Ripubblico
Appunti di lettura sull’esortazione apostolica Evangelii gaudium - La gioia del Vangelo, diffusa nel 2013 da papa Francesco
[testo del documento sul WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium.html
1. La buona notizia: vale ancora la pena di vivere
La fede è gioia e riempie il cuore, scrive il nostro
vescovo. Questo corrisponde anche alla mia personale esperienza in religione.
Spiegare agli altri in che cosa consista il fondamento di questa gioia, da dove
essa scaturisca, non è però facile. Ci insegnano a fare innanzi tutto
riferimento all'antico nostro Maestro, al Nazareno. Egli ci ha tanto amato da
dare la vita per noi. Lo ha fatto nonostante la nostra innata tendenza al male,
che si è manifestata da sempre in tutte le società umane che si sono succedute
da quando si ha memoria di una storia e probabilmente anche in quelle che ci
sono state prima, e nonostante il male che l'umanità ha fatto e di cui
ciascuno, in spirito di verità, onestamente, deve riconoscersi responsabile.
Egli fu un essere umano, nella Palestina di circa due
millenni addietro, ma noi lo riconosciamo anche come fondamento di tutto ciò
che esiste, ieri, oggi, sempre, quindi
diciamo anche, in senso religioso, che egli
è. "Per mezzo di lui tutte le
cose sono state create", recitiamo nel Credo, nella Messa di ogni
domenica. Quindi vediamo in lui anche una manifestazione del soprannaturale, di
una realtà che, al di là di ciò che si
vede, si sente, si tocca qui nel mondo che ci circonda, sorregge tutto ciò che esiste,
l'universo e noi in esso. Ma non pensiamo che sia qualcuno come un angelo, come
lo si concepisce nella nostra fede, o un fantasma. Siamo fermamente convinti,
nella nostra fede, che tutto abbia un senso, che si vada verso una precisa
direzione, noi e la natura intorno a noi, e che esso si quello di muoverci,
nella nostra storia personale e in quella collettiva, verso colui che ha fatto
tutto ciò che esiste, prima che i tempi iniziassero, e che ha un nome, non è un impersonale meccanismo della natura come tanti che osserviamo e studiamo,
cercando ci capirli, intorno a noi.
Quel nome è appunto quello del nostro
antico Maestro, che nell'ebraico antico
significa azione di salvezza e
riteniamo santo, nel senso che è
manifestazione di benevolenza infinita e, quindi, di un fondamento e di un compimento beato della nostra vita,
personale e collettiva. Avverto che qui ho trattato, non usando il teologhese, di principi fondamentali
della fede: è esperienza comune quella di dover sempre migliorare nella loro comprensione e quindi di doversi sempre
confrontare, quando se ne parla, con chi ne sa di più e in particolare con chi
ha, come missione e responsabilità, il compito di spiegarli agli altri. Invito
quindi chi legge a verificare personalmente, nell'ascolto del nostro magistero
religioso, se ciò che ho scritto corrisponda effettivamente alla nostra fede
comune. Ero presente in piazza San Pietro, tanti anni fa, quando Karol Wojtyla,
affacciandosi dalla facciata della grande basilica dopo aver assunto la grande
missione di essere nostro padre
universale, si esortò con un "Correggetemi
se sbaglio!" : ho cercato sempre di imitarlo in questo e qui faccio
mia quell'esortazione.
Se, allora, la nostra esistenza si basa su
un fondamento santo, su una
benevolenza infinita che, al di là dell'imperfezione che vediamo bene
caratterizzare la nostra vita personale e collettiva, al di là dei nostri
limiti palesi, scende verso e su di noi e rimane salda anche quando sbagliamo, perché trasformarci in "persone risentite, scontente e senza
vita"?, scrive il nostro vescovo. E aggiunge: "Ci sono cristiani che sembrano avere uno
stile di Quaresima senza Pasqua". Vale a dire che non vivono,
rievocandola e rendendola presente nelle loro vita, l'esperienza della
liberazione dai limiti che ci affliggono, da tutto ciò che in varie forme e
manifestazioni ci lega alla morte, alla fine nostra e di tutti e di tutto, e
alla consapevolezza del male che c'è in noi e attorno a noi. Il dolore non è
l'ultima parola sull'esistenza umana, secondo la nostra fede. Il nostro vescovo
ci esorta dunque a ritornare a rinnovare
oggi stesso il suo incontro con colui che è il fondamento beato di tutto e la fonte della nostra gioia e che crediamo ci voglia salvare
perché ci vuole bene, o, almeno,
a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da lui, cercandolo ogni giorno senza sosta.
Devo dire che nella mia personale vita religiosa c'è
sempre stata veramente poca emotività. Sono sempre stato molto legato alla mia
concreta esperienza della realtà intorno a me, così come effettivamente mi si
presentava. Ho fede religiosa, ma non ho mai udito voci soprannaturali, non ho
fatto esperienza del soprannaturale in questo senso, non ho visto angeli né mai
mi sono figurato di averli visti. Del Nazareno ho sentito parlare e ho letto,
ma non l'ho mai incontrato così come incontro le persone che mi circondano. Ho
incontrato la memoria di lui, che mi è giunta, di generazione in generazione,
attraverso altre persone di fede. Ho creduto
non perché ho visto. L'esigenza di credere in lui è scaturita dalla mia
interiorità, nel confronto con il mondo così come l'ho sperimentato nella mia
vita. Penso di essere stato effettivamente predisposto, come essere umano, a
credere in lui: la mia fede è stata quindi il compimento di un'esigenza
interiore e di un'attesa. Ma capisco i problemi di chi, all'appello religioso a
incontrarlo, rispondono di non
riuscire a farlo perché non lo vedono e
non lo sentono. E anche di non capire come un essere che non si vede, non si sente e non si tocca
possa cambiare in meglio la vita di
coloro che vivono nel mondo che c'è, si vede, si sente e si tocca.
Dicono che ci perdona: e allora? Uno alla fine a perdonarsi ci arriva anche da solo,
perché che cosa sono le nostre colpe dinanzi alla pena che sicuramente ci
toccherà di scontare, la morte personale? Si tratta di obiezioni serie, da non
sottovalutare, tanto che le troviamo trattate anche nei nostri scritti sacri,
in particolare in quelli che abbiamo ricevuto dal giudaismo antico.
L'uomo si affatica e tribola per tutta un vita.
Ma che cosa ci guadagna?
Passa una generazione
e ne viene un'altra;
ma il mondo resta sempre lo stesso.
…
Ho
riflettuto anche su tutte le ingiustizia che si compiono in questo mondo. Gli
oppressi piangono e invocano aiuto, ma nessuno li consola, nessuno li libera
dalla violenza dei loro oppressori. Invidio quelli che sono morti. Essi stanno
meglio di noi che siamo ancora in vita. Anzi, più fortunati ancora quelli che
non sono mai nati, quelli che non hanno mai visto tutte le ingiustizie di
questo mondo.
[Qoelet 1, 3; 4,1]. Traduzione interconfessionale della Bibbia
in lingua corrente, Elle Di Ci -A.B.U., 1985]
Alcune persone, sentendosi rivolgere
quell'appello all'incontro personale
e non riuscendo a realizzarlo, possono pensare di essere come menomate o, addirittura, quando
quell'appello viene rivolto in certi modi perentori, addirittura cattive, o, comunque, di essere
considerate tali da parti di coloro da cui esso proviene. Poiché poi, pur
considerandosi con sincerità, concludono di non essere né menomate né cattive,
tendono a rifiutare in blocco la fede e chi gliela propone.
Non nascondo
che anch'io, pur ritenendomi una persona di fede, ho sempre avuto difficoltà
analoghe, quando mi hanno detto cose come "All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande
idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un
nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva"
(una frase di papa Ratzinger citata dal vescovo nel suo ultimo documento e
tratta dall'enciclica Deus caritas est [=Dio
è amore/agàpe/gioiosa benevolenza comunitaria come in un banchetto nuziale]).
Per me infatti la fede è scaturita certamente dall'incontro con delle persone, con la generazione di coloro
che me l'hanno trasmessa al modo di un contagio, prima con le loro vite che
con i loro discorsi, ma la scoperta della Persona, alla quale in
quella frase ci si riferisce, è venuta dopo
ed è stata coeva con esigenze etiche, che considero tuttora molto importanti, e
con molte grandi idee.
Per intendere bene il senso di quel modo di
esprimersi, che centra il sorgere della fede su un'incontro con la Persona, la figura divinizzata del primo
Maestro, del Nazareno, bisogna considerare che esso è manifestazione di una reazione a modi teologici di presentare
la nostra fede comune che davano molta importanza alle ragioni del credere, quindi alle giustificazioni razionali dell'atto di fede, e al conformarsi a prescrizioni etiche rituali, religiosamente condivise.
Di fronte all'obiezione, risultata fondata, che tutte le prove dell'esistenza della realtà soprannaturale creduta per fede
si sono dimostrate insufficienti e che l'inevitabile mutare dei costumi che porta a superare sempre ogni concezione
etica, di fronte quindi alla generale insufficienza di ogni sistemazione
puramente ideologica della fede, si
cerca di basare le motivazioni di fede su un rapporto personale con il fondamento beato, che precede ogni ragionamento e anche l'etica rituale. E' una via,
questa, che ha precisi agganci nelle scritture sacre e che è stata seguita
anche, per quello che ho letto, nell'ebraismo dei saggi del Talmud. E' stata
più volte riscoperta nella storia
della nostra collettività religiosa e, nei tempi più recenti, proprio nel
confronto con la saggezza dell'ebraismo contemporaneo della nostra confessione
religiosa. Essa, ad esempio, fu espressa nell'Ottocento dallo scrittore russo
Dostoevskij affermando che egli avrebbe comunque scelto Cristo anche se gli avessero dimostrato che Cristo
non era la verità. L'invito a centrare la fede sull'incontro con la Persona libera dalle molte costrizioni,
conformismi, luoghi comuni, commistioni tra sacro e profano, non veramente necessari alla vita di fede,
anzi spesso ostacolo ad essa, che
storicamente si sono costruiti intorno
alla fede nell'edificare e disciplinare una religione, vale a dire un modello collettivo di vita di fede. Ma
non bisogna pensare, per come la vedo io, che quell'incontro sia come quello
che possiamo avere la mattina, al risveglio dal sonno, quando apriamo gli occhi
e vediamo i nostri familiari.
L'incontro con quella Persona è pur
sempre un andare verso e, insieme, un rendersi disponibili ad accogliere una persona che non si vede,
nella sua realtà soprannaturale. L'accostarsi al soprannaturale presenta sempre questa difficoltà, quando non si
parli di cose diverse dalla nostra fede religiosa come ad esempio di magia o
esperienze emotive paranormali, vale
a dire che ci si cerca di aprirsi a ciò che non
si vede, ma di cui avvertiamo interiormente la presenza. Ed è
effettivamente esperienza comune che non è vero che ciò che non si vede non c'è. A parte realtà microscopiche e le
frequenze inaccessibili ai nostri sensi, cerchiamo sempre di figurarci il passato e il futuro
e questa attività ,molto importante nello stabilire che fare oggi, riguarda oggetti che non si vedono e addirittura non sono più o non
sono ancora. Il soprannaturale, nella concezione religiosa c'è ed è anche accessibile ad un nostro senso interiore, a quello che possiamo
definire sguardo soprannaturale, alla luce del quale il mondo in cui viviamo
ci appare trasfigurato. Nella nostra
fede, e anche in altre fedi religiose, il soprannaturale è definito come luce.
Il mondo ci appare per certi versi come un
complicato meccanismo di cui noi siamo un piccolo ingranaggio. C'è sempre un
grande darsi da fare, scambiarsi cose e lavorare gli uni per gli altri per un
certo prezzo. Si nasce, ci si riproduce e si muore. Nei secoli dei secoli. Ma
essere solo parte di un ingranaggio non da gioia,
non ci appaga veramente del tutto. Lo scrittore Primo Levi dichiarò che l'etica degli affari uccide l'anima
immortale (cito a memoria). Sotto un certo profilo quindi, giunti verso la
fine, si potrebbe concludere tristemente con "tutto qui?" o con un "Ne è valsa la pena?". La buona notizia che ci giunge dalla nostra
fede è che, sì, ne vale la pena o, a
seconda delle prospettive in cui ci si pone,
ne è valsa la pena. E ciò perché
nella vita c'è l'amore/agàpe che dà gioia. E' questo che si incontra/scopre
nella Persona che, nella fede, riteniamo essere il fondamento e il destino
beato di tutto.
2. Un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da
funerale.
[Dall'esortazione apostolica Evangelii
Gaudium (=La gioia del Vangelo) del papa Francesco - 24 novembre 2013,
n.10)
Come ho ricordato in un mio precedente
intervento, diversi anni fa venne a lavorare da noi in parrocchia un sacerdote
che mi parve sulla trentina e che, al termine della Messa domenicale, aveva
l'abitudine, come succede più di frequente in altre nazioni, di mettersi sul
sagrato per salutare i fedeli che uscivano. In un'omelia notò che la gran parte
di essi avevano la faccia scura. Mostravano anche qualche difficoltà, durante
la liturgia, a scambiarsi reciprocamente il segno della pace. Era una cosa alla
quale non avevo fatto caso, ma ponendovi attenzione notai che era vero e lo
feci notare anche alle mie figlie che allora erano ancora bambine. Facemmo,
come un gioco, a contare le persone con la faccia lieta che incontravamo per
strada. Erano pochissime! Poi mi dissero che quel sacerdote aveva avuto un
problema in famiglia, una persona gravemente ammalata. Anche lui, allora, fece
la faccia scura e dopo un po' non lo vidi più in chiesa da noi. All'epoca
frequentavo la parrocchia come semplice
utente, non ero granché coinvolto nella sua vita, quindi non approfondii la
questione. Mi dissero che, prima di venire tra noi, aveva seguito gli scout e
nel tempo in cui fu da noi formò una numerosa squadra di chierichetti, tradizione che poi mi pare si sia persa (anch'io fui chierichetto nella nostra parrocchia,
anche se piuttosto imbranato. Non avevo capito bene quello che dovevo fare e
allora mi mettevano a fare l'aiuto-chierichetto.
Anche a quei tempi, si era negli anni '60, c'era una numeroso gruppo di ragazzi
che svolgeva quel servizio). La sua letizia contagiò molti e produsse dei
cambiamenti positivi, ma quando si intristì tutto tese ad andare nella
direzione di prima. Forse, quando fu lui ad avere bisogno di essere consolato,
non trovò in noi, senz'altro non in me, un aiuto sufficiente. Ora me lo
rimprovero.
Ogni tanto i sacerdoti della parrocchia lo
ricordano nelle loro omelie: non si avverte sempre la gioia
della fede nella partecipazione alle nostre liturgie eucaristiche, che pure
dovrebbero essere al centro della vita comunitaria religiosa e dunque
manifestarla. Chi ci vede da fuori come può essere attratto da quello che c'è dentro, se sembra che partecipiamo solo
a un triste dovere, per non fare peccato?
Ma, mi sono detto tra me quando ho sentito questo, non è per dovere che oggi si va in chiesa la
domenica, perché trasgredire quell'obbligo non suscita più la riprovazione
sociale e quindi chi non vuole andarci non ci va, punto. Molti di quelli con le
facce scure vanno in chiesa per essere consolati.
Ma, evidentemente, i motivi di dolore e di disperazione superano le
capacità consolatorie dell'insieme. E poi non siamo più così pronti
ad farci entusiasmare dal linguaggio altamente simbolico della liturgia, di cui
forse non intendiamo più tutte le implicazioni. Bisogna anche tener conto che l'età media dei fedeli è piuttosto alta.
L'allegria è dei giovani. "Gaudeamus
igitur, iuvenes dum sumus!" faceva l'inno degli universitari di un
tempo: gioiamo, orsù, finché siam giovani.
E poi: post iucundam iuventutem, post
molestam senectutem, nos habebit humus, dopo
la gioiosa gioventù, dopo la molesta vecchiaia, ci avrà la terra. E ora,
dobbiamo anche sentirci tirati per le orecchie, perché, con i problemi che
abbiamo, a volte carichi di
anni, non siamo gioiosi?
Eppure sarebbe bello recuperare la gioia di vivere che tutti abbiamo
provato in una o più epoche della nostra vita. Perché vivere bisogna pure. In
fin dei conti, si vive.
L'appello alla gioia che ci viene dal
vescovo non è per farci più efficaci
come piazzisti del sacro. Con le
facce tristi si vende poco e via dicendo. Non siamo in giro per vendere
il prodotto fede. E neanche per fare
nuovi adepti per riempire le nostre chiese (questo è il proselitismo in senso
deteriore, da lui criticato). La gioia
scaturisce dalla vita, è parte della
nostra natura. La vita dà gioia. Sono le circostanze in cui la vita si svolge che
a volte la privano della gioia. E, a parte gli accidenti che ci capitano e che
derivano dal mondo in cui viviamo, dalle avversità sociali, da quelle della
natura ambientale e, infine, dal nostro invecchiare corporeo, che è anch'esso
un processo naturale, incombe su tutti noi, in modo sempre più angoscioso col
passare degli anni, il pensiero della propria fine personale. E' così che si
perde la gioia di vivere, quel
sentimento di letizia interiore che caratterizza i nostri momenti veramente
felici e che ci fa essere fiduciosi nel futuro e capaci di costruire grandi cose
insieme agli altri. Esso ha sicuramente un dimensione sociale, così come la ha
l'infelicità, e una spirituale, interiore.
La fede incide e richiede un impegno personale su entrambe. L'appello
religioso alla gioia è un'esortazione
ad un impegno di quel tipo. L'azione
che ci è proposta è quella di radunare i
dispersi costituendo un'unità fondata sull'amore/agàpe. Essa si fonda su una
voce che riteniamo esserci giunta e giungerci dall'alto, trasmessa fedelmente
fino a noi di generazione in generazione e ricevuta e confermata nella nostra
interiorità personale. Essa ci dice che la morte, la nostra fine personale,
l'ultima nemica, non è l'ultima parola
su ciascuno di noi. Quella voce non ci arriva solo da fuori di noi, essa
corrisponde a un sentimento interiore che ci rende capaci di ascoltarla e di darle credito: "…sento l'acqua viva che mi parla
dentro e mi dice «Vieni al
Padre», scrisse Ignazio di Antiochia
(vescovo di Antiochia dal 70, ucciso a Roma per ordine delle autorità imperiali
nel 107) in una Lettera ai cristiani di Roma, andando verso la nostra città per
esservi giustiziato. Tutti gli esseri umani sono chiamati a formare un popolo
animato da quell'unità amorevole, gioiosa e
festosa. "Nessuno è
escluso dalla gioia portata dal Signore", insegnò Giovanni Battista
Montini in un'esortazione apostolica del 1975, durante il suo ministero
religioso di padre universale: lo ricorda il vescovo nel documento di qualche
giorno fa. Non usciamo di chiesa per ritornarvi con un
portafoglio di adesioni. Non siamo
nel mondo per distribuire tessere
religiose. Siamo nel mondo per suscitarvi la gioia di vivere, radunando, risanando, consolando. Può
essere un impegno molto coinvolgente, fonte esso stesso di gioia perché è il principio del nuovo mondo, fonte
soprannaturale e spirituale di cambiamenti significativi nella realtà visibile
e sociale e del riscatto delle persone dalla
propria coscienza isolata ed autoreferenziale (Evangelii Gaudium, n. 8).
I momenti più belli e motivanti della mia
vita, in famiglia, sul lavoro, nella società, sono stati caratterizzati dalla
partecipazione a un impegno di quel tipo. Non ero solo, partecipavo a grandi
movimenti ideali in cui anche la fede religiosa era implicata. Ai tempi nostri
si accusa quelli della mia generazione di aver tentato di ribaltare il mondo di
prima sulla base di sogni irrealizzabili. Le cose vanno come vanno ed è così
che debbono andare, ci rimproverano: il forte prevale sul debole, il pesce
grande mangia il pesce piccolo (metafora usata abitualmente dal filosofo Aldo
Capitini - 1899/1968) e così seguitando. Ma io non rimpiango di non aver agito
diversamente: Non, je ne regrette rien (=
non rimpiango nulla. E' il verso di una famosa canzone di Edith Piaf -1915/1963 che venne citato nel testamento di uno dei
sette frati trappisti uccisi a Tibhirine - Algeria nel 1996 da terroristi). Sono sogni anche
quelli della nostra fede? Ma essi hanno cambiato e stanno ancora cambiando il
mondo. Venite e vedete.
3. Gioia,
espansione e novità
Nelle direttive pratiche
contenute nel recente documento diffuso dal nostro vescovo a noi Romani e al
mondo, quale padre universale, si evidenzia il collegamento, per la vitalità
delle nostre collettività religiose, tra gioia, espansione e novità.
"Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni
esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua
espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce
maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene
attecchisce e si sviluppa.
…
Un annuncio rinnovato offre ai credenti, anche
ai tiepidi o non praticanti, una nuova gioia nella fede e una fecondità
evangelizzatrice.
…
Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e
recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi
creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di
rinnovato significato per il mondo attuale. In realtà, ogni autentica azione
evangelizzatrice è sempre “nuova”.
…
[Non]
… dovremmo intendere la novità di questa
missione come uno sradicamento, come un oblio della storia viva che ci accoglie
e ci spinge in avanti. La memoria è una dimensione della nostra fede."
[Esortazione
apostolica Evangelii Gaudium (=la
gioia del Vangelo) del papa Francesco, 24-11-13, n.9,11,13].
L'esperienza della straordinaria e veloce
espansione, al modo di un contagio tra persona e persona, tra gruppi e gruppi,
oltre ogni barriera etnica, culturale e sociale, della nostra confessione
religiosa nell'Impero mediterraneo in cui essa originò, il quale tentò invano
di contrastarla venendone invece dominato pur innestandovi numerosi elementi
della propria ideologia, è rimasta fortemente radicata nella nostra memoria
collettiva di fedeli, non tanto come insieme di ricordi espliciti e precisi (le
storie del cristianesimo e della nostra confessione
di solito vi accennano di sfuggita, concentrandosi, per quanto riguarda i primi
secoli, sulle persecuzioni subite dalla gente della nostra fede), ma sotto
forma di una sensibilità e di un anelito di fondo, quasi al modo come certi
comportamenti vengono trasmessi per via genetica alle nuove generazioni, le
quali nell'età di neonate sanno fare cose che non sono mai state loro insegnate, ad esempio succhiare il latte
materno. Quella storia di sviluppo delle origini non si è mai più ripetuta. Dal
quarto secolo della nostra era la diffusione della nostra fede non è infatti
mai stata veramente immune dalla violenza di stato, in forme anche molto
crudeli ed estese, fino ad arrivare al limite del genocidio durante la colonizzazione
delle Americhe, come rilevato con orrore dal domenicano padre Bartolomeo de Las
Casas (1484-1566).
La fase espansiva delle origini fu
caratterizzata effettivamente, per quello che ho potuto capire, dalla gioia della novità, pur nell'ostilità
crescente dei poteri pubblici della società in cui essa avveniva.
Successivamente, parlando in linea generale, questi elementi, la gioia e la novità, vennero meno per vari motivi riassumibili tutti nel clima
di violenza in cui quella che venne concepita come una conquista di nuovi popoli avvenne e che caratterizzò anche l'azione
di polizia ideologica e teologica esercitata per preservare la collettività dei
fedeli da deviazioni. Queste ultime, coinvolgendo quella che era diventata
ormai una ideologia di stato, vennero sostanzialmente considerate e punite come
sovversione politica. Il punto di svolta nella nostra confessione religiosa si
ebbe durante la grande congregazione di nostri capi religiosi celebrata
all'inizio degli anni '60 e nota come Concilio
Vaticano 2° (1962-1965). In tale occasione venne ripudiata la violenza dei
secoli passati, riconosciuta la libertà di coscienza delle persone umane e un
ruolo nella società civile dei fedeli laici maggiormente corrispondente ai
principi delle democrazie popolari contemporanee. Nel mondo che chiamiamo Occidente la violenza con finalità
religiose era già stata dichiarata illecita alla fine della Seconda Guerra
Mondiale. Solo nell'anno 2000, durante il Grande Giubileo indetto e guidato dal
papa Giovanni Paolo 2°, si arrivò a chiedere perdono (tra molte polemiche di
chi dissentiva da questa scelta), come
collettività religiosa, della violenza compiuta in nome dell'espansione
e della difesa della nostra fede.
Quando si vuole promuovere una espansione
della fede caratterizzata dagli elementi della gioia e della novità ci si vuole staccare
significativamente dai secoli bui (oltre 1.500 anni) della violenza religiosa,
talvolta invece ricordati addirittura con nostalgia da chi vede nella nuova era
della libertà di coscienza l'inizio di una fase recessiva di cui non si vede la
fine. In effetti quelli che stiamo vivendo sono tempi che non hanno precedenti
nella storia dell'umanità e questo sotto diversi aspetti, compresi quelli
religiosi. Da un lato principi che derivano dalla nostra teologia si sono affermati come ideologia
delle democrazia contemporanee e sono affermati religiosamente, a prescindere
da un reale riscontro nella natura delle cose, come accade per il principio di
uguale dignità di tutti gli esseri umani, a prescindere da distinzioni di
etnia, cultura, lingua, religione, sesso, opinioni politiche, condizioni
personali e sociali, dall'altro l'adesione esplicita, convinta, consapevole e
informata, alla nostra religione e, in particolare, la conoscenza della sua teologia
e il seguire con costanza e fedeltà le sue liturgie e norme etiche, coinvolge
strati della popolazione che statisticamente risultano minoritari, anche se la
nostra confessione costituisce ancora, per la grande maggioranza degli
italiani, il riferimento religioso di base. Ecco dunque spuntare nuove strade, metodi creativi, altre forme di
espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per
il mondo attuale. La nostra confessione religiosa, abbandonata la
fase dell'opposizione dura, ideologica e pregiudiziale al nuovo corso
contemporaneo, cerca ora di ideare e di attuare nuovi modi per riprendere la
sua fase espansiva, conformemente alla missione che ritiene esserle data dalle
origini. Essa, infatti, non si adatta ad un clima di stagnazione. Ritiene di
essere stata lanciata verso il mondo per la salvezza del genere umano, per radunare, consolare, risanare, liberare
le genti, questa volta però in spirito di fraternità universale, per ricondurle
verso il Padre celeste, secondo la missione che crede esserle stata affidata
dall'antico Maestro.
4. Il nuovo corso della mediazione culturale
"Evangelizziamo anche quando cerchiamo di
affrontare le diverse sfide che possano presentarci. A volte queste si
manifestano in autentici attacchi alla libertà religiosa … In molti altri
luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista … una
cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità
soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderio partecipare a un progetto
comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali … la globalizzazione
ha comportato un accelerato deterioramento delle radici culturali … La fede
cattolica di molti popoli si trova oggi di fronte alla sfida della
proliferazione di nuovi movimenti religiosi … [Essi] vengono a
colmare, all'interno dell'individualismo imperante, un vuoto lasciato dal
razionalismo secolarista … se parte della nosra gente battezata non sperimenta
la propria appartenenza alla Chiesa, ciò si deve anche ad alcuni strutture e ad
un clima poco accoglienti in alcune delle nostre parrocchie o comunità, o a un
atteggiamento burocratico per rispondere ai problemi, semplici o complessi,
della vita dei nostri popoli … Il processo di secolarizzazione tende a ridurre
la fede e la Chiesa nell'ambito privato e intimo. Inoltre, con la negazione di
ogni trascendenza, ha prodotto una crescente deformazione etica … [Nonostante
tutto, però,] la Chiesa cattolica è
un'istituzione credibile davanti all'opinione pubblica, affidabile per quanto
concerne l'ambito della solidarietà e della preoccupazione per i più indigenti
… il sostrato cristiano di alcuni popoli - soprattutto occidentali - è una
realtà viva. Qui troviamo, specialmente tra i più bisognosi, una riserva morale
che custodisce valori di autentico umanesimo cristiano. Uno sguardo di fede
sulla realtà non può dimenticare di riconoscer ciò che semina lo Spirito Santo.
Significherebbe non avere fiducia nella sua azione libera e generosa là dove
una gran parte della popolazione ha ricevuto il Battesimo ed esprime la sua
fede e la sua solidarietà fraterna in molteplici modi. Qui bisogna riconoscer
molto più dei «semi del
Verbo», poiché si tratta di un'autentica fede
cattolica con modalità proprie di espressione e di appartenenza alla Chiesa. Non
è bene ignorare la decisiva importanza che riveste una cultura segnata dalla
fede, perché questa cultura evangelizzata, al di là di suoi limiti, ha molte
più risorse di una semplice somma di credenti posti dinanzi agli attacchi del
secolarismo attuale … E' imperioso il
bisogno di evangelizzare le cultura per inculturare il Vangelo. Nei Paesi di
tradizione cattolica si tratterà di accompagnare, curare e rafforzare la
ricchezza che già esiste, e nei Paesi di altre tradizioni religiose o
profondamente secolarizzati si tratterà di favorire nuovi processi di
evangelizzazione della culture, benché presuppongano progetti a lunghissimo
termine. Non possiamo, tuttavia, ignorare che sempre c'è un appello alla
crescita e ogni gruppo sociale necessita di purificazione e maturazione. Nel caso di culture popolari di
popolazione cattoliche, possiamo riconoscere alcune debolezze che devono ancora
essere sanate dal Vangelo …. ma è proprio la pietà popolare il miglior punto di
partenza per sanarle e liberarle … Esiste un certo cristianesimo fatto di
devozioni, proprio di un modo individuale e sentimentale di vivere la fede, che
in realtà non corrisponde ad un'autentica «pietà
popolare» … Nemmeno possiamo ignorare che, negli ultimi
decenni, si è prodotta una rottura nella trasmissione generazionale della fede
cristiana nel popolo cattolico".
[Sintesi dall'esortazione
apostolica Evangelii Gaudium (=la
gioia del Vangelo), del papa Francesco, promulgata il 24-11-14, n.61-70]
L'esortazione apostolica Evangelii Gaudium, documento programmatico del nuovo pontificato,
costituisce un deciso cambiamento di rotta rispetto ai due precedenti
pontificati. Come dimostra la sintesi dei passi del documento che ho sopra
riportato, nel dilemma se preferire la strategia della presenza, promossa da alcuni grandi movimenti laicali
post-conciliari, o la strategia della mediazione
culturale, tipica della nostra Azione Cattolica in particolare dalla metà
degli scorsi anni Sessanta, si indica ora chiaramente, esplicitamente, la
strada di quest'ultima per la nuova missione evangelizzatrice che si vuole
organizzare. Ma con quali forze attuarla? Non basteranno pochi tratti di pena
per riattivarla. Se ne sono colpite duramente le basi sociali e intellettuali.
Si è trattato di un disegno lucido, determinato, intenzionale. E le risorse che
servono non verranno, credo, dalla "pietà
popolare", che finora è stata docile strumento del vecchio corso. E'
innanzi tutto dalle università, in primo luogo da quelle più legate alla nostra
collettività religiosa, che esse potranno essere ricostituite, se un nuovo
clima di libertà rimuoverà gli ostacoli che finora ne hanno impedito lo
sviluppo. La ricerca in questo campo è
stata a lungo (il tempo di un'intera generazione!) umiliata e addirittura costretta
nella gabbia di un catechismo normativo a livello globale, valido per i bimbi
come per i professori e i vescovi. Uno strumento che da utile sussidio per
l'iniziazione religiosa si è voluto imporre come metro di un efficiente sistema
repressivo, di una specie di Inquisizione nel nuovo Millennio.
Eppure un animo religioso non può non
convenire che "uno sguardo di fede
sulla realtà non può dimenticare di riconoscer ciò che semina lo Spirito Santo.
Significherebbe non avere fiducia nella sua azione libera e generosa". Le premesse sono buone. Sono state concesse
improvvisamente autorizzazioni che erano state negate da un trentennio. Si è
stati esortati alla creatività e all'audacia,
senza timore. Dunque: al lavoro!
Dovremo riprendere a familiarizzarci con i concetti base in tema di mediazione
culturale. Sarà necessario mettere insieme ciò che abbiamo salvato dalla
dispersione e aiutarci gli uni gli altri. E' necessario riprendere a
incontrarci in sedi come l'Azione Cattolica e organizzazioni di simile
impostazione, in cui si è mantenuta memoria di ciò che serve e si sono
conservati aperti spazi di dibattito. Bisogna cominciare a farlo a partire dal
territorio in cui si è radicati, che è
quello della parrocchia. In base a quel documento del nostro vescovo
sulla gioia del Vangelo, giunga quindi a tutti gli amici che vivono a Monte
Sacro - Valli l'appello a incontrarci nuovamente in Azione Cattolica per
ragionare insieme sui temi proposti dal nostro vescovo e padre universale. E'
necessario, nel nuovo clima che improvvisamente si è creato, riattivare tutte
le linee di trasmissione interpersonale, e in particolare generazionale, del
metodo della mediazione culturale. Esso, in genere e per quello che so, è
praticamente ignorato in Italia nel sistema dell'iniziazione religiosa a tutti
i livelli, anche di quella degli adulti, e nell'approfondimento religioso
collettivo. Ma non si è trattato solo di questo, purtroppo. In Italia il lavoro
di mediazione culturale è stato visto con sospetto e pregiudizio e con una
certa disinvoltura sono partite ciclicamente accuse di disobbedienza e
addirittura di eresia. Si tratterà quindi di prendere sul serio l'esortazione
all'audacia che ci viene nel
documento del nostro vescovo e padre universale.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli