INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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domenica 6 settembre 2020

Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia - Parte 6

 

Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia

Parte 6

 (dal n.49 al n.63)

(le parti precedenti sono pubblicate nei post successivi, nei post  precedenti sono pubblicate quelle successive. Questo testo è pubblicato in 8 parti)

 

di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

edizione ottobre  2020, con nuovi materiali

49

Noi, la Chiesa e la società nella crisi

(7 gennaio 2013)

 

 Il duro inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di sacrificio per i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi, per le famiglie con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa provvidenzialità di questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la sollecitazione a rinnovate opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero rapporto della Chiesa con la società italiana e col mondo che viene in primo piano. E non più solo o tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del sistema sociale e politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma soprattutto per la sfida che la crisi economica, istituzionale e culturale pone al presente e al prossimo futuro nella società e civiltà italiana.

 Il nostro paese è in incombente pericolo di precipitare in un nuovo periodo di decadenza, secondo una triste regolarità della nostra storia. C’è già chi si rassegna. Ed è forse proprio contro la inclinazione anche di molti cattolici alla rassegnazione che questo convegno acquista ora la sua drammatica attualità.

 Tra le non molte interpretazioni complessive della situazione attuale della società italiana, che ho trovato tra i documenti di risposta pervenuti dalle diocesi, da singole comunità e gruppi di lavoro di Chiese locali [nella fase preparatoria – nota mia], da associazioni nazionali cattoliche e da qualche comunità cosiddetta di base – la rassegnazione non trova però spazio.

 Il senso di gran lunga prevalente delle risposte sul tema generale del rapporto fra la Chiesa e la società italiana, è che occorre accrescere il mutuo aiuto tra Chiesa e mondo nello spirito della “Gaudium et spes”. E proprio la ricerca, da parte della cattolicità italiana, di vie e modi e obiettivi specifici, per una congiunta e non contraddittoria azione, di annuncio del Vangelo e di impegno per la giustizia e per la partecipazione alla trasformazione del mondo, configura lo specifico apporto della Chiesa alla società profana.

 

[Dall’intervento del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al convegno  ecclesiale  Evangelizzazione e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976 – in Evangelizzazione e promozione umana – atti del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice A.V.E, 1976]

 

 Le parole che ho sopra trascritto sembrano scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema della nostra Chiesa che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in relazione con il mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a trentasei anni fa.  Che significa questo? Significa che un lavoro che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto e che ora può essere ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte nuovamente favorevoli, in particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo nell’enciclica Caritas in veritate del papa Benedetto 16°.

 Che cosa è la nostra Chiesa? Non parlo naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue finalità sotto il profilo teologico, della fede comune professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di vista sociale, delle relazioni come collettività con il mondo in cui è storicamente inserita. Questo è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire  la società arricchendola con i principi evangelici che riguardano la vita comune.

 Non vi aspettate che vi dia qui delle risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse nelle nostre riunioni infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito prendessero parte anche coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla vita della parrocchia e anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa come è ora e lo dicono francamente, ma tuttavia nella loro interiorità apprezzano ancora, al di là di quelle critiche anche dure, un discorso religioso.

 Siamo, ad esempio, una ditta per la propaganda del sacro? Siamo una federazione di collettività che in senso molto lato condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che fanno vita separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui? Siamo una federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che vuole dare una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla contro le critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire un’organizzazione che ha come scopo principale sostenere l’azione del Papa nel mondo di oggi e in particolare in Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo di avere la ricetta giusta per cambiare il mondo rovesciando i principi perversi su cui esso si fonda? Siamo gruppi di oranti che pensano di ottenere il cambiamento del mondo con la preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i vescovi e il Papa per noi? In che cosa i preti si differenziano dagli assistenti sociali, dagli psicologi, dagli psichiatri e dagli insegnanti delle scuole? Quale autorità riconosciamo loro, di fatto?

 In questo Anno della fede queste domande mi sembrano importanti. Possiamo aspettarci che la risposta ci venga dall’azione catechistica svolta nella Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa siamo  o come dovremmo essere? O dovremmo, come punto di partenza, riconoscere francamente come abbiamo voluto essere finora e capire se questo modo di essere è sufficiente in relazione ai principi che proclamiamo e che, come non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di sé e ancora informano di sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?

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Un processo continuo di liberazione

(8 gennaio 2013)

 

Se c’è, come non può non esserci nel mondo un processo continuo di liberazione, la Chiesa, il cristiano con la Chiesa e per la Chiesa, deve essere presente in questo processo di liberazione. In che modo? Con la triplice azione sacramentale che è propria della Chiesa e del cristiano.

[…]

Con la parola.

Nel processo di liberazione e di promozione umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano deve essere innanzi tutto presente con la parola di Dio.

[…]

Con la vita.

La Chiesa. … e il cristiano nella Chiesa non può accontentarsi di parlare di liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno, deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.

[…]

Con il sacramento.

Ma infine…è con i sacramenti che la Chiesa deve portare nel mondo la liberazione totale e integrale operata da Cristo.

 

[ da La Chiesa sacramento di Cristo e segno e strumento di liberazione, relazione tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo Enrico Bartoletti – all’epoca segretario generale della CEI, in Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo – a cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].

 

 Lo scritto che ho sopra riportato rende bene il clima degli anni immediatamente dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa cattolica, a lungo considerata essenzialmente una forza di contenimento sociale e personale, se non una organizzazione francamente reazionaria, veniva concepita in modo nuovo, nel senso che come fedeli ci si assegnava compiti nuovi, religiosamente motivati, in un mondo in cui era generale l’ansia di elevazione di popolazioni o strati di popolazioni fino ad allora considerati fatalmente destinati alla sofferenza e alla minorità.

 Bisogna dire che di certi temi in Italia si parlava accostandoli piuttosto da lontano, ad esempio di quello dell’elevazione e liberazione delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia. Ai tempi nostri, in cui strati di popoli africani e asiatici sono migrati dalle nostre parti, i problemi si sono fatti più concreti.

 E’ necessario anche aggiungere che il disegno conciliare prevedeva un ruolo molto più attivo dei fedeli laici in questi nuovi compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro di preparazione di questa parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune sue porzioni particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello di presenza  dei fedeli laici nella società in cui vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80, nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.

 Oggi, se consideriamo chi siamo, noi cattolici, visti nel nostro complesso e parlando francamente, dobbiamo considerarci prevalentemente una forza di liberazione e promozione umana, o una forza di contenimento, o ancora una forza di reazione, gente che quindi vuole tornare ai tempi di prima?

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Pace come promozione umana

(13 gennaio 2013)

 

Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:

“In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.

In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).

Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”

 

 

Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.4:

“E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa.

Aumenta lo scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai diversi.

Infine, con ogni sforzo si vuol costruire un'organizzazione temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il progresso spirituale.

Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le scoperte recenti.

Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l'angoscia, mentre si interrogano sull'attuale andamento del mondo.

Questo sfida l'uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.”

 

Dalle relazione tenuta da mons. Enrico Bartoletti (1916-1976, dal 1972 Segretario generale della C.E.I.) al seminario della Caritas italiana del 27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo, Editrice A.V.E., 1982, pag.123.

 

Ecco allora quello che è la Chiesa o per lo meno quello che ella è virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve di continuo divenire: una comunità, una comunione di uomini amati da Dio e che hanno la capacità per il dono dello Spirito che è stato loro concesso di trasfondere, di manifestare, di realizzare questo amore di Dio per gli uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto verso coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere membra vive della medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli uomini: “ogni uomo è mio fratello”.

  Se noi comprendiamo questo e se non ripetiamo pappagallescamente lo slogan dell’amore che risolve tutto, ma arriviamo a comprendere la radice profonda che costituisce l’essenza intima e autentica della Chiesa come comunità di credenti, come comunione di coloro che Cristo ha redento, allora veramente noi abbiamo della Chiesa e quindi di noi stessi un’altra visione. Noi comprendiamo che se questa è l’essenza profonda della Chiesa, se questa è la sua realtà di base, la sua intima connessione interiore, se questo in fondo è il suo mistero, rivelare questo mistero al mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per primi e poi via via a cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco, Dio non ha abbandonato il mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha abbandonato la storia perché ha messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù nell’amore dello Spirito, questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo secondo il progetto di Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per lui.

 

 Intendere la Chiesa comunità pacificante è stata una delle idee forti che si sono manifestate nel Concilio Vaticano 2° (1962-1965).

 Bisogna considerare che sul tema della pace non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in particolare dopo il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso le concezioni che oggi sono diffuse dal magistero.

 Il tema della pace, nei documenti conciliari, si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché la pace è cosa da realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei templi dove dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito principalmente laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica per l’instaurazione e il mantenimento della pace  tra i popoli è quello di un’autorità mondiale, universalmente riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una sorta di polizia di pace, nel senso di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione di un ordine pacifico, in una accordo tra autorità costituite, con una cessione di sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo.

  In realtà un’autorità mondiale di questo tipo non è stata ancora realizzata. L’esperienza europea di pacificazione continentale, che l’anno scorso ci è  fruttata il Nobel per la pace, è basata molto su una progressiva convergenza dei costumi dei popoli oltre che sull’azione di autorità a vario livello, secondo il principio, riconosciuto anche dalla dottrina sociale della Chiesa, della sussidiarietà. In questo quadro ha avuto molta importanza la penetrazione sociale di costumi democratici, intesi sia come forme partecipate e pacifiche di decisioni su temi di interesse comune sia come affermazione concreta dei diritti umani fondamentali.

 Il lavoro di pacificazione può farsi rientrare nell’impegno di promozione sociale, quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo fondamentale al laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli scritti che ho sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo da un intervento fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono indicate specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come realizzare la pace in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta considerazione del contesto sociale umano ( lo scrutare i segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei laici, che, nella visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con tutti le altre persone bene intenzionate.

 Pace, in senso religioso, non è solo assenza di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui la personalità degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente, secondo il vero bene di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà esercitarsi l’azione laicale.

 Nei discorsi religiosi e su base biblica, si collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace potrà essere realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia, realisticamente, non è garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace nelle società umane, in cui si manifestano sempre, ad un certo livello, delle devianze rispetto all’ordine costituito, talvolta sulla base esclusivamente degli appetiti e degli interessi individuali e di gruppo. Questo significa che per  il mantenimento della pace occorrerà sempre l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e, comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di punizione dei colpevoli.

 Mons. Bartoletti metteva in guardia dal parlare con troppa disinvoltura di amore come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che richiede un impegno concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che essa scaturisca, quasi magicamente, dal parlare di amore.

 Pacificare le società umane non è sempre facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala globale o nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale  e dall’Asia, l’integrazione sociale degli stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa. Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.

 A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter entrare di nuovo in contatto con le tante persone più giovani che, formatisi in religione nella nostra parrocchia, non la frequentano più, forse essendo rimasti a vivere in zona. Anche questo farebbe parte di un’opera di pacificazione, se si fossero allontanati per qualche motivo di risentimento o di rancore nei confronti della nostra comunità.  Molti sono impegnati nel lavoro o nello studio quando il gruppo si riunisce. Io stesso ho talvolta difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E anche gli impegni di famiglia possono ostacolare un impegno extradomestico in certi orari.  Sentiamo però la nostalgia e il bisogno di queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro storie. Come ho detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il mondo in cui vivono per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri umani, secondo grandi principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a dire ben consci della sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo. Eppure, passo dopo passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è pure sorta dai millenni bui delle guerre continue!

 Non abbiamo la pretesa, noi del gruppo parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la vite degli altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede un impegno enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che stiamo facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale, che passa anche il prendersi cura degli altri  a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo, ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.

 Ma, in definitiva, lo sforzo che si fa in un gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso, segna innanzi tutto un progresso spirituale, che, come contagio, può diffondersi nella società intorno a noi, nei punti in cui entriamo in contatto con essa.

 

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Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana

(13 gennaio 2013)

 

Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:

In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.

In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).

Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”

 

Da “Una Chiesa in ricerca, in servizio, in crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione e promozione umana – atti del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:

 

“…se le due funzioni di servizio, proprie della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente distinte, non sono però separate e devono trovare la loro sintesi nella unità organica della comunione ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il vero contributo della evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera della Gerarchia o dei laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve passare attraverso il servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in Italia il primo problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il nesso intrinseco tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito dal convegno) è quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.

 

 Venerdì prossimo inizierà la settimana per l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo tema, pensiamo alle diverse confessioni cristiane che ancora hanno organizzazioni separate mentre, nella visione cattolica, le si vorrebbe tutte legate a un unico pastore, al mondo in cui esse vogliono essere sottomesse ad un unico Signore.

 Tuttavia il problema dell’unità sussiste anche all’interno della nostra stessa confessione religiosa. Esso si è fatto più pressante nel corso degli sviluppi del Concilio Vaticano 2°, come indica il brano della relazione del 1976 del padre Sorge che ho sopra trascritto. Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha fatto le spese in particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80 ha visto ridursi molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura messo in discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e i vescovi e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.

 Ad esempio nella nostra parrocchia possiamo facilmente constatare come l’Azione Cattolica non sia più, da tempo, la principale articolazione del laicato. Ad essa si è sostituita l’organizzazione del Cammino Neocatecumenale la cui storia, la cui azione e i cui punti di vista nella Chiesa e  nel mondo hanno caratteristiche piuttosto distanti da quelle dell’Azione Cattolica.  Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è diventata nella parrocchia un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra parrocchia e altre che hanno subito dinamiche simili assomigliano a una confederazione di vari gruppi in precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione tra le varie parti che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono varie attività nella liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione. L’unità in definitiva si fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.

 Come ho cercato di riassumere nei miei precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme organizzative che ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per l’esigenza dei laici cattolici di partecipare di più all’edificazione della società del loro tempo, in particolare sfruttando le opportunità offerte dai sistemi politici democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare anche in modo nuovo il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio Vaticano 2° è stato assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2° l’Azione Cattolica ha fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi principali obiettivi. Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una certa frizione tra i principi religiosi e quelli secondo i quali era organizzata la società civile. Una delle ragioni del decremento della partecipazione all’Azione Cattolica può essere vista nel venir meno dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta solo dell’emergere del fenomeno della secolarizzazione, per cui certe convinzioni religiose hanno avuto meno forza nella società e vengono riservate fondamentalmente ai momenti rituali e cerimoniali della società, ma proprio del fatto che la società civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a principi democratici, tra i quali quello della libertà religiosa, sembra richiedere di meno un attivismo dei fedeli laici, che allora possono, come dire, concentrarsi sugli aspetti più prettamente spirituali della fede. Ad un certo punto si  è sentita di meno l’esigenza dell’unità di pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe richieste e indicazioni che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno trovato altri modi di essere proposte nella sede civile e in quella politica. Ecco quindi che l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico italiano ha potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune. Questo ha fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di contenere, vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel suo complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un punto di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose cambiano quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società, sul modo in cui vivere una buona vita  cristiana e poi, principalmente, sul problema degli alleati che si vogliono avere per fare  progredire la società, vale a dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente  con le ideologie liberali, fasciste  o socialiste che esprimevano un’azione di forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si individuava una cultura della mediazione, impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come  portatrici varie organizzazioni, tra le quali il Cammino Neocatecumenale. In genere si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa abbia scelto il metodo della presenza. Oggi  si è ormai perso il senso di questo diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora ci sono quelli per  i quali  i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal magistero.

 Certamente siamo chiamati all’unità e ad un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione. Innanzi tutto siamo chiamati a parlare delle nostre scelte con gli altri con i quali ci sentiamo di dover essere in comunione. Mancano però di solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta nel proprio gruppo separato.

 Ma non  è detto che poi, parlando, discutendo, si arrivi effettivamente a deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di laicità che ci vengono consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio in questo senso: arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise. Bisogna riconoscere però che il metodo democratico, che si è ampiamente affermato nelle società civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato nella nostra Chiesa, che, del resto, protesta orgogliosamente la propria a-democraticità. Insomma, la piena comunione ecclesiale è ancora di là da venire, mi pare.

 Uno dei luoghi in cui essa potrebbe manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la quale appunto non ha le caratterizzazioni forti  di altri gruppi e pratica il metodo democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.

 Se però guardiamo alla nostra realtà di gruppo vediamo che quel traguardo è molto lontano dall’essere realizzato. In realtà è in forse la nostra sopravvivenza associativa, se non riusciremo ad attrarre forze nuove nel nostro lavoro. Eppure esso sarebbe ancora importante nella Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia è ancora un problema. C’è ancora un contributo che potremmo dare alla crescita dell’insieme e, purtroppo, non ci sono altre organizzazioni che si occupano di fare il lavoro al quale storicamente l’Azione Cattolica si è impegnata, che possiamo sintetizzare efficacemente nell’idea dell’evangelizzazione come promozione umana e della promozione umana come evangelizzazione.

 

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53

Scrutare i segni dei tempi

(15 gennaio 2013)

 

 

Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965):

Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.

Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.

LA CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO CONTEMPORANEO

4. Speranze e angosce.

Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.

Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione reca con sé non lievi difficoltà.

 

 L’Azione Cattolica è particolarmente impegnata non solo ad attuare i deliberati del Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare ciò che si debba fare nel dopo Concilio. Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha nostalgia della Chiesa-di-prima, anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al mondo  in cui i cristiani vivono, a ciò che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in particolare la seconda questione.

  Riassumendo molto, le posizioni che prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle piuttosto fiduciose nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo in vari campi, in particolare in quelli della scienza e della tecnica e della politica. Si aveva la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano producendosi e si capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli aspetti religiosi della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi in un tempo di crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui risultati di questo processo. Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi di crescenza con riferimento ad esso. Si volle quindi aprire gli occhi e il cuore a quello che accadeva nel mondo, per capirne le opportunità religiose di bene. Si usò a questo proposito l’espressione evangelica scrutare i segni dei tempi, parlandone come di un dovere permanente  per la Chiesa: anch’essa la troviamo nel brano che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che, storicamente, questa può essere considerata una novità rispetto alle posizioni precedenti del magistero.  E giunse in un tempo in cui ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce per le visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si faceva propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta guerra fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi politici dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che tuttavia  non esplodeva in una conflitto guerreggiato, in una nuova guerra  mondiale, per il timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi effetti distruttivi di una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari. Tuttavia bisogna ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era anche nel tempo in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace mondiale. Anche l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne considerata da alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come un segno  provvidenziale. Dovettero però passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello mondiale divenissero infine realtà.

 Fino al Settecento la Chiesa cattolica  fu piuttosto integrata con il mondo in cui viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente al modo in cui lo erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i suoi capi o, comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero, religiosi. Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del popolo dei fedeli generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i suoi signori delle nazioni.

  A partire dal Settecento la situazione mutò rapidamente. Non furono tanto e non solo i fondamenti ideali del pensiero religioso ad essere messi in questione, ma il potere temporale della Chiesa, vale a dire la sua capacità di influenza sul mondo in cui viveva. Di fronte a queste contestazioni, che poi vennero cristallizzandosi nei movimenti liberali e socialisti, la Chiesa reagì con un moto di opposizione e di contrasto in quasi tutto il mondo in cui la sua azione era consentita, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America per la particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di quella entità statale, che aveva mantenuto saldi legami con fondamenti religiosi cristiani. Questo modo di proporsi al mondo culminò in due momenti: l’elencazione legislativa degli errori del tempo, contenuta nel documento denominato Sillabo, allegato all’enciclica Quanta Cura, promulgata nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con provvedimento della Penitenzieria Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con l’enciclica Graves de communi, promulgata dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una politica democratica cristiana. Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose anche la conclusione, nel 1929, dei Patti Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia, quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale, sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.

  Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato viene chiarito il senso dell’espressione scrutare i segni dei tempi: essa vuole dire conoscere e comprendere il mondo in si vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.

 La Chiesa nei secoli precedenti si era considerata e dichiarata maestra di umanità, come ancora ritiene di essere. Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia dalla propria tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è proposta di avere una visione più realistica del mondo fuori dello spazio liturgico, per capirlo meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica competenza dei laici, i quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del magistero. Possiamo notare, in particolare, come questa concezione abbia molto influito sull’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, in particolare dall’enciclica Populorum progressio, promulgata dal papa Paolo 6° nel 1967.

 La concezione ottimistica dell’andamento delle cose del mondo espressa nei deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto temperandosi durante il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu certamente uno dei maggiori artefici degli sviluppi conciliari, ma era portatore, specialmente negli ultimi anni del suo regno, di una visione pessimistica sull’umanità sua contemporanea, vista come soggiogata da potenze di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in questo l’influsso del pensatore eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev (1853-1900), il quale pronosticava l’avvento dell’Anticristo nell’apparente progressismo delle tendenze sociali moderne e che era portatore di una visione di stampo religioso  fortemente pessimistica sul mondo del suo tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti che idealmente agiscono come piccolo resto in opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti negativi e antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del cristianesimo delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta ostilità o vera e propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità di impronta familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un cristianesimo integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri aderenti che condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.

 Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009 dal papa Benedetto 16°, la tendenza si è di nuovo invertita.

 Non che nella Chiesa cattolica non possano avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate all’idea del piccolo resto: esse anzi ci saranno sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita religiosa. La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un ordinamento fortemente pluralistico, in cui da sempre sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur nella condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che specificamente vengono denominati dogmi  di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi non solo con la modalità della testimonianza di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.

 Capire il mondo è fatica, non nascondiamocelo. Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una religiosità familiare che richiama quella della loro infanzia, centrata prevalentemente sulle liturgie parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma, devo dire, i più anziani del nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano invece lo spirito indomito laicale della loro gioventù  e in questo a volte sorprendono i più giovani, i quali sono più facili allo scoramento.

 Bisogna riconoscere che nell’opera di comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore. E ciò è ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti a diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel nostro gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco quindi, come spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro, nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario, ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso, non c’è mai stato nel

 

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Fede cristiana: speranza credibile e onesta o pia illusione?

(17 gennaio 2013)

Preghiera di Paolo VI per la Messa funebre per Aldo Moro (13 maggio 1978 – San Giovanni in Laterano)

 

  Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis”, il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce.

   Signore, ascoltaci!

   E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui.

   Signore, ascoltaci!

   Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!

   Signore, ascoltaci!

   E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!

   Signore, ascoltaci!

 

 Interrompo gli interventi sui temi del Concilio Vaticano 2° per proporre una riflessione sulla base del dibattito  che si è articolato nella riunione di martedì scorso del nostro gruppo.

 La fede religiosa ci salva dalla sofferenza dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto angosciati da ciò che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni momenti della loro vita. Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6° recitò nel corso della messa funebre per Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, suo amico personale, ucciso quattro giorni prima da un’organizzazione terrorista di impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un lungo sequestro di persona.

 Una delle accuse più tremende rivolte alla nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode, che prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali invece che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o rinunciando a farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli oppressori e aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto di vista storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella nostra spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.

 Noi, da credenti, non ci facciamo illusioni sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella vita degli esseri umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla via della fede, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata dal papa Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa  può essere uno dei modi per reagire alle avversità, in alcuni casi essa può addirittura essere di impaccio sulla strada della resistenza e allora ce se ne libera. Ma, di solito, quello che in certe condizioni personali difficili si rifiuta non è la vera fede, ma una sua approssimazione insufficiente, il fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare le difficoltà che anche da credenti ben formati si incontrano in certe condizioni di contrasto e di dolore. La nostra infatti è una fede religiosa paradossale, che quindi non trova  definitive conferme nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se la magnifica complessità della natura suggerisce l’idea di un disegno intelligente che si spera essere anche amorevole, visto che l’amore nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e l’incessante lotta di questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo, per prevalere a spese di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte. Per quanto poi ci si ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che le cose, in conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità interiore profonda che noi troviamo il fondamento della nostra speranza religiosa, alla quale, per quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va, sentiamo di non poter rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle cose, quindi non chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che tutto è bene. Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore Bernanos usò nel romanzo  Diario di un curato di campagna  (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita umana,  la nostra vita, merita di essere vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine. Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato che tutti riescano ad arrivarci con facilità:  ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°:  Non è vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà.     

 

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55

La Chiesa vuole rinnovare il mondo

(19 gennaio 2013)

 

Dal  decreto Apostolicam Actuositatem (traduzione dal latino: L'attività apostolica) sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)

 

 L'opera di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza degli uomini, però abbraccia pure il rinnovamento di tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche ad animare  e perfezionare l'ordine temporale con lo spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.

 

 In queste poche righe del decreto conciliare Apostolicam Actuositatem, del Concilio Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi molto importanti e anche molto controversi nella storia della nostra confessione religiosa.

 Innanzi tutto, iniziamo a tradurre i termini che vengono utilizzati nel documento, i quali, a loro volta, sono una traduzione dal testo originale scritto in latino ecclesiastico moderno.

 Che cosa è l'ordine temporale? E' il mondo in cui viviamo, l'ambiente naturale  e sociale.  Lo si distingue dall'ordine spirituale che, nella terminologia teologica,  è quello della fede, in cui il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in particolare, interagisce e dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due ordini da sempre sono stati considerati distinti per i cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo secolo della nostra era, però anche legati.

 Il cristianesimo nasce nella Palestina del primo secolo, in un popolo di cultura e religione ebraica ma sotto occupazione militare e politica romana. La situazione politica del tempo non era tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui bisognava organizzare una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di  distinzione origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per la guerra ai romani, all'opposizione dura,  si deliberò  di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Cesare era l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire ai doveri specificamente religiosi.

 Nei primi secoli, quelli dell'opposizione e della persecuzione, il modo della distinzione prevalse. Poi il cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si integrò nell'ordine politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a porsi il problema del legame, vale a dire dell'influenza dei principi religiosi, oggi diremmo dei valori, sull'ordinamento politico e civile della società. Non è che, prima di allora, le società dominate dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare l'errore di considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante dei secoli dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano, chiamiamo i pagani fossero atei. Tutto al contrario, i pagani dell'ellenismo e della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si  spiegherebbe perché costruirono tutti quei grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti pensare al titolo di pontefice che si dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.

 La dialettica, che ebbe storicamente anche evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli imperatori, e i monarchi, politici in genere, che si succedettero in Europa nelle nazioni divenute cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione  e legame. Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere delle monarchie assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di proprietà ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia politica autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas, che significa papà), si era instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie, aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali (un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano, a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi. L'accusa di papismo cattolico ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy. Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535), importante  ministro e consigliere del re Enrico 8°.

  Nella visione antica del legame tra temporale  e spirituale, pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,  con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano emarginati.

 Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale, vale a dire della società civile, significò in genere, nelle nazioni europee soggette a monarchie assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione. I primi a farla, in senso moderno, furono i coloni britannici del Nord America, nel 1776. La Chiesa cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia ufficiale tomistica c'erano principi anche per decidere quando rivoltarsi a un sovrano ingiusto. Ma in particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni democratiche come quelle che portarono alla deposizione delle dinastie regnanti con le quali aveva concluso accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo talvolta ricevuti in Vaticano con onori particolari gli eredi di antiche dinastie regnanti ormai senza più alcun potere.

 L'assimilazione alle monarchie assolute iniziò però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un certo momento in poi, diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad esempio, cominciarono a sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui, secondo un'antica tradizione, dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in una sorta di turbante dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in quello politico, re dei re.

 E' chiaro che la prospettiva è molto diversa nel brano della Apostolicam Actuositatem che ho sopra citato. Qui  l'idea di rinnovamento delle società civili è addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo. Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni  di popolo. Ma anche l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella di un tempo: essi vengo denominati città degli  uomini, espressione cara a Giuseppe Lazzati e che richiama l'idea contemporanea di sovranità popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in cui, con riferimento all'idea di rinnovamento delle società civili, sono tramontati i monarchi e sono sorti i popoli.

 La pace tra cielo e terra non è poi più affidata ad un accordo condominiale tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli ordini di sovrani: la coscienza.

 

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Democrazia, difficile virtù

 

  In religione si ha di solito difficoltà a pensare alla democrazia come ad una virtù. In un certo senso la si subisce e perciò, quando se ne parla, si cerca di mettere in guardia i fedeli dalle sue degenerazioni e, in definitiva, si suggerisce di rimettersi al giudizio della gerarchia del clero, un’organizzazione non solo non democratica, ma addirittura antidemocratica. E, infatti, si ripete abbastanza spesso che le nostre collettività non sono delle democrazie (ed in effetti così come sono organizzate  non lo sono) e non si capisce che questo non è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un loro problema, perché, appunto, la democrazia è una virtù.

  Considerando che tra il 1944  e il 1991 la democrazia è entrata anche nella dottrina sociale della Chiesa, nel senso che la si considera una condotta politica virtuosa, dopo che, fin dagli esordi dei processi democratici moderni, a fine Settecento, la si era sostanzialmente assimilata all’eresia e condannata, bisognerebbe insegnare la democrazia nella nostre collettività di fede, e soprattutto praticarla.

  Democrazia non è solo la regola per cui la decisione comune è quella maggioritaria. Significa, prima di tutto, libertà di coscienza e di parola, rispetto degli altri, processi decisionali preceduti da un dibattito franco, aperto, completo, informato, responsabilità dei capi verso i governati, temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto un particolare impegno a quella che Ghandi (Mahatma - “grande anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto  dire sempre la verità, perché noi non possediamo  la verità e sempre la dobbiamo cercare come a tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire  gli altri secondo un certo nostro modello promettendo la felicità.

  Bisognerebbe fare scuola di democrazia a partire dai bambini della prima iniziazione religiosa, quando scoprono l’amicizia. La democrazia ha molto a che fare con l’amicizia, perché presuppone la condivisione di valori forti ancor prima che inizino i processi decisionali. Questi valori sono appunto quelli implicati nell’amicizia tra gli esseri umani, il riconoscersi reciprocamente bisognosi gli uni degli altri, quella dimensione relazionale che ci fa crescere, come ci è stato spiegato nel primo incontro del ciclo Immìschiati  sulla dottrina sociale della Chiesa, per cui non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per questo che la democrazia, prima di studiarla sui libri, occorre  viverla  e innanzi tutto scoprirla  nelle relazioni con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto, imparare a non diffidarne.

 

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Dottrina sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°

 

  I documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) sono leggi per la nostra confessione religiosa e contengono importanti disposizioni in materia di liturgia e di dottrina sociale. Le novità più rilevanti apparvero essere, fin dai primi anni, quelle in materia di liturgia. Ma anche la dottrina sociale venne profondamente innovata.

  Nell’Ottocento, quella che consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà ne è storicamente l’ultima propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni democratici che si venivano manifestando in Europa, animati da spirito di libertà e di giustizia sociale. Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in polemica, fin dall’enciclica Le novità  del papa Pecci del 1891, con il liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora sopita, tanto che è stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del ciclo Immischiati, nella nostra  parrocchia.

 Durante il Concilio Vaticano 2° si corresse il tiro. La libertà di coscienza del liberalismo e l’impegno per la giustizia sociale del socialismo divennero virtù anche in senso religioso.

 Nello stesso tempo si cercò di avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto più ampiamente l’uso delle lingue nazionali in luogo del latino, che era diventato un grosso ostacolo alla formazione religiosa dei fedeli mediante la partecipazione alle azioni liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà del papa Montini l’uso della lingua nazionale divenne poi la forma normale delle liturgie con la partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti monastici o della Curia Vaticana  e di altri ambienti particolari.

 Per quanto riguarda il rito della Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella Costituzione Il Sacro Concilio:

48. Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti.

  La partecipazione attiva alla liturgia era collegata all’impegno per la giustizia che si ritenne di promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per infondervi i principi religiosi,  per ordinarla secondo Dio, come venne scritto nella Costituzione  Luce per le genti

n.31 Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.

i laici dovevano essere adeguatamente preparati e la liturgia era un’occasione molto importante per farlo.

  Il nuovo ruolo dei laici di fede nella società disegnato dai saggi del Concilio spiega perché negli anni successivi venne accettata anche la democrazia come virtù politica e religiosa insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle affermazioni teoriche, con l’enciclica Il Centenario  del papa Wojtyla, ma ancora in corso nei suoi sviluppi pratici.

  Nell’incontro Immìschiati sulla persona è stato detto che la dottrina sociale non è una terza via tra liberalismo e socialismo ed è vero. In realtà si tratta di una mediazione culturale della nostra fede che recepisce, ibridandoli, principi liberali e principi socialisti. Ne costituisce una sintesi, costruita per rendere compatibili le loro principali istanze con la nostra fede religiosa.  In un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno sia libero di fare di sé stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare, perché noi non siamo dei, ma solo creature fragili.  E’ questa è sicuramente la realtà.

 Nell’Ottocento la via democratica era ancora molto di là da venire in religione.

 Il nazionalismo del Regno d’Italia privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia centrale ed essi la presero molto male.

 Il Regno d’Italia era retto da un sistema politico che integrava conservatorismo, autoritarismo, nazionalismo e liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però che di quest’ultimo poteva fare a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere del contenzioso con il Papato si presentava come uno stato democratico, anche se l’elettorato era piuttosto selezionato, tra i soli uomini di un determinato censo o con un livello minimo di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto sta che il Papato, nella polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un movimento del popolo minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un arrogante e presuntuoso ceto politico irreligioso, tuttavia era ancora custode delle buone e antiche tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente appartenenti ai ceti colti,  che cercavano una via per vivere attivamente le istituzioni democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine Ottocento del movimento politico della democrazia cristiana, e anche l’ideatore del nome  e del concetto di tale politica, e cercò di  mantenere le masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato, per utilizzarle come strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato tolto con la guerra del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di avere mantenuto una sovranità sugli italiani. La prima dottrina sociale della Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date da un sovrano, il Papa, al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione all’elaborazione di quei principi sociali, sebbene le encicliche sociali non siano mai state il frutto di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre  un lavoro collettivo, a più mani, perché i Papi  hanno una formazione prevalentemente teologica, anche se, ad esempio, persone come Montini e Wojtyla si intendevano pure di filosofia. La repressione dei ceti colti dei laici di fede determinò che la religione apparisse cosa da incolti. In più, i fedeli erano indotti a non partecipare alle elezioni politiche e così si trovavano nella stessa condizione degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi a causa della loro condizione di ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi del Novecento, che si cominciò, faticosamente, a cercare di andare in altra direzione, dando una formazione ai fedeli laici, ed anche alle donne dal primo dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata per essere un più docile strumento alla politica papale in Italia rispetto alla rissosa Opera dei Congressi, indotta a sciogliersi d’autorità nel momento di più acceso scontro tra intransigenti (contrari alla partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,  divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato con il regime fascista, che consentì di chiudere  la questione romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre). L’ideologia di questi politici  democratici cristiani  fu modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla. Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo inserirono nella loro  nuova dottrina sociale.

 Ecco ad esempio che cosa  si legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:

I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.

Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.

 Sia nella liturgia che nelle cose sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo Concilio fu quello di promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la dottrina sociale non furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di tutti richiede di fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto indietro.

 Da un lato la gerarchia del clero diffida profondamente del popolo, sempre visto sul punto dell’apostasia e  bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo è il tremendo verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi di vita buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che cercano di imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con la forza del numero o della loro veemenza.

 In particolare si ha sempre difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e religioso dei nostri tempi.

 Le cose si sono molto complicate nella società italiana di oggi. Per molti italiani è impossibile  tornare  a una fede religiosa che non è mai stata quella della loro tradizione, perché provengono dall’ortodossia orientale e da altre confessioni cristiane, dall’islamismo, dall’induismo, dal buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il maggior livello di istruzione della gente, raggiunto per merito del sistema scolastico pubblico, ha comportato che su molte questioni  di coscienza non si sia più disposti all’obbedienza  acritica. Nessuno in genere, neanche le donne che in passato sono state le fedeli più  docili, è più disposto adabitare  ambienti sociali in cui gli è vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre certe umiliazioni non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora talvolta colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i fedeli considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.

 Così, ad esempio, si è insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi liturgici, come la Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e infarcita della simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione di tutti e la comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si pongono tanti problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.

  La partecipazione attiva nella società del nostro tempo richiede la democrazia, e innanzi tutto il rispetto degli altri, perché ci troviamo a vivere in un contesto sempre più pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto diversi punti di vista, è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai tempi nostri, può sapere tutto di tutto, salvo che in settori superspecialistici, ma per questo sempre più limitati. Come scrisse Pierre Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note di catechismo per ignoranti colti, Mondadori, non più in commercio) al più riusciamo ad essere ignoranti colti.  Insieme ci sforziamo di superare i nostri limiti individuali. La sapienza degli altri ci arricchisce e viceversa. Confrontando le conoscenze e  le opinioni, le correggiamo. E’ questo che si fa nel dialogo: ci si mette in relazione gli uni con gli altri, chiarendosi. Questo è l’inizio della democrazia.

 

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Convincersi della democrazia

 

 Ho imparato la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, anni duri, anni in cui furono assassinati due grandi esponenti del movimento cattolico-democratico, Aldo Moro, tra in fondatori della nostra nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e tra i principali artefici di varie fasi di rinnovamento della democrazia italiana, ucciso nel 1978, e Vittorio Bachelet, tra i rifondatori della nostra Azione Cattolica, ucciso nel 1980. Divenne evidente il carattere antidemocratico dei moti insurrezionali dell'epoca motivati da costruzioni ideologiche comuniste: la democrazia italiana, però, a quei tempi riprese a funzionare e il pericolo, lentamente, nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di solito si fanno finire quelli che vengono definiti anni di piombo con l’omicidio di Roberto Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico, nel 1988. A quei tempi egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato democratico.

 Di fronte al pericolo, si ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia gli uni negli altri, questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in un’epoca di duri conflitti sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini politici, ma non avrebbe avuto successo senza questa nuova situazione nella società italiana.

 La FUCI storicamente è stato l’ambiente sociale della nostra fede che più si  è dedicato, fin dalle origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine Ottocento, qui a Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri, prete e attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era ancora vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una generica azione sociale.

 Quello degli universitari è un mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il tempo in cui si studia all’università è il momento in cui si avverte più acutamente il bisogno degli altri, la propria non autosufficienza. Fino al liceo il mondo può stare in manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano nella propria piccola libreria domestica. All’università si approfondisce, si entra nei particolari, e più lo si fa, più si capisce di riuscire a controllare settori sempre più limitati della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si aspetta da una persona di cultura, occorre interagire con gli altri, che si sono concentrati in altri settori e hanno ciò che serve per completare il proprio lavoro. Bisogna, in questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per far capire i risultati della propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo specialistico, e anche per capire quella altrui. In sostanza, all’università più si sa e più si capisce quanto non si sa. Sapere di non sapere venne considerato da un antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è anche il sapere,  il rendersi conto,  di ciò che non si sa, quindi uscire dal generico e individuare bene i propri limiti, per capire che cosa occorre, quale collaborazione cerare, per andare avanti. E' in quel momento che si comincia a ricercare chi possa aiutare a superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre alla ricerca (Ricerca  è la rivista dei fucini). Nel momento in cui si capisce di avere bisogno degli altri per superare i propri  limiti nasce anche la democrazia. Infatti per interagire con gli altri occorre creare il contesto giusto, praticare un certo metodo.

 Non si può praticare la democrazia quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si è convinti che gli altri non solo non servono, ma costituiscono anche un pericolo, o comunque un fastidio, perché tendono a mettere in dubbio certe sicurezze. Allora si cerca di imporre agli altri la propria visione, così come avviene certe volte nelle riunioni condominiali, e si finisce per litigare inutilmente: la cosa comune poi ne risente, si deteriora, perché non c’è accordo su come farne la manutenzione. L’incapacità di democrazia degrada la società, che richiede un lavoro comune per sostenersi, e innanzi tutto un impegno, di molti. Fino al Settecento la democrazia veniva considerata in religione, ma sulla base di un antico pensiero greco, una forma di disordine e di allontanamento dalla verità. La democrazia, come oggi la intendiamo, nel senso di potere di tutti, ha invece bisogno di ordine, di chiarezza, e anche di fiducia reciproca e di  rispetto.

 All’origine della democrazia c’è l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la democrazia come una forma di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno dell’aiuto degli altri ed essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene di tutti, irraggiungibile senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare ma anche essere rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici. Questo collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al termine del greco antico agàpe,  vale a dire a un lieto convito in cui ce n’è per tutti.

 Se la democrazia è una forma di amicizia, si capisce come non si possa praticarla veramente per via telematica. Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare esperienza concreta gli uni degli altri. In questo incontro ci si svela e si possono avere sorprese piacevoli e spiacevoli, ma comunque in genere si hanno sorprese. Finché gli altri rimangono una linea di caratteri sul video servono a poco. D’altra parte conoscerli veramente è impegnativo, in tutti i sensi: richiede uno sforzo, una pazienza nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica, un tempo da trascorrere insieme. E’ così che però si costruisce la società, si creano legami duraturi.

 Se lo stare insieme dipende solo dalla comune soggezione ad un qualche gerarca, culturale, politico, religioso e via dicendo, ha basi labili. Perché il legame vero è solo con il punto di riferimento gerarchico non tra le persone alla base. Ecco perché l’ingenuo attuale papismo delle nostre collettività religiose serve a poco sia per formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze sociali.

 Certe volte ci si incontra, in religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni gli altri le parole d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che serve? Si rimane estranei come prima, con in più molto risentimento.

  Un universitario per la prima volta nella sua vita viene posto di fronte alla realtà così com’è veramente, ed essa è complessa. Tutte le semplificazioni degli studi precedenti si rivelano ciò che sono, vale a dire, appunto, semplificazioni, una base di partenza. Scopre che ci sono molte interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte, anche perché è in movimento, evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche parte, ed evolve anch’essa. Questo è vero anche per tutte le verità, comprese quelle ritenute fondamentali, della nostra fede. E’ per questo che si scrive tanto di teologia. Se tutto fosse così semplice come talvolta viene presentato, non servirebbe.

 Il primo passo per affrontare il pensiero sociale della nostra fede è il convincersi della democrazia, perché questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla dottrina sociale nel corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per influire nelle società pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi i grandi principi ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è possibile dominare culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso, un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così, perché la democrazia è per tutti,  ed è solo così che è veramente efficace.

 

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Democrazia dei cristiani, democrazia di tutti

(30-3-16)

 

[dal libro: Pietro Scoppola, La democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo politico nell’Italia unita - intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, 2005, €10,00, disponibile in commercio]

 

Domanda: Ma ci sarà un ruolo significativo per i cattolici nella vita politica italiana di domani?

SCOPPOLA: Certamente, anche se sarà diverso da quello che svolsero in passato, al momento dell’Unità d’Italia nel 1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e mortificati proprio perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43, quando assunsero la responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato verso la libertà e lo sviluppo.

 Il loro futuro sarà di sostenere la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di una profonda ispirazione etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri credenti, alla migliore tradizione laica e alle tradizioni popolari delle sinistre europee, ma ancora una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.

 La Democrazia cristiana è stato il partito dei cattolici italiani, l’espressione più riuscita della loro maggiore età politica, lo strumento del loro enorme potere e insieme della loro crisi, come sempre accade nella storia umana.

 Ma oggi il problema è la democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico italiano si misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la Democrazia Cristiana per un proprio partito esclusivo,  e di lavorare piuttosto per la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).

 

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  Quand’è che si entra veramente in società? Un primo momento importante è quando si trova un lavoro stabile. L’altro è quando si forma un famiglia coniugale, basata su  un rapporto d’amore coniugale, più stabile perché si pensa anche a dei figli. In genere, ai tempi nostri, ci si arriva intorno ai trent’anni.

 E quand’è che si hanno le prime esperienze veramente sociali, al di fuori della famiglia, nella società generale,  che di solito coincidono con la scoperta dell’amore sessuale, la base della famiglia coniugale? Per me è accaduto al terzo anno delle superiori, a sedici anni.

 I trentenni di oggi hanno compiuto sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da cui ho tratto la citazione sopra trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un testo da universitari.  I trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le mani appena pubblicato. Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, finito dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario della metà del primo decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale esperienza, anche se era citata in un capitolo o due dei libri di storia per le superiori.

 Un trentenne di oggi, allora, potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto tra le mani quel testo di Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i cattolici abbiano vissuto sotto il dominio dei laici, intesi come gli irreligiosi, i non credenti. Invece i cattolici, dal 1946, hanno dominato la politica italiana, ininterrottamente sino ad oggi, prima con lo strumento di un partito e poi, dalla metà degli anni ’90, mediante un’azione di pressione politica attuata direttamente dalla Conferenza Episcopale Italiana per il tramite di gruppi di pressione transpartitici.

  Di solito si ricordano le leggi sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria della gravidanza (1978) come casi di sconfitta delle posizioni politiche dei cattolici. Sono stati gli unici due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia della Repubblica democratica. E in realtà non si trattava di una sconfitta dei cattolici, perché si trattò di leggi ampiamente condivise dai cattolici, come dimostrarono i successivi referendum promossi su di esse, ma di una sconfitta della politica della gerarchia cattolica.

 Un terzo caso simile potrebbe darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle persone omosessuali e sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione. L’azione di interdizione politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora impedito l’approvazione di qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo vaglio di costituzionalità, che aveva travolto la legge sulla fecondazione assistita del 2004, pesantemente condizionata dall’azione politica della gerarchia cattolica. Anche nel caso delle unioni civili omossessuali e delle unioni di fatto i sondaggi evidenziano un ampio consenso della maggioranza degli italiani, cattolici compresi. Se la legge fosse approvata, e non è ancora sicuro che lo sia, e si andasse ad un referendum, probabilmente sarebbe democraticamente confermata dalle urne.

  Tutto il resto della politica italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito con il contributo determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro volontà, ispirata in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa, in particolare a quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si attenuò molto l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata dalla fine dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del pensiero laicale in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia e la sociologia.

   L’idea di trovarsi in uno stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa.  Ecco perché Scoppola parlò del partito dei cattolici  come lo «strumento del loro enorme potere».

 Il potere dei cattolici italiani raggiunse il suo massimo livello nel regime democratico post-fascista. Fu sorretto da un’ideologia originale, riconducibile al pensiero di  politici come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, che colmava le grandi lacune della dottrina sociale in materia di democrazia. Quest’ultima fu accettata pienamente dalla gerarchia cattolica solo con l’enciclica Il Centenario,  del 1991, del papa Wojtyla. Ma nei testi della dottrina sociale la democrazia non viene trattata in dettaglio. La si presenta genericamente come una forma di potere del popolo che richiede partecipazione. Ma come si debba partecipare non è precisato. In genere si è molto attenti a fissarne dei limiti nei confronti della gerarchia del clero e in materia di trasformazioni sociali. La gerarchia, in genere, diffida del popolo;  e spesso non comprende bene la vita della gente, i suoi problemi, le sue aspirazioni. Vive in un universo autoreferenziale. E poi sente il pensiero democratico come un pericolo per il suo stesso potere, perché essa non è organizzata democraticamente e addirittura se ne vanta, non vuole esserlo (ma le spiegazioni che dà in merito non sono molto convincenti). Questo spiega anche perché il tirocinio democratico non rientra in genere tra le esperienze che vengono proposte ai fedeli nelle collettività di base. Lo si pratica, ad esempio, nei circoli intellettuali della FUCI e del MEIC, due movimenti scaturiti dall’Azione Cattolica che in questo si sono particolarmente specializzati.

 In realtà la democrazia, come ai tempi nostri la intendiamo, è una forma di governo delle società umane molto particolare, perché è strettamente legata alla giustizia, la comprende al suo interno. Nelle altre forme di potere essa può essere al più un orientamento morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno: in quei casi la legge suprema del potere è il potere stesso, il mantenimento del potere, e di fronte ad essa la giustizia recede. Viene praticata se e nella misura in cui serve al mantenimento del potere, alla creazione di un consenso sociale, al mantenimento della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti, invece, vive della giustizia, perché non si può governare tutti  senza essere giusti, senza riconoscere a tutti  la medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale, oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa. Questo crea qualche problema alla dottrina  sociale, intesa come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia. Questo rende ancora difficile, talvolta,  spiegare teologicamente come una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa, fondata su democrazia e giustizia sociale.

  Io che ho fatto il liceo ai tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, o il partito cristiano come lo definì un altro fine intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a capire come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi dovrebbe forse ripartire da capo.

  Innanzi tutto occorre fare realisticamente i conti con la storia. Respingere certe interessate falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i cattolici vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti sotto il regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è stata costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel mondo cattolico, ed è  innanzi tutto crisi del pensiero democratico espresso dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica.  Tutto questo è necessario    in politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa  come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte, in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale <www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,  il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015,  del papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi, per poi approfondire ulteriormente.  In questo tempo di sviluppo  della dottrina sociale,  le novità  dei tempi hanno inciso moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina sociale  che è rimasta, appunto, una  dottrina, vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana. Questa realtà normativa  è poco adatta al pensiero sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.

 Non so quanti sarebbero disposti, ad esempio, a condividere questa affermazione, riportata nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 227, riprendendo pronunce del papa Wojtyla:

“Le unioni di fatto, il cui numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa concezione della libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del tutto privatistica del matrimonio e della famiglia”.

 Questa sentenza non corrisponde a ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche inutilmente insultante verso chi ha realizzato unioni coniugali non formalizzate in un matrimonio, religioso o civile, ma comunque stabili e feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia  a quelle unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è uscita da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale. E' stato scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste sociali.

 Alla democrazia è essenziale un pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente, vale a dire nel libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non si possono fare progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi  in politica lascia, allora,  un po’ il tempo che trova, come si dice.

 O si vorrebbe che la gente, imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse ad essere il braccio secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in politica, secondo il progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo l’esperienza di politica democratica della Democrazia Cristiana volle superare.

 Come persone di fede non possediamo  la verità, ogni soluzione giusta, sui fatti sociali e politici. Le soluzioni devono essere ricercate nel confronto democratico, in quella che Scoppola definiva la democrazia di tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava come di Omnicrazia, che significa la stessa cosa, e la vedeva attuata attraverso Centri di orientamento, in cui capire e scegliere nel confronto e dialogo democratici.

 

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Nella grande  politica

(6-6-16)

 

 Incollo di seguito il testo di un discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco a magistrati convocati a Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia delle scienze. In esso ha ripreso il tema della necessità di immischiarsi  nella politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra natura.

 I primi commentatori delle parole di Bergoglio hanno notato il riferimento alla "grande" politica più che quello alla libertà dei giudici. Entrambi però sono importanti e connessi e rappresentano delle novità nell'ideologia proposta negli ultimi anni alle collettività di fede che riconoscono l'autorità religiosa del vescovo di Roma.

  Più o meno dal Sesto secolo della nostra era la Chiesa cattolica come complesso di istituzioni è stata uno dei più importanti attori politici europei; questo in particolare a partire dal secondo millennio, da quando si è costituita come un impero religioso ad ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in politica",  e in quella "grande". Dove sta la novità? 

 La novità sta nel fatto che nelle parole di Bergoglio quell'impero non c'è più. Lui per primo ne ha rifiutati i segni andando a vivere in albergo, invece che nella reggia romana dei pontefici.

 Ci sono i popoli e ci sono delle esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze da lenire, ci sono delle vittime a cui dedicare "grande attenzione". C'è un ordine sociale da cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che viene evocato come una "buona onda", "dall'alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità e dai popoli e dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli dirigenziali", dove quei "viceversa" sono molto importanti, perché in passato non se ne faceva conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in basso e dal centro alla periferia.

 In quest'ottica sembra quasi che dal giudice si pretenda molto di più di quello che egli è autorizzato a fare, anche negli ordinamenti di tipo democratico: qualcosa che pare una rivoluzione sociale, da fare agendo insieme, in comunità, per "aprire brecce, vie nuove di giustizia". E' perché Bergoglio, prendendo lo spunto dall’udienza a quei magistrati, sembra aver considerato il giudice come un modello di cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti  a farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,  avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato" che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare  un nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre.  Può liberare forze potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o semi-liquido.

 Venendo veramente da un altro mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica per la riforma sociale, presentata come dovere religioso:   " Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento "L'80° Anniversario"].

 "Giustizia, libertà, azione collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione se ne riprende a parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento. Un capo religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare, tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi. “La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini” tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla luce della fede che rende esigente  l’impegno politico come valore anche religioso.

 

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INTERVENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]

Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016

 

 

Buonasera. Vi saluto cordialmente e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra collaborazione nel contribuire al progresso umano e sociale, di cui la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è capace.

Se mi rallegro di tale contributo e mi compiaccio con Voi, è anche in considerazione del nobile servizio che potete offrire all’umanità, approfondendo sia la conoscenza di questo fenomeno così attuale, ossia l’indifferenza nel mondo globalizzato e le sue forme estreme, sia le soluzioni dinanzi a tale sfida, cercando di migliorare le condizioni di vita dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi. Seguendo Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in politica; la Chiesa deve mettersi nella “grande” politica! Perché — cito Paolo VI — la politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità. E la Chiesa è anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora più quando si considerano le situazioni dove si toccano le piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in cui la vostra testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.

Nel corso degli ultimi anni non sono mancate importanti attività della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali sotto il vigoroso impulso della sua Presidente, del Cancelliere e di alcuni collaboratori esterni di grande prestigio, che ringrazio di cuore. Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e donne di oggi e, in particolare, attività volte a sradicare la tratta e il traffico di persone e le nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico di organi, il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha detto il mio predecessore Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in diverse occasioni, questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono essere riconosciuti come tali da tutti i leader religiosi, politici e sociali e plasmati nelle leggi nazionali e internazionali.

L’incontro con i leader religiosi delle principali religioni che oggi influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo, il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua incidenza.

Ora, ispirata dagli stessi aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e pubblici ministeri di tutto il mondo, con esperienza e saggezza pratica nello sradicamento della tratta, del traffico di persone e della criminalità organizzata. Siete venuti qui in rappresentanza dei vostri colleghi con il lodevole intento di progredire nella piena consapevolezza di tali flagelli e, di conseguenza, di rendere manifesta la vostra insostituibile missione dinanzi alle nuove sfide che ci pone la globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo alla crescente richiesta della società e nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Farsi carico della propria vocazione significa anche sentirsi e proclamarsi liberi. Giudici e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle pressioni dei governi; liberi dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi dalle “strutture di peccato” di cui parla il mio predecessore san Giovanni Paolo II, in particolare della “struttura di peccato”, liberi dal crimine organizzato. So che subite pressioni, subite minacce in tutto questo; e so anche che oggi essere giudici, essere pubblici ministeri, significa rischiare la pelle, e ciò merita un riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono continuare a essere liberi nell’esercizio della propria funzione giuridica. Senza questa libertà, il potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina corruzione. Tutti conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no? La giustizia con gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la bocca.

Fortunatamente, per l’attuazione di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano, cioè liberare l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che l’Accademia realizza seguendo la mia richiesta, si può anche contare sull’importante e decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una maggiore consapevolezza di ciò, una forte consapevolezza. Sono lieto che i rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile e integrale, in particolare il numero 8.7, che recita: «Adottare misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro forzato, porre fine alle forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri umani e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro infantile, inclusi il reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi entro il 2025, porre fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui la Risoluzione. Si può ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un imperativo morale per tutti i Paesi membri dell’ONU.

Perciò occorre generare un moto trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci l’intera società dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica fino ai più alti livelli dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come hanno già fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici prendano piena consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria responsabilità davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone pratiche e agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria, potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza, che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti, accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una società di popolo.

L’Accademia, convocando i giudici, aspira solo a collaborare in base alle proprie possibilità, secondo il mandato dell’ONU. È opportuno ringraziare qui quelle nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono mostrate indifferenti o arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno collaborato attivamente con l’Accademia per la realizzazione di questo vertice. Gli ambasciatori che non hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati le mani o che hanno pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla prossima riunione.

Chiedo ai giudici di realizzare la propria vocazione e missione essenziale: stabilire la giustizia senza la quale non c’è ordine né sviluppo sostenibile e integrale, e neanche pace sociale. Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo odierno è la corruzione a tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo, debilita la democrazia partecipativa e l’attività della giustizia. A voi giudici spetta fare giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare giustizia nell’ambito della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò e al crimine organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela delle corruzioni.

Quando diciamo “fare giustizia”, come voi ben sapete, non intendiamo che si debba cercare il castigo di per sé, ma che, quando si comminano pene, queste siano date per la rieducazione dei responsabili, in modo tale che si possa dare loro una speranza di reinserimento nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà luogo alla speranza è una tortura, non è una pena. Su questo mi baso anche per affermare seriamente la posizione della Chiesa contro la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo che nella concezione della teologia medievale e post-medievale la pena di morte conteneva la speranza: «li affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è più così. Lasciamo che sia Dio a scegliere il momento... La speranza del reinserimento nella società: “neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.

I giudici sono chiamati oggi più che mai a dedicare grande attenzione ai bisogni delle vittime. Sono loro le prime a dover essere riabilitate e reintegrate nella società, e per loro si devono perseguire in una lotta senza quartiere trafficanti e carniferos, i carnefici. Non vale il vecchio adagio: «Sono cose che esistono da che mondo è mondo». Le vittime possono cambiare e di fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto dei buoni giudici, delle persone che le assistono e di tutta la società. Sappiamo che non poche di queste persone sono uomini e donne avvocati e politici, scrittori brillanti o hanno incarichi di successo per servire in modo valido il bene comune. Sappiamo quanto sia importante che ogni vittima trovi la forza di parlare del suo essere vittima come di un passato che ha superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto o, per meglio dire, una persona con qualità di vita, con dignità recuperata e libertà assunta. Riguardo a questo tema del reinserimento, vorrei raccontare un’esperienza empirica. Mi piace, quando vado in una città, visitare il carcere. Ne ho visitati diversi. È curioso, senza voler offendere nessuno, ma la mia impressione generale è stata che le carceri in cui il direttore è una donna vanno meglio di quelle in cui il direttore è un uomo. Questo non è femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo al tema del reinserimento, un olfatto speciale, un tatto speciale che, senza perdere energie, per ricollocare queste persone, per reinserirle. Alcuni lo attribuiscono alla radice della maternità. Ma è curioso, lo dico come esperienza personale, vale la pena rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta percentuale di carceri dirette da donne, molte donne, giovani, rispettate e che sanno trattare con i detenuti. Un’altra mia esperienza personale è che alle udienze del mercoledì non è raro che partecipi un gruppo di detenuti — di una o l’altra prigione — portati dal direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono tutti gesti di reinserimento.

Voi siete chiamati a dare speranza nel fare la giustizia. Dalla vedova che insistentemente chiede giustizia (Lc 18, 1-8) alle vittime di oggi, tutte alimentano un anelito di giustizia, come speranza che l’ingiustizia che attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà, non abbia l’ultima parola.

A volte può essere di giovamento applicare, secondo modalità proprie di ciascun paese, di ogni continente, di ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di recuperare i beni criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti, per offrirli alla società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime. La riabilitazione delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre realmente possibile, è il bene più grande che possiamo fare a loro, alla comunità e alla pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina con la sentenza. Termina dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una crescita, un reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.

Se c’è una cosa che attraversa le beatitudini evangeliche e il protocollo del giudizio divino con cui tutti saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo (cap. 25), è il tema della giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati quelli che soffrono per la giustizia, beati quelli che piangono, beati i miti, beati gli operatori di pace, benedetti dal Padre mio quelli che trattano il più bisognoso e il più piccolo dei miei fratelli come me stesso». Essi o esse — e qui è il caso di riferirci in particolare ai giudici — avranno la ricompensa più grande: possederanno la terra, saranno chiamati e saranno figli di Dio, vedranno Dio, e gioiranno eternamente insieme al Padre.

In tale spirito oso chiedere ai giudici, ai pubblici ministeri e agli accademici di continuare la loro opera e realizzare, nei limiti delle loro possibilità e con l’aiuto della grazia, le felici iniziative che onorano il loro servizio alle persone e al bene comune. Grazie!

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Il partito del Papa

 

 Con l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha diffuso un progetto integrato di riforma della società contemporanea, un vero e proprio manifesto politico. Esso deve essere discusso democraticamente, ma proprio per la fonte da cui proviene è difficile farlo in religione, e al di fuori dei contesti religiosi non lo si fa perché non interessa. Infatti il partito del Papa  non ha seguito in Italia. Il nostro è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato dominato da un artito cristiano ed è stato impressionante constatare che nelle ultime elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti che le animavano si è richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha affrontato il tema di Roma come città della fede, e questo nonostante il Giubileo in corso. Nessuno si è richiamato ai temi politici della Laudato si’, che probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e anche laddove è conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto specificamente politico. Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura pontificia, si sia considerato distrattamente un documento in cui invece ogni parola è importante perché segna un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove opportunità. Si dà uno sguardo ai titoli, si legge qualche brano scelto traendolo dai commentatori, e poi si aspetta il prossimo documento, che infatti  è venuto con l’esortazione Letizia dell’amore.

  Fare  politica ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come una forma esigente di carità. Questa espressione viene attribuita, sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Achille Ratti - Pio 11°, il Papa dei Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono riuscito a trovare uno stralcio sul WEB:


I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.

È con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.


 In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi. Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica  di Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:


“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”


 Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo Anniversario[della prima enciclica sociale  Le novità, del 1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:


"Significato dell’azione politica

46 […]È vero che sotto il termine «politica» sono possibili molte confusioni che devono essere chiarite; ma ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.

Questo, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui, delle famiglie e dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio di tutti, le condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell'uomo, ivi compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti della sua competenza, che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e interviene sempre nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene comune, di cui ha la responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo d'azione e le responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi concorrono alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni intervento in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già di distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente, tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani, sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini."

 Che cosa c’è di diverso tra il pensiero del Sarto e quello del Montini sulla politica? C’è la democrazia, che significa anche considerare la politica non come inevitabile sviluppo di interessi particolari,  ma come servizio efficiente e disinteressato per  realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. E c’è la mediazione, che significa concepire la politica come  ricerca  insieme ad altri, in un clima di pluralismo.

  Esercitare il potere in modo insieme democratico e  conforme allo spirito evangelico non è innato nei fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio. Negli anni ’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in cui in Italia fiorirono tante scuole  di politica.  Ma poi emerse il pluralismo della politica e si lasciò perdere. Si riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni bui dell’intransigentismo ottocentesco, quelli della polemica durissima con il liberalismo democratico, che ancora risalta moltissimo nelle parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è persa una tradizione di impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea solo sui libri. Quindi poi la rinnovata esortazione all’impegno politico democratico di Bergoglio cade nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto agli orientamenti politici  della Laudato sì, la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni francamente di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su migranti ed emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a scapito di qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare  più tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali e dell’edilizia intensiva.

  Ad essere cittadini di una democrazia avanzata si impara e se la politica democratica ha un valore anche religioso si tratta di un lavoro che deve essere impostato anche negli ambienti di fede, come una parrocchia. Si inizia con un tirocinio, con fare esperienza di democrazia negli affari minuti, nella gestione di un gruppo, di un servizio, rifuggendo e contrastando il cesarismo  dei capi. Poi ci si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che costa fatica, perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo tempo, tutte le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in disuso, a cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di legittimazione democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare quando si svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle stesse persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno ben chiaro a che titolo vi partecipino.

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Fede e politica: una relazione essenziale

 

 

[da: Ludwig Hertling, Storia della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag, Berlin, 1967)]

 

La nuova serie di papi sotto l’influenza degli imperatori

 

 Ottone I (1°) [912-973, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 962] e suo figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto, erano intervenuti nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza ottenere veri risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo Ottone [Ottone III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero dal 996], il quale personalmente non possedeva la qualità dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma deve avergli giovato il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno alla corona imperiale per merito di suo padre e di suo nonno.

 

Gregorio V e Silvestro II

 

 Quando nell’anno 996 morì Giovanni XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio verso Roma. I romani lo pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III contava allora 16 anni, era profondamente religioso, essendo stato educato  dai migliori maestri del tempo, ed inoltre era un idealista entusiasta che sognava gli splendori dell’antico Impero romano. Egli designò come papa il suo cappellano di corte, che era anche un suo parente, Brunone. Questi, a sua volta molto giovane, perché contava solo 24 anni, in fatto di idealismo non la cedeva all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio V (5°), ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai promettente. Dopo di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro Gerberto. Gerberto, un francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era molto ammirato per la sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha fatto un mago. Non meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro II (2°), era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un lungo tempo la Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente cristiana e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli ungari con la metropoli  di Gran, A colui che era stato fino allora il duca degli ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.

 

Il nuovo predominio dei signori di Tuscolo

 

Dopo la morte prematura dell’imperatore Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente un conflitto tra i conti di Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V avevano tentato di suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un antipapa. Ma il nuovo imperatore  Enrico II  (2°) fece accettare ai romani il legittimo pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della famiglia di Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due città vinsero i saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani. Nel 1020 il papa si recò in Germania e consacrò  il duomo di Bamberga, fatto erigere da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in Pavia, in cui il celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero promulgati fin d’allora decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli ordini sacri in cambio di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia si vennero un po’ alla volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal sistema delle chiese di proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della Chiesa dai signori feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta delle investiture.

 I conti di Tuscolo tornarono a essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il fratello di Benedetto VIII, Alberico, governava la città col titolo di console. Dopo la morte di Benedetto VIII, un terzo fratello divenne papa col nome di Giovanni XIX (19°).  Questi incoronò imperatore Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re Rodolfo III (3°) di Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al resto, egli non si occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°) di Bisanzio gli profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al patriarca di Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi precedenti gli avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma dovette rinunciarvi a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i monaci cluniacensi (federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di  Cluny, in Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di Tuscolo, che voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei suoi membri, impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto. Il ragazzo, che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato dopo poco tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse, dal momento che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra volta, egli ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete di San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro III (3°).

 

Intervento di Enrico III (3°)

 

 Giovanni Graziano aveva agito con le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver ora accettato egli stesso l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°), come egli si chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli ecclesiastici più rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma poiché uno dei principali punti del programma di riforma si riferiva alla simonia, e cioè al commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno un’imperfezione che il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo scopo di farlo abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua abdicazione e ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro III. In questo ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere d’aiuto. Enrico III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia. Egli tenne un sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto IX, che già aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo papa, furono definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare volontariamente il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma, l’imperatore lo prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane chierico romano, Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo storico di grande importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.

  L’imperatore sembrava l’unica personalità in grado di ristabilire l’ordine, tanto che tutti furono d’accordo che fosse lui stesso a nominare i papi seguenti. I suoi due primi papi, Clemente II (2°), precedentemente vescovo di Bamberga, e Damaso II, vescovo di Bressanone, uomini eccellenti entrambi, morirono dopo pochissimo tempo dopo la loro elezione. Allora Enrico III nominò un alsaziano, il vescovo di Toul. Il nuovo papa, però, Leone IX (9°), desiderò un’elezione regolare da compiersi a Roma. Nel viaggio che doveva condurlo a questa città, prese con sé il giovane Ildebrando, il quale, dopo la morte di Gregorio VI, s’era fatto monaco, probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e i suoi successori, finché non venne eletto papa egli stesso [con il nome di Gregorio 7°].

[…]

 Alessandro II [papa eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e  senza l’ingerenza dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero luogo il giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di arcidiacono, il popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I cardinali si ritirarono immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo secondo le regole precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò il giorno dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico IV. A ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).

 Gregorio VII appartiene a quegli uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché suscitino le reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio appropriato sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del medioevo, morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è cattolico e papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un barbaro. E fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute spavento al mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone la festa ogni anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali Gregorio VII è il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che Gregorio VII fece un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier Damiani lo chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò significare l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni altro. Come già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura, mobilissimo, infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile vitalità. Lo zelo lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio. Ogni cosa era per lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a sant’Ignazio di Lojola.

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  Quando da ragazzo lessi le pagine che ho sopra trascritto, da un libro di studio di mia madre, rimasi meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling di argomentare, contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in cui mi ero formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio seguente e quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi racconti sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra fede e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende dal suo attivismo, è un progetto suo.

  Nel 2013 è stato eletto papa un  vescovo, un religioso dello stesso ordine di Hertling, che ha assunto un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era mai stato prima un papa di nome Francesco. E’ andato a vivere in un albergo nella cittadella vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha rifiutato le insegne della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un nuovo corso politico, con il suoi documenti  La gioia del Vangelo,  del 2013, e Laudato si’,  del 2015. Un po’ come avvenne intorno all’anno Mille. All’epoca il moto di cambiamento fu sostenuto dai monaci della federazione di Cluny, oggi dal movimento  conciliare.

  Quanto è importante la politica nella fede?

  Una tesi che si potrebbe tentare di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto, tanto studio per farlo) è che è tutto, da un punto di vista storico e sociologico, naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine soprannaturale.

   Adottando il lessico di Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’ superficiale come è quello di un ignorante colto come io sono, uno che non è uno specialista di certi temi e che pure per rendere ragione della propria fede deve tentare di ragionare su di essi, come se dal Quarto secolo della nostra era la penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo  sia avvenuta per la massima parte per via politica. Una politica che nel primo millennio fu dominata dai sovrani civili, gli imperatori romani e poi da quelli che si considerarono loro successori, e che nel secondo millennio, da Gregorio VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai sovrani religiosi romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti come un impero religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta di condominio su un  popolo di sudditi. Questa era dei papi-imperatori sta volgendo al termine in questi anni ed è questa l’epoca in cui noi fedeli siamo finiti in mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo nascere nella Roma dominata dai signori di Tuscolo, che espressero sovrani religiosi definiti da alcuni storici, spregiativamente, pornocrati.

  Se, da un punto di vista storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione della fede, è evidente che chi propone l’apoliticità  della fede non fa gli interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte durissime non nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben vedere, su temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società del nostro tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare il pastore chi a questo ruolo è designato in quanto membro del clero? E poi: come combattere la povertà? Come evitare che l’industria rovini l’ambiente in cui viviamo? Chi e in base a che criteri deve fare le parti della ricchezza che si produce? Una fede religiosa che non affronti questi temi diventa inutile. E la nostra  fede non lo è mai stata storicamente e non lo è. Infatti di questi temi si discute oggi, in religione.

  La politica contemporanea si fa con metodo e secondo principi democratici, che significa partecipazione di tutti  al governo, elevazione di tutti  alla sovranità. Questo implica un tirocinio, una  formazione che non può limitarsi allo studio dell’imponente letteratura dei papi. La politica democratica richiede una partecipazione anche alla elaborazione dei principi e, vista la stretta connessione tra fede e politica, per cui la nostra mi appare essere stata sempre (questo mi sembra il suo vero tratto distintivo rispetto ai tanti culti misterici che le furono coevi nel primi tre secoli della nostra era) una fede politica, ciò finirà (come del resto è già accaduto con lo sviluppo del movimento di idee che sfociò negli scorsi anni Sessanta nell’ultimo Concilio ecumenico) per riflettersi anche sul modo di pensare  la fede. E’ stato osservato, ad esempio, che alcuni dei più importanti movimenti scaturiti nel post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica teologia, anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in genere alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la proposta politica del nostro vescovo e padre universale Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio solo degli specialisti.

  Possiamo considerare, sotto l’aspetto politico, i papi Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo 2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto 16°, gli ultimi sovrani dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da quelli del primo millennio. E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il papa che ci è venuto dal Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata dai sovrani medievali alla cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato,  il capostipite di una nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un processo che coinvolgerà anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo. Un ritorno al passato è impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il nostro  mondo è la Terra intera e non il piccolo universo umano in cui pensavano di essere signori del mondo i papi intorno all'anno Mille.

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La vita di fede come esperienza civile

 

 

 La fede può essere alla base di un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato che fosse possibile. Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una storia analoga si è vissuta in Germania.  In altre regioni europee la fede è stata integrata nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad esempio, alla Spagna e alla Polonia.  In Italia al centro di tutto ci sono stati dei valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici. Tutto ciò è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo punto, però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.

  Di tutto ciò si sono avuti riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato. Ho ricordato i fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con quell’epoca, appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose. In passato, e molto a lungo,  si è pensato che oltre a catechismo e famiglia ci fosse poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli di storia, in cui la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.

 Negli ultimi vent’anni c’è stato anche un problema di formazione del clero. Sono venuti a collaborare molti sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di quella storia di esperienza civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non conoscendola non l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte eccezioni naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica, molto centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio. Quando ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha fatto impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li ricordo sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi visitatori laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza: certo, eravamo meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo in qualche modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro erano destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime comunioni, a cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata a stare  in chiesa. Ma non è proprio questo il nostro popolo? Quando lo si idealizza nei bei documenti del nostro supremo magistero, popolo qui, popolo lì … tutto va bene, ma quando il popolo esce dalla carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona impressione. E’ perché manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in cui ognuno sia ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la liturgia serve appunto anche asuscitare  un popolo diverso, per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro  da una certa storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli ambienti con questi nugoli di incenso.  

  Si è puntato molto al perfezionamento  interiore, cercandolo di sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi pare abbiano vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di  alcuni ordini religiosi, le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno l’amicizia della fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per le donne.  Ma la vita di fede non sta solo in questo.

  Agli albori del cattolicesimo democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò Fava Ghisilieri, in Riflessioni politico-morali raccolte da un solitario ad uso della gioventù libera d’Italia [citato in Vittorio E. Giuntella, La religione amica della democrazia - i cattolici democratici del Triennio Rivoluzionario (1976-1799)]:

“Quand’è che l’uomo può dirsi un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti de’ suoi fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola dolce a se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi della morale? Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata, più stabile della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle interpretazioni in spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il più dolce, e il più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual altro è mai, se non quello della Carità? E non è forse nel sistema repubblicano, che più si cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più opportuna di questa a un tal uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci tutti come fratelli. Le dissensioni civili, che son tanto nemiche della Libertà, non trovano forse ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei dinanzi al Giudice supremo persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che lacerano l’altrui fama, non che degli odi covati a lungo nel seno?”

  Ad uno spirito religioso può non bastare di distinguersi dalla società, di starsene da parte in un mondo tutto suo che, man mano che ci si separa, finisce per diventare tutto fantasia, sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che siamo stati mandati nel mondo? Da giovane non avrei sopportato questa prospettiva, che per altro non mi fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci adatto. Però ci sono pochi posti in cui vivere un’esperienza civile animata dalla fede. Uno deve fare da sé. Certe cose non te le spiegano in parrocchia e nemmeno altrove. Viene tra noi uno come don Ciotti e sembra un marziano, una persona da un altro mondo. Eppure intorno a lui ci sono tante persone di fede che condividono la sua esperienza civile.

  Da dove ripartire?

  Direi dai più giovani perché in genere hanno più tempo per la formazione: è il loro lavoro. Il tempo degli adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane poco per qualcos’altro. Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in cui presentiamo la religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il nucleo di spinta di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante rigenerazione, è costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano: occorre che sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne diffidino, che arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro le fosche visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri ultimi sovrani religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società in disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è solo questo intorno a noi.