Azione Cattolica: fede
religiosa e democrazia
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Parte 6
(dal n.49 al n.63)
(le parti precedenti sono
pubblicate nei post successivi, nei post precedenti sono pubblicate quelle successive.
Questo testo è pubblicato in 8 parti)
di
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
edizione ottobre 2020, con nuovi materiali
49
Noi, la
Chiesa e la società nella crisi
(7
gennaio 2013)
Il duro
inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di sacrificio per
i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi, per le famiglie
con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa provvidenzialità di
questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la sollecitazione a rinnovate
opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero rapporto della Chiesa con
la società italiana e col mondo che viene in primo piano. E non più solo o
tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del sistema sociale e
politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma soprattutto per la sfida
che la crisi economica, istituzionale e culturale pone al presente e al
prossimo futuro nella società e civiltà italiana.
Il
nostro paese è in incombente pericolo di precipitare in un nuovo periodo di
decadenza, secondo una triste regolarità della nostra storia. C’è già chi si
rassegna. Ed è forse proprio contro la inclinazione anche di molti cattolici
alla rassegnazione che questo convegno acquista ora la sua drammatica
attualità.
Tra le
non molte interpretazioni complessive della situazione attuale della società
italiana, che ho trovato tra i documenti di risposta pervenuti dalle diocesi,
da singole comunità e gruppi di lavoro di Chiese locali [nella fase preparatoria – nota mia], da associazioni nazionali cattoliche e da
qualche comunità cosiddetta di base – la rassegnazione non trova però spazio.
Il
senso di gran lunga prevalente delle risposte sul tema generale del rapporto
fra la Chiesa e la società italiana, è che occorre accrescere il mutuo aiuto
tra Chiesa e mondo nello spirito della “Gaudium et spes”. E proprio la ricerca,
da parte della cattolicità italiana, di vie e modi e obiettivi specifici, per
una congiunta e non contraddittoria azione, di annuncio del Vangelo e di
impegno per la giustizia e per la partecipazione alla trasformazione del mondo,
configura lo specifico apporto della Chiesa alla società profana.
[Dall’intervento
del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al convegno ecclesiale
“Evangelizzazione e promozione
umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976 – in Evangelizzazione e promozione umana – atti
del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice A.V.E,
1976]
Le parole che ho sopra trascritto sembrano
scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema della nostra Chiesa
che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in relazione con il
mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a trentasei anni fa. Che significa questo? Significa che un lavoro
che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto e che ora può essere
ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte nuovamente favorevoli, in
particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo nell’enciclica Caritas in veritate del papa Benedetto
16°.
Che cosa è la nostra Chiesa? Non parlo
naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue finalità sotto il
profilo teologico, della fede comune
professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di vista sociale, delle
relazioni come collettività con il mondo in cui è storicamente inserita. Questo
è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire la società arricchendola con i principi
evangelici che riguardano la vita comune.
Non vi aspettate che vi dia qui delle
risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse nelle nostre riunioni
infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito prendessero parte anche
coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla vita della parrocchia e
anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa come è ora e lo dicono
francamente, ma tuttavia nella loro interiorità apprezzano ancora, al di là di
quelle critiche anche dure, un discorso religioso.
Siamo, ad esempio, una ditta per la propaganda del
sacro? Siamo una federazione di collettività che in senso molto lato
condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che fanno vita
separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui? Siamo una
federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che vuole dare
una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla contro le
critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire un’organizzazione che ha come scopo
principale sostenere l’azione del Papa nel mondo di oggi e in particolare in
Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo di avere la ricetta giusta per
cambiare il mondo rovesciando i principi perversi su cui esso si fonda? Siamo
gruppi di oranti che pensano di ottenere il cambiamento del mondo con la
preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i vescovi e il Papa per noi? In
che cosa i preti si differenziano dagli assistenti sociali, dagli psicologi,
dagli psichiatri e dagli insegnanti delle scuole? Quale autorità riconosciamo
loro, di fatto?
In questo Anno
della fede queste domande mi sembrano importanti. Possiamo aspettarci che
la risposta ci venga dall’azione catechistica svolta nella Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa siamo o come dovremmo essere? O dovremmo, come
punto di partenza, riconoscere francamente come
abbiamo voluto essere finora e capire se questo modo di essere è sufficiente in relazione ai principi che
proclamiamo e che, come non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di
sé e ancora informano di sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?
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50
Un
processo continuo di liberazione
(8
gennaio 2013)
Se c’è, come non può non esserci nel mondo un
processo continuo di liberazione, la Chiesa, il cristiano con la Chiesa e per
la Chiesa, deve essere presente in questo processo di liberazione. In che modo?
Con la triplice azione sacramentale che è propria della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la parola.
Nel processo di liberazione e di promozione
umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano deve essere innanzi tutto
presente con la parola di Dio.
[…]
Con la vita.
La Chiesa. … e il cristiano nella Chiesa non
può accontentarsi di parlare di
liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo
stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno,
deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti che la Chiesa deve portare nel mondo la
liberazione totale e integrale operata da Cristo.
[ da La
Chiesa sacramento di Cristo e segno e strumento di liberazione, relazione
tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo Enrico Bartoletti – all’epoca segretario
generale della CEI, in Enrico Bartoletti,
La Chiesa nel mondo – a cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].
Lo
scritto che ho sopra riportato rende bene il clima degli anni immediatamente
dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa cattolica, a lungo considerata
essenzialmente una forza di contenimento
sociale e personale, se non una organizzazione francamente reazionaria,
veniva concepita in modo nuovo, nel senso che come fedeli ci si assegnava compiti
nuovi, religiosamente motivati, in un mondo in cui era generale l’ansia di
elevazione di popolazioni o strati di popolazioni fino ad allora considerati
fatalmente destinati alla sofferenza e alla minorità.
Bisogna
dire che di certi temi in Italia si parlava accostandoli piuttosto da lontano,
ad esempio di quello dell’elevazione e liberazione delle popolazioni del
cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia. Ai tempi nostri, in cui strati di
popoli africani e asiatici sono migrati dalle nostre parti, i problemi si sono
fatti più concreti.
E’
necessario anche aggiungere che il disegno conciliare prevedeva un ruolo molto
più attivo dei fedeli laici in questi nuovi compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana,
dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro di preparazione di questa
parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune sue porzioni
particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto il
pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello di presenza dei fedeli laici nella società in cui
vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80,
nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
Oggi,
se consideriamo chi siamo, noi
cattolici, visti nel nostro complesso e parlando francamente, dobbiamo
considerarci prevalentemente una forza di
liberazione e promozione umana, o una forza
di contenimento, o ancora una
forza di reazione, gente che quindi
vuole tornare ai tempi di prima?
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51
Pace come promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica
sulla Chiesa Lumen gentium, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In
tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di
mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma
celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli
altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue
membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv
18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla
sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e
accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò
che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva.
Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale
sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste
portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo
carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello
stesso Signore, e con esso la Chiesa
cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con
tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In
virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre
parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per
uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo
di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si
compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per
ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro
fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio
stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla
comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni,
rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede
alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme
veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma
piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa,
vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e
le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa
cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale;
a questa unità in vario modo appartengono
o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia
infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla
salvezza.”
Dalla Costituzione pastorale
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.4:
“E
mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua
interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene
spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; infatti, permangono
ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né
è venuto meno il pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa.
Aumenta
lo scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i più
importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai
diversi.
Infine,
con ogni sforzo si vuol costruire
un'organizzazione temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il
progresso spirituale.
Immersi
in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in
grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente
con le scoperte recenti.
Per
questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e
l'angoscia, mentre si interrogano sull'attuale andamento del mondo.
Questo
sfida l'uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.”
Dalle relazione tenuta da mons.
Enrico Bartoletti (1916-1976, dal 1972 Segretario generale della C.E.I.) al
seminario della Caritas italiana del
27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa
nel mondo, Editrice A.V.E., 1982, pag.123.
Ecco
allora quello che è la Chiesa o per
lo meno quello che ella è virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve
di continuo divenire: una comunità, una
comunione di uomini amati da Dio e che hanno la capacità per il dono dello
Spirito che è stato loro concesso di trasfondere, di manifestare, di realizzare
questo amore di Dio per gli uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto
verso coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere
membra vive della medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli
uomini: “ogni uomo è mio fratello”.
Se noi comprendiamo questo e se non ripetiamo pappagallescamente lo slogan
dell’amore che risolve tutto, ma arriviamo a comprendere la radice profonda
che costituisce l’essenza intima e autentica della Chiesa come comunità di
credenti, come comunione di coloro che Cristo ha redento, allora veramente noi
abbiamo della Chiesa e quindi di noi stessi un’altra visione. Noi comprendiamo
che se questa è l’essenza profonda della Chiesa, se questa è la sua realtà di
base, la sua intima connessione interiore, se questo in fondo è il suo mistero,
rivelare questo mistero al mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per
primi e poi via via a cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco,
Dio non ha abbandonato il mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha
abbandonato la storia perché ha messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù
nell’amore dello Spirito, questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo
secondo il progetto di Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per
lui.
Intendere la Chiesa comunità pacificante è
stata una delle idee forti che si sono manifestate nel Concilio Vaticano 2°
(1962-1965).
Bisogna considerare che sul tema della pace
non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in particolare dopo
il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso le concezioni che
oggi sono diffuse dal magistero.
Il tema della pace, nei documenti conciliari,
si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché la pace è cosa da
realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei templi dove
dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito principalmente
laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica per
l’instaurazione e il mantenimento della pace
tra i popoli è quello di un’autorità mondiale, universalmente
riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una sorta di polizia di pace, nel senso di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i
conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che
un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di
degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In
realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione
di un ordine pacifico, in una accordo tra
autorità costituite, con una cessione di
sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo
espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:
L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo.
In realtà
un’autorità mondiale di questo tipo non è stata ancora realizzata. L’esperienza
europea di pacificazione continentale, che l’anno scorso ci è fruttata il Nobel per la pace, è basata molto su una progressiva convergenza
dei costumi dei popoli oltre che sull’azione di autorità a vario livello,
secondo il principio, riconosciuto anche dalla dottrina sociale della Chiesa,
della sussidiarietà. In questo quadro
ha avuto molta importanza la penetrazione sociale di costumi democratici,
intesi sia come forme partecipate e pacifiche di decisioni su temi di interesse
comune sia come affermazione concreta dei diritti umani fondamentali.
Il lavoro di pacificazione può farsi rientrare
nell’impegno di promozione sociale,
quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo fondamentale al
laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli scritti che ho
sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo da un intervento
fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono indicate
specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come realizzare la pace
in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta considerazione del
contesto sociale umano ( lo scrutare i
segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei laici, che, nella
visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con tutti le altre
persone bene intenzionate.
Pace, in senso religioso, non è solo assenza
di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui la personalità
degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente, secondo il vero bene
di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà esercitarsi l’azione
laicale.
Nei discorsi religiosi e su base biblica, si
collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace potrà essere
realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia, realisticamente, non è
garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace nelle società umane, in cui
si manifestano sempre, ad un certo livello, delle devianze rispetto all’ordine
costituito, talvolta sulla base esclusivamente degli appetiti e degli interessi
individuali e di gruppo. Questo significa che per il mantenimento della pace occorrerà sempre
l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una
prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e,
comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con
procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone
umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie
avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di
punizione dei colpevoli.
Mons. Bartoletti metteva in guardia dal
parlare con troppa disinvoltura di amore
come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che richiede un impegno
concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che essa scaturisca, quasi
magicamente, dal parlare di amore.
Pacificare le società umane non è sempre
facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala globale o
nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità
parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto
limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come
quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza
di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale e dall’Asia, l’integrazione sociale degli
stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle
realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono
essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa.
Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e
adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità
di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo
politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la
possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più
giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.
A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter entrare di nuovo in contatto
con le tante persone più giovani che, formatisi in religione nella nostra
parrocchia, non la frequentano più, forse essendo rimasti a vivere in zona.
Anche questo farebbe parte di un’opera di pacificazione, se si fossero
allontanati per qualche motivo di risentimento o di rancore nei confronti della
nostra comunità. Molti sono impegnati
nel lavoro o nello studio quando il gruppo si riunisce. Io stesso ho talvolta
difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E anche gli impegni di famiglia
possono ostacolare un impegno extradomestico in certi orari. Sentiamo però la nostalgia e il bisogno di
queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro storie. Come ho
detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti
del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il mondo in cui vivono
per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri umani, secondo grandi
principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a dire ben consci della
sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo. Eppure, passo dopo
passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è pure sorta dai
millenni bui delle guerre continue!
Non abbiamo la pretesa, noi del gruppo
parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la vite degli
altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede un impegno
enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che stiamo
facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale, che
passa anche il prendersi cura degli altri
a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo,
ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.
Ma, in definitiva, lo sforzo che si fa in un
gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso, segna innanzi tutto un progresso spirituale, che, come
contagio, può diffondersi nella società intorno a noi, nei punti in cui entriamo
in contatto con essa.
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52
Unita’/comunione nella Chiesa e promozione
umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica
sulla Chiesa Lumen gentium, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della terra è
radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli
prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i
fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo,
e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il
regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il
popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di
qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le
risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e
accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di
dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le
genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte
(cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna
e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa
cattolica efficacemente e senza soste
tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo,
nell'unità dello Spirito di lui.
In
virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre
parti e a tutta la Chiesa, in modo che
il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e
per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il
popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso
interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità
sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei
loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio
stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla
comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni,
rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede
alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme
veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma
piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa,
vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e
le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa
cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli
cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza
eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Da “Una Chiesa in ricerca, in servizio, in
crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e promozione umana”, tenutosi
a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione
e promozione umana – atti del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:
“…se le due funzioni di servizio, proprie
della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente distinte, non sono però
separate e devono trovare la loro sintesi nella unità organica della comunione
ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il vero contributo della
evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera della Gerarchia o dei
laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve passare attraverso il
servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in Italia il primo
problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il nesso intrinseco
tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito dal convegno) è
quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.
Venerdì prossimo inizierà la settimana per
l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo tema, pensiamo alle diverse
confessioni cristiane che ancora hanno organizzazioni separate mentre, nella
visione cattolica, le si vorrebbe tutte legate a un unico pastore, al mondo in
cui esse vogliono essere sottomesse ad un unico Signore.
Tuttavia il problema dell’unità sussiste anche
all’interno della nostra stessa confessione religiosa. Esso si è fatto più
pressante nel corso degli sviluppi del Concilio Vaticano 2°, come indica il
brano della relazione del 1976 del padre Sorge che ho sopra trascritto.
Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha fatto le spese in
particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80 ha visto ridursi
molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura messo in
discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e i vescovi
e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.
Ad esempio nella nostra parrocchia possiamo
facilmente constatare come l’Azione Cattolica non sia più, da tempo, la
principale articolazione del laicato. Ad essa si è sostituita l’organizzazione
del Cammino Neocatecumenale la cui
storia, la cui azione e i cui punti di vista nella Chiesa e nel mondo hanno caratteristiche piuttosto
distanti da quelle dell’Azione Cattolica.
Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è diventata nella parrocchia
un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra parrocchia e altre che hanno
subito dinamiche simili assomigliano a una confederazione di vari gruppi in
precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione tra le varie parti
che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono varie attività nella
liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione. L’unità in definitiva si
fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.
Come ho cercato di riassumere nei miei
precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme organizzative che
ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per l’esigenza dei laici
cattolici di partecipare di più all’edificazione della società del loro tempo,
in particolare sfruttando le opportunità offerte dai sistemi politici
democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare anche in modo nuovo
il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio Vaticano 2° è stato
assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2° l’Azione Cattolica ha
fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi principali obiettivi.
Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una certa frizione tra i
principi religiosi e quelli secondo i quali era organizzata la società civile.
Una delle ragioni del decremento della partecipazione all’Azione Cattolica può
essere vista nel venir meno dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta
solo dell’emergere del fenomeno della secolarizzazione, per cui certe
convinzioni religiose hanno avuto meno forza nella società e vengono riservate
fondamentalmente ai momenti rituali e cerimoniali della società, ma proprio del
fatto che la società civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a
principi democratici, tra i quali quello della libertà religiosa, sembra
richiedere di meno un attivismo dei fedeli laici, che allora possono, come
dire, concentrarsi sugli aspetti più prettamente spirituali della fede. Ad un
certo punto si è sentita di meno
l’esigenza dell’unità di pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe
richieste e indicazioni che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno
trovato altri modi di essere proposte nella sede civile e in quella politica.
Ecco quindi che l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico
italiano ha potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune.
Questo ha fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di
contenere, vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel
suo complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un
punto di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose
cambiano quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella
società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società,
sul modo in cui vivere una buona vita cristiana e poi, principalmente, sul problema
degli alleati che si vogliono avere per fare
progredire la società, vale a
dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del
passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e
della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente con le ideologie liberali, fasciste o socialiste che esprimevano un’azione di
forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che
si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si
individuava una cultura della mediazione,
impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come portatrici varie organizzazioni, tra le quali
il Cammino Neocatecumenale. In genere
si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa
abbia scelto il metodo della presenza.
Oggi si è ormai perso il senso di questo
diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno
imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa
ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora
ci sono quelli per i quali i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa
effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i
principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la
pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle
relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal
magistero.
Certamente siamo chiamati all’unità e ad
un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione.
Innanzi tutto siamo chiamati a parlare delle nostre scelte con gli altri con i
quali ci sentiamo di dover essere in comunione.
Mancano però di solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta
nel proprio gruppo separato.
Ma non
è detto che poi, parlando, discutendo, si arrivi effettivamente a
deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di laicità che ci vengono
consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio in questo senso:
arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise. Bisogna riconoscere
però che il metodo democratico, che si è ampiamente affermato nelle società
civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato nella nostra Chiesa, che,
del resto, protesta orgogliosamente la propria a-democraticità. Insomma, la
piena comunione ecclesiale è ancora di là da venire, mi pare.
Uno dei luoghi in cui essa potrebbe
manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la quale appunto
non ha le caratterizzazioni forti di altri gruppi e pratica il metodo
democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a
convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il
proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni
ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità
parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.
Se però guardiamo alla nostra realtà di gruppo
vediamo che quel traguardo è molto lontano dall’essere realizzato. In realtà è
in forse la nostra sopravvivenza associativa, se non riusciremo ad attrarre
forze nuove nel nostro lavoro. Eppure esso sarebbe ancora importante nella
Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia
è ancora un problema. C’è ancora un contributo che potremmo dare alla
crescita dell’insieme e, purtroppo, non ci sono altre organizzazioni che si
occupano di fare il lavoro al quale storicamente l’Azione Cattolica si è
impegnata, che possiamo sintetizzare efficacemente nell’idea
dell’evangelizzazione come promozione umana e della promozione umana come
evangelizzazione.
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53
Scrutare i segni dei tempi
(15
gennaio 2013)
Dalla
Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965):
Pertanto il santo Concilio,
proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui
di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al
fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale
vocazione.
Nessuna ambizione terrena
spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello
Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a
rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e
non ad essere servito.
LA
CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO CONTEMPORANEO
4.
Speranze e angosce.
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro
relazioni reciproche. Bisogna
infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono
delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della
sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente
si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e
dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi
giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e
d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i
cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.
Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione
reca con sé non lievi difficoltà.
L’Azione Cattolica è particolarmente impegnata
non solo ad attuare i deliberati del
Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne
tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei
laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già
si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo
nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare
ciò che si debba fare nel dopo Concilio.
Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha
nostalgia della Chiesa-di-prima,
anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in
particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al
mondo in cui i cristiani vivono, a ciò
che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in
particolare la seconda questione.
Riassumendo molto, le posizioni che
prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle piuttosto fiduciose
nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo in vari campi, in
particolare in quelli della scienza e della tecnica e della politica. Si aveva
la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano producendosi e si
capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli aspetti religiosi
della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi in un tempo di
crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui risultati di questo
processo. Nel brano della Gaudium et spes
che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi
di crescenza con riferimento ad esso. Si volle quindi aprire gli occhi e il cuore a quello che accadeva nel mondo, per
capirne le opportunità religiose di bene. Si usò a questo proposito
l’espressione evangelica scrutare i segni
dei tempi, parlandone come di un dovere
permanente per la Chiesa: anch’essa
la troviamo nel brano che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che,
storicamente, questa può essere considerata una novità rispetto alle posizioni
precedenti del magistero. E giunse in un
tempo in cui ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce
per le visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si
faceva propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta
guerra fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi
politici dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che
tuttavia non esplodeva in una conflitto
guerreggiato, in una nuova guerra
mondiale, per il timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi
effetti distruttivi di una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari.
Tuttavia bisogna ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era
anche nel tempo in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace
mondiale. Anche l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne
considerata da alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come
un segno provvidenziale. Dovettero però
passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello
mondiale divenissero infine realtà.
Fino al Settecento la Chiesa cattolica fu piuttosto integrata con il mondo in cui
viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente al modo in cui lo
erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i suoi capi o,
comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero, religiosi.
Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del popolo dei fedeli
generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i suoi signori delle
nazioni.
A partire dal Settecento la situazione mutò
rapidamente. Non furono tanto e non solo i fondamenti ideali del pensiero
religioso ad essere messi in questione, ma il potere temporale della Chiesa,
vale a dire la sua capacità di influenza sul mondo in cui viveva. Di fronte a
queste contestazioni, che poi vennero cristallizzandosi nei movimenti liberali
e socialisti, la Chiesa reagì con un moto di opposizione e di contrasto in
quasi tutto il mondo in cui la sua azione era consentita, con l’eccezione degli
Stati Uniti d’America per la particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di
quella entità statale, che aveva mantenuto saldi legami con fondamenti
religiosi cristiani. Questo modo di proporsi al mondo culminò in due momenti:
l’elencazione legislativa degli errori del tempo, contenuta nel documento
denominato Sillabo, allegato
all’enciclica Quanta Cura, promulgata
nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata
nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il
divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno
d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con
provvedimento della Penitenzieria
Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un
precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con
l’enciclica Graves de communi, promulgata
dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una
politica democratica cristiana.
Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose
anche la conclusione, nel 1929, dei Patti
Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia,
quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze
reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i
movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La
situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale,
sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione
del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici
cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione
nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.
Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato viene chiarito il senso
dell’espressione scrutare i segni dei
tempi: essa vuole dire conoscere e comprendere il
mondo in si vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso
drammatico.
La Chiesa nei secoli precedenti si era considerata e
dichiarata maestra di umanità, come ancora ritiene di essere.
Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia dalla propria
tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è proposta di avere
una visione più realistica del mondo fuori dello spazio liturgico, per capirlo
meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica competenza dei laici, i
quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del magistero. Possiamo notare, in
particolare, come questa concezione abbia molto influito sull’elaborazione
della dottrina sociale della Chiesa, in particolare dall’enciclica Populorum progressio, promulgata dal
papa Paolo 6° nel 1967.
La concezione ottimistica dell’andamento delle cose del mondo espressa nei
deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto temperandosi durante il
pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu certamente uno dei maggiori
artefici degli sviluppi conciliari, ma era portatore, specialmente negli ultimi
anni del suo regno, di una visione pessimistica sull’umanità sua contemporanea,
vista come soggiogata da potenze di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in
questo l’influsso del pensatore eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev
(1853-1900), il quale pronosticava l’avvento dell’Anticristo nell’apparente progressismo
delle tendenze sociali moderne e che era portatore di una visione di stampo
religioso fortemente pessimistica sul
mondo del suo tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti
che idealmente agiscono come piccolo
resto in opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti
negativi e antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del
cristianesimo delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta
ostilità o vera e propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità
di impronta familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un
cristianesimo integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri
aderenti che condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.
Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009 dal papa Benedetto 16°, la
tendenza si è di nuovo invertita.
Non che nella Chiesa cattolica non possano
avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate all’idea del piccolo resto: esse anzi ci saranno
sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita religiosa.
La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un ordinamento
fortemente pluralistico, in cui da sempre
sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur nella
condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che
specificamente vengono denominati dogmi di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico
della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia
chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi
non solo con la modalità della testimonianza
di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire
articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere
condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione
culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che
comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della
pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.
Capire il mondo è fatica, non nascondiamocelo.
Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una religiosità familiare che
richiama quella della loro infanzia, centrata prevalentemente sulle liturgie
parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma, devo dire, i più anziani del
nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano invece lo spirito indomito laicale
della loro gioventù e in questo a volte
sorprendono i più giovani, i quali sono più facili allo scoramento.
Bisogna riconoscere che nell’opera di
comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore. E ciò è
ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti a
diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel nostro
gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco quindi, come
spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro,
nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario,
ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso,
non c’è mai stato nel
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54
Fede cristiana:
speranza credibile e onesta o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
Preghiera di Paolo VI per la Messa funebre
per Aldo Moro (13 maggio 1978 – San Giovanni in Laterano)
Ed ora le
nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra
rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il
“De profundis”, il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la
tragedia presente soffoca la nostra voce.
Signore, ascoltaci!
E chi può ascoltare il nostro lamento, se non
ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra
supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio,
innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito
immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per
lui, per lui.
Signore, ascoltaci!
Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non
sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora
intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in
questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il
programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita
sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà.
Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!
Signore, ascoltaci!
E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla
virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e
mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la
medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della
sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo
esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e
spirituale della diletta Nazione italiana!
Signore, ascoltaci!
Interrompo gli interventi sui temi del Concilio Vaticano 2° per
proporre una riflessione sulla base del dibattito che si è articolato nella riunione di martedì
scorso del nostro gruppo.
La fede religiosa ci salva dalla
sofferenza dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto
angosciati da ciò che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni
momenti della loro vita. Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6°
recitò nel corso della messa funebre per Aldo Moro, il presidente della
Democrazia Cristiana, suo amico personale, ucciso quattro giorni prima da
un’organizzazione terrorista di impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un
lungo sequestro di persona.
Una delle accuse più tremende rivolte
alla nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode,
che prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali
invece che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o
rinunciando a farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli
oppressori e aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto
di vista storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella
nostra spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.
Noi, da credenti, non ci
facciamo illusioni sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella
vita degli esseri umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla
via della fede, simile alla grossa pietra
rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata
dal papa Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa può essere uno dei modi per reagire alle
avversità, in alcuni casi essa può addirittura essere di impaccio sulla strada
della resistenza e allora ce se ne libera. Ma, di solito, quello che in certe
condizioni personali difficili si rifiuta non è la vera fede, ma una sua
approssimazione insufficiente, il fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare
le difficoltà che anche da credenti ben formati si incontrano in certe
condizioni di contrasto e di dolore. La nostra infatti è una fede religiosa
paradossale, che quindi non trova
definitive conferme nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se
la magnifica complessità della natura suggerisce l’idea di un disegno intelligente che si spera essere
anche amorevole, visto che l’amore
nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e l’incessante lotta di
questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo, per prevalere a spese
di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte. Per quanto poi ci si
ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che le cose, in
conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità interiore profonda
che noi troviamo il fondamento della nostra speranza religiosa, alla quale, per
quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va, sentiamo di non poter
rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle cose, quindi non
chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che tutto è bene.
Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore Bernanos usò nel
romanzo Diario di un curato di campagna (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con
tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita
umana, la nostra vita, merita di essere
vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo
meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che
è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che
sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine.
Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato
che tutti riescano ad arrivarci con facilità:
ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione
religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a
concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°: Non è
vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà.
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55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19
gennaio 2013)
Dal decreto Apostolicam
Actuositatem (traduzione dal latino: L'attività
apostolica) sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
L'opera
di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza degli uomini,
però abbraccia pure il rinnovamento di
tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della Chiesa non mira
soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche ad animare e perfezionare l'ordine temporale con lo
spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato
nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi
ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino,
che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una
creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del
tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il
laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli
uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.
In queste poche righe del decreto conciliare Apostolicam Actuositatem, del Concilio
Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi molto importanti e anche molto
controversi nella storia della nostra confessione religiosa.
Innanzi tutto, iniziamo a tradurre i termini
che vengono utilizzati nel documento, i quali, a loro volta, sono una
traduzione dal testo originale scritto in latino ecclesiastico moderno.
Che cosa è l'ordine
temporale? E' il mondo in cui viviamo, l'ambiente naturale e sociale.
Lo si distingue dall'ordine spirituale
che, nella terminologia teologica, è
quello della fede, in cui il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in
particolare, interagisce e dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due
ordini da sempre sono stati considerati distinti
per i cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo
secolo della nostra era, però anche legati.
Il cristianesimo nasce nella Palestina del
primo secolo, in un popolo di cultura e religione ebraica ma sotto occupazione
militare e politica romana. La situazione politica del tempo non era
tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui bisognava organizzare
una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di distinzione
origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema
dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per
la guerra ai romani, all'opposizione dura,
si deliberò di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel
che è di Dio". Cesare era
l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo
appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire
ai doveri specificamente religiosi.
Nei primi secoli, quelli dell'opposizione e
della persecuzione, il modo della distinzione
prevalse. Poi il cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si
integrò nell'ordine politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a
porsi il problema del legame, vale a
dire dell'influenza dei principi religiosi, oggi diremmo dei valori, sull'ordinamento politico e
civile della società. Non è che, prima di allora, le società dominate
dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare l'errore di
considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante dei secoli
dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano, chiamiamo i pagani fossero atei. Tutto al
contrario, i pagani dell'ellenismo e
della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si spiegherebbe perché costruirono tutti quei
grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto
è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi
molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in
particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti
pensare al titolo di pontefice che si
dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.
La dialettica, che ebbe storicamente anche
evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli imperatori, e i monarchi,
politici in genere, che si succedettero in Europa nelle nazioni divenute
cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione
e legame. Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere
delle monarchie assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di
proprietà ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia
politica autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che
l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione
religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas,
che significa papà), si era
instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come
succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie,
aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali
(un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano,
a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono
problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi.
L'accusa di papismo cattolico
ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati
Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy.
Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535),
importante ministro e consigliere del re
Enrico 8°.
Nella visione antica del legame tra temporale e spirituale,
pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare
un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era
considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di
idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come
gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,
con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo
costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento
politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di
confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad
arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano
emarginati.
Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale,
vale a dire della società civile, significò in genere, nelle nazioni europee
soggette a monarchie assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione. I primi a farla, in senso
moderno, furono i coloni britannici del Nord America, nel 1776. La Chiesa
cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia ufficiale tomistica c'erano
principi anche per decidere quando rivoltarsi a un sovrano ingiusto. Ma in
particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni
democratiche come quelle che portarono alla deposizione delle dinastie
regnanti con le quali aveva concluso accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo
talvolta ricevuti in Vaticano con onori particolari gli eredi di antiche
dinastie regnanti ormai senza più alcun potere.
L'assimilazione alle monarchie assolute iniziò
però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un certo momento in poi,
diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad esempio, cominciarono a
sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui, secondo un'antica tradizione,
dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che
reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in una sorta di turbante
dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in quello politico, re dei re.
E' chiaro che la prospettiva è molto diversa
nel brano della Apostolicam Actuositatem
che ho sopra citato. Qui l'idea di rinnovamento delle società civili è
addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo.
Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni di popolo. Ma anche
l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella di un tempo: essi
vengo denominati città degli uomini, espressione cara a Giuseppe Lazzati e
che richiama l'idea contemporanea di sovranità
popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in cui, con riferimento
all'idea di rinnovamento delle
società civili, sono tramontati i monarchi
e sono sorti i popoli.
La pace tra cielo e terra non è poi più
affidata ad un accordo condominiale
tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in
passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli
ordini di sovrani: la coscienza.
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56
Democrazia,
difficile virtù
In religione si ha di solito difficoltà a pensare alla democrazia come
ad una virtù. In un certo senso la si subisce e perciò, quando se ne parla, si
cerca di mettere in guardia i fedeli dalle sue degenerazioni e, in definitiva,
si suggerisce di rimettersi al giudizio della gerarchia del clero,
un’organizzazione non solo non democratica, ma addirittura antidemocratica. E, infatti, si ripete abbastanza spesso che le
nostre collettività non sono delle
democrazie (ed in effetti così come sono organizzate non lo sono) e non si capisce che questo non
è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un loro problema, perché, appunto, la
democrazia è una virtù.
Considerando che tra il 1944 e il
1991 la democrazia è entrata anche nella dottrina sociale della Chiesa, nel
senso che la si considera una condotta politica virtuosa, dopo che, fin dagli
esordi dei processi democratici moderni, a fine Settecento, la si era
sostanzialmente assimilata all’eresia e condannata, bisognerebbe insegnare la
democrazia nella nostre collettività di fede, e soprattutto praticarla.
Democrazia non è solo la regola per cui la decisione comune è quella
maggioritaria. Significa, prima di tutto, libertà di coscienza e di parola,
rispetto degli altri, processi decisionali preceduti da un dibattito franco,
aperto, completo, informato, responsabilità dei capi verso i governati,
temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto un particolare impegno a
quella che Ghandi (Mahatma - “grande
anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto
dire sempre la verità, perché noi non possediamo la verità e sempre la dobbiamo cercare come a
tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In
religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le
persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere
impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili
con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali
fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire gli altri secondo un certo nostro modello
promettendo la felicità.
Bisognerebbe fare scuola di democrazia a partire dai bambini della prima
iniziazione religiosa, quando scoprono l’amicizia. La democrazia ha molto a che
fare con l’amicizia, perché presuppone la condivisione di valori forti ancor
prima che inizino i processi decisionali. Questi valori sono appunto quelli
implicati nell’amicizia tra gli esseri umani, il riconoscersi reciprocamente
bisognosi gli uni degli altri, quella dimensione relazionale che ci fa crescere,
come ci è stato spiegato nel primo incontro del ciclo Immìschiati sulla dottrina
sociale della Chiesa, per cui non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per
questo che la democrazia, prima di studiarla sui libri, occorre viverla e innanzi tutto scoprirla nelle relazioni
con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto,
imparare a non diffidarne.
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57
Dottrina sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°
I documenti del Concilio Vaticano
2° (1962-1965) sono leggi per la nostra confessione religiosa e contengono
importanti disposizioni in materia di liturgia e di dottrina sociale. Le novità
più rilevanti apparvero essere, fin dai primi anni, quelle in materia di
liturgia. Ma anche la dottrina sociale venne profondamente innovata.
Nell’Ottocento, quella che
consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà ne è storicamente l’ultima
propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni democratici che si venivano
manifestando in Europa, animati da spirito di libertà e di giustizia sociale.
Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in polemica, fin
dall’enciclica Le novità del papa Pecci del 1891, con il
liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora sopita, tanto che è
stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del ciclo Immischiati,
nella nostra parrocchia.
Durante il Concilio Vaticano 2° si
corresse il tiro. La libertà di coscienza del liberalismo e l’impegno per la
giustizia sociale del socialismo divennero virtù anche in senso religioso.
Nello stesso tempo si cercò di
avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto più ampiamente l’uso delle
lingue nazionali in luogo del latino, che era diventato un grosso ostacolo alla
formazione religiosa dei fedeli mediante la partecipazione alle azioni
liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà del papa Montini l’uso della
lingua nazionale divenne poi la forma normale delle liturgie con la
partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti monastici o della Curia
Vaticana e di altri ambienti particolari.
Per quanto riguarda il rito della
Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella Costituzione Il Sacro
Concilio:
48. Perciò
la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti
spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti
e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e
attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo
del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non
soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se
stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati
nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in
tutti.
La partecipazione attiva alla
liturgia era collegata all’impegno per la giustizia che si ritenne di
promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per infondervi i
principi religiosi, per ordinarla secondo Dio, come
venne scritto nella Costituzione Luce per le genti
n.31 Per
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio.
i laici dovevano essere adeguatamente
preparati e la liturgia era un’occasione molto importante per farlo.
Il nuovo ruolo dei laici di fede
nella società disegnato dai saggi del Concilio spiega perché negli anni
successivi venne accettata anche la democrazia come virtù politica e religiosa
insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle affermazioni teoriche, con
l’enciclica Il Centenario del papa Wojtyla, ma ancora in
corso nei suoi sviluppi pratici.
Nell’incontro Immìschiati sulla
persona è stato detto che la dottrina sociale non è una terza via tra
liberalismo e socialismo ed è vero. In realtà si tratta di una mediazione
culturale della nostra fede che recepisce, ibridandoli, principi liberali e
principi socialisti. Ne costituisce una sintesi, costruita per rendere
compatibili le loro principali istanze con la nostra fede religiosa. In
un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno sia libero di fare di sé
stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare, perché noi non siamo dei,
ma solo creature fragili. E’ questa è sicuramente la realtà.
Nell’Ottocento la via democratica
era ancora molto di là da venire in religione.
Il nazionalismo del Regno d’Italia
privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia centrale ed essi la presero
molto male.
Il Regno d’Italia era retto da un
sistema politico che integrava conservatorismo, autoritarismo, nazionalismo e
liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però che di quest’ultimo poteva fare
a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere del contenzioso con il Papato si
presentava come uno stato democratico, anche se l’elettorato era piuttosto
selezionato, tra i soli uomini di un determinato censo o con un livello minimo
di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto sta che il Papato, nella
polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un movimento del popolo
minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un arrogante e presuntuoso ceto
politico irreligioso, tuttavia era ancora custode delle buone e antiche
tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente appartenenti ai ceti
colti, che cercavano una via per vivere attivamente le istituzioni
democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine Ottocento del
movimento politico della democrazia cristiana, e anche l’ideatore
del nome e del concetto di tale politica, e cercò di mantenere le
masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato, per utilizzarle come
strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato tolto con la guerra
del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di avere mantenuto
una sovranità sugli italiani. La prima dottrina sociale della
Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date da un sovrano, il Papa,
al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione all’elaborazione di quei
principi sociali, sebbene le encicliche sociali non siano mai state il frutto
di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre un lavoro collettivo, a
più mani, perché i Papi hanno una formazione prevalentemente teologica,
anche se, ad esempio, persone come Montini e Wojtyla si intendevano pure di
filosofia. La repressione dei ceti colti dei laici di fede determinò che la
religione apparisse cosa da incolti. In più, i fedeli erano indotti a non
partecipare alle elezioni politiche e così si trovavano nella stessa condizione
degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi a causa della loro condizione di
ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi del Novecento, che si cominciò,
faticosamente, a cercare di andare in altra direzione, dando una formazione ai
fedeli laici, ed anche alle donne dal primo dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata
per essere un più docile strumento alla politica papale in Italia rispetto alla
rissosa Opera dei Congressi, indotta a sciogliersi d’autorità nel momento di
più acceso scontro tra intransigenti (contrari alla
partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,
divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle
organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato
con il regime fascista, che consentì di chiudere la questione
romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione
della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file
dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo
la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre).
L’ideologia di questi politici democratici cristiani fu
modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla.
Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo
inserirono nella loro nuova dottrina sociale.
Ecco ad esempio che cosa si
legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:
I pastori, da parte loro,
riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa;
si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro
degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di
azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria
iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le
iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino
e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti
tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in
questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità,
ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate
all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono
giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali;
e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore
efficacia la sua missione per la vita del mondo.
Sia nella liturgia che nelle cose
sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo Concilio fu quello di
promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la dottrina sociale non
furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di tutti richiede di
fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto indietro.
Da un lato la gerarchia del clero
diffida profondamente del popolo, sempre visto sul punto dell’apostasia e
bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo è il tremendo
verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi di vita
buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che cercano di
imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con la forza
del numero o della loro veemenza.
In particolare si ha sempre
difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e religioso dei nostri
tempi.
Le cose si sono molto complicate
nella società italiana di oggi. Per molti italiani è impossibile tornare a
una fede religiosa che non è mai stata quella della loro tradizione, perché
provengono dall’ortodossia orientale e da altre confessioni cristiane,
dall’islamismo, dall’induismo, dal buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il
maggior livello di istruzione della gente, raggiunto per merito del sistema
scolastico pubblico, ha comportato che su molte questioni di
coscienza non si sia più disposti all’obbedienza acritica.
Nessuno in genere, neanche le donne che in passato sono state le fedeli
più docili, è più disposto adabitare ambienti
sociali in cui gli è vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre
certe umiliazioni non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora
talvolta colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i
fedeli considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.
Così, ad esempio, si è
insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi liturgici, come la
Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e infarcita della
simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione di tutti e la
comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si pongono tanti
problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.
La partecipazione attiva nella
società del nostro tempo richiede la democrazia, e innanzi tutto il rispetto
degli altri, perché ci troviamo a vivere in un contesto sempre più
pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto diversi punti di vista,
è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai tempi nostri, può sapere
tutto di tutto, salvo che in settori superspecialistici, ma per questo sempre
più limitati. Come scrisse Pierre Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note
di catechismo per ignoranti colti, Mondadori, non più in commercio) al più
riusciamo ad essere ignoranti colti. Insieme ci sforziamo di
superare i nostri limiti individuali. La sapienza degli altri ci arricchisce e
viceversa. Confrontando le conoscenze e le opinioni, le correggiamo. E’
questo che si fa nel dialogo: ci si mette in relazione gli uni con gli altri,
chiarendosi. Questo è l’inizio della democrazia.
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58
Convincersi della democrazia
Ho imparato la democrazia in FUCI,
tra gli universitari cattolici, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del
secolo scorso, anni duri, anni in cui furono assassinati due grandi esponenti
del movimento cattolico-democratico, Aldo Moro, tra in fondatori della nostra
nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e tra i principali artefici di varie
fasi di rinnovamento della democrazia italiana, ucciso nel 1978, e Vittorio
Bachelet, tra i rifondatori della nostra Azione Cattolica, ucciso nel 1980.
Divenne evidente il carattere antidemocratico dei moti insurrezionali
dell'epoca motivati da costruzioni ideologiche comuniste: la democrazia
italiana, però, a quei tempi riprese a funzionare e il pericolo, lentamente,
nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di solito si fanno finire quelli che
vengono definiti anni di piombo con l’omicidio di Roberto
Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico, nel 1988. A quei tempi
egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato democratico.
Di fronte al pericolo, si
ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia gli uni negli altri,
questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in un’epoca di duri conflitti
sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini politici, ma non avrebbe
avuto successo senza questa nuova situazione nella società italiana.
La FUCI storicamente è stato
l’ambiente sociale della nostra fede che più si è dedicato, fin dalle
origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine Ottocento, qui a
Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri, prete e
attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era ancora
vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una
generica azione sociale.
Quello degli universitari è un
mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il tempo in cui si studia
all’università è il momento in cui si avverte più acutamente il bisogno degli
altri, la propria non autosufficienza. Fino al liceo il mondo può stare in
manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano nella propria piccola libreria
domestica. All’università si approfondisce, si entra nei particolari, e più lo
si fa, più si capisce di riuscire a controllare settori sempre più limitati
della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si aspetta da una persona di
cultura, occorre interagire con gli altri, che si sono concentrati in altri
settori e hanno ciò che serve per completare il proprio lavoro. Bisogna, in
questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per far capire i risultati della
propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo specialistico, e anche per
capire quella altrui. In sostanza, all’università più si sa e più si capisce
quanto non si sa. Sapere di non sapere venne considerato da un
antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è anche il sapere, il
rendersi conto, di ciò che non si sa, quindi uscire dal
generico e individuare bene i propri limiti, per capire che cosa occorre, quale
collaborazione cerare, per andare avanti. E' in quel momento che si comincia a
ricercare chi possa aiutare a superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre
alla ricerca (Ricerca è la rivista dei fucini). Nel momento
in cui si capisce di avere bisogno degli altri per superare i propri
limiti nasce anche la democrazia. Infatti per interagire con gli altri occorre
creare il contesto giusto, praticare un certo metodo.
Non si può praticare la democrazia
quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si è convinti che gli altri non
solo non servono, ma costituiscono anche un pericolo, o comunque un fastidio,
perché tendono a mettere in dubbio certe sicurezze. Allora si cerca di imporre
agli altri la propria visione, così come avviene certe volte nelle riunioni
condominiali, e si finisce per litigare inutilmente: la cosa comune poi ne
risente, si deteriora, perché non c’è accordo su come farne la manutenzione.
L’incapacità di democrazia degrada la società, che richiede un lavoro comune
per sostenersi, e innanzi tutto un impegno, di molti. Fino al Settecento la
democrazia veniva considerata in religione, ma sulla base di un antico pensiero
greco, una forma di disordine e di allontanamento dalla verità. La democrazia,
come oggi la intendiamo, nel senso di potere di tutti, ha invece
bisogno di ordine, di chiarezza, e anche di fiducia reciproca e
di rispetto.
All’origine della democrazia c’è
l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la democrazia come una forma
di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno dell’aiuto degli altri ed
essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene di tutti, irraggiungibile
senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare ma anche essere
rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici. Questo
collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a
collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che
definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al
termine del greco antico agàpe, vale a dire a un lieto
convito in cui ce n’è per tutti.
Se la democrazia è una forma di
amicizia, si capisce come non si possa praticarla veramente per via telematica.
Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare esperienza concreta gli uni degli
altri. In questo incontro ci si svela e si possono avere sorprese piacevoli e
spiacevoli, ma comunque in genere si hanno sorprese. Finché gli altri rimangono
una linea di caratteri sul video servono a poco. D’altra parte conoscerli
veramente è impegnativo, in tutti i sensi: richiede uno sforzo, una pazienza
nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica, un tempo da trascorrere insieme.
E’ così che però si costruisce la società, si creano legami duraturi.
Se lo stare insieme dipende solo
dalla comune soggezione ad un qualche gerarca, culturale, politico, religioso e
via dicendo, ha basi labili. Perché il legame vero è solo con il punto di
riferimento gerarchico non tra le persone alla base. Ecco perché l’ingenuo
attuale papismo delle nostre collettività religiose serve a poco sia per
formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze sociali.
Certe volte ci si incontra, in
religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni gli altri le parole
d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che serve? Si rimane
estranei come prima, con in più molto risentimento.
Un universitario per la prima
volta nella sua vita viene posto di fronte alla realtà così com’è veramente, ed
essa è complessa. Tutte le semplificazioni degli studi precedenti si rivelano
ciò che sono, vale a dire, appunto, semplificazioni, una base di partenza.
Scopre che ci sono molte interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte,
anche perché è in movimento, evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche
parte, ed evolve anch’essa. Questo è vero anche per tutte le verità, comprese
quelle ritenute fondamentali, della nostra fede. E’ per questo che si scrive
tanto di teologia. Se tutto fosse così semplice come talvolta viene presentato,
non servirebbe.
Il primo passo per affrontare il
pensiero sociale della nostra fede è il convincersi della democrazia, perché
questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla dottrina sociale nel
corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per influire nelle società
pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi i grandi principi
ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è possibile dominare
culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso,
un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la
democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività
religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in
circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così,
perché la democrazia è per tutti, ed è solo così che è
veramente efficace.
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59
Democrazia
dei cristiani, democrazia di tutti
(30-3-16)
[dal libro: Pietro Scoppola, La
democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo politico nell’Italia unita -
intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, 2005, €10,00, disponibile in
commercio]
Domanda: Ma ci sarà un ruolo
significativo per i cattolici nella vita politica italiana di domani?
SCOPPOLA: Certamente, anche se sarà
diverso da quello che svolsero in passato, al momento dell’Unità d’Italia nel
1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e mortificati proprio
perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43, quando assunsero la
responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato verso la libertà e lo
sviluppo.
Il loro futuro sarà di sostenere
la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di una profonda ispirazione
etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri credenti, alla migliore
tradizione laica e alle tradizioni popolari delle sinistre europee, ma ancora
una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.
La Democrazia cristiana è stato il
partito dei cattolici italiani, l’espressione più riuscita della loro maggiore
età politica, lo strumento del loro enorme potere e insieme della loro crisi,
come sempre accade nella storia umana.
Ma oggi il problema è la
democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico italiano si
misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la Democrazia
Cristiana per un proprio partito esclusivo, e di lavorare piuttosto per
la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).
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Quand’è che si entra veramente in
società? Un primo momento importante è quando si trova un lavoro stabile.
L’altro è quando si forma un famiglia coniugale, basata su un rapporto
d’amore coniugale, più stabile perché si pensa anche a dei figli. In genere, ai
tempi nostri, ci si arriva intorno ai trent’anni.
E quand’è che si hanno le prime
esperienze veramente sociali, al di fuori della famiglia, nella società
generale, che di solito coincidono con la scoperta dell’amore sessuale,
la base della famiglia coniugale? Per me è accaduto al terzo anno delle
superiori, a sedici anni.
I trentenni di oggi hanno compiuto
sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da cui ho tratto la citazione sopra
trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un testo da universitari. I
trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le mani appena pubblicato.
Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, finito
dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario della metà del primo
decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale esperienza, anche se era
citata in un capitolo o due dei libri di storia per le superiori.
Un trentenne di oggi, allora,
potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto tra le mani quel testo di
Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i cattolici abbiano vissuto
sotto il dominio dei laici, intesi come gli irreligiosi, i non credenti. Invece
i cattolici, dal 1946, hanno dominato la politica italiana, ininterrottamente
sino ad oggi, prima con lo strumento di un partito e poi, dalla metà degli anni
’90, mediante un’azione di pressione politica attuata direttamente dalla Conferenza
Episcopale Italiana per il tramite di gruppi di pressione transpartitici.
Di solito si ricordano le leggi
sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria della gravidanza (1978) come
casi di sconfitta delle posizioni politiche dei cattolici. Sono stati gli unici
due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia della Repubblica democratica. E in
realtà non si trattava di una sconfitta dei cattolici, perché si
trattò di leggi ampiamente condivise dai cattolici, come dimostrarono i
successivi referendum promossi su di esse, ma di una sconfitta della politica
della gerarchia cattolica.
Un terzo caso simile potrebbe
darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle persone omosessuali e
sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione. L’azione di interdizione
politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora impedito l’approvazione di
qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo vaglio di costituzionalità,
che aveva travolto la legge sulla fecondazione assistita del 2004, pesantemente
condizionata dall’azione politica della gerarchia cattolica. Anche nel caso
delle unioni civili omossessuali e delle unioni di fatto i sondaggi evidenziano
un ampio consenso della maggioranza degli italiani, cattolici compresi. Se la
legge fosse approvata, e non è ancora sicuro che lo sia, e si andasse ad un
referendum, probabilmente sarebbe democraticamente confermata dalle urne.
Tutto il resto della politica
italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito con il contributo
determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro volontà, ispirata
in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa, in particolare a
quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si attenuò molto
l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata dalla fine
dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del pensiero laicale
in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia e la sociologia.
L’idea di trovarsi in uno
stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa. Ecco perché Scoppola
parlò del partito dei cattolici come lo «strumento del
loro enorme potere».
Il potere dei cattolici italiani
raggiunse il suo massimo livello nel regime democratico post-fascista. Fu
sorretto da un’ideologia originale, riconducibile al pensiero di politici
come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, che colmava
le grandi lacune della dottrina sociale in materia di democrazia. Quest’ultima
fu accettata pienamente dalla gerarchia cattolica solo con l’enciclica Il
Centenario, del 1991, del papa Wojtyla. Ma nei testi della
dottrina sociale la democrazia non viene trattata in dettaglio. La si presenta
genericamente come una forma di potere del popolo che richiede partecipazione.
Ma come si debba partecipare non è precisato. In genere si è molto attenti a
fissarne dei limiti nei confronti della gerarchia del clero e in materia di
trasformazioni sociali. La gerarchia, in genere, diffida del popolo; e
spesso non comprende bene la vita della gente, i suoi problemi, le sue
aspirazioni. Vive in un universo autoreferenziale. E poi sente il pensiero
democratico come un pericolo per il suo stesso potere, perché essa non è
organizzata democraticamente e addirittura se ne vanta, non vuole esserlo (ma
le spiegazioni che dà in merito non sono molto convincenti). Questo spiega
anche perché il tirocinio democratico non rientra in genere tra le esperienze
che vengono proposte ai fedeli nelle collettività di base. Lo si pratica, ad
esempio, nei circoli intellettuali della FUCI e del MEIC, due movimenti
scaturiti dall’Azione Cattolica che in questo si sono particolarmente
specializzati.
In realtà la democrazia, come ai
tempi nostri la intendiamo, è una forma di governo delle società umane molto
particolare, perché è strettamente legata alla giustizia, la comprende al suo
interno. Nelle altre forme di potere essa può essere al più un orientamento
morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno: in quei casi la legge suprema del
potere è il potere stesso, il mantenimento del potere, e di fronte ad essa la
giustizia recede. Viene praticata se e nella misura in cui serve al
mantenimento del potere, alla creazione di un consenso sociale, al mantenimento
della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti, invece, vive della
giustizia, perché non si può governare tutti senza
essere giusti, senza riconoscere a tutti la
medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della
felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non
democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di
giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere
umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere
giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale,
oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo
non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa.
Questo crea qualche problema alla dottrina sociale, intesa
come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della
democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una
conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei
nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia.
Questo rende ancora difficile, talvolta, spiegare teologicamente come
una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella
collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e
il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste
difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa,
fondata su democrazia e giustizia sociale.
Io che ho fatto il liceo ai
tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, o
il partito cristiano come lo definì un altro fine
intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a capire
come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da
esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi
dovrebbe forse ripartire da capo.
Innanzi tutto occorre fare
realisticamente i conti con la storia. Respingere certe interessate
falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i cattolici
vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti sotto il
regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è stata
costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel mondo
cattolico, ed è innanzi tutto crisi del pensiero democratico espresso
dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una
particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica. Tutto
questo è necessario in
politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte,
in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo
può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei
Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i
testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale
<www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno
sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,
il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del
papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015, del
papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi,
per poi approfondire ulteriormente. In questo tempo di sviluppo della
dottrina sociale, le novità dei tempi hanno inciso
moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi
come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa
realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina
sociale che è rimasta, appunto, una dottrina,
vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale
pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana.
Questa realtà normativa è poco adatta al pensiero
sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e
sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.
Non so quanti sarebbero disposti,
ad esempio, a condividere questa affermazione, riportata nel Compendio
della dottrina sociale della Chiesa, n. 227, riprendendo pronunce del papa
Wojtyla:
“Le unioni di fatto, il cui
numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa concezione della
libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del tutto privatistica
del matrimonio e della famiglia”.
Questa sentenza non corrisponde a
ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche inutilmente insultante verso chi
ha realizzato unioni coniugali non formalizzate in un matrimonio, religioso o
civile, ma comunque stabili e feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia a
quelle unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è
uscita da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale.
E' stato scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste
sociali.
Alla democrazia è essenziale un
pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente, vale a dire nel
libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non si possono fare
progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi in
politica lascia, allora, un po’ il tempo che trova, come si dice.
O si vorrebbe che la gente,
imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse ad essere il braccio
secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in politica, secondo il
progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo l’esperienza di politica
democratica della Democrazia Cristiana volle superare.
Come persone di fede non possediamo la
verità, ogni soluzione giusta, sui fatti sociali e politici. Le soluzioni
devono essere ricercate nel confronto democratico, in quella che Scoppola
definiva la democrazia di tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava
come di Omnicrazia, che significa la stessa cosa, e la vedeva attuata
attraverso Centri di orientamento, in cui capire e scegliere nel
confronto e dialogo democratici.
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60
Nella grande politica
(6-6-16)
Incollo di seguito il testo di un
discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco a magistrati convocati a
Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia delle scienze. In esso ha
ripreso il tema della necessità di immischiarsi nella
politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della
necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra
natura.
I primi commentatori delle parole
di Bergoglio hanno notato il riferimento alla "grande" politica più
che quello alla libertà dei giudici. Entrambi però sono importanti e connessi e
rappresentano delle novità nell'ideologia proposta negli ultimi anni alle
collettività di fede che riconoscono l'autorità religiosa del vescovo di Roma.
Più o meno dal Sesto secolo della
nostra era la Chiesa cattolica come complesso di istituzioni è stata uno dei
più importanti attori politici europei; questo in particolare a partire dal
secondo millennio, da quando si è costituita come un impero religioso ad
ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in politica", e in
quella "grande". Dove sta la novità?
La novità sta nel fatto che nelle
parole di Bergoglio quell'impero non c'è più. Lui per primo ne ha rifiutati i
segni andando a vivere in albergo, invece che nella reggia romana dei
pontefici.
Ci sono i popoli e ci sono delle
esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze da lenire, ci sono delle
vittime a cui dedicare "grande attenzione". C'è un ordine sociale da
cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che viene evocato come una
"buona onda", "dall'alto in basso e viceversa, dalla periferia
al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità e dai popoli e
dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli dirigenziali", dove quei
"viceversa" sono molto importanti, perché in passato non se ne faceva
conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in basso e dal centro alla periferia.
In quest'ottica sembra quasi che
dal giudice si pretenda molto di più di quello che egli è autorizzato a fare,
anche negli ordinamenti di tipo democratico: qualcosa che pare una rivoluzione
sociale, da fare agendo insieme, in comunità, per "aprire brecce, vie
nuove di giustizia". E' perché Bergoglio, prendendo lo spunto dall’udienza
a quei magistrati, sembra aver considerato il giudice come un modello di
cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti a
farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando
i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,
avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato"
che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della
società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la
Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più
potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non
hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare un
nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a
qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi
essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione
dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre. Può liberare forze
potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più
importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o
semi-liquido.
Venendo veramente da un altro
mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a cavallo tra gli anni
Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica per la riforma
sociale, presentata come dovere religioso: " Prendere sul serio
la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale
- significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la
realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per
cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione,
dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento "L'80°
Anniversario"].
"Giustizia, libertà, azione
collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione se ne riprende a
parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento. Un capo
religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna
riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse
sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare,
tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per
l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma
anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi.
“La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho
sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà
della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini”
tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto
dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma
impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla
luce della fede che rende esigente l’impegno politico come
valore anche religioso.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
INTERVENTO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]
Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016
Buonasera.
Vi saluto cordialmente e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra
collaborazione nel contribuire al progresso umano e sociale, di cui la
Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è capace.
Se mi
rallegro di tale contributo e mi compiaccio con Voi, è anche in considerazione
del nobile servizio che potete offrire all’umanità, approfondendo sia la
conoscenza di questo fenomeno così attuale, ossia l’indifferenza nel mondo
globalizzato e le sue forme estreme, sia le soluzioni dinanzi a tale sfida,
cercando di migliorare le condizioni di vita dei nostri fratelli e sorelle più
bisognosi. Seguendo Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale
l’adagio dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in
politica; la Chiesa deve mettersi nella “grande” politica! Perché — cito Paolo
VI — la politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità. E la
Chiesa è anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora più quando si considerano
le situazioni dove si toccano le piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali
sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in
cui la vostra testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra
specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.
Nel
corso degli ultimi anni non sono mancate importanti attività della Pontificia
Accademia delle Scienze Sociali sotto il vigoroso impulso della sua Presidente,
del Cancelliere e di alcuni collaboratori esterni di grande prestigio, che
ringrazio di cuore. Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e
donne di oggi e, in particolare, attività volte a sradicare la tratta e il
traffico di persone e le nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione,
il traffico di organi, il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha
detto il mio predecessore Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in
diverse occasioni, questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono
essere riconosciuti come tali da tutti i leader religiosi, politici e sociali e
plasmati nelle leggi nazionali e internazionali.
L’incontro con i
leader religiosi delle principali religioni che oggi
influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli
amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo,
il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di
perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo
particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei
giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che
l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di
considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione
illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere
radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare
una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo
divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del
passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua
incidenza.
Ora,
ispirata dagli stessi aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e pubblici
ministeri di tutto il mondo, con esperienza e saggezza pratica nello
sradicamento della tratta, del traffico di persone e della criminalità
organizzata. Siete venuti qui in rappresentanza dei vostri colleghi con il
lodevole intento di progredire nella piena consapevolezza di tali flagelli e,
di conseguenza, di rendere manifesta la vostra insostituibile missione dinanzi
alle nuove sfide che ci pone la globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo
alla crescente richiesta della società e nel rispetto delle leggi nazionali e
internazionali. Farsi carico della propria vocazione significa anche sentirsi e
proclamarsi liberi. Giudici e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle
pressioni dei governi; liberi dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi
dalle “strutture di peccato” di cui parla il mio predecessore san Giovanni
Paolo II, in particolare della “struttura di peccato”, liberi dal crimine
organizzato. So che subite pressioni, subite minacce in tutto questo; e so
anche che oggi essere giudici, essere pubblici ministeri, significa rischiare
la pelle, e ciò merita un riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono
continuare a essere liberi nell’esercizio della propria funzione giuridica.
Senza questa libertà, il potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina
corruzione. Tutti conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no?
La giustizia con gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la
bocca.
Fortunatamente,
per l’attuazione di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano,
cioè liberare l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che
l’Accademia realizza seguendo la mia richiesta, si può anche contare
sull’importante e decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una maggiore
consapevolezza di ciò, una forte consapevolezza. Sono lieto che i
rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i
nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile e integrale, in particolare il numero
8.7, che recita: «Adottare misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro
forzato, porre fine alle forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri
umani e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro
infantile, inclusi il reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi
entro il 2025, porre fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui
la Risoluzione. Si può ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un
imperativo morale per tutti i Paesi membri dell’ONU.
Perciò
occorre generare un moto trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci
l’intera società dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e
viceversa, dai leader fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica
fino ai più alti livelli dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come
hanno già fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici
prendano piena consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria
responsabilità davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone
pratiche e agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che
agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della
promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della
felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria,
potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo
alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere
sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si
riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va
recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la
figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato
prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa
tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché
lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo
processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà
interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza,
che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti,
accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di
liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a
trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non
è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una
società di popolo.
L’Accademia,
convocando i giudici, aspira solo a collaborare in base alle proprie
possibilità, secondo il mandato dell’ONU. È opportuno ringraziare qui quelle
nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono
mostrate indifferenti o arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno
collaborato attivamente con l’Accademia per la realizzazione di questo vertice.
Gli ambasciatori che non hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati
le mani o che hanno pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla
prossima riunione.
Chiedo
ai giudici di realizzare la propria vocazione e missione essenziale: stabilire
la giustizia senza la quale non c’è ordine né sviluppo sostenibile e integrale,
e neanche pace sociale. Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo
odierno è la corruzione a tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo,
debilita la democrazia partecipativa e l’attività della giustizia. A voi
giudici spetta fare giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare
giustizia nell’ambito della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò
e al crimine organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela
delle corruzioni.
Quando
diciamo “fare giustizia”, come voi ben sapete, non intendiamo che si debba
cercare il castigo di per sé, ma che, quando si comminano pene, queste siano
date per la rieducazione dei responsabili, in modo tale che si possa dare loro
una speranza di reinserimento nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza
speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà luogo alla speranza è una
tortura, non è una pena. Su questo mi baso anche per affermare seriamente la
posizione della Chiesa contro la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo
che nella concezione della teologia medievale e post-medievale la pena di morte
conteneva la speranza: «li affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è
più così. Lasciamo che sia Dio a scegliere il momento... La speranza del
reinserimento nella società: “neppure l’omicida perde la sua dignità personale
e Dio stesso se ne fa garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae,
n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in
fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini
contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale
soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più
passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella
trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più
intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a
ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da
pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del
lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.
I
giudici sono chiamati oggi più che mai a dedicare grande attenzione ai bisogni
delle vittime. Sono loro le prime a dover essere riabilitate e reintegrate
nella società, e per loro si devono perseguire in una lotta senza quartiere
trafficanti e carniferos, i carnefici. Non vale il vecchio adagio:
«Sono cose che esistono da che mondo è mondo». Le vittime possono cambiare e di
fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto dei buoni giudici, delle persone
che le assistono e di tutta la società. Sappiamo che non poche di queste
persone sono uomini e donne avvocati e politici, scrittori brillanti o hanno
incarichi di successo per servire in modo valido il bene comune. Sappiamo
quanto sia importante che ogni vittima trovi la forza di parlare del suo essere
vittima come di un passato che ha superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto
o, per meglio dire, una persona con qualità di vita, con dignità recuperata e
libertà assunta. Riguardo a questo tema del reinserimento, vorrei raccontare
un’esperienza empirica. Mi piace, quando vado in una città, visitare il
carcere. Ne ho visitati diversi. È curioso, senza voler offendere nessuno, ma
la mia impressione generale è stata che le carceri in cui il direttore è una
donna vanno meglio di quelle in cui il direttore è un uomo. Questo non è
femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo al tema del reinserimento, un
olfatto speciale, un tatto speciale che, senza perdere energie, per ricollocare
queste persone, per reinserirle. Alcuni lo attribuiscono alla radice della
maternità. Ma è curioso, lo dico come esperienza personale, vale la pena
rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta percentuale di carceri dirette da
donne, molte donne, giovani, rispettate e che sanno trattare con i detenuti.
Un’altra mia esperienza personale è che alle udienze del mercoledì non è raro
che partecipi un gruppo di detenuti — di una o l’altra prigione — portati dal
direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono tutti gesti di reinserimento.
Voi
siete chiamati a dare speranza nel fare la giustizia. Dalla vedova che
insistentemente chiede giustizia (Lc 18, 1-8) alle vittime di oggi,
tutte alimentano un anelito di giustizia, come speranza che l’ingiustizia che
attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà, non abbia l’ultima parola.
A
volte può essere di giovamento applicare, secondo modalità proprie di ciascun
paese, di ogni continente, di ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di
recuperare i beni criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti,
per offrirli alla società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime.
La riabilitazione delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre
realmente possibile, è il bene più grande che possiamo fare a loro, alla
comunità e alla pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina con la
sentenza. Termina dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una
crescita, un reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.
Se
c’è una cosa che attraversa le beatitudini evangeliche e il protocollo del
giudizio divino con cui tutti saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo
(cap. 25), è il tema della giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di
giustizia, beati quelli che soffrono per la giustizia, beati quelli che
piangono, beati i miti, beati gli operatori di pace, benedetti dal Padre mio
quelli che trattano il più bisognoso e il più piccolo dei miei fratelli come me
stesso». Essi o esse — e qui è il caso di riferirci in particolare ai giudici —
avranno la ricompensa più grande: possederanno la terra, saranno chiamati e
saranno figli di Dio, vedranno Dio, e gioiranno eternamente insieme al Padre.
In
tale spirito oso chiedere ai giudici, ai pubblici ministeri e agli accademici
di continuare la loro opera e realizzare, nei limiti delle loro possibilità e
con l’aiuto della grazia, le felici iniziative che onorano il loro servizio alle
persone e al bene comune. Grazie!
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61
Il partito del Papa
Con l’enciclica Laudato
si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha diffuso un progetto integrato di
riforma della società contemporanea, un vero e proprio manifesto politico. Esso
deve essere discusso democraticamente, ma proprio per la fonte da cui proviene
è difficile farlo in religione, e al di fuori dei contesti religiosi non lo si
fa perché non interessa. Infatti il partito del Papa non
ha seguito in Italia. Il nostro è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato
dominato da un artito cristiano ed è stato impressionante
constatare che nelle ultime elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti
che le animavano si è richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha
affrontato il tema di Roma come città della fede, e questo nonostante il
Giubileo in corso. Nessuno si è richiamato ai temi politici della Laudato
si’, che probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e
anche laddove è conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto
specificamente politico. Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura
pontificia, si sia considerato distrattamente un documento in cui invece ogni
parola è importante perché segna un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove
opportunità. Si dà uno sguardo ai titoli, si legge qualche brano scelto
traendolo dai commentatori, e poi si aspetta il prossimo documento, che
infatti è venuto con l’esortazione Letizia dell’amore.
Fare politica
ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si
sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene
sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come
una forma esigente di carità. Questa espressione viene attribuita,
sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Achille Ratti - Pio
11°, il Papa dei Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai
dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono
riuscito a trovare uno stralcio sul WEB:
“I
giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna
politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono
a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica,
quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis,
della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a
cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi
comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto
più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso
è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli
interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più
vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire
null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.
È con questo intendimento che i
cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i
suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere
un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per
natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune,
sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.”
In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli
che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi.
Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in
religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena
responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica di
Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:
“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E
forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto
incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per
gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o
piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti
erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e
venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta
pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti,
siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere
un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo
tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che
crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”
Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo
Anniversario[della prima enciclica sociale Le novità, del
1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:
"Significato dell’azione politica
46 […]È vero che sotto il
termine «politica» sono possibili molte confusioni che devono essere chiarite;
ma ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che
internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.
Questo,
in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la coesione del
corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso
agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui, delle famiglie e
dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio di tutti,
le condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell'uomo, ivi
compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti della sua competenza,
che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e interviene sempre
nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene comune, di cui ha
la responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo d'azione e le
responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi concorrono
alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni intervento
in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già di
distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il
potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per
considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di
tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la
politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale -
significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà
concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di
realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La
politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni
problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua
sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente,
tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur
riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani,
sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere
una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a
un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva
della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e
disinteressato agli uomini."
Che cosa c’è di diverso tra il
pensiero del Sarto e quello del Montini sulla politica? C’è la democrazia, che
significa anche considerare la politica non come inevitabile sviluppo di interessi
particolari, ma come servizio efficiente e
disinteressato per realizzare insieme il bene della
città, della nazione, dell'umanità. E c’è la mediazione,
che significa concepire la politica come ricerca insieme
ad altri, in un clima di pluralismo.
Esercitare il potere in modo
insieme democratico e conforme allo spirito evangelico non è innato nei
fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio. Negli anni
’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in cui in
Italia fiorirono tante scuole di politica. Ma poi
emerse il pluralismo della politica e si lasciò perdere. Si
riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni bui dell’intransigentismo ottocentesco,
quelli della polemica durissima con il liberalismo democratico, che ancora
risalta moltissimo nelle parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è
persa una tradizione di impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea
solo sui libri. Quindi poi la rinnovata esortazione all’impegno politico
democratico di Bergoglio cade nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto
agli orientamenti politici della Laudato sì,
la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni francamente
di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su migranti ed
emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a scapito di
qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare più
tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e
di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per
preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali
e dell’edilizia intensiva.
Ad essere cittadini di una
democrazia avanzata si impara e se la politica democratica ha un valore anche
religioso si tratta di un lavoro che deve essere impostato anche negli ambienti
di fede, come una parrocchia. Si inizia con un tirocinio, con fare esperienza
di democrazia negli affari minuti, nella gestione di un gruppo, di un servizio,
rifuggendo e contrastando il cesarismo dei capi. Poi ci
si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che costa fatica,
perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo tempo, tutte
le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in disuso, a
cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di legittimazione
democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare quando si
svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle stesse
persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno ben
chiaro a che titolo vi partecipino.
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62
Fede e politica: una
relazione essenziale
[da: Ludwig Hertling, Storia
della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad opera del
cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag, Berlin,
1967)]
La nuova serie di papi sotto
l’influenza degli imperatori
Ottone I (1°) [912-973, duca di
Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 962] e suo
figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore
del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto, erano intervenuti
nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza ottenere veri
risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo Ottone [Ottone
III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania, imperatore del Sacro
Romano Impero dal 996], il quale personalmente non possedeva la qualità
dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma deve avergli giovato
il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno alla corona imperiale
per merito di suo padre e di suo nonno.
Gregorio V e Silvestro II
Quando nell’anno 996 morì Giovanni
XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio verso Roma. I romani lo
pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III contava allora 16 anni, era
profondamente religioso, essendo stato educato dai migliori maestri del
tempo, ed inoltre era un idealista entusiasta che sognava gli splendori
dell’antico Impero romano. Egli designò come papa il suo cappellano di corte,
che era anche un suo parente, Brunone. Questi, a sua volta molto giovane,
perché contava solo 24 anni, in fatto di idealismo non la cedeva
all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio V (5°),
ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai promettente. Dopo
di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro Gerberto. Gerberto, un
francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era molto ammirato per la
sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha fatto un mago. Non
meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro II (2°),
era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un lungo tempo la
Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro
istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente cristiana
e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli ungari con
la metropoli di Gran, A colui che era stato fino allora il duca degli
ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.
Il nuovo predominio dei signori di
Tuscolo
Dopo la morte prematura dell’imperatore
Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente un conflitto tra i conti di
Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V avevano tentato di
suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un antipapa. Ma il nuovo
imperatore Enrico II (2°) fece accettare ai romani il legittimo
pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della famiglia di
Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due città vinsero i
saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani. Nel 1020 il
papa si recò in Germania e consacrò il duomo di Bamberga, fatto erigere
da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in Pavia, in cui il
celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero promulgati fin d’allora
decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli ordini sacri in cambio
di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia si vennero un po’ alla
volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal sistema delle chiese di
proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della Chiesa dai signori
feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta delle investiture.
I conti di Tuscolo tornarono a
essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il fratello di Benedetto VIII,
Alberico, governava la città col titolo di console. Dopo la morte di Benedetto
VIII, un terzo fratello divenne papa col nome di Giovanni XIX (19°).
Questi incoronò imperatore Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re
Rodolfo III (3°) di Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al
resto, egli non si occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°)
di Bisanzio gli profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al
patriarca di Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi
precedenti gli avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma
dovette rinunciarvi a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i
monaci cluniacensi (federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di
Cluny, in Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di
Tuscolo, che voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei
suoi membri, impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto.
Il ragazzo, che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato
dopo poco tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse,
dal momento che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra
volta, egli ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete
di San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole
pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal
partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro
III (3°).
Intervento di Enrico III (3°)
Giovanni Graziano aveva agito con
le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver ora accettato egli stesso
l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°), come egli si
chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli ecclesiastici più
rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma poiché uno dei
principali punti del programma di riforma si riferiva alla simonia, e cioè al
commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno un’imperfezione che
il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo scopo di farlo
abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua abdicazione e
ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro III. In questo
ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere d’aiuto. Enrico
III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia. Egli tenne un
sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto IX, che già
aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo papa, furono
definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare volontariamente
il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma, l’imperatore lo
prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane chierico romano,
Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo storico di grande
importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.
L’imperatore sembrava l’unica
personalità in grado di ristabilire l’ordine, tanto che tutti furono d’accordo
che fosse lui stesso a nominare i papi seguenti. I suoi due primi papi, Clemente
II (2°), precedentemente vescovo di Bamberga, e Damaso II,
vescovo di Bressanone, uomini eccellenti entrambi, morirono dopo pochissimo
tempo dopo la loro elezione. Allora Enrico III nominò un alsaziano, il vescovo di
Toul. Il nuovo papa, però, Leone IX (9°), desiderò un’elezione
regolare da compiersi a Roma. Nel viaggio che doveva condurlo a questa
città, prese con sé il giovane Ildebrando, il quale, dopo la morte di
Gregorio VI, s’era fatto monaco, probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e
i suoi successori, finché non venne eletto papa egli stesso [con il
nome di Gregorio 7°].
[…]
Alessandro II [papa
eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e senza l’ingerenza
dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero luogo il
giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di arcidiacono, il
popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I cardinali si ritirarono
immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo secondo le regole
precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò il giorno
dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico IV. A
ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato
nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).
Gregorio VII appartiene a
quegli uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché suscitino le
reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio appropriato
sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del medioevo,
morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è cattolico e
papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un barbaro. E
fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute spavento al
mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone la festa ogni
anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali Gregorio VII è
il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che Gregorio VII fece
un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier Damiani lo
chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò significare
l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni altro. Come
già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura, mobilissimo,
infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile vitalità. Lo zelo
lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio. Ogni cosa era per
lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a sant’Ignazio di Lojola.
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Quando da ragazzo lessi le pagine
che ho sopra trascritto, da un libro di studio di mia madre, rimasi
meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling di argomentare,
contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in cui mi ero
formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio seguente e
quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi racconti
sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra fede
e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende dal
suo attivismo, è un progetto suo.
Nel 2013 è stato eletto papa
un vescovo, un religioso dello stesso ordine di Hertling, che ha assunto
un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era mai stato prima un papa di
nome Francesco. E’ andato a vivere in un albergo nella cittadella
vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha rifiutato le insegne
della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un nuovo corso politico, con
il suoi documenti La gioia del Vangelo, del 2013,
e Laudato si’, del 2015. Un po’ come avvenne intorno
all’anno Mille. All’epoca il moto di cambiamento fu sostenuto dai monaci della
federazione di Cluny, oggi dal movimento conciliare.
Quanto è importante la politica
nella fede?
Una tesi che si potrebbe tentare
di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto, tanto studio per farlo) è
che è tutto, da un punto di vista storico e sociologico,
naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine soprannaturale.
Adottando il lessico di
Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’ superficiale come è quello di
un ignorante colto come io sono, uno che non è uno specialista di certi temi e
che pure per rendere ragione della propria fede deve tentare di ragionare su di
essi, come se dal Quarto secolo della nostra era la penetrazione dello
spazio umano ad opera del cristianesimo sia avvenuta per la
massima parte per via politica. Una politica che nel primo millennio fu dominata
dai sovrani civili, gli imperatori romani e poi da quelli che
si considerarono loro successori, e che nel secondo millennio, da Gregorio
VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai sovrani religiosi
romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti come un impero
religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta di condominio su
un popolo di sudditi. Questa era dei papi-imperatori sta volgendo al
termine in questi anni ed è questa l’epoca in cui noi fedeli siamo finiti in
mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo nascere nella Roma dominata dai
signori di Tuscolo, che espressero sovrani religiosi definiti da alcuni
storici, spregiativamente, pornocrati.
Se, da un punto di
vista storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione della
fede, è evidente che chi propone l’apoliticità della fede non
fa gli interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte durissime non
nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben vedere, su
temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società del nostro
tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare il pastore chi
a questo ruolo è designato in quanto membro del clero? E poi: come combattere
la povertà? Come evitare che l’industria rovini l’ambiente in cui viviamo? Chi
e in base a che criteri deve fare le parti della ricchezza che si produce? Una
fede religiosa che non affronti questi temi diventa inutile. E
la nostra fede non lo è mai stata storicamente e non lo
è. Infatti di questi temi si discute oggi, in religione.
La politica contemporanea si fa
con metodo e secondo principi democratici, che significa partecipazione
di tutti al governo, elevazione di tutti alla
sovranità. Questo implica un tirocinio, una formazione che non può
limitarsi allo studio dell’imponente letteratura dei papi. La politica
democratica richiede una partecipazione anche alla elaborazione dei principi e,
vista la stretta connessione tra fede e politica, per cui la nostra mi appare
essere stata sempre (questo mi sembra il suo vero tratto distintivo rispetto ai
tanti culti misterici che le furono coevi nel primi tre secoli
della nostra era) una fede politica, ciò finirà (come del resto è
già accaduto con lo sviluppo del movimento di idee che sfociò negli scorsi anni
Sessanta nell’ultimo Concilio ecumenico) per riflettersi anche sul modo
di pensare la fede. E’ stato osservato, ad esempio, che
alcuni dei più importanti movimenti scaturiti nel
post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica
teologia, anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in
genere alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la
proposta politica del nostro vescovo e padre universale
Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la
prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la
discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio
solo degli specialisti.
Possiamo considerare, sotto
l’aspetto politico, i papi Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo
2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto 16°, gli ultimi sovrani
dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da quelli del primo millennio.
E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il papa che ci è venuto dal
Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata dai sovrani medievali alla
cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato, il capostipite di una
nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un processo che coinvolgerà
anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo. Un ritorno al passato è
impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il nostro mondo è la Terra
intera e non il piccolo universo umano in cui pensavano di essere signori del
mondo i papi intorno all'anno Mille.
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63
La vita di fede come
esperienza civile
La fede può essere alla base di
un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato che fosse possibile.
Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una storia analoga si è
vissuta in Germania. In altre regioni europee la fede è stata integrata
nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad esempio, alla
Spagna e alla Polonia. In Italia al centro di tutto ci sono stati dei
valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici. Tutto ciò
è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo punto,
però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.
Di tutto ciò si sono avuti
riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato. Ho ricordato i
fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con quell’epoca,
appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose. In passato, e
molto a lungo, si è pensato che oltre a catechismo e famiglia ci fosse
poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli di storia, in cui
la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.
Negli ultimi vent’anni c’è stato
anche un problema di formazione del clero. Sono venuti a collaborare molti
sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di quella storia di esperienza
civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non conoscendola non
l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte eccezioni
naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica, molto
centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio. Quando
ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha fatto
impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li ricordo
sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi visitatori
laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza: certo, eravamo
meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo in qualche
modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro erano
destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime comunioni, a
cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata a stare in
chiesa. Ma non è proprio questo il nostro popolo? Quando lo si idealizza nei
bei documenti del nostro supremo magistero, popolo qui,
popolo lì … tutto va bene, ma quando il popolo esce dalla
carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona impressione. E’ perché
manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in cui ognuno sia
ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di
eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la
liturgia serve appunto anche asuscitare un popolo diverso,
per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno
a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro da una certa
storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e
soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli ambienti
con questi nugoli di incenso.
Si è puntato molto al perfezionamento interiore,
cercandolo di sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi
pare abbiano vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di alcuni ordini
religiosi, le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno
l’amicizia della fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per
le donne. Ma la vita di fede non sta solo in questo.
Agli albori del cattolicesimo
democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò Fava Ghisilieri, in Riflessioni
politico-morali raccolte da un solitario ad uso della gioventù libera
d’Italia [citato in Vittorio E. Giuntella, La religione amica
della democrazia - i cattolici democratici del Triennio Rivoluzionario
(1976-1799)]:
“Quand’è che l’uomo può dirsi
un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti de’ suoi
fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola dolce a
se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi della morale?
Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata, più stabile
della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle interpretazioni in
spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il più dolce, e il
più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual altro è mai, se
non quello della Carità? E non è forse nel sistema repubblicano, che più si
cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più opportuna di questa a un tal
uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci tutti come fratelli. Le
dissensioni civili, che son tanto nemiche della Libertà, non trovano forse
ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei dinanzi al Giudice supremo
persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che lacerano l’altrui fama, non
che degli odi covati a lungo nel seno?”
Ad uno spirito religioso può
non bastare di distinguersi dalla società, di starsene da parte in un mondo
tutto suo che, man mano che ci si separa, finisce per diventare tutto fantasia,
sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che siamo stati mandati nel
mondo? Da giovane non avrei sopportato questa prospettiva, che per altro non mi
fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci adatto. Però ci sono pochi posti
in cui vivere un’esperienza civile animata dalla fede. Uno deve fare da sé.
Certe cose non te le spiegano in parrocchia e nemmeno altrove. Viene tra noi
uno come don Ciotti e sembra un marziano, una persona da un altro mondo. Eppure
intorno a lui ci sono tante persone di fede che condividono la sua esperienza
civile.
Da dove ripartire?
Direi dai più giovani perché in
genere hanno più tempo per la formazione: è il loro lavoro. Il tempo degli
adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane poco per qualcos’altro.
Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in cui presentiamo la
religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il nucleo di spinta
di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante rigenerazione, è
costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano: occorre che
sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne diffidino, che
arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro le fosche
visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri ultimi sovrani
religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società in
disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è
solo questo intorno a noi.