarono ad essere usate le varie lingue nazionali dei popoli
cristiani, in luogo del solo latino liturgico.
Concludo questo intervento scrivendo che il
difficile per noi laici non è tanto il capire gli appelli che ci sono venuti
dal Concilio Vaticano 2°, ma, esercitando collettivamente le competenze che si
sono proprie, ciascuno ragguagliando gli altri sulle proprie specifiche e
acquisendo dagli altri notizie sulle loro (nessuno infatti nel mondo di oggi è
capace di interloquire validamente su tutto), capire il mondo in cui viviamo per individuare come farlo progredire
verso una migliore giustizia sociale, per rimuovere gli ostacoli all’esercizio
delle virtù e, innanzi tutto, quello che è costituito dalla mancanza di
libertà, determinata dall’ignoranza e dal bisogno.
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48
Fede religiosa, forza di progresso
(4
gennaio 2013)
L’angelo è … il messaggero che, secondo le
immagini bibliche, collegando il cielo alla terra, annuncia a un essere umano
che la Parola divina che l’ha creato vive ancora nel suo intimo più profondo,
anche nel momento della sua disperazione. L’esteriorità è dunque necessaria a questa speranza, essa
aiuta a combattere il destino, a imporsi su di esso e a crescere. Per coloro i
quali non percepiscono angeli nella loro
esistenza quotidiana così spesso tormentata, questa esteriorità – dice il Rabbi
di Gur – proviene dalle parole della Torà. Sono esse che hanno la forza
stupefacente di rinnovare il desiderio di vita in ognuno. Questa esteriorità
talvolta prende anche la forma della voce di un’altra persona, che, proponendo
parole di vita a colui o a colei che si trova imprigionato nel labirinto delle
sue sofferenze e del suo male, non sa più trovarle. Ma in ambedue i casi, e del
resto uno non esclude l’altro, è necessario affinché quella persona le intenda
e colga il filo di chiarore che gli viene teso –attraverso parole udite da una
voce che non è la sua – che quella persona resti attenta a ciò che quelle
parole vengono a toccare in lei: quel punto di speranza non domato, quella
certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura, che la vita può
ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e la tenacia degli
scacchi subiti.
[da
Caterine Chalier, Angeli e uomini,
Giuntina, 2009, pag.62]
Ai tempi nostri, e anche nell’insegnamento
catechistico, si è piuttosto cauti nel proporre una visione religiosa della
vita, pensando che poi possa risolversi, nell’interpretazione personale, in
qualche tipo di stranezza per cui mediante certe pratiche liturgiche o ad esse
somiglianti, o comunque mediante una
disciplina personale, si confidi di poter cambiare, quasi magicamente, la
realtà intorno a sé. Si preferisce parlare della santità personale come
risultato del confidare nella Parola di Dio, la quale però, nelle situazioni
concrete che si presentano, non è facile da individuare e allora poi si finisce
per consigliare di fidarsi dell’interpretazione che ne dà la Chiesa in persona
del clero o addirittura dei capi della comunità a cui si è più legati. Ecco
quindi che una parte di quelli che sono stati raggiunti dal messaggio religioso
si allontanano dalla comunità in cui l’hanno ascoltato, cercando l’autonomia e
la libertà di pratica e giudizio. Questo pregiudica l’efficacia propria
dell’azione laicale, che ha bisogno di gente per essere attuata, essendo anche
un lavoro collettivo, ma anche della possibilità di sviluppare in concreto
concezioni particolari, adatte ai vari problemi che si affrontano, facendo
quindi reagire in modo originale e autonomo fede religiosa e vita concreta,
senza però aspettative eccessive quanto a felicità qui su questa terra.
Sarebbe bello poter dire che se si ha fede si
è felici, in qualsiasi situazione ci si trovi, ma non è vero che questo accada
sempre. Anzi, per ciò che mi è stato dato di sperimentare accade piuttosto di
rado e non penso nemmeno che ci si debba sentire in colpa per questo, perché
non si è felici pur essendo parte di una collettività religiosa e avendo in
misura maggiore o minore una fede religiosa. E’ vero che invece i cambiamenti in meglio della vita delle
persone possono dipendere da azioni, individuali e collettive, a fondamento
religioso, nel senso di motivate non sulla base di come vanno di solito le
cose, quindi su un realismo materialista, ma su considerazioni paradossali,
fondate su come vorremmo che fosse il mondo, quindi su un’esigenza interiore
che ci fa essere diversi perché collegata all’idea di essere creature, non un accidente della natura,
quindi esseri dotati di una speciale dignità. E’ qualcosa che, come scritto nel
brano che ho sopra riportato, giace e opera nel nostro intimo più profondo ed è
a volte suscitato, riportato alla superficie della coscienza, dall’esterno:
qualcuno la descrive come esperienza angelica, per altri è il contatto con le
scritture sacre, per altri ancora si tratta della voce di un’altra persona o di
un’altra situazione in cui ci si trova. E’ allora che si risveglia in noi “quel punto di speranza non domato, quella
certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura, che la vita può
ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e la tenacia degli
scacchi subiti.” E che si comincia a costruire un mondo nuovo, in cui le
tante cose dolorose della realtà che viviamo e che pure è appunto la realtà siano superate e migliorate. Ad
esempio una società basata sul principio di uguaglianza intesa come pari
dignità, una cosa che in natura
semplicemente non c’è, come ricordavano gli schiavisti contro le obiezioni
degli abolizionisti. Tra gli esseri umani c’è stato sempre chi ha sfruttato e
chi è stato sfruttato, osservavano. Eppure questa realtà umana storica dello schiavismo è stata contrastata sulla
base di motivazioni in fondo religiose, quindi paradossali, almeno fin dal
Cinquecento, e dal Settecento con particolare efficacia, e ha portato
l’abolizionismo a prevalere a livello globale. E ciò anche se nella Bibbia,
composta di scritti composti in tempio piuttosto antichi, in cui lo schiavismo
era realtà giuridica accettata non c’è una parola esplicita contro di esso,
dico un appello alla rivolta contro
di esso. Eppure il movimento contro lo schiavismo, specialmente nell’Ottocento,
ebbe anche motivazioni religiose cristiane (pur avendone avute anche di
analoghe le pratiche schiavistiche degli Europei contro gli africani e i nativi
americani).
A una persona più giovane di me che ha
lasciato le consuetudini di fede respinta dal fideismo irriflessivo che le era
stato proposto, non attesterei mai che recuperando la fede sarà felice su
questa Terra, ma certamente le farei notare che su basi religiose, dunque di
ribellione contro le cose come normalmente vanno, in particolare in natura,
potrebbe capitarle di collaborare a cambiare in meglio il mondo, in particolare
nello sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo nel pensiero e nella pratica.
La nostra fede non ci impone di rassegnarci ad accettare le cose come vanno e a
ritenerle volontà di Dio, anche se si trattasse, ad esempio, di una malattia
grave o di un altro accidente “naturale”. L’altro giorno sono stato in visita
ad un centro oncologico e alle persone che ho incontrato in sala d’attesa davanti
agli ambulatori non avrei mai fatto questo discorso. Né avrei promesso che,
seguendo certi riti, Dio le avrebbe salvate. O che, comunque, anche nella
prospettiva della morte avrebbero trovato la beatitudine, la felicità. La mia
infatti non è una fede consolatoria o
di rassegnazione, ma di ribellione,
di rivolta, a partire da una realtà
affrontata senza facili illusioni. E’ vero tuttavia che, in una prospettiva
religiosa, in particolare cristiana, si può dare un senso a ciò che ci accade e
quindi si può essere portati ad agire di conseguenza: questo rafforza il
sentimento della propria dignità di fronte a una realtà sociale o naturale che
invece porta a deprimerla. Fa bene e porta a fare il bene. Non mi sentirei di
dire che accada sempre e non ne
faccio una colpa a quelli ai quali non accade. Per un malato grave, ad esempio,
la fede può essere solo un problema in più da affrontare e talvolta il problema
della teodicea, di giustificare
l’operato di Dio nel mondo, quindi il mondo come risultato di creazione, può superare effettivamente
le nostre forze. Ma di solito nella sofferenza è ancora possibile, come scrive
la Chalier, percepire un filo di chiarore,
e ciò sovente deriva da un’esperienza francamente religiosa, di voce o
situazione che risveglia una convinzione paradossale, che riguarda “parole di vita a colui o a colei che si
trova imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa
più trovarle”.
Il primo dovere religioso del laico è quello
di capire realisticamente ciò che sta
succedendo, per lui la fede non è quindi un fattore anestetizzante, e poi di agire per realizzare un mondo diverso (ordinare le cose temporali secondo Dio,
nel gergo teologico). In particolare è questo appello, non di rassegnazione,
che viene ai laici, e a tutti gli esseri umani di retta volontà, dal Concilio
Vaticano 2° e dai documenti del
magistero che si sono proposti di svilupparne i deliberati.
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49
Noi, la
Chiesa e la società nella crisi
(7
gennaio 2013)
Il duro
inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di sacrificio per
i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi, per le famiglie
con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa provvidenzialità di
questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la sollecitazione a rinnovate
opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero rapporto della Chiesa con
la società italiana e col mondo che viene in primo piano. E non più solo o
tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del sistema sociale e
politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma soprattutto per la sfida
che la crisi economica, istituzionale e culturale pone al presente e al
prossimo futuro nella società e civiltà italiana.
Il
nostro paese è in incombente pericolo di precipitare in un nuovo periodo di
decadenza, secondo una triste regolarità della nostra storia. C’è già chi si
rassegna. Ed è forse proprio contro la inclinazione anche di molti cattolici
alla rassegnazione che questo convegno acquista ora la sua drammatica
attualità.
Tra le
non molte interpretazioni complessive della situazione attuale della società
italiana, che ho trovato tra i documenti di risposta pervenuti dalle diocesi,
da singole comunità e gruppi di lavoro di Chiese locali [nella fase preparatoria – nota mia], da associazioni nazionali cattoliche e da
qualche comunità cosiddetta di base – la rassegnazione non trova però spazio.
Il
senso di gran lunga prevalente delle risposte sul tema generale del rapporto
fra la Chiesa e la società italiana, è che occorre accrescere il mutuo aiuto
tra Chiesa e mondo nello spirito della “Gaudium et spes”. E proprio la ricerca,
da parte della cattolicità italiana, di vie e modi e obiettivi specifici, per
una congiunta e non contraddittoria azione, di annuncio del Vangelo e di
impegno per la giustizia e per la partecipazione alla trasformazione del mondo,
configura lo specifico apporto della Chiesa alla società profana.
[Dall’intervento
del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al convegno ecclesiale
“Evangelizzazione e promozione
umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976 – in Evangelizzazione e promozione umana – atti
del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice A.V.E,
1976]
Le parole che ho sopra trascritto sembrano
scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema della nostra Chiesa
che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in relazione con il
mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a trentasei anni fa. Che significa questo? Significa che un lavoro
che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto e che ora può essere
ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte nuovamente favorevoli, in
particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo nell’enciclica Caritas in veritate del papa Benedetto
16°.
Che cosa è la nostra Chiesa? Non parlo
naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue finalità sotto il
profilo teologico, della fede comune
professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di vista sociale, delle
relazioni come collettività con il mondo in cui è storicamente inserita. Questo
è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire la società arricchendola con i principi
evangelici che riguardano la vita comune.
Non vi aspettate che vi dia qui delle
risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse nelle nostre riunioni
infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito prendessero parte anche
coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla vita della parrocchia e
anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa come è ora e lo dicono
francamente, ma tuttavia nella loro interiorità apprezzano ancora, al di là di
quelle critiche anche dure, un discorso religioso.
Siamo, ad esempio, una ditta per la propaganda del
sacro? Siamo una federazione di collettività che in senso molto lato
condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che fanno vita
separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui? Siamo una
federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che vuole dare
una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla contro le
critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire un’organizzazione che ha come scopo
principale sostenere l’azione del Papa nel mondo di oggi e in particolare in
Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo di avere la ricetta giusta per
cambiare il mondo rovesciando i principi perversi su cui esso si fonda? Siamo
gruppi di oranti che pensano di ottenere il cambiamento del mondo con la
preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i vescovi e il Papa per noi? In
che cosa i preti si differenziano dagli assistenti sociali, dagli psicologi,
dagli psichiatri e dagli insegnanti delle scuole? Quale autorità riconosciamo
loro, di fatto?
In questo Anno
della fede queste domande mi sembrano importanti. Possiamo aspettarci che
la risposta ci venga dall’azione catechistica svolta nella Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa siamo o come dovremmo essere? O dovremmo, come
punto di partenza, riconoscere francamente come
abbiamo voluto essere finora e capire se questo modo di essere è sufficiente in relazione ai principi che
proclamiamo e che, come non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di
sé e ancora informano di sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?
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50
Un
processo continuo di liberazione
(8
gennaio 2013)
Se c’è, come non può non esserci nel mondo un
processo continuo di liberazione, la Chiesa, il cristiano con la Chiesa e per
la Chiesa, deve essere presente in questo processo di liberazione. In che modo?
Con la triplice azione sacramentale che è propria della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la parola.
Nel processo di liberazione e di promozione
umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano deve essere innanzi tutto
presente con la parola di Dio.
[…]
Con la vita.
La Chiesa. … e il cristiano nella Chiesa non
può accontentarsi di parlare di
liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo
stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno,
deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti che la Chiesa deve portare nel mondo la
liberazione totale e integrale operata da Cristo.
[ da La
Chiesa sacramento di Cristo e segno e strumento di liberazione, relazione
tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo Enrico Bartoletti – all’epoca segretario
generale della CEI, in Enrico Bartoletti,
La Chiesa nel mondo – a cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].
Lo
scritto che ho sopra riportato rende bene il clima degli anni immediatamente
dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa cattolica, a lungo considerata
essenzialmente una forza di contenimento
sociale e personale, se non una organizzazione francamente reazionaria,
veniva concepita in modo nuovo, nel senso che come fedeli ci si assegnava compiti
nuovi, religiosamente motivati, in un mondo in cui era generale l’ansia di
elevazione di popolazioni o strati di popolazioni fino ad allora considerati
fatalmente destinati alla sofferenza e alla minorità.
Bisogna
dire che di certi temi in Italia si parlava accostandoli piuttosto da lontano,
ad esempio di quello dell’elevazione e liberazione delle popolazioni del
cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia. Ai tempi nostri, in cui strati di
popoli africani e asiatici sono migrati dalle nostre parti, i problemi si sono
fatti più concreti.
E’
necessario anche aggiungere che il disegno conciliare prevedeva un ruolo molto
più attivo dei fedeli laici in questi nuovi compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana,
dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro di preparazione di questa
parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune sue porzioni
particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto il
pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello di presenza dei fedeli laici nella società in cui
vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80,
nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
Oggi,
se consideriamo chi siamo, noi
cattolici, visti nel nostro complesso e parlando francamente, dobbiamo
considerarci prevalentemente una forza di
liberazione e promozione umana, o una forza
di contenimento, o ancora una
forza di reazione, gente che quindi
vuole tornare ai tempi di prima?