INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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domenica 6 settembre 2020

Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia - Parte 2

 Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia

-

Parte 2

(dal n.1.3 al n.9) 

(le parti precedenti sono pubblicate nei post successivi, nei post  precedenti sono pubblicate quelle successive. Questo testo è pubblicato in 8 parti)

 

di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

edizione ottobre  2020, con nuovi materiali

1.3

Azione per il cambiamento

(26-9-18)

 

«Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.»

Papa Francesco. Dal discorso pronunciato il 10-11-15 nella Cattedrale di Santa Maria in Fiore a Firenze, nel corso dell’incontro con in rappresentanti del 5° Convegno nazionale della Chiesa Italiana, durante la visita pastorale a Prato e a Firenze.

 

  La nostra Chiesa ha attraversato molti cambiamenti d’epoca  nella sua lunga storia. Tra un’epoca e l’altra ci sono stati tempi di cambiamento. Se si è convinti che oggi non siamo in un’epoca di cambiamento,  ma che c’è stato un cambiamento d’epoca, si vuol dire che il nuovo c’è già. Il tempo del cambiamento è stato molto veloce? In realtà è durato più o meno una generazione, dall’inizio degli anni ’90 ad oggi. La nostra Chiesa, però, non si è allarmata più di tanto: tutto sommato pensava al nuovo come ad un ambiente favorevole. Invece le cose stanno prendendo una brutta piega. E’ con il regno di papa Francesco che ha iniziato a manifestare di doversi ricredere. A lungo si è mirato, sostanzialmente, a lasciare le cose come stavano. Ora è difficile reagire. La Chiesa appare ancora, nel complesso, come la Bella Addormentata della favola, preda di un incanto di inazione.

  Reagire poteva significare contrasti, lotte, divisioni.  Si è preferito riuscire a mantenere un’immagine di pace uniforme, a prezzo di quell’incantamento. Molte energie, così, sono andate disperse. In particolare in periferia: le parrocchie funzionano più che altro come scuola di morale per i più giovani, da dopolavoro per gli adulti e da centro anziani per gli altri. Certe organizzazioni religiose hanno assorbito le funzioni di club  dei maggiorenti che in passato vennero svolte da varie confraternite. La storia nazionale ci avverte però che tra l’Ottocento e il Novecento il movimento religioso italiano fu molto più di questo. Progettò la riforma sociale. Formulò valori politici che poi seppe tradurre in realtà sociali. La nostra nuova democrazia repubblicana è anche opera sua.  In questo fu partecipe di un moto che si sviluppò  a livello europeo fin da metà Ottocento. Il Papa, probabilmente, pensa a qualcosa di simile per affrontare l’epoca nuova in cui siamo finiti. Ma manca la formazione necessaria e quindi la capacità. Chi, al di fuori dell’Azione Cattolica, ha parlato più di certe cose alla gente?

 Di solito le analisi finiscono a questo punto: si disegna un quadro e si sta lì a rimirarlo. Come cambiare, se si vuole farlo?

  Cambiare è sempre possibile, ma richiede impegno. Di questo si è meno capaci. Ci si disamora facilmente. Magari le si sparano grosse, ma poi? Si frequenta e poi, di punto in bianco, si sparisce, senza dare spiegazioni. Non parlo sulle generali. Parlo proprio a te, che sei sparito. E che ne sarà di quelli che contavano su di te?

  Allora poi quegli altri, quelli che si inquadrano in schemi paternalistici molto rigidi per resistere, hanno buon gioco a criticare chi la pensa diversamente. Eppure, onestamente dovranno riconoscere che capita anche tra i loro.

 “Chi me lo fa fare?”, ci si dice.  Ecco, quelli della mia generazione più raramente la pensano così.

  Si partecipa distrattamente: cerchiamo di fare più attenzione! Cerchiamo di fare programmi e di rispettarli! Ne sappiamo troppo poco di tutto. Così, stiamo a ricasco dei preti, che, ad un certo punto, si disamorano, non ce la fanno più. Non si impara nulla! Da anziani imparare è più difficile. Ma da giovani?

 Vogliamo decidere di studiare con un po’ più di pervicacia il pensiero sociale ispirato alla fede? Come si potrebbe, poi, uscirsene con certe avvilenti banalità xenofobe e razziste? Si avrebbe qualcosa da dire in società, per rendere ragione, per spiegare perché noi non siamo xenofobi e razzisti, non lo vogliamo diventare, e facciamo blocco contro chi si propone di farci degradare in quel modo.

 Impegniamoci, dai!, a ragionare su quello che il Papa ha detto ieri:

«Viviamo tempi in cui sembrano riprendere vita e diffondersi sentimenti che a molti parevano superati. Sentimenti di sospetto, di timore, di disprezzo e perfino di odio nei confronti di individui o gruppi giudicati diversi in ragione della loro appartenenza etnica, nazionale o religiosa e, in quanto tali, ritenuti non abbastanza degni di partecipare pienamente alla vita della società.   

  Questi sentimenti, poi, troppo spesso ispirano veri e propri atti di intolleranza, discriminazione o esclusione, che ledono gravemente la dignità delle persone coinvolte e i loro diritti fondamentali, incluso lo stesso diritto alla vita e all’integrità fisica e morale. Purtroppo accade pure che nel mondo della politica si ceda alla tentazione di strumentalizzare le paure o le oggettive difficoltà di alcuni gruppi e di servirsi di promesse illusorie per miopi interessi elettorali.

  La gravità di questi fenomeni non può lasciarci indifferenti. Siamo tutti chiamati, nei nostri rispettivi ruoli, a coltivare e promuovere il rispetto della dignità intrinseca di ogni persona umana, a cominciare dalla famiglia – luogo in cui si imparano fin dalla tenerissima età i valori della condivisione, dell’accoglienza, della fratellanza e della solidarietà – ma anche nei vari contesti sociali in cui operiamo.

  Penso, anzitutto, ai formatori e agli educatori, ai quali è richiesto un rinnovato impegno affinché nella scuola, nell’università e negli altri luoghi di formazione venga insegnato il rispetto di ogni persona umana, pur nelle diversità fisiche e culturali che la contraddistinguono, superando i pregiudizi.

  In un mondo in cui l’accesso a strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso, una responsabilità particolare incombe su coloro che operano nel mondo delle comunicazioni sociali, i quali hanno il dovere di porsi al servizio della verità e diffondere le informazioni avendo cura di favorire la cultura dell’incontro e dell’apertura all’altro, nel reciproco rispetto delle diversità.  

  Coloro, poi, che traggono giovamento economico dal clima di sfiducia nello straniero, in cui l’irregolarità o l’illegalità del soggiorno favorisce e nutre un sistema di precariato e di sfruttamento – talora a un livello tale da dar vita a vere e proprie forme di schiavitù – dovrebbero fare un profondo esame di coscienza, nella consapevolezza che un giorno dovranno rendere conto davanti a Dio delle scelte che hanno operato.

  Di fronte al dilagare di nuove forme di xenofobia e di razzismo, anche i leader di tutte le religioni hanno un’importante missione: quella di diffondere tra i loro fedeli i principi e i valori etici inscritti da Dio nel cuore dell’uomo, noti come la legge morale naturale. Si tratta di compiere e ispirare gesti che contribuiscano a costruire società fondate sul principio della sacralità della vita umana e sul rispetto della dignità di ogni persona, sulla carità, sulla fratellanza – che va ben oltre la tolleranza – e sulla solidarietà.

In particolare, possano le Chiese cristiane farsi testimoni umili e operose dell’amore di Cristo. Per i cristiani, infatti, le responsabilità morali sopra menzionate assumono un significato ancora più profondo alla luce della fede.

  La comune origine e il legame singolare con il Creatore rendono tutte le persone membri di un’unica famiglia, fratelli e sorelle, creati a immagine e somiglianza di Dio, come insegna la Rivelazione biblica.

  La dignità di tutti gli uomini, l’unità fondamentale del genere umano e la chiamata a vivere da fratelli, trovano conferma e si rafforzano ulteriormente nella misura in cui si accoglie la Buona Notizia che tutti sono ugualmente salvati e riuniti da Cristo, al punto che – come dice san Paolo – «non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti [… siamo] uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

In questa prospettiva, l’altro è non solo un essere da rispettare in virtù della sua intrinseca dignità, ma soprattutto un fratello o una sorella da amare. In Cristo, la tolleranza si trasforma in amore fraterno, in tenerezza e solidarietà operativa. Ciò vale soprattutto nei confronti dei più piccoli dei nostri fratelli, fra i quali possiamo riconoscere il forestiero, lo straniero, con cui Gesù stesso si è identificato. Nel giorno del giudizio universale, il Signore ci rammenterà: «ero straniero e non mi avete accolto» (Mt25,43). Ma già oggi ci interpella: “sono straniero, non mi riconoscete?”.

  E quando Gesù diceva ai Dodici: «Non così dovrà essere tra voi» (Mt 20,26), non si riferiva solamente al dominio dei capi delle nazioni per quanto riguarda il potere politico, ma a tutto l’essere cristiano. Essere cristiani, infatti, è una chiamata ad andare controcorrente, a riconoscere, accogliere e servire Cristo stesso scartato nei fratelli.

  Consapevole delle molteplici espressioni di vicinanza, di accoglienza e di integrazione verso gli stranieri già esistenti, mi auguro che dall’incontro appena concluso possano scaturire tante altre iniziative di collaborazione, affinché possiamo costruire insieme società più giuste e solidali.»

   Ecco qua la ragione teologica per cui non si può essere xenofobi e razzisti:

  La comune origine e il legame singolare con il Creatore rendono tutte le persone membri di un’unica famiglia, fratelli e sorelle, creati a immagine e somiglianza di Dio, come insegna la Rivelazione biblica.

  La dignità di tutti gli uomini, l’unità fondamentale del genere umano e la chiamata a vivere da fratelli, trovano conferma e si rafforzano ulteriormente nella misura in cui si accoglie la Buona Notizia che tutti sono ugualmente salvati e riuniti da Cristo, al punto che – come dice san Paolo – «non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti [… siamo] uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

  In questa prospettiva, l’altro è non solo un essere da rispettare in virtù della sua intrinseca dignità, ma soprattutto un fratello o una sorella da amare. In Cristo, la tolleranza si trasforma in amore fraterno, in tenerezza e solidarietà operativa. Ciò vale soprattutto nei confronti dei più piccoli dei nostri fratelli, fra i quali possiamo riconoscere il forestiero, lo straniero, con cui Gesù stesso si è identificato. Nel giorno del giudizio universale, il Signore ci rammenterà: «ero straniero e non mi avete accolto» (Mt25,43). Ma già oggi ci interpella: “sono straniero, non mi riconoscete?”.

 Cerchiamo di tenerlo a mente.

  «Essere cristiani, infatti, è una chiamata ad andare controcorrente»: questo comporta lottare, non facciamoci illusioni. Bisogna, ad esempio,  sbarrare la strada alla xenofobia e al razzismo, non dar loro  tregua, fare barriera, culturale, ma anche fisica,  mettendosi di mezzo, innanzi tutto per proteggere chi è minacciato e umiliato. Qualche volta si è tentati di mettersi in mezzo, sì, ma nel senso di indifferenti, tra chi perseguita e chi è oltraggiato.  Come ci fosse un giusto mezzo tra giustizia  e ingiustizia. “Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia”,  sosteneva il democristiano cileno Rodomiro Tomic.

1.4

Riforma sociale come azione religiosa

(29-9-18)

 

  Sembra che poco della religione passi nella gente. Si dà la colpa alla secolarizzazione, il modo di vivere che non ricorre più alla fede per spiegare come va il mondo. Le ragioni che però se ne danno non mi convincono. Essenzialmente le persone non trovano più utilità a comprendere la società intorno: si limitano a lasciarsi trascinare e a fare come tutti. Si pensa di essere in balia della sorte, della dea Fortuna,  che qui vicino a Roma aveva un suo grande santuario, a Preneste, l’attuale Palestrina.  Questo ha screditato l’idea di riforma sociale come azione religiosa, che presuppone di sentire come doveroso in quanto possibile il miglioramento sociale, e, prima di questo, di capire come va il mondo per progettarne il cambiamento. E’ su queste basi che le persone della nostra fede diedero un apporto decisivo alla costruzione di una grande realtà istituzionale come l’Unione Europea, che ha garantito la pace europea dal 1945, un periodo lunghissimo.

  C’è sicuramente un problema educativo. L’istruzione religiosa si ferma, di solito e per la maggior parte delle persone, alla Cresima, che in Italia si all’età delle scuole medie inferiori o poco più in là. Ma molti lasciano prima, dopo la Prima Comunione, alle elementari. Quella scolastica per i più finisce verso i diciotto anni. All’età di quarant’anni, quella in cui si ricoprono i ruoli più importanti della propria vita, l’istruzione ricevuta è spesso un ricordo lontano di oltre vent’anni. Si notano difficoltà anche nel comprendere testi semplici. I ricordi religiosi, che dovrebbero rifarsi alla nostra complessa dottrina teologica, appaiono molto approssimativi, come risulta, in particolare, dalle ricerche demoscopiche.

 La società, si dice, non sostiene più la vita religiosa, come un tempo; diciamo, in Italia, come fu fino agli anni Sessanta. Ma come la sosteneva? Non se ne era per nulla soddisfatti. Per questo si avviò la riforma progettata nel corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Cominciò ad essere attuata negli anni 70, ma fu presto sospesa, con l’inizio del regno religioso di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° (1978-2005). Si temette la dispersione dei fedeli.

   Quella riforma aveva due aspetti importanti: l’idea di una comunità educante alla fede e la concezione cristocentrica  dei fatti religiosi. In precedenza il clero, il  cui potere religioso era accreditato  e sostenuto dalla politica di governo, impartiva al popolo un’istruzione dottrinaria basata sull’idea di un potere esercitato direttamente dal Cielo attraverso plenipotenziari terreni: i principi del clero, e  i Papi innanzi tutto. Un impero religioso che univa Cielo e terra e che era stato organizzato a partire dall’Undicesimo secolo. Il potere sul popolo era suddiviso consensualmente tra prìncipi religiosi e civili sulla base di concordati. Si era organizzato una sorta di condominio. Il compito del popolo era quello di obbedire ai prìncipi e, in quest’ottica, era molto importante che ciascuno conoscesse il posto che gli competeva. L’istruzione religiosa si riduceva sostanzialmente a questo. I risultati nell’etica personale non erano certi migliori di quelli dei nostri tempi: tutti i comandamenti erano in genere apertamente violati, in particolare da chi dominava nella società, clero compreso, ma la coerenza del sistema era assicurata dall’obbedienza che veniva prestata ai superiori. Ad un certo punto, la misericordia del Cielo scendeva sulla gente, a coprire e perdonare i suoi peccati. Questo sistema religioso aveva coperto conflitti crudeli e stragisti, che avevano travagliato innanzi tutto l’Europa e poi il mondo, prodotti dai processi di colonizzazione europea. L’idea di un’Europa eticamente migliore in quanto sorretta e vivificata da  radici  cristiane è solo una fantasia che non trova riscontri storici reali. Quello che in Europa funzionò a lungo fu il sistema disacralizzazione del potere politico, mediante un’alleanza tra prìncipi civili e religiosi, che consolidava il potere di entrambi. Essa non escludeva la possibilità di catastrofici conflitti tra stati e la repressione violenta di quelli civili: si trattava di eventi considerati al pari di quelli naturali, sgradevoli ma impossibili da evitare.

   La riforma religiosa progettata durante il Concilio Vaticano 2°  prese le mosse dall’idea di fare dell’umanità un’unica famiglia, combattendo le cause sociali che avevano portato ai disastrosi conflitti mondiali scoppiati nel corso del Novecento. Questo rese necessario esprimere una critica sociale e, pertanto, desacralizzare il potere politico, rompere e rivedere gli antichi concordati. La critica sociale doveva partire dal popolo e, quindi, in una prospettiva ecclesiale, dai laici, che fino ad allora avevano avuto come unica prospettiva quella dell’obbedienza. Essi si sarebbero dovuti formare e attivare in nuovi tipi di comunità di fede, non più organizzati con struttura piramidale, in alto il Cielo e alla base i fedeli, con al centro, su vari livelli, i plenipotenziari religiosi, ma, al modo delle origini, come discepoli intorno  al Maestro. Quest’ultimo, innanzi tutto con i suoi esempi di vita ma anche con la sua vita soprannaturale, era il vero tramite tra Cielo e terra, accessibile ad ogni fedele attraverso un rapporto personale, che però andava costruito nella formazione religiosa. Occorreva una nuova spiritualità. La teologia del laicato fu al centro della riflessione dei saggi di quel Concilio. Si volle però preservare la struttura gerarchica del clero, prevedendone riforme molto limitate, innanzi tutto potenziando l’autonomia e la corresponsabilità dei vescovi, il cui potere veniva però ancora configurato come quello di prìncipi religiosi. Mentre il laicato veniva lanciato nella riforma sociale sfruttando i processi democratici che si erano andati affermando  a partire dalle società di tipo europeo, nessuna vera democrazia veniva ammessa nell’organizzazione ecclesiale, riservandone la riforma al clero. Questo portò a distinguere, separando, clero e laicato. Un bel problema in una nazione come l’Italia dove il clero, in particolare quello di base, aveva avuto un ruolo importantissimo nello sviluppare processi di riforma sociale, compresi quelli democratici! Al clero venne sostanzialmente assegnata, nei processi di riforma,  la formulazione dei principi dell’azione sociale, che però  doveva essere attuata dai laici. Tuttavia dal Concilio degli anni Sessanta uscì l’immagine di un laicato che avrebbe dovuto operare con una certa autonomia nei campi di sua competenza, e che quindi avrebbe dovuto avere la possibilità di essere corresponsabile della formulazione di quei  principi, come in effetti avvenne. Nella pratica questo produsse una certa tensione. Mentre il clero era ancora soggetto all’obbedienza canonica, nell’impero religioso nel quale era inquadrato, non così fu per il laicato con la sua nuova autonomia. Nel laicato, inevitabilmente, per l’affermarsi dei processi democratici, si produssero varie correnti di pensiero e di azione, che cercarono di tirarsi dietro il potere religioso. Quest’ultimo, ad un certo punto,  sentì di non riuscire più a controllare la situazione e bloccò tutto, sospendendo l’azione di riforma, cercando di cristallizzare la situazione in uno stadio in cui ancora era gestibile dal vertice religioso. Questo si riuscì a fare con il nuovo stile del Papato sotto Karol Wojtyla, molto centrato sulla personalità del Pontefice, come mai prima di allora. La nuova situazione influì sui processi di formazione del laicato, al quale si chiedeva sostanzialmente, al posto dell’antica obbedienza, una sorta di neo-papismo emotivo, un fidarsi emotivamente nel Papato in un rapporto di simpatia personale. La riforma sociale fu sospettata di socialismo, al quale il Wojtyla era fortemente avverso, per l’esperienza che ne aveva fatto, nella versione di ispirazione comunista sovietica, nella sua Polonia. Nei confronti del clero si produsse invece una dura azione di repressione di ogni tipo di dissenso, che aveva il precedente più prossimo nella persecuzione anti-modernista di inizio Novecento. Una manifestazione di questa durezza gerarchica fu l’approvazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, nel 1992, come documento normativo e pertanto da prendere come riferimento universale anche dalla più raffinata ricerca teologica, pena la condanna. La riforma catechetica attuata in Italia negli anni ’70 aveva  concepito invece i catechismi come sussidi all’azione formativa nel popolo di fede.

   Tutto questo ci porta alla situazione di oggi. Una teologia che è ancora fondamentalmente quella riformata del Concilio Vaticano 2°, dell’umanità come un’unica famiglia umana, ma che non ha più un attore sociale che la attui, e neppure in grado di comprenderla veramente. Le comunità educanti alla fede, in Italia progettate a partire dal Documento di base  in materia di catechetica del 1970, non hanno funzionato. Sono rimaste realtà artificiali, molto confinate nell’azione catechetica e troppo dipendenti dal clero, senza vera capacità di ragionare e agire in termini di riforma sociale. In definitiva, appaiono inutili. Si pensa di lanciarle in società, per organizzare ospedali da campo sociali, è l’idea del Papa regnante,  ma è un lavoro che non sanno fare: sono diventate essenzialmente collettività di auto-aiuto, per la medicina dell’anima. Le si è tenute troppo a lungo separate perché possano produrre qualcosa. Naturalmente, qualcosa per cambiare è sempre possibile fare. Ma non è cosa da preti. Loro fanno già troppo. E a certe cose non sono stati formati. Mi pare che nei seminari, per ciò che ho potuto constatare, si stia troppo tra nuvole d’incenso e paramenti sacri, troppo lontani dal popolo, e anche sospettosi verso di esso come possibile fonte di contaminazione religiosa. Non avremo nuovi Murri, Sturzo, Dossetti. E’ il laicato, innanzi tutto,  che deve iniziare a pensare a certe cose.

  Noi laici sappiamo troppo poco di tutto. Questo ci rende facilmente manovrabili dalla politica spregiudicata di oggi, che impiega raffinate tecniche di psicologia sociale per dominare le masse. Questo pregiudica i nostri progetti di azione sociale ispirata dalla fede.  E’ necessario innanzi tutto, allora,  riunirsi per aiutarci reciprocamente a capire meglio come va il mondo. Bisogna riprendere a studiare. Questo richiede tempo e buona volontà. Non basta partecipare a gruppi di auto-coscienza in cui si dice la propria e si vede gli altri che fanno. Un lavoro che Lorenzo Milani fece con i suoi alunni, nella sua parrocchia di montagna, con tanti meno mezzi di quelli a nostra disposizione oggi. Un impegno integrale: occorre recuperarlo. Un impegno per certi versi anche rischioso: la società intorno è cambiata, stanno producendosi a livello europeo processi neo-fascisti in cerca di legittimazione sacrale. Essi fanno appello alla religiosità che negli Sessanta si volle riformare, quella che non faceva conto di produrre conflitti e morti per sostenere l’egoismo nazionale.

1.5

Un mondo da salvare

(4-10-18)

  Il catechismo per i più giovani per molti rimane l’unico per tutta la vita. Si vuole iniziare a spiegare il senso della nostra fede e a farne fare l’esperienza e la pratica. Dalla metà degli scorsi anni ’70 è un po’ meno strutturato come una lezione scolastica. Ma dovrebbe essere approfondito crescendo. E’ qualcosa di più del semplice annuncio, ma per certe nozioni si è troppo piccoli; occorre, in particolare, fare più esperienza di vita per capirle. Un tempo la storia sacra veniva raccontata come una favoletta e, alla fine, poteva essere scambiata per quella. Adesso ci si concentra di più su alcuni episodi, ma si perde un po’ il senso generale della narrazione, la continuità che si vorrebbe far vedere nei fatti raccontati. Il problema è che, quando sarebbe il momento di iniziare ad approfondire, si lascia. La fede, però, non si spegne subito, rimane come sottotraccia. E’ ancora possibile, per un po’,  suscitarla di nuovo. Questo si fa più difficile se perdura l’allontanamento dalle consuetudini religiose. Di solito la religione non viene sostituita da altro, ma da un tempo vuoto. Quindi, poi, ad una certa età se ne sente la mancanza, ma da soli non si riesce più a tornare. Del resto non si tratta nemmeno più di tornare. La fede da bimbi non serve più a quel punto, va stretta. Serve riprendere un discorso, delle consuetudini, delle amicizie.

  La catechesi si dovrebbe fare non in nome proprio, ma per conto della Chiesa, sotto la direzione del Vescovo. Questo richiederebbe una formazione dei catechisti che non mi pare che in genere si faccia. La catechetica è diventata una vera disciplina scientifica, che si avvale  di tante altre scienze, ad esempio della psicologia e della pedagogia. Nelle parrocchie, però, si fa di necessità virtù. Si cerca di fare con quelli che si mostrano disponibili, anche se non formati a sufficienza, perché bisogna iniziare e i preti non bastano. Accade, però, che poi ognuno tenda a metterci dentro i propri personali punti di riferimento, che possono essere insufficienti o inadatti.

  La cosa più difficile è la mediazione tra fede e vita: far capire che la fede serve alla vita e  che quest’ultima interroga la fede e, in qualche modo, così la orienta. Non è la stessa cosa vivere la fede in uno dei tanti inferni della terra e nel nostro quartiere, dove ci sono tante situazioni di sofferenza, ma che non è (ancora) un inferno. Quest’opera di mediazione è di solito l’aspetto più critico della catechesi. Non si riesce più a convincere dell’utilità della fede.  Quest’ultima, ad un certo punto, viene proposta anche come medicina dell’anima, come una specie di sostegno psicologico, ma a questo scopo, non illudiamoci, serve a poco. Può solo funzionare, e questa è stata una delle critiche più serie a certi tipi di religiosità, temporaneamente come anestetico, ma nulla di più.

  C’è però chi riesce a trasferire la propria fede dall’età più giovane a quella adulta, facendo quegli approfondimenti che servono, che comprendono anche una critica della fede bambina. Quest’ultima, a volte, riesce ancora buona per i più anziani, per i quali gli orizzonti si restringono. Chi conquista una fede adulta, che prima o poi finisce per manifestarsi agli altri, si trova di fronte alla difficoltà di renderne ragione con chi ha lasciato. Questi ultimi,  di solito, tengono a precisare che hanno lasciato, come a scansare tentativi di proselitismo. C’è sempre il sospetto che chi ancora crede tenti di conquistare gli altri alla religione, e certe volte è effettivamente così. Io, ad esempio, non sono di quelli. A chi mi espone i motivi per cui non crede, rispondo che è vero, ha ragione, e aggiungo che ce ne sono molti altri. La nostra fede, in fondo, è inverosimile. E’ più  o meno così per tutte le religioni storiche. Ma, se da ragazzo, negli anni 70, mi avessero parlato degli smartphone, li avrei considerati inverosimili. Eppure, eccoli  nelle nostre mani. Funzionano, ma non sappiamo come. C’è negli e tra gli esseri umani più di ciò che appare. Uno però può ritenere di non aver bisogno di scoprire altro oltre ciò che appare. Di solito però è la vita a proporre certi interrogativi. Se ci si mette alla ricerca di una risposta, prima o poi si incontra la fede. La grande riflessione biblica è tutta centrata su questo. Ecco perché, ad esempio, Aldo Moro, quando era prigioniero nella piccola cella allestita per lui dalle brigate rosse che lo tenevano in suo potere, chiese di avere una Bibbia. Ma aveva avuto una lunga formazione per trarre beneficio dai tesori nascosti in quel testo. Dico “nascosti”, perché a molti di quelli che lo prendono in mano appare solo una raccolta di favole. Alla riflessione biblica occorre infatti essere introdotti e guidati. C’è necessità di qualcuno che spieghi. La prima figura che tenta di farlo è il prete, a Messa, e poi c’è il catechista. Sembra strano, data l’importanza della liturgia, ma spesso a Messa ci si distrae. Lo scrittore Bruce Marshall sosteneva che l’effetto di una buona predica dura per non più di dieci minuti in chi la ascolta e circa due minuti in chi la fa. Nella Messa per i più piccoli, allora, il celebrante cerca di coinvolgere l’attenzione dei bambini usando il metodo interattivo, a domande e risposte. Ma il catechista può fare di più.

 All’adulto che ha lasciato faccio osservare che c’è un mondo da salvare. Se condivide quest’idea, significa che empatizza con chi soffre: è sulla buona strada. La nostra fede essenzialmente è, infatti, compassione, o, altrimenti detto, misericordia. Ci sentiamo tutti uniti: questo sentimento nel greco evangelico è detto agàpe, che traduciamo di solito con amore, ma che è sostanzialmente misericordia, compassione. E’ molto importante, perché nella fede crediamo che il Fondamento sia agàpe, è scritto.

1.6

Catechesi civile

(7-10-18)

Nel 2016 l’Azione Cattolica Ragazzi organizzò un movimento tra i suoi aderenti, dall’età di 3 anni a 14 anni, per imparare e mettere in pratica la dottrina sociale, sostanzialmente progettando azioni politiche, ad esempio la gestione di un Comune. All’incontro finale, qui a Roma, venne invitata anche la Sindaca della nostra città, che però non poté venire.

  Si prese come riferimento l’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium.  Ecco come venne presentata l’iniziativa:

 

« La Chiesa italiana si è sempre interrogata e si lascia ogni giorno interrogare molto dalle sfide dell’annuncio di fede nel mondo, e la Dottrina Sociale della Chiesa è proprio il frutto di una riflessione orientata a leggere il progetto di Dio nella società, nella cultura, nell’economia, nelle nostre vite.

  Gli ambienti quotidianamente abitati, come la famiglia, l’educazione, la scuola, il creato, la città, il lavoro, i poveri e gli emarginati, l’universo digitale e la rete, sono diventati per tutti noi quelle “periferie esistenziali” che  s’impongono all’attenzione della Chiesa italiana quale priorità in cui operare il discernimento e vivere la missione.

  L’Azione Cattolica anche oggi sceglie di fare sue le istanze e le intuizioni profetiche che coglie camminando e stando con la gente alla luce del Vangelo e delle parole del Magistero. È per questo che, in questo tempo così ricco ed entusiasmante, non possiamo non accogliere nuovamente il rinnovato invito che Papa Francesco ha

 rivolto alla Chiesa Italiana durante il Convegno di Firenze . Il Santo Padre ci ha, infatti, detto che : «In ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii Gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro priorità che avrete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese».

(PAPA FRANCESCO, Incontro con i rappresentanti del V Convegno Nazionale

della Chiesa Italiana, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze,

Martedì 10 novembre 2015)

  Abbiamo così pensato che sarebbe stato bello e importante per la vita delle nostre comunità ecclesiali e civili che anche i più piccoli, i bambini e i ragazzi dell’Acr potessero avere spazi e luoghi per potersi lasciare interpellare “a loro misura” dalle intuizioni che Papa Francesco ha scritto nell’Esortazione apostolica, e che stanno tracciando il cammino delle nostre Chiese locali e della nostra Associazione. Desideriamo infatti che anche loro possano, non solo guardare con occhi grati le loro comunità e accoglierne bellezza, ma possano anche vivere e fare esperienza della Chiesa che sognaPapa Francesco, una Chiesa sempre “in uscita” che vive la sua missione con e per il suo popolo.

  In questo percorso abbiamo allora scelto di lasciarci accompagnare da 5 espressioni dell’Evangelli Gaudium, che crediamo possano illuminare il cammino che i ragazzi vivranno in questo anno. Desideriamo che in questi mesi, durante i quali si impegneranno a sperimentare la grandezza della misericordia di Dio nel loro cammino ordinario, possano comprendere come, a partire dalla famiglia, dalla cura del creato e dalla partecipazione alla vita delle loro città, possano essere guidati dall’orizzonte e dallo stile che questi verbi disegnano.

  Prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare orientano così l’itinerario che i bambini e i ragazzi dell’Acr vivranno e che li aiuterà ad interrogarsi su come possono anche loro ogni giorno costruire una Chiesa bella dove crescere sperimentando la bellezza di essere amati, e per questo lasciarsi condurre dall’amore che non può non portare frutti di bene e di lode. Infatti, come afferma Papa Francesco:

«La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari cheprendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, chefruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva.

  Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: «Sarete beati se farete questo» (Gv 13,17). La comunità  evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo.   

  Gli  evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la  loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo, però il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. Infine, la comunità evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi».

(PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 24)»

 

 Quella fu catechesi civile, quella che molto raramente si fa nelle nostre parrocchie e che, invece, si dovrebbe fare, pena l’inutilità della religione. Non ci si deve sorprendere, poi, se non la si fa, che i ragazzi, avvicinandosi all’età adulta abbandonino la religione, e, seguitando, con la religione, anche la fede, che della religione ha bisogno.

  La catechesi che si fa per i più giovani è, per ciò che ne so, di carattere piuttosto intimistico. La religione, sostanzialmente, quando va bene, viene presentata come medicina dell’anima, e per questo scopo serve veramente a poco, perché la fede, quando le si dà via libera,  è sommovimento dell’anima, cambia la gente e la spinge alle cose più strane. Quando  va male, la religione viene presentata come una gabbia etica, in particolare come un rigido sistema di divieti sessuali, contro il quale giustamente i giovani si ribellano.

  Ad alcuni la catechesi civile non sta bene perché, dicono, è fare politica, e hanno perfettamente ragione. Infatti serve per imparare a fare politica, che significa partecipare democraticamente al governo della società. E’ con la politica, con l’associarsi per progettare una società migliore, che si cambia il mondo. La politica è strumento del pensiero sociale ispirato ai valori della fede, del quale fa parte anche la dottrina sociale, quella sua versione che viene diffusa dal Magistero come prescrizione di doveri religiosi. Infatti la dottrina sociale è teologia: spiega quindi qualcosa che è molto importante per la fede. Non bastano i riti, le liturgie. Occorre l’azione sociale. E’ così che la nostra fede ha cambiato il mondo. In meglio o in peggio? In genere siamo stati poco portati all’autocritica. In nome della nostra fede si sono fatte azioni sociali orrende. Si è  iniziato a riconoscerlo francamente nel 2000, durante il Grande Giubileo che si celebrò quell’anno, sotto la guida di san Karol Wojtyla, che regnava in religione come Giovanni Paolo 2°. Ma non siamo andati più in là. Certe cose ce le diciamo sottovoce tra gente che approfondisce, non le proclamiamo al popolo.

  L’Azione Cattolica è stata costituita, per decreto pontificio, proprio perfare politica.

  Di solito si fissa la sua nascita al 1867, quando il conte Mario Fani di Viterbo e Giovanni Acquaderni fondarono a Bologna la Gioventù Cattolica italiana, il cui programma fu diffuso in pubblico  il 4 gennaio 1868.

 Si era in epoca di durissimo scontro politico tra il Papato, il cui regno territoriale nell’Italia centrale era minacciato dai moti nazionalistici italiani, e il Regno d’Italia, fondato nel 1861 sotto la monarchia cattolica dei Savoia, che di quei moti aveva preso la guida.

  In questo clima, nel 1866 a Bologna era stato in precedenza fondato un gruppo denominato Associazione Cattolica Italiana  per la difesa della libertà della Chiesa in Italia. La nascita dell’associazione venne consacrata da un breve  del Pontefice nel quale ne vennero fissati gli scopi. Era presieduta dall’avvocato Giulio Cesare Fangarezzi e tra suoi fondatori aveva Giovanni Battista Casoni. Presto si ebbe la reazione delle autorità di polizia italiane. Venne approvata, relatore Francesco Crispi, una legge eccezionale che stabiliva il domicilio coatto per i sovversivi politici. Fangarezzi dovette rifugiarsi in Svizzera e il Casoni dovette fuggire da Bologna ed entrare in clandestinità, per sfuggire all’arresto. L’associazione si sciolse. Giovanni Acquaderni era schedato come “paolotto” (che all’epoca era sinonimo di bigotto) e “clericale reazionario” dalla polizia italiana. Erano considerati sovversivi politici perché, prima della fine del regno dei Papi a Roma, si opponevano al processo di unificazione nazionale, nell’interesse politico del Papato, e successivamente avrebbero voluto rompere l’unità nazionale restituendo al Papato il regno territoriale su Roma.  Un reato politico molto grave.

  Tuttavia la nostra Azione Cattolica non nacque né nel 1866, né nel 1868, né è l’erede dell’Opera dei Congressi, che organizzò grandi incontri  dell’associazionismo cattolico tra il 1874 e il 1904. Anzi, per così dire, nacque dalle ceneri del precedente associazionismo, in particolare dallo scioglimento dell’Opera dei Congressi per volontà del Pontefice, irritato per le correnti democratico-cristiane che in essa si manifestavano sempre più vivacemente, nonostante la condanna formulata con l’enciclica Le gravi preoccupazioni sociali - Graves de Communi re diffusa nel 1901 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, lo stesso della prima enciclica della moderna dottrina sociale, la Le Novità - Rerum Novarum, del 1891. La nostra Azione Cattolica fu prefigurata nel 1905 dall’enciclica Il fermo proposito  del papa Giuseppe Sarto, regnante in religione come Pio 10°, proclamato santo nel 1954, e costituita nel 1906 con l’approvazione dei suoi statuti da parte di quel medesimo Papa. Si era nel periodo più buio della persecuzione antimodernista, l’ultima guerra di religione intrapresa dalla Chiesa cattolica. Lo stesso Romolo Murri, prete, tra gli ideatori di una ideologia democratico-cristiana, ne fece le spese, venendo scomunicato nel 1909.

[Traggo le informazioni di cui sopra dal libro di  Gabriele De Rosa,  Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza, 1979, consultabile solo in biblioteca, in quanto non più in commercio].

  La missione politica dell’Azione Cattolica era chiaramente dimostrata dal fatto che  la nuova organizzazione comprendeva una Unione elettorale, in un’epoca nella quale, per altro, ai cattolici era vietato di partecipare alle elezione politiche nazionali, quindi alla vita democratica del Regno d’Italia. Nel 1913 il divieto fu superato, in concomitanza con l’allargamento del suffragio elettorale (comunque limitato ai cittadini uomini). Nel 1919 venne fondato, da cattolici democratici di ideologia democristiana, il Partito popolare italiano e venne sciolta l’Unione elettorale.

  L’Azione Cattolica venne costituita come strumento politico del Papato, come partito di massa, per contrastare con la forza del numero la politica nazionalista e liberale nel Regno d’Italia e sostenere le pretese territoriali del Papato, che era stato spodestato nel 1870 dal suo piccolo regno territoriale con capitale Roma. Tuttavia venne profondamente trasformata, rispetto alla missione delle origini, dall’azione autonoma dei suoi aderenti, a cominciare da persone come Giuseppe Toniolo e Armida Barelli. Fu una delle principali agenzie culturali per la formazione del popolo alla democrazia, donne comprese, che poterono votare solo dal 1946. Questa azione venne progressivamente limitata negli anni ’30, ai tempi della compromissione del Papato con il regime fascista, per stabilizzare la  conciliazione contrattata nel ‘29 con il Regno d’Italia, con i Patti Lateranensi,  firmati nel palazzo romano del Laterano da Benito Mussolini, per parte italiana quale Presidente del Consiglio dei ministri, e dal cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato, in rappresentanza della Santa Sede. Da quegli accordi venne a noi romani la Città del Vaticano, simulacro del potere territoriale del Papato, con gli Svizzeri, i francobolli, le monete ecc. Tuttavia, anche in quel triste decennio, il tirocinio alla democrazia continuò nelle organizzazioni intellettuali dell’Azione Cattolica, in particolare nella FUCI (gli universitari cattolici) e nei Laureati Cattolici, ispirati da Giovanni Battista Montini, uno dei principali artefici della democrazia italiana, in particolare quale co-autore della serie di radiomessaggi pontifici in tema, tra il 1939 e il 1945.

   L’evoluzione dell’Azione Cattolica fu portata a termine, dopo il Concilio Vaticano 2° (1962-1965), sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, con il nuovo statuto del 1969, che staccò l’associazione dall’asservimento agli interessi politici del Papato. Questo il vero significato della scelta religiosa. La politica del Papato l’aveva incatenata al sostegno del partito cristiano, la Democrazia Cristiana, della quale costituiva serbatoio di voti e agente formativo. Ciò era avvenuto nel quadro del compromesso che, regnante Eugenio Pacelli - Pio 12°, si era raggiunto con i democratici  cristiani di De Gasperi, Dossetti, Moro, La Pira e Fanfani. L’ideologia del Concilio Vaticano 2° ampliò di molto la missione del laicato cattolico e questo richiese quel processo di liberazione di energie. Ciò avrebbe richiesto una laicizzazione  del partito cristiano, che non si riuscì ad ottenere, pur tentandola negli anni ’80. Questo ne innescò una sua crisi terminale. Ma avrebbe richiesto anche la revisione dell’impegno politico dell’Azione Cattolica, libera di sostenere l’evoluzione dei processi democratici secondo la nuova era che si venne prefigurando nel corso degli anni ’80. Anche in questo si fallì. Non si riuscì a pensare ad un impegno politico che sostituisse quello a sostegno di un partito cristiano. Emersero correnti fondamentaliste e integraliste che trovarono credito presso Wojtyla, profondamente sospettoso verso il socialismo che indubbiamente attraversava le correnti democratico cristiane italiane per la loro  lunga storia insieme ad esso. Si arriva, in definitiva, all’attuale irrilevanza politica del cattolicesimo sociale italiano, al quale nessuna formazione politica rappresentata in parlamento si richiama più.

  Tutto questo si sta manifestando nel bel mezzo di una gravissima crisi della politica democratica in Italia. La democrazia, il cui sostegno era stata la principale ragione per cui i democratici cristiani avevano accettato il sostegno di un Papato uscito piuttosto screditato dal compromesso con il fascismo, è posta seriamente in questione. E si avverte una forte difficoltà della gente di ragionare di politica in termini democratici. Ma, innanzi tutto, proprio di ragionare. Eppure gli strumenti formativi non mancherebbero. All’esortazione apostolica La gioia del Vangelo, si è aggiunta l’enciclica Laudato si’, che contiene una realistica e informata spiegazione dell’origine dei problemi sociali che ci travagliano. Si tratta di documenti che, purtroppo, sono poco conosciuti, per quello che ho constatato, tra gli stessi formatori. Negli anni passati siamo stati abituati ad un profluvio di letteratura pontificia, a cui non si riusciva proprio a tener dietro. Ma  a quei due documenti bisognerebbe proprio fare attenzione.

   Con fatica riusciamo a portare i più piccoli alla Comunione e una minoranza di loro anche alla Cresima. Questo non basta. Occorrerebbe formarli a costituire società animate da spirito di fede, fin  da piccoli. Questo sembra superare le nostre capacità di immaginazione: eppure è appunto quello che l’Azione Cattolica Ragazzi ha tentato nel 2016 e sta ancora facendo. Una catechesi civile.

1.7

La religione come conquista culturale

(9-10-18)

 

  La religione, intesa come sistema di  credenze nel soprannaturale, riti e stili di vita con essi coerenti, è integralmente una produzione sociale, vale a dire un fatto culturale, studiato dall’antropologia, che osserva come vivono gli esseri umani, dalla sociologia, che si occupa delle dinamiche delle società umane, e dalla psicologia, che studia i processi della nostra mente. La fede, il confidare in un soprannaturale, in ciò che va oltre quello che appare, è invece innata, ma  senza la religione non ha parole per esprimersi.

  La religione, come fatto culturale, viene determinata dalle necessità sociali del momento. La fede vi influisce, ma fino ad un certo punto. Le religioni primitive sono quelle basate sull’osservazione della natura. Ci si trova in balia di essa e la si personalizza, la si pensa opera di dei. Poi si sono le religioni che danno molta importanza al caso, o altrimenti detto alla  fortuna. Qui vicino a Roma, nell’attuale Palestrina, c’era un grande e frequentato santuario dedicato alla  Dea  Fortuna. Più avanti nella storia, le dinamiche sociali furono immaginate come frutto di lotte tra dei. Ogni popolo costituito in nazione con il suo dio. Tutte queste concezioni religiosi hanno una caratteristica comune: sono facili da vivere, frutto di tradizioni molto radicate e quindi sentite un po’ come istintive, e anche di un certo pessimismo in materia di storia umana. Ci si pensa come totalmente nelle mani di capricciose potenze soprannaturali, e soprannaturali in quanto non in nostro dominio. Occorre quindi accattivarsene i favori con riti e sacrifici.

 La nostra religione è molto diversa e si affermò intorno al Mediterraneo, in un processo dei primi tre secoli della nostra era, all’esito di un travaglio culturale durato  circa quattro secoli, gli ultimi dell’era antica, in cui si avvertì l’insufficienza etica delle più antiche religioni. Il veicolo culturale dell’affermazione della nostra fede fu l’ellenismo, la cultura greca diffusa negli ambienti sociali conquistati da Alessandro il grande e dai suoi successori dal  Quarto secolo dell’era antica.

  La caratteristica principale della nostra religione è di pensare un’unione molto stretta tra gli esseri umani, basata su una realtà soprannaturale unica, benigna e molto vicina a ciascuno, tanto da annullare la differenza tra Cielo e Terra.  Non è una religioneistintiva naturale, perché costantemente smentita dalla realtà: pretende, ad esempio, la pace in un mondo travagliato da continue guerre. E’ espressione di una certa insoddisfazione per come vanno le cose nella natura  e nella società: si vorrebbe porre rimedio ai mali che manifestano.  E’ il frutto, quindi, di una conquista culturale, anche se corrisponde ad esigenze molto profonde degli esseri umani, ad una loro fede indubbiamente piantata in loro. Richiede quindi un impegno di approfondimento. Questo è, appunto, ciò che manca tra noi di questi tempi. 

  La capacità di raggiungere quella conquista culturale si ha al termine di un processo di formazione che possiamo ritenere in qualche modo sufficiente alla fine delle scuole superiori. E’ in quel momento che, ad esempio, si hanno le basi per capire alcuni documenti religiosi molto importanti come le Costituzioni Luce per le genti  e La gioia e la speranza del Concilio Vaticano 2°, che, come diceva Giovanni Battista Montini - papa Paolo 6°, sono il catechismo del mondo moderno. I catechismi per le varie età diffusi dalla Conferenza episcopale italiana e da altre istituzioni religiose ne sono versioni semplificate. Il Catechismo della Chiesa Cattolica è, invece, un documento normativo diretto ai teologi, non uno strumento formativo popolare, e richiede un’istruzione a livello universitario per essere capito.

  Purtroppo il nostro sistema di formazione permanente degli adulti alla religione è molto carente, per vari motivi. Non ci sono le forze per reggerlo e, in genere, non si ha nemmeno il tempo e la voglia di parteciparvi. Ci si contenta, così, di una coscienza religiosa un po’ superficiale. La situazione si aggrava molto con il trascorrere degli anni dall’uscita del percorso formativo. Già nei quarantenni è piuttosto seria. I più anziani mantengono solo vari ricordi. Solo chi per professione ha dovuto approfondire tematiche culturali, come gli insegnanti, ne sanno di più.

  Qual è il compito dell’Azione Cattolica di oggi?, mi ha chiesto una signora del nostro gruppo? E’ la realizzazione dei deliberati del Concilio Vaticano 2°, ho risposto senza esitazioni. Una riforma religiosa, quella di quel Concilio,  che comprendeva l’esigenza di una migliore coscienza religiosa. Questo significa darsi, come associati, una disciplina formativa, riprendendo certi testi e discutendone. Ma anche cercare di spiegarli agli altri, dopo averli compresi.

  Non  è possibile una fede irriflessa, istintiva? E’ un inizio, ma non basta. Soprattutto non basta per quel lavoro di cambiare il mondo che è oggi richiesto dalla dottrina sociale come dovere per la persona religiosa. Per produrre cambiamenti, occorre capire e capire in modo affidabile. Questo fu compreso molto bene fin dagli inizi del nostro moderno associazionismo. E’ la ragione per la quale, ad esempio, nel gruppo fondato nell’Ottocento a Viterbo da Mario Fani si istituì una biblioteca popolare e si faceva scuola. Così come la faceva un’altra grande anima della nostra religione: Lorenzo Milani.

1.8

Religione difficile

(17-10-18)

 

  La nostra religione ha avuto problemi negli ultimi cinquant’anni. Antropologi, sociologi e teologi hanno cercato di capirne le cause. Sono coinvolte quelle scienze perché esse riguardano  i modi di vivere e di pensare, le dinamiche della società e le concezioni sul soprannaturale che si sono diffuse. I risultati di questa riflessione non convincono del tutto, ad esempio quando mettono in risalto una certa maggiore incredulità rispetto al passato. I problemi si apprezzano maggiormente nelle realtà di base che ai vertici del potere religioso, dove, in definitiva, può immaginarsi, e non senza ragione, che tutto stia andando un po’ come prima. I costumi curiali e gli ambienti principeschi in cui talvolta si lavora possono favorire questo straniamento dal popolo. Per questo è molto apprezzabile la scelta del Papa regnante di vivere in un appartamento in albergo.  Poteri civili e religiosi continuano, come nei millenni passati, ad accreditarsi a vicenda, anche se in Europa è venuta meno, nel processo di pacificazione europea iniziato dalla metà degli scorsi anni ’40, al termine della Seconda guerra mondiale, la sacralizzazione  del potere civile, che legava  molto più strettamente quest’ultimo al potere religioso e, in genere, alla religione. E’ per quella via che gli europei, nella loro crudele conquista del mondo, poterono pensare di avere il Cielo dalla loro parte e di svolgere una missione religiosa mentre sottomettevano, spesso annientandoli,  altri popoli e altre culture.

  Le antiche religioni non sono finite dopo l’affermarsi della nostra, ma si sono trasformate inculturandola. Le loro credenze sopravvivono in diversi modi nella nostra, ad esempio in molti riti popolari. Questo è stato sfruttato dal potere religioso, in particolare quando, in Europa, e in particolare in Italia, ha avuto problemi con quelli civili e ha cercato di mobilitare le masse in suo soccorso. Si tratta di una religiosità che funziona ancora molto bene e si esprime nella spiritualità di massa dei santuari e delle apparizioni. Durante il Concilio Vaticano 2° si cercò di correggerla. Si volle progettare una formazione religiosa più accurata, più vicina a ciò che è il cardine della nostra fede: se ne parlò come di svolta cristologica.  In questo quadro si propose di fare dell’umanità una sola famiglia come obiettivo religioso. Questo privò di consistenza le ideologie politico-religiose di sacralizzazione che avevano base nazionalistica, quelle che erano l’espressione moderna dell’antica concezione di un popolo legato ad un dio. Tutto questo incise sulla religiosità degli europei, molto basata sulla sacralizzazione dei poteri civili e sulla sopravvivenza culturale di certi elementi delle antiche religioni della natura e della storia a sostegno di essa, per cui si immaginava che venendo meno il dominio degli europei sul mondo, le cose si sarebbero messe molto male. All’origine della spaccatura verticale e durissima tra fazioni religiose in Italia c’è appunto la contrapposizione frontale tra chi vorrebbe tornare all’antico sistema, essenzialmente questa volta in funzione difensiva verso un mondo che assedia l’Europa e chi vorrebbe proseguire sulla via indicata dal Concilio Vaticano 2°.

   I sociologi hanno osservato che il processo di secolarizzazione, vale a dire il minor credito sociale della religione, interessa sostanzialmente solo l’Europa, è un problema essenzialmente europeo. E’ la coscienza degli europei ad essere implicata. Nelle altre parti del mondo va molto diversamente. In un certo senso gli europei non sanno più bene che pensare di se stessi. La religione ancora tra loro prevalente li spinge a farsi interpreti e fautori di una civiltà dell’amore, quella che vorrebbe fare dell’umanità una sola famiglia, ma non capiscono più bene perché dovrebbero farlo, in un mondo in cui si va in tutt’altra direzione e ognuno si fa gli affari propri  e pretende di fare bene così, anche dal punto di vista religioso. Così si avvicinano alla religione se manifesta l’antica religiosità della natura e della storia, quella che prometteva di ammansire le potenze soprannaturali nascoste nella natura o di far prevalere un popolo sugli altri. Ma appena si iniziano a fare i discorsi che i saggi del Concilio vollero che si facessero, in quel nuovo processo formativo, non intendono più. I più anziani, poi, che sono sempre di più tra noi e in particolare nelle realtà religiose di base, quel passaggio culturale, in genere, non l’hanno mai neppure iniziato. Tutto è stato coperto dall’ingenuo papismo introdotto da san Karol Wojtyla al termine degli anni ’70 e dell’ultimo travagliato periodo di  papato del suo predecessore, san Giovanni Battista Montini, che aveva segnato il clamoroso insuccesso del nuovo processo formativo, che, iniziato alla fine degli anni ’60,  apparentemente stava portando alla dispersione del gregge.

 

1.9

La democrazia come problema religioso per il cambiamento della società

 (13/17-10-18)

 

1.  Chi ha meno di sessant’anni non ha vissuto consapevolmente i tempi di Giovanni Battista Montini, che regnò in religione come papa Paolo 6° tra il 1963 e il 1978. E molti di quelli più giovani non hanno avuto né il tempo né il desiderio di approfondire. E ancora non li hanno. Vivranno quindi superficialmente le celebrazioni della canonizzazione che si farà oggi e che non riguarderà solo Montini, ma anche Oscar Romero, assassinato in una chiesa, durante la Messa, nel 1980, da arcivescovo di San Salvador, nel piccolo stato centroamericano di El Salvador, al tempo di una repressione fascista: egli seguiva e insegnava una delle versioni della teologia della liberazione, filone di pensiero e d’azione iniziato durante la  conferenza del 1968 del Consiglio Episcopale Latino Americano - CELAM - svoltasi a Medellin, in Colombia, e inaugurata dal papa Paolo 6°. Si tratta di una teologia sostanzialmente scomunicata da san Karol Wojtyla (il quale pure ne fece proprie alcune istanze), che non fece proclamare la santità di Romero, invocata a gran voce dal popolo latino americano. E’ stata riabilitata da Jorge Mario Bergoglio, Papa attualmente regnante, il cui magistero ne va considerato uno dei frutti.

 La teologia della liberazione, che si presenta come il più importante movimento di riforma in linea con gli indirizzi del Concilio Vaticano 2° succeduto a quella grande assemblea di vescovi con il Papa, tenutasi a Roma tra il 1962 e il 1965, partiva dalla compassione per i poveri, coloro che vivevano situazioni economiche e sociali di oppressione e di emarginazione,  dal considerare questa, la povertà reale, come un male anche dal punto di vista religioso frutto di sistemi economici e sociali che potevano essere riformati, e dal concepire l’impegno religioso innanzi tutto come solidarietà, protesta e azione di riforma in favore dei poveri, mediante uno stile di vita personale e comunitario di povertà spirituale, intesa come disponibilità alla volontà divina. Farsi poveri, dunque, vale a dire disponibili a quella volontà, per soccorrere i poveri, gli oppressi ed emarginati, riformando la società, e questo come dovere religioso. Da qui il tema centrale della teologia della liberazione: l’opzione preferenziale per i poveri. Non si tratta però di qualcosa di facoltativo, osservò il teologo Gustavo  Gutiérrez nell’introduzione all’edizione del 1988 del  suo libro del 1971 Teologia della liberazione(edito in traduzione italiana da Queriniana), come se la si potesse fare o non fare come credenti, perché non è facoltativo l’amore che dobbiamo ad ogni persona senza eccezione. Si volle esprimere, con quell’espressione opzione preferenziale per i poveri, il carattere libero e impegnativo della decisione. Perché farsi poveri  per aiutare i poveri sconfiggendo le cause sociali della povertà? Il motivo ultimo, scrisse Gutierrez nel testo che ho citato, non sta nell’analisi sociale di cui facciamo uso, nella nostra compassione umana o nell’esperienza diretta  che possiamo avere della povertà: «[…]  il povero è preferito non perché sia necessariamente migliore degli altri dal punto di vista morale e religioso, ma perché Dio è Dio, Colui per il quale “gli ultimi sono i primi”. Questa affermazione perentoria si scontra con la nostra frequente e angusta maniera di intendere la giustizia, ma è proprio questa preferenza a ricordarci che le vie di Dio non sono le nostre vie (Isaia 55,8)».

  Fu il Concilio Vaticano 2° a indicare la via  per un impegno religioso per cambiare il mondo, in particolare deliberando la Costituzione pastorale La gioia e la speranza - Gaudium et spes,  per il motivo che in religione si insegna autorevolmente che abbiamo un unico Padre e che quindi siamo una sola famiglia, noi, tutta l’umanità, solidali e solleciti verso gli altri come si è in famiglia, come descritto nella prima frase della Costituzione dogmatica di quel concilio Luce per le genti - Lumen gentium:

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore», questa la frase iniziale della Costituzione La gioia e la speranza.

   In altre parole, secondo quella teologia, per un credente è intollerabile l’esistenza di situazioni di oppressione e di sfruttamento. La via dell’impegno per la riforma sociale è quella di farsi poveri  nel senso di disponibili a seguire veramente la via religiosa, ripudiando ogni compromesso. Questa prospettiva priva di fondamento teologico qualsiasi forma di conciliazione  che comporti l’accettazione dell’oppressione e dello sfruttamento e quindi i tanti modelli di sacralizzazione  dei poteri civili nei quali la Chiesa storicamente si compromise, intendendola come male minore  e in vista di benefici materiali e sociali che la fecero ricca e potente in un mondo di oppressi e sfruttati. E, nei suoi più recenti sviluppi, indica quella della liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento come una via di salvezza  non solo per i poveri in senso materiale, ma per tutti. L’ingiustizia sociale, se non corretta, farà affondare le società intere, non solo la loro parte posta ai margini.

 L’eco di quella concezione è evidente in un documento come l’enciclica Laudato si’,  diffusa nel 2015 da papa Jorge Mario Bergoglio, gesuita latinoamericano, regnante come Francesco in religione.

2. Ci si illudeva che le idee del Concilio Vaticano 2° sarebbero state ben accolte dalle nostre comunità religiose. Parte di esse erano però coinvolte nelle molte sacralizzazioni  politiche attuate nel mondo, in particolare nell’Occidente, tanto permeato dalla nostra fede. Del resto, il dominio degli europei su quasi tutto il resto del mondo si era compiuto secondo la più spettacolare di quelle sacralizzazioni, quella che considerava le stragiste guerre di conquista degli europei come espressione di una missione religiosa evangelizzatrice. Essa fu particolarmente evidente nell’America Latina, caduta sotto il dominio delle monarchie cattoliche  di Spagna e Portogallo.

  Il Concilio Vaticano 2° aprì la via, nei successivi cinque anni a vivacissimi fermenti religiosi che, ad esempio, condussero al nuovo statuto dalla nostra Azione Cattolica, approvato nel 1969 sotto la Presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e, come sopra ho ricordato, al  movimento di riforma prima pensato nella linea della nuova dottrina sociale di quel Concilio e poi   deliberato come parte del Magistero nel 1968  nel corso della conferenza  di Medellin del Consiglio Episcopale Latino Americano. Ma anche a veementi polemiche all’interno della Chiesa tra le fazioni dei riformatori e dei reazionari, che volevano tornare alla conciliazione tra religione e politica attuata sotto il Papato di Eugenio Pacelli - regnante come Pio 12° dal 1938 al 1958. Si temette che la Chiesa potesse sfasciarsi. Il nuovo, ad esempio le nuove liturgie nelle lingue nazionali, era sorprendente, ma si stavano lasciando tante sicurezze del passato: sembrò che mettere la religione nelle mani del popolo, ad esempio facendogliene comprendere i riti, la mettesse in pericolo. Parlare tanto di povertà sembrò che mettesse in pericolo l’ordine sociale che garantiva la sopravvivenza stessa della Chiesa. Ecco quindi che da subito, fin dall’anno in cui il Concilio si chiuse, si cercò di porvi rimedio  correggendo  l’impostazione conciliare e cercando di frenarne gli sviluppi. Nell’articolo di due giorni fa su La Repubblica  Alberto Melloni ha ricordato alcune decisioni in quel senso del papa Paolo 6° e, in particolare, l’impulso alla preparazione di una Legge fondamentale della Chiesa, una vera e propria costituzione come si davano gli stati, che avrebbe corretto  interpretazioni ritenute eccessivamente riformiste della teologia conciliare (i lavori, iniziati nel 1965, nel novembre che precedette la conclusione del Concilio,  e proseguiti negli anni ’70, non ebbero seguito), i tentativi di normalizzazione  dell’Ordine dei Gesuiti, che  staccandosi da una storia generalmente conservatrice e addirittura reazionaria avevano iniziato a procedere velocemente nella via indicato dal Concilio Vaticano 2°, la decisione di convincere l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro, uno dei protagonisti di quel Concilio, di lasciare la sua carica, dopo un’omelia contro i bombardamenti statunitensi nella guerra in Vietnam, nel 1968. Ma anche decisioni, e soprattutto azioni, in senso diverso.

  Il papa Paolo 6°  morì nel 1978 angosciato da quella situazione che ho cercato di descrivere. Fu ad un uomo dell’Europa Orientale, rimasta sostanzialmente indenne da quel travaglio perché caduta nel dominio del comunismo ateo di scuola sovietica e dunque libera da certi sensi di colpa degli Occidentali, in quanto immemore del suo passato ma tutta concentrata sul suo difficile presente, che fu affidato il compito di moderare gli influssi riformistici conciliari. A Paolo 6° successe Giovanni Paolo 2°. Il nuovo Papa, forte del suo grande carisma personale, fece ciò che ci si aspettava da lui procedendo ad una estesa  opera di repressione teologica e clericale, tuttavia senza raggiungere gli eccessi di inizio Novecento nella persecuzione del modernismo, e commissionando e approvando il Catechismo della Chiesa Cattolica, deliberato nel 1992 non solo come sussidio ma come documento ideologico normativo. Da oggi saranno santi,  quindi proposti a modello per i credenti, i Papi del Concilio, Giovanni 23° e Paolo 6°, e il Papa che del movimento innescato dal Concilio volle essere moderatore e censore, Giovanni Paolo 2°. Il primo diede l’impulso, l’ultimo cercò di frenare: Paolo 6° espresse tendenze intermedie, desideroso ma anche timoroso del nuovo. Ad un franco sguardo retrospettivo bisogna riconoscere che il governo del papa Giovanni Paolo 2° spense gli aneliti conciliari, silenziandone ma non sopendone del tutto le controversie,  ostacolandone gli sviluppi nel pensiero teologico, conducendo i cattolici italiani, che dal suo influsso furono particolarmente plasmati, in una sorta di stato di incantamento di stasi, che è la nostra condizione attuale, nell’Italia di oggi. Ma anche la via percorsa da Paolo 6° appare insufficiente. Ciò che gli era in parte riuscito durante il Concilio, tenere tutti insieme a prezzo di qualche concessione al passato, non funzionò nella società: non si riuscì ad organizzare dal vertice una via moderata al cambiamento, innanzi tutto cercando di dilazionarlo nel tempo, in modo che fosse assunto a piccole dosi.

   Oggi si celebra la vita di  persone proposte come esemplari in religione, ma è su che cosa vogliamo essere, noi, oggi, che dovremmo riflettere. Perché il dilemma che si presentò negli anni ’70, che tanto travagliarono la vita e il ministero del Montini, riguarda anche noi. Andare avanti o tornare indietro? E a che velocità andare avanti?

  La Chiesa è spaccata verticalmente come allora. Movimenti di impostazione sostanzialmente neofascista reclamano una nuova sacralizzazione  della loro politica. Da soli, più che sventagliare qualche rosario qua e là, non riescono a fare, non gli basta. Hanno bisogno di una teologia e di un magistero compiacenti. Si è diffusa, in Europa, e anche da noi in Italia, una mentalità da assediati. Chi sono gli assedianti? Sono i poveri che si voleva  liberare  e  salvare  secondo gli auspici del Concilio Vaticano 2°, per liberare  e  salvare  tutti, anche quelli che avevano avuto la parte migliore: dall’ingiustizia e dal duro destino che attende gli ingiusti, man mano che la loro ingiustizia si afferma travolgendo le società da cui dipendono anche loro le vite di privilegiati. Si è immemori della cause sociali della povertà, e si getta sui poveri la colpa della povertà. La giustizia viene di nuovo concepita come il dare a ciascuno il suo, ai ricchi la ricchezza, ai poveri il loro triste destino: il problema della povertà, così, ridiventa questione di ordine pubblico, da trattare per le spicce con metodi polizieschi, invece che questione sociale.

  Da che parte stare? Verso dove muoversi?

  La fabbrica dei santi non aiuta, perché ha proposto come esemplari figure di capi religiosi che indicavano vie diverse: Roncalli, Montini, Wojtyla e Romero.

  Rimaniamo con il nostro problema di coscienza. Farsi poveri  o accettare quel tanto di povertà o ingiustizia che ci rende possibile la nostra tranquillità di europei, capitati in una delle società più sviluppate, e quindi più ricche, del mondo? La via originaria del Concilio, espressa dal magistero di Roncalli e Romero, quella attenuata di Montini, quella della stasi, del non più di così,  di Wojtyla. Quanto a quest’ultima, se ne possono vedere i frutti nella Polonia di oggi, alla quale anche parte dell’Italia sembra guardare di nuovo, come negli anni ’80, per trarre esempio.

  La prima cosa da fare è saperne di più, studiare, capire. La conoscenza dei fatti e ideologie della religione è in genere piuttosto superficiale nei più, e questo nonostante l’insegnamento religioso impartito nella scuola pubblica. E, per chi ha meno di sessant’anni, non soccorre il vissuto personale. Le celebrazioni per una canonizzazione non sono il tempo giusto per farlo, ma possono costituirne l’incentivo. Oggi l’agiografia, la celebrazione dei nuovi santi, prevarrà. Al popolo che assisterà sarà assegnato un posto e una parte nel rito, secondo quando scritto nel libretto che sarà messo nelle mani dei presenti. Nulla di più. Ma già attendendo l’inizio della celebrazione, e probabilmente l’attesa sarà lunga, si potrà iniziare a confrontarsi sui temi che ho indicato. E poi bisognerà proseguire dove si vive, innanzi tutto nelle parrocchie, con l’aiuto dei libri giusti, perché certe cose bisogna impararle leggendo, non ci entrano in testa semplicemente acclamando, come si dovrà fare oggi.

3. L’accusa più dura, e più dura perché più vera, alle persone religiose è quella di essersi costruite una divinità, e quindi una religione, a misura dei loro interessi, “un dio tutto loro”. Gran parte del lavoro che si fa da persone religiose è quello di redimersene. E lo si fa facendo spazio agli altri. Questo significa essere missionari.

   Nel lessico di papa Francesco se ne parla come di organizzare un ospedale da campo, che significa farsi carico delle sofferenze altrui. Nello stesso tempo egli tiene a precisare che non si è, in religione, una Onlus, un ente benefico. Quel lavoro che si fa è molto più che filantropia e non basta andare in soccorso di chi è caduto. Bisogna cambiare la macchina sociale che produce i sofferenti. Che cos’è il cambiare il mondo, perché proprio di questo si tratta, se non rivoluzione? E infatti questa parola, che ancora fa tanta paura, ricorre negli scritti del Papa. Ma in un senso molto più radicale da come di solito la si intende, vale a dire il contrapporre violenza a violenza per rivoltare  un certo ordine sociale. Perché la nostra rivoluzione si fa seguendo il nostro Maestro e comporta anche il ripudio della violenza sopraffattrice, di un mondo che si regge sulla violenza. La storia ha dimostrato chiaramente, per chi abbia tempo e modo di studiarla, che nessun ordine che dipenda dalla violenza per instaurarsi e resistere è veramente rivoluzionario: prosegue solo la desolante serie del passato. E’ per questo che il Papa, volendo rendere l’idea di una rivoluzione secondo la nostra fede, ha abbandonato l’immagine del  soldato di Cristo,  tanto  utilizzata nel passato, per ricorrere a quella dell’ospedale allestito in emergenza sui campi di battaglia, l’ospedale da campo, appunto. Si evoca con questo una società che si pensa pacifica, pacificata e pacificatrice e invece è in guerra, molto violenta. Quella che produce gente da buttar viascarti nel lessico del Papa, e che respinge.

 «Il dovere che la Chiesa ha di chinarsi su tutte le ferite dell’umanità e di operare perché nessuno possa risultare uno scarto non le deriva da qualche forma di neutrale filantropia: è esigenza del Vangelo della misericordia, che è chiamata ad annunciare.

 Esso, proprio perché è annuncio del cuore di Dio che si china sulle miserie -compreso il peccato e ogni divisione  degli uomini tra loro- non può essere ridotto  all’individuale rapporto del singolo con Dio o a qualcosa che rimandi ad un aldilà che nulla avrebbe a che fare con l’aldiqua di una vita, spesso misera degli uomini. Il Papa lo chiarifica mettendo in evidenza la portata sociale dell’evangelizzazione, rilevando che il Vangelo implica il regnare di Dio nel mondo, permettendo così che la vita sociale diventi “uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti”»

[da: Roberto Repole, Il sogno di una Chiesa evangelica. L’ecclesiologia di papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana, 2017, pag.87-88].

   Quell’idea di evangelizzazione, oggi come negli anni ’60 quando cominciò a  diffondersi, è ai tempi nostri duramente contestata da ogni tipo di reazionari, quelli che vorrebbero che si tornasse come si era prima. Si reclama a gran voce una religione che torni a sacralizzare  le società degli europei così come sono, violente e ingiuste come sono,  a ridar loro  sovranità  non solo sui corpi ma anche sulle anime. C’è nostalgia, insomma, di quando c’era un dio tutto nostro. Perché c’è stato, indubbiamente. E noi europei ne abbiamo anche fatta evangelizzazione, lo abbiamo addirittura imposto con la violenza, distruggendo le culture altrui per insediarlo al loro posto. Prima di ricominciare, noi stessi, a rievangelizzarci alla sequela del vero Maestro.

 4. L'apporto più importante del Montini fu, credo, la sua azione per lo sviluppo della democrazia avanzata, piena di grandi valori umanitari, da realizzarsi con un'intensa opera di formazione popolare guidata da persone colte e competenti.  

 Un intento che inizia a manifestarsi fin dal libretto Coscienza universitaria, del 1930, durante il suo ministero di Assistente generale della Fuci - l'organizzazione degli universitari cattolici, che all'epoca era inquadrata nell'Azione Cattolica - nel quale si legge:

«[...] tocca a noi fare dell'intelligenza un mezzo di unità sociale; tocca a noi rendere la verità tramite della comunicazione tra gli uomini, tocca a noi diffondere "l'unità di pensiero". [...] è una delle speranze del mondo moderno, pur tanto traviato, questa tensione immensa  verso la unificazione del genere umano, e sarà forse è [...] l'opera buona [...] perché darà, come l'unità del mondo romano lo diede al primo cristianesimo, il mezzo per riunire tutti i figli della terra in un solo nome  e in una sola famiglia.

   Ma è pur vero che questo non è voluto e non è capito. Quelli stessi che adesso parlano di "unità sociale" sono spesso tanto convinti che il pensiero sia contro tale unità, che dicono di voler prescindere  da ogni ideologia; e credono di eliminare  così l'ostacolo, altrimenti insuperabile, per un'effettiva e concreta compaginazione collettiva di coscienze e di opere. [...] Ciascuno deve avere una visione propria [...] si pretende che ognuno [...] debba inventarsi una sua soluzione dei problemi fondamentali del sapere [...[ Vale a dire che l'intelligenza è educata in modo da dividere  e differenziare gli uomini fra loro. [...] com'è facile ascoltare discorsi pronunciati con la più inamidata solennità, press'a poco così "E' questione di principi: ciascuno ha i suoi; ed è impossibile andare d'accordo sui principi. Ciascuno conserva le sue idee. Piuttosto possiamo essere d'accordo per via di fatto; non  in teoria, ma in pratica; nel campo degli affari. Questi sì, sono di tutti, perché non sono opinioni". [...] E così che le forze, a cui è affidato il provvidenziale compito di affratellare i popoli fra loro, non sono quelle redentrici e santificatrici dello spirito, ma sono quelle economiche, quelle del progresso esteriore, quelle immensamente pesanti della materia, che da un momento all'altro possono trasformare in schiavitù spietata, o in ribellione violenta, la società che son riuscite a creare tra gli uomini.

[...]

 E' perché crediamo al fondamento oggettivo della verità che abbiamo fiducia di incontrare in essa, come in un unico punto di riferimento, le menti che vanno cercandola o che l'anno trovata. [...] E' sui principi che avviene l'accordo. [...] E' così che avere un pensiero, una dottrina, un'ideologia non è ostacolo alle formazioni collettive, ma diventa una necessità, e costituisce allo stesso tempo la garanzia più stabile degli organismi sociali e la semplificazione più benefica  liberatrice delle pesantezze burocratiche e autoritarie. [...] E' il regno della carità umana. [...] E ciò che accresce l'ammirazione di tanto fenomeno si è che tale coincidenza di pensiero non è ottenuta per via di contratto, di rinuncia, o di compromesso con cui gli associati transigono fra di loro su una porzione dei propri diritti spirituali e cercano con il tributo così estorto di costituire un patrimonio comune di credenze e di pensiero, come capitale indispensabile per realizzare una qualsiasi convivenza [...] Noi siamo universitari. Noi siamo cristiani, Noi siamo cioè i ricercatori dell'universalità  e dell'unità. Noi siamo giovani, e perciò viviamo ciò che pensiamo. Spetta a noi quindi nella scuola e nella vita preparare la società delle intelligenze e della comunione dei santi».

 Quindi poi: inculturare la politica con i valori fondamentali mediante lo strumento della democrazia, e quindi creare, e prima di tutto pensare, una nuova democrazia piena di quei valori. Da questo pensiero non è nata solo la nuova democrazia italiana, ma anche la nostra nuova Europa. Un'opera epocale e, purtroppo, ai tempi nostri misconosciuta, oltre che semplicemente ignorata. Ne troviamo tracce importanti nei radiomessaggi diffusi tra il 1939 e il 1945 sotto l'autorità di Eugenio Pacelli - papa Pio 12°, ma scritti con l'importante contributo del Montini, che ho pubblicato qualche giorno fa, e in  documenti come l'enciclica Lo sviluppo dei popoli - Populorum progressio  del 1967 e la lettera apostolica  L'ottantesimo anniversario [dalla pubblicazione dell'enclicica Le novità - Rerum Novarum, del papa Vicenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°] Octogesima adveniens, del 1971.

  Il papa Paolo 6° fu molto avversato in vita, da  reazionari e progressisti, e molto diffamato poi. Da ragazzi, noi giovani di allora, lo sentimmo sempre più vicino mentre si avvicinava per lui la fine, nei tristi anni '70, sorprendendoci con la sua umanità. Ma io lo compresi veramente  solo molti anni dopo, quando ebbi la maturità sufficiente. Iniziai a capirlo, però, quando lo sentii pronunciare, a San Giovanni in Laterano, la dolente preghiera alla Messa funebre per Aldo Moro, il 13 maggio 1978:

  «Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce.

  E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui.

  Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere di redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna ! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!

  E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che hanno subito la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!».

 Ecco, sintetizzata con le sue stesse parole, la ragione della grandezza di Montini: aver suscitato, in tempi bui, e contribuito in maniera determinante a realizzare, con i suoi amici, in uno spettacolare lavoro collettivo, la redenzione civile e spirituale della Nazione italiana, da lui e dai suoi amici "diletta"  mediante l’azione democraticaUn'opera patriottica, quindi, a vera chiusura della Questione romana, e nello stesso tempo europea  e mondiale, universalistica, perché espressione di un'ideologia con caratteristiche universalistiche, tesa a fare di tutta l'umanità un'unica famiglia, a superamento dello stragista sovranismo  del fascismo  storico.

  La democrazia come fattore di unità delle masse (non solo di ceti privilegiati) sui valori, non quindi  fonte di divisione sociale secondo l’opinione dei reazionari di sempre, i quali preferirebbero trascinare le masse al seguito di un capo indiscutibile. Un mondo veramente nuovo, come mai c’era stato nel passato,

  E mi risuonano sempre dentro le sue accorate parole la mattina di Pasqua, rimandate da radio e televisione: "Cristo è risorto! E' veramente risorto!". L'annuncio che un mondo diverso è veramente  possibile.

 

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2

Azione Cattolica è azione nella società democratica

(26 settembre 2012)

 

 Le associazioni e i movimenti ecclesiali hanno sempre qualcosa che è comune a tutti e qualcos’altro che è peculiare di ciascuno di essi. Qual è lo specifico dell’Azione Cattolica?

 L’Azione Cattolica nasce nel Novecento per confrontarsi con le democrazie popolari di massa da persone di fede. Essa venne costituita dal papato, quindi dall’autorità ecclesiale, sulla base di un vivace movimento sorto tra il laici cattolici italiani nel corso dell’Ottocento. L’ “azione” che c’è nella sua denominazione è dunque essenzialmente quella nella società.

 Si tratta di un’associazione di laici convinti della propria fede e persuasi che democrazia ed esperienza religiosa non siano in antitesi. L’idea fondamentale alla base dell’esperienza associativa è che i valori della fede possano plasmare la società civile attraverso l’opera di laici che cooperano democraticamente con le altre forze sociali, in un contesto istituzionale democratico. L’Azione Cattolica non ha scopi puramente difensivi degli interessi della Chiesa come istituzione, né è volta ad assoggettare la società civile al governo dell’autorità ecclesiastica. Non mira a ritornare ai tempi passati, non è quindi una forza reazionaria. E’ non è nemmeno una forza conservatrice, perché, in particolare dopo il Concilio Vaticano 2°, è impegnata nella riforma sociale secondo gli ideali evangelici: in questo senso è un movimento che punta a un miglioramento, quindi a un progresso, della società civile.

  Nell’esperienza di Azione Cattolica è molto importante l’approfondimento delle verità di fede come parte di una spiritualità che cerca un’adesione consapevole e informata alla religione professata. E tuttavia quello in Azione Cattolica è un impegno che presuppone una formazione catechistica precedente. Non è quindi caratterizzata da un percorso di iniziazione religiosa. Si entra già persuasi della propria fede.

 Gli associati nell’Azione Cattolica partecipano alle attività liturgiche e di formazione della Chiesa, ma ciò che caratterizza veramente il loro impegno, quello che è loro peculiare, è l’impegno collettivo e individuale nella società in cui vivono da laici, con piena cittadinanza. L’Azione Cattolica non è quindi un’aggregazione che vuole costituire un’alternativa a quel tipo di impegno, un mondo chiuso in sé stesso dove sviluppare la propria socialità e la propria personalità. I momenti di incontro che si hanno nell’associazione sono diretti a migliorare l’azione nella società che c’è fuori, in cui gli aderenti vivono, da laici, nella famiglia, nel lavoro, nella cultura, nella politica.

 Detto ciò, è chiaro che nei gruppi spesso si sperimenta una certa distanza tra gli ideali associativi e la realtà particolare. Accade anche a noi, in San Clemente Papa?

 L’età media del nostro gruppo è piuttosto alta: in che cosa ci differenziamo da un “gruppo anziani”?

 Giovani e anziani possiamo riscoprire di avere tra noi, nella nostra esperienza associativa, un tesoro prezioso da preservare, che è quel modo di impegno nella società, da gente di fede, di cui dicevo. Qualcosa che ci è proprio e che non ha attualmente sostitutivi. Qualcosa che è ancora necessario alla Chiesa di oggi.

 

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Agire da gente di fede nella società democratica di oggi

(29 settembre 2012)

 

 In una società ordinata democraticamente le moltitudini dei cittadini hanno la possibilità di influire di più sul corso delle cose. E ci sono valori da definire, perché, quando si comanda in molti, bisogna trovare un accordo per rispettarsi a vicenda e poi su quello che deve essere fatto e su come farlo, e infine per stabilire come si forma la volontà di tutti, che necessariamente deve, alla fine, essere unitaria. In una monarchia assoluta, come ce ne sono state in passato e come  ce ne sono ancora (poche, non so se si arriverebbe a cinque volendo fare l’inventario), è diverso.  Decide uno solo, o meglio, spesso, decide la famiglia reale o la corte che ruota intorno ad essa e gli altri devono attuare, con una discrezionalità più o meno ampia. Come una volta si provvedeva a istruire e formare i giovani rampolli delle famiglie regnanti, così ora questo lavoro si fa su più larga scala, perché vanno formate all’esercizio della sovranità le masse dei cittadini. Il sistema dell’istruzione pubblica serve anche a questo.

 L’avvento, dalla fine del Settecento, delle democrazie, non è stato indolore per la Chiesa cattolica, mentre non vi sono stati problemi per altre Chiese cristiane, come quelle che sorressero fin dagli inizi le idealità del nuovo stato federale uscito dalla rivoluzione nordamericana contro il Regno Unito (“In God we trust – Confidiamo in Dio”  fu ed è uno dei suoi motti). Quale ne è stata la ragione? Il problema è che la Chiesa cattolica era (ed è ancora) ordinata come una monarchia assoluta. E una di quelle monarchie assolute contemporanee di cui dicevo l’abbiamo proprio qui a Roma ed è la Città del Vaticano, che la Santa Sede ha ordinato come un vero e proprio stato, con una propria costituzione, propri uffici e servizi amministrativi e giudiziari, una propria polizia e un piccolo (ma molto motivato) esercito.

 Con l’avvento, in Europa, delle democrazie, i cattolici, laici e clero, si posero il problema di come e su che basi influire in esse. I Papi, nell’Ottocento e fino a metà del Novecento, considerarono con preoccupazione la politica democratica. Una pronuncia in questo senso la troviamo ancora agli inizi del Novecento, rispondendo a che pretendeva di conciliare democrazia e valori esplicitamente cristiani. Diciamo così i Papi che non si fidavano tanto dei nuovi “sovrani”, delle masse elevate alla cittadinanza, anche se anche gli antichi monarchi assoluti avevano dato problemi. In Italia le cose furono complicate dalle caratteristiche specifiche del nostro processo di unificazione nazionale che, per il fatto che il Papa era sovrano temporale nel Centro Italia, e soprattutto possedeva Roma, si svolse anche “contro” la Santa Sede, il cui stato, ad un certo punto, fu  invaso militarmente, con morti e feriti (Nella Chiesa di San Luigi dei Francesi una lapide li commemora). La prima presa di posizione pubblica di un Papa che in cui fu dichiarato che la democrazia il regime politico preferibile risale al 1944 (radiomessaggio natalizio del Papa Pio XII): la trovate sul WEB al seguente indirizzo:

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html

  La riflessione della Chiesa sui problemi creati dall’avvento delle democrazie e sulle opportunità determinate dall’elevazione di moltitudini alla sovranità, con piena cittadinanza, si è espressa in quel vasto corpo di insegnamenti che va sotto il nome di “dottrina sociale della Chiesa” e che si suole far partire dall’enciclica Rerum Novarum, del 1891, del Papa Leone 13°. La trovate sul WEB a questo indirizzo:

http://www.vatican.va/holy_father//leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html

  Gli insegnamenti i questa materia vengono promulgati con autorità dai pontefici e dai vescovi, ma hanno sempre avuto l’ampia collaborazione dei laici nella loro ideazione e, più di recente, anche nella loro formulazione. Infatti, quando si deve trattare del mondo fuori dei templi, quello che nel gergo ecclesiale viene definito “il temporale”, gli specialisti sono, in fondo, i laici. Questo è stato riconosciuto formalmente in alcuni importanti documenti normativi del Concilio Vaticano 2°, ma era già una realtà anche prima.

 Oggi la dottrina sociale della Chiesa cattolica comprende un corpo veramente molto esteso, tanto che se ne è fatto un compendio, una sorta di testo unico, che sintetizza dichiarazioni solenni che si sono avute in un arco temporale ormai più che centenario.  Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html

 Come risulta da quello che ho scritto prima, il ruolo dei laici, per quanto riguarda l’azione nel sociale negli ordinamenti democratici, è primario e comprende anche la fase ideativa. Non si tratta solo di eseguire decisioni prese da altri. Il Papa e i vescovi ci chiedono espressamente di collaborare con loro a capire i tempi in cui viviamo. Mi fece molto impressione, quando il mio gruppo F.U.C.I. (gli universitari cattolici) venne ricevuto dal cardinal Vicario Poletti), sentire che il mio vescovo dichiarava che noi giovani eravamo i suoi occhi e le sue orecchie nell’Università. Me ne sentii lusingato ma mi resi anche conto della mia insufficienza. I tempi nuovi richiedono un impegno maggiore di noi laici: non possiamo limitarci a farci trascinare da un clero eroico.

 E il lavoro nella società richiede soprattutto un impegno continuo. Le cose non possono essere pensate una volta per tutte. La dottrina “sociale” della Chiesa, a differenza di quella “teologica”,  è infatti soggetta necessariamente a continui aggiornamenti, perché i nuovi problemi, in particolare nel mondo contemporaneo, si producono continuamente. Ma su certe cose è necessario riflettere insieme. Nessuno, come scrisse Hannah Arendt, da solo, senza compagni, arriva ad avere una visione sufficientemente completa delle cose. Questa  è appunto una delle ragioni per associarsi nell’Azione Cattolica: dare continuità all’impegno di fede nella società civile democratica e vedere le cose da più punti di vista.

 

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Libertà e democrazia come esperienze collettive di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza. Esse contrastano con la nostra esperienza religiosa?

(30 settembre 2012)

 

 

  Da Strada verso la libertà di Paolo Giuntella, Paoline Editoriale Libri, 2004, a pag.36 (ancora disponibile in commercio ad € 12,00) :

“…presentare  una verità che  vi farà liberi  come una religione repressiva è quanto di meno evangelico si possa immaginare. I tarli dell’integralismo e della mentalità normativa possono ridurre il Vangelo in polvere. No. Tutto al contrario di quello che dicono i detrattori, il cristianesimo è una grande esperienza di liberazione interiore. Le Beatitudini sono scritte in positivo, indicano un modello, una strada: ‘Beati…’. Un’esclamazione di gioia, una speranza. Il comandamento cardine del Nuovo Testamento, l’amore, indica la forza d’amare, non la forza di non fare. A me piace usare l’espressione di Martin Luther King, la forza d’amare  (che è poi una delle possibilità di tradurre il vocabolo indiano non violenza; l’altra è la forza della verità), proprio perché c’è una proiezione dell’amore in fare, in azione, in forza, appunto, e non in sdolcinatezza, in sentimentalismo. Dunque amore come energia creativa, come forza della creatività, come costruire, tessere, unire: una coppia di innamorati, un gruppo di persone (una comunità), un popolo, il genere umano”.

  Quando, in occasione di incontri religiosi, si affronta il tema della libertà, molte volte si comincia con l'elencarne i danni, si prosegue con il fissarne limiti precisi e si conclude che la vera libertà sta nel decidere liberamente di obbedire. Non è così? Questa impostazione crea qualche problema nel trattare dell’esperienza religiosa nelle società ordinate come democrazie di popolo e, in particolare, per stabilire se democrazia e religione possano andare d’accordo. Un argomento in contrario viene tratto dal fatto che, pur se oggi riconosce che la democrazia è il regime politico preferibile per la società civile, la nostra Chiesa al suo interno non è  ordinata democraticamente e non vuole esserlo.

 La libertà di tutti, dei popoli interi, è uno degli aneliti fondamentali delle democrazie moderne e, in particolare, delle democrazie di popolo contemporanee, che si propongono di elevare alla piena cittadinanza le masse, senza distinzione tra le persone che le compongono.

 E’ scritto nell’art.3, 2° comma,  della nostra Costituzione, legge fondamentale della Repubblica italiana:

“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione  politica, economica e sociale del Paese”.

 In questa norma è chiaramente espresso l’impegno democratico, che in Italia è un obbligo di legge per tutti, di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, che è come dire alla sovranità comune. Un bel rovesciamento di prospettiva rispetto, ad esempio, alla condizione degli ultimi nelle monarchie feudali, nelle quali il potere emanava dall’alto, e poi veniva, come dire, delegato in parte a persone inserite in diverse posizioni decrescenti di una scala gerarchica in cui, più in basso di tutti, c’erano moltitudini fatte di chi non contava nulla ed era semplicemente dominato da quelli che stavano sopra!

 In una preghiera di origine evangelica che recitiamo ogni giorno nella liturgia delle Ore, ai Vespri, il Magnificat, c’è qualcosa che richiama quell’idea. In greco fa kazèilen dinàsta apò trònon/ kài ùpsosen tapinùs, che viene tradotto nella Bibbia CEI 2010 con ha rovesciato i potenti dai troni/ha innalzato gli umili. La diversità di questa concezione rispetto a quella democratica sta nel fatto che in quella biblica il risultato è soprannaturale mentre nell’altra è prodotto da un’azione collettiva e consapevole, da una rivoluzione, dal basso. Rivoluzione ha significato spesso violenza tra le persone e per questo motivo la Chiesa cattolica, tanto più in quanto storicamente, fin dalla rivoluzione francese della fine del Settecento, ha fatto le spese di simili moti, ha posto un’obiezione morale contro di essa. E tuttavia in un ordinamento democratico contemporaneo certi cambiamenti, certe riforme anche radicali, possono essere attuati senza violenza, anzi questa è una delle caratteristica salienti dei regimi politici di questo tipo. Ciò avviene perché, nella concezione contemporanea, la democrazia integra in sé anche un sistema molto esteso di valori, che viene definito come quello dei diritti umani: non è fatta solo della regola per la quale decide la  maggioranza. Molte cose sono infatti sottratte all’arbitrio delle maggioranze. Ad esempio il principio supremo dell’uguaglianza tra le persone umane. Ed è proprio per questo che ai tempi nostri l’azione democratica costituisce un’opportunità importante anche per chi abbia una concezione religiosa della vita e, in base ad essa, ritenga che le società umane di oggi possano essere migliorate. Uno dei più importanti auspici che troviamo nella dottrina sociale della Chiesa espressa dal Concilio Vaticano 2° in poi è quello che i laici cattolici, cooperando con altre formazioni nella società civile, riescano a introdurre nei principi fondamentali degli ordinamenti democratici valori tratti dalle idee religiose, mediati, quindi, come dire, tradotti in modo che possano essere compresi e accolti anche al di fuori della Chiesa, con l’impiego del discorso razionale e della cultura nel dialogo con le altre componenti della società. Per riunire intorno ad essa le forze sociali, i popoli e, al limite, l’intero genere umano, come scrisse Giuntella. Questo  lavoro è centrale in Azione Cattolica. Esso non è altro che l’espressione della missione della Chiesa nel mondo, tra le genti.

 

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Fede religiosa, uguaglianza e democrazia:  relazioni in veloce evoluzione

(1 ottobre 2012)

 

dal Catechismo della Chiesa cattolica (1992)  n.1934 e 1935 (nella Parte terza: La vita in Cristo; Sezione seconda: La vocazione dell’uomo: la vita nello spirito; Capitolo secondo: La comunità umana; articolo 3: La giustizia sociale; paragrafo 2°: Uguaglianza e differenze tra gli uomini:

1934. Tutti gli uomini, creati ad immagine dell’unico Dio e dotati di una medesima anima razionale, hanno la stessa natura e la stessa origine. Redenti dal sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a partecipare della medesima beatitudine divina: tutti, quindi, godono di una eguale dignità.

1935. L’uguaglianza tra gli uomini poggia essenzialmente sulla loro dignità personale e si diritti che ne derivano:

“Ogni genere di discriminazione nei diritti fondamentali della persona  […] in ragione di sesso, della stirpe, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio” [dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano 2°, 29],

 Dunque il principio dell’uguaglianza universale degli esseri umani, fondamento delle democrazie popolari contemporanee, è oggi legge anche della Chiesa cattolica, in quanto sancito dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), e dal Catechismo della chiesa cattolica, il quale è molto di più di un semplice sussidio per l’iniziazione religiosa, ma è anche un documento normativo, promulgato dal papa Giovanni Paolo 2° con la Costituzione Apostolica Fidei depositum,  dell’11 ottobre 1992 (alcune modifiche furono apportate in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica latina, il 15 agosto 1997).

 La formulazione di quell’ideale di uguaglianza sociale che troviamo nella Gaudium et spes  è simile a quella che si legge nell’art.3, comma 1° della nostra Costituzione (deliberata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948), la cui elaborazione iniziò durante i lavori della prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione dell’Assemblea costituente (luglio 1946 – gennaio 1948) in cui i cattolici erano ben rappresentati, in particolare dai democristiani Umberto Tupini, che la presiedeva, Giorgio La Pira (al quale si deve la formulazione dell’art.2 della Costituzione), Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Camillo Corsanego. E sostanzialmente essa richiama l’analoga formulazione che troviamo nell’art.2, 1° comma, della  Dichiarazione  Universale dei Diritti dell’Uomo (approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-12-1948):

1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

 Ora, vi propongo un lavoro comune, perché, in tutta sincerità non ho la sapienza necessaria per fare asserzioni sicure sul tema: cercate nella storia ormai bimillenaria della nostra Chiesa dichiarazioni normative (atti dei papi, dei concili, dei vescovi)  analoghe a quella che trascrivo nuovamente, della Gaudium et spes, in materia di uguaglianza: “Ogni genere di discriminazione nei diritti fondamentali della persona  […] in ragione di sesso, della stirpe, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio”.

 Vi sarò grato se mi farete conoscere il risultato della vostra ricerca.

 Intanto ricordo che il 12 marzo del 2000, durante il Grande Giubileo dell’anno 2000, il papa Giovanni Paolo 2° presiedette una solenne liturgia penitenziale denominata Preghiera universale – Confessione delle colpe e richiesta di perdono, che comprese la seguente parte:

[…]

VI. CONFESSIONE DEI PECCATI CHE HANNO FERITO LA DIGNITÀ DELLA DONNA E L'UNITÀ DEL GENERE UMANO 

Un Rappresentante della Curia Romana: 

Preghiamo per tutti quelli che sono stati offesi 
nella loro dignità umana e i cui diritti sono stati conculcati; 
preghiamo per le donne troppo spesso umiliate ed emarginate, 
e riconosciamo le forme di acquiescenza 
di cui anche cristiani si sono resi colpevoli. 

Preghiera in silenzio. 

II Santo Padre: 

Signore Dio, nostro Padre, 
tu hai creato l'essere umano, l'uomo e la donna, 
a tua immagine e somiglianza 
e hai voluto la diversità dei popoli 
nell'unità della famiglia umana; 
a volte, tuttavia, l'uguaglianza dei tuoi figli non è stata riconosciuta
ed i cristiani si sono resi colpevoli di atteggiamenti 
di emarginazione e di esclusione, 
acconsentendo a discriminazioni 
a motivo della razza e dell'etnia diversa. 
Perdonaci e accordaci la grazia di guarire le ferite 
ancora presenti nella tua comunità a causa del peccato, 
in modo che tutti ci sentiamo tuoi figli. 
Per Cristo nostro Signore. 

R. Amen. 

R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie, eleison. 

Viene accesa una lampada davanti al Crocifisso. 

Orazione conclusiva 

Il Santo Padre: 

O Padre misericordioso, 
tuo Figlio Gesù Cristo, giudice dei vivi e dei morti,
nell'umiltà della prima venuta
ha riscattato l'umanità dal peccato
e nel suo glorioso ritorno chiederà conto di ogni colpa:
ai nostri padri, ai nostri fratelli e a noi tuoi servi,
che mossi dallo Spirito Santo
ritorniamo a te pentiti con tutto il cuore,
concedi la tua misericordia e la remissione dei peccati.
Per Cristo nostro Signore.

R. Amen.

Il Santo Padre in segno di penitenza e di venerazione abbraccia e bacia il Crocifisso.

 BENEDIZIONE E INVIO

12 marzo 2000

 

Il Santo Padre:

Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.

Vi benedica il Padre che ci ha generati alla vita eterna.
Amen.

Vi benedica il Cristo che ci ha fatti suoi fratelli.
Amen.

Vi benedica lo Spirito Santo che dimora nel tempio dei nostri cuori.
Amen.

Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Amen.

 

Fratelli e sorelle,
questa liturgia che ha celebrato la misericordia del Signore
e ha voluto purificare la memoria
del cammino dei cristiani nei secoli
susciti in tutta la Chiesa e in ciascuno di noi
un impegno di fedeltà al messaggio perenne del Vangelo:
mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità,
mai più gesti contro la comunione della Chiesa,
mai più offese verso qualsiasi popolo,
mai più ricorsi alla logica della violenza,
mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni,
disprezzo dei poveri e degli ultimi.
E il Signore con la sua grazia
porti a compimento il nostro proposito
e ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

Amen.

 

  La proclamazione dell’uguaglianza universale degli esseri umani è oggi quindi parte della dottrina sociale della Chiesa, un principio promulgato con la massima autorità: quella di un Concilio ecumenico e di un papa. Il papa Giovanni Paolo 2°,  con le parole pronunciate nel 2000 al termine della preghiera universale di confessione delle colpe e richiesta di perdono ha anche assegnato a tutti noi fedeli, e in particolare a noi laici  che operiamo nel “temporale”, cioè al di fuori della sfera liturgica di competenza canonica dell’autorità ecclesiastica e del clero,  un compito molto chiaro, da svolgere con determinazione e senza cedimenti  o arretramenti (“mai più…”), anche in materia di realizzazione dell’uguaglianza sociale universale.

 C’è ancora molto da fare, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico, ideativo. Ma molto indubbiamente è stato fatto.

 Considerate ad esempio quante volte nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992 – 1997) ricorre il tema dell’uguaglianza. E’ una ricerca che possiamo fare agevolmente mediante l’indice tematico. Dunque il termine ricorre cinque volte ai numeri:

         n.369: riguarda l’uguaglianza tra uomo e donna;

n.872: non riguarda l’uguaglianza nella società civile, ma il contributo all’edificazione del Corpo di Cristo, quindi alla missione della Chiesa;

         n.1935 (sopra citato)

         n.2273: se ne parla con riguardo ai diritti del nascituro;

n.2377: se ne parla con riferimento alle pratiche di inseminazione e fecondazione artificiali omologhe.

In sostanza il tema dell’uguaglianza è considerato nel senso a cui vi si riferiva il citato brano della Gaudium et spes solo nel n.1935, poche righe.

 Molto di più vi è nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel giugno 2004, che raccoglie precedenti dichiarazioni del magistero dei pontefici e dei concili. Si tratta di uno strumento molto utile per avere una visione d’insieme e coordinata dei temi in esso trattati, tra i quali, appunto, quello dell’uguaglianza e soprattutto per collegare certe importanti affermazioni alle fonti da dove derivano.

 1965 – 1992 – 1997 – 2000 – 2004: mi pare che si possa rilevare una veloce (tenendo conto dei tempi occorrenti solitamente nelle cose di religione) evoluzione della concezione delle relazioni della nostra fede con i temi dell’uguaglianza sociale e, conseguentemente, della democrazia che anche su di essa di fonda.

 

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6

La libertà come opportunità religiosa in democrazia

(1 ottobre 2012)

 

Il nuovo colosso

 

Non come lo sfacciato gigante di bronzo della gloria greca,

piantato a soggiogare la terra da un confine all’altro,

qui sulle rive della terra d’Occidente si ergerà

una donna potente con una torcia, la cui fiamma

racchiude il fulmine, e il suo nome è

Madre degli Esuli. Dal faro che ha in mano

lampeggia il benvenuto a genti di tutto il mondo;

gli occhi suoi dolci dominano il ponte sospeso

che unisce due quartieri della città.

 “Tenetevi pure, terre antiche, il vostro fasto leggendario!” ella grida

con labbra silenziose. “Datemi chi tra voi è esausto e povero,

le vostre masse che si accalcano nell’anelito di libertà,

i  miseri rifiuti della vostre popolose terre.

 Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli sventurati,

innalzando la mia luce mostrerò loro la porta d’oro!”.

 

Emma Lazarus, 1883 (traduzione mia)

 

 Avvicinandosi dal mare e dal cielo alla città statunitense di New York, risalta la gigantesca statua eretta a fino Ottocento alla foce del fiume Hudson per celebrare l’indipendenza  degli Stati Uniti d’America, conosciuta come la Statua della Libertà: raffigura una donna coronata che innalza una torcia con il braccio destro e nell’altro tiene un libro sul quale è incisa la data dell’indipendenza americana dal Regno Unito, il 4 luglio 1776; ai suoi piedi vi sono catene infrante; è la raffigurazione della Libertà che illumina il mondo. Sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus, che sopra ho evidenziato in neretto (l’antico colosso greco menzionato nel primo verso della lirica era  quello, raffigurante il dio Sole – Helios, eretto nel porto della città di Rodi nel terzo secolo dell’era antica). Comunemente quel monumento è ritenuto un simbolo degli Stati Uniti d’America, ed è vero, ma rappresenta anche qualcosa di molto più profondo: infatti ricorda che la guerra di indipendenza delle colonie nordamericane combattuta nel Settecento contro i britannici fu una vera e propria rivoluzione, motivata non solo dalla volontà dei coloni di comandare a casa propria, ma anche da quella di creare un mondo nuovo, con altri principi rispetto a quelli che dominavano la monarchia europea che pretendeva di continuare a dominarli; quel proposito che nella poesia è espresso con il voler aprire la “porta d’oro” a quelli che oltremare erano considerati rifiuti umani. La Libertà simboleggiata in quella statua è quindi quella che è associata alla giustizia sociale ed è molto di più del solo conquistare il potere di decidere che cosa fare di sé e delle proprie cose, liberandosi in questo dal giogo altrui; non è solo la liberazione da una lontana monarchia,  è liberazione dal giogo della diseguaglianza e della discriminazione sociale e anelito ad un nuovo ordine sociale, ad una nuova condizione di cittadinanza, per dare a tutti l’opportunità della ricerca della felicità, poiché gli esseri umani sono stati dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti (così è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana).  La Statua della Libertà  e la dichiarazione di indipendenza che essa celebra manifestano una caratteristica delle democrazie moderne che spesso non è bene intesa: esse sono fondate sul desiderio della libertà dall’ingiustizia sociale e sull’affermazione di diritti umani sottratti all’arbitrio umano, sia esso quello di un monarca come anche quello di una maggioranza. Essa ha quindi sostanzialmente carattere religioso perché non dipende dall’osservazione e accettazione di come vanno le cose di solito, e infatti di solito vanno diversamente, ma da principi proclamati, attuati e difesi come assoluti: nella Dichiarazione d’Indipendenza statunitense ciò è detto chiaramente, vi sono infatti menzionati esplicitamente Dio e altri ideali religiosi.

 Quando si dice che il cristianesimo è all’origine di importanti valori della nostra civiltà  questo è vero anche per quanto riguarda le democrazie contemporanee, anche se non bisogna dimenticare che esse si sono spesso imposte contro gli insegnamenti e i divieti delle autorità ecclesiastiche e che ciò risalta particolarmente nel caso della Chiesa cattolica. Una delle epoche più problematiche sotto questo profilo fu quella del ventennio fascista italiano. Ma oggi siamo in un’era diversa, qui in Italia e ce ne dobbiamo rallegrare. Possiamo parlare di democrazia e religione senza dover superare  divieti della autorità civili e di quelle religiose. Ci può sembrare una cosa ovvia, ma non lo è. E’ stata una faticosa conquista, dalla quale non dobbiamo mai accettare di recedere. Abbiamo quindi, ai tempi nostri, la possibilità, ma anche il compito e il dovere, di approfondire il tema dell’influsso che come fedeli cattolici possiamo esercitare per la crescita della società civile e in particolare per la piena affermazione di quei diritti inalienabili, di quei valori, che sono all’origine delle idealità democratiche. L’obiettivo, condivisibile anche con coloro che non hanno le nostre convinzioni di fede, è quello di realizzare, mediante vite buone, una società in cui sia veramente bello vivere, in libertà e giustizia. Ciò è parte cruciale dell’impegno in Azione Cattolica.

 

 

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L’uguaglianza come pari dignità sociale è alla base delle democrazie  di popolo contemporanee

(3 ottobre 2012)

 

 Nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004) si legge una interessante citazione alla nota n.793, a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale:

« “Libertà, uguaglianza, fraternità’”  è stato il motto della Rivoluzione francese.  In fondo sono idee cristiane » ha affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia a Le Bourget (1º giugno 1980).

 Quelle parole di un papa colpiscono tenendo conto del carattere marcatamente anticlericale della Rivoluzione francese del Settecento (1789-1799). E certamente esse non vollero intendere una giustificazione delle violenze politiche di massa che quei moti espressero o delle misure restrittive e delle espropriazioni adottate contro la Chiesa cattolica di allora  o degli altri provvedimenti contro il clero cattolico, ma riconoscere che alcune delle principali idealità di convivenza sociale manifestate da quei rivoluzionari di allora corrispondevano anche a principi religiosi cristiani. Naturalmente ai nostri tempi ci siamo abituati ad una libertà  di espressione del pensiero che nel Settecento ci sarebbe costata cara. All’epoca non si potevano dedurre liberamente dai principi religiosi certe conseguenze quanto  a riforme sociali. Quindi dobbiamo capire che certe cose vengono dette talvolta con il senno del poi. E, certo, giudicando con quel senno del poi, ci possiamo dispiacere che la Chiesa cattolica abbia espresso non di rado nei secoli passati posizioni arretrate rispetto ad altre della sua contemporaneità, e lo riconosciamo perché poi ha appunto dichiarato pubblicamente di pentirsene. La situazione ai nostri giorni è piuttosto cambiata. Mi riferisco ad esempio alla bioetica in cui il pensiero cattolico, stimolato dal magistero, è all’origine di un importante e fecondo filone speculativo che ha portato ad approfondire il tema di quando cominci l’umano che deve essere riconosciuto nella dignità sua propria, o all’etica dell’economia e dello sviluppo, come quella espressa nell’enciclica pontificia Caritas in veritate  (2009), in cui si è presa consapevolezza dell’esigenza che dall’interdipendenza umana planetaria discenda la necessità di un nuovo spirito di fraternità globale.

  Soffermandoci sul principio di uguaglianza, è senz’altro vero che esso è alle fondamenta della democrazie popolari contemporanee, per intenderci quelle basate sul suffragio universale (alle elezioni politiche votano tutti gli adulti, maschi e femmine, senza distinzione di istruzione, reddito, condizione sociale o di stirpe) e sui quei principi assoluti, proclamati solennemente dalla Nazioni Unite nel 1948 nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che si indicano come diritti umani. Il principio di uguaglianza è uno di essi e viene così enunciato in quella solenne Dichiarazione, all’art.2:

1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.

 Una delle principali eccezioni al principio di uguaglianza universale è stata storicamente quella della condizione di schiavitù, superata solo nel corso dell’Ottocento dagli stati europei ed americani. Dai film western sappiamo, ad esempio, che una delle motivazioni che furono alla base del sanguinoso conflitto detto guerra di secessione (1861-1865) nordamericana fu la questione dello schiavismo in danno dei deportati dall’Africa. Lo schiavismo fu istituzione molto antica ed era molto praticato anche ai tempi delle primitive comunità cristiane, che non vi videro vero motivo di scandalo. Così, in particolare, per la gran parte della storia della Chiesa cattolica le autorità ecclesiastiche non vi videro veramente un problema da punto di vista religioso se praticato da popoli cristiani (al contrario, ad esempio, di quello praticato dai predoni saraceni che comportava l’abbandono della pratica religiosa cristiana). Per quanto ho letto, se ne cominciarono a occupare dal Cinquecento, di fronte alle morie di massa dei nativi americani costretti in schiavitù dai colonizzatori europei. Monarchie cattoliche come quella spagnola e portoghese consentirono la deportazione di massa di schiavi dall’Africa e la riduzione in schiavitù di masse di nativi americani. I cristiani europei non furono in genere particolarmente sensibili al tema fino al Settecento, salvo che nel caso di alcuni spiriti illuminati (anche del clero) e di alcuni filosofi. Lo schiavismo attuato da cristiani influenzò profondamente il profilo demografico americano, come si può constatare facilmente in particolare negli Stati Uniti d’America, nei Caraibi e in Brasile.

 L’uguaglianza tra gli esseri umani non  è del resto un dato evidente (un dato è evidente quando esso ci si impone senza che ci si debba ragionare molto su). La scienza contemporanea ci dice che gli umani condividono tutto il profilo genetico, tranne però una piccolissima parte che denota importanti caratteristiche etniche, familiari e individuali. E certe comuni caratteristiche fisiche e mentali degli umani erano già chiare ai popoli dell’antichità, come anche però le differenze tra le persone e i popoli. E’ insomma da sempre esperienza comune che ognuno di noi nasce e si sviluppa diverso dall’altro, benché simile agli altri. Si tratta di differenze di stirpe, ma anche di altre  particolarità individuali nella costituzione fisica e di caratteristiche psichiche, come quelle relative alla struttura e all’orientamento sessuali, alle quali si aggiungono differenze derivate dalla storia individuale e sociale della persona. In definitiva si può dire che l’uguaglianza non è in natura, questo sicuramente è evidente,  mentre certamente gli umani si assomigliano gli uni gli altri, anche questo è evidente, e inoltre che gli umani sono viventi sociali che hanno bisogno gli uni  degli altri e quindi si sono reciprocamente complementari e cercano di organizzare le loro società in modo da sfruttare al meglio questa loro qualità. Nel mondo di oggi, molto complesso e molto più abitato da esseri umani che nelle epoche passate, riteniamo generalmente che a questo fine si debba promuovere l’uguaglianza universale tra gli esseri umani per realizzare società in cui le opportunità di cooperazione pacifica siano potenziate al massimo. Ci figuriamo infatti che un conflitto su scala mondiale, data la profonda interdipendenza della società umane e la potenza degli strumenti di distruzione a disposizione, porterebbe a una catastrofe che metterebbe addirittura in pericolo la sopravvivenza dell’intera specie umana sulla Terra.

 Faccio un esempio tratto dalla vita quotidiana di oggi: il mio IPAD è stato ideato negli Stati Uniti d’America, prodotto nella Repubblica popolare di Cina (lo stato che domina nella Cina continentale) e venduto in Italia: che succederebbe se scoppiasse un conflitto tra americani e cinesi motivato dall’annosa rivendicazione di sovranità dei cinesi sull’isola-stato di Taiwan? Naturalmente possiamo fare un esercizio simile di previsione anche con riferimento ad altri prodotti di cui non potremmo fare facilmente a meno, mentre tutto sommato all’IPAD si potrebbe rinunciare.

 In che cosa quindi siamo uguali e, innanzi tutto,  da dove deriviamo questa pretesa di uguaglianza?

 In realtà quella all’uguaglianza tra gli esseri umani è un’aspirazione e un obiettivo, non  (ancora) una realtà, né in natura né nelle società umane, e si fonda sull’idea che essi abbiano pari dignità, vale a dire che a tutti loro vadano riconosciuti nella stessa misura alcuni diritti umani fondamentali. Questa idea, per quanto ho capito, è di origine specificamente cristiana.

 Si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, al n.144:

144 « Dio non fa preferenze di persone » (At 10,34; cfr. Rm 2,11; Gal 2,6; Ef 6,9), poiché tutti gli uomini hanno la stessa dignità di creature a Sua immagine e somiglianza.

 L'Incarnazione del Figlio di Dio manifesta l'uguaglianza di tutte le persone quanto a dignità: « Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28; cfr. Rm 10,12; 1 Cor 12,13; Col 3,11).

Poiché sul volto di ogni uomo risplende qualcosa della gloria di Dio, la dignità di ogni uomo davanti a Dio sta a fondamento della dignità dell'uomo davanti agli altri uomini. Questo è, inoltre, il fondamento ultimo della radicale uguaglianza e fraternità fra gli uomini, indipendentemente dalla loro razza, Nazione, sesso, origine, cultura, classe.

 Quindi: in primo luogo viene in rilievo l’essere stati tutti creati da Dio, che ci si è manifestato come Padre, e in  secondo luogo la fraternità comune in Cristo. E, quanto alla condizione di creature, c’è un altro elemento importante: la convinzione di essere stati creati da Dio a sua immagine,  a sua somiglianza (Genesi 1,26). Riconoscere la pari dignità degli umani è quindi, nella concezione cristiana, materia di un dovere religioso, anche se nella storia cristiana sono state riconosciute lecite molte distinzioni ulteriori, ad esempio quella fra uomo e donna, che sono state poste alla base di vere e proprie discriminazioni. Quello che viene espresso nella terminologia biblica, può anche essere detto così: tutti gli esseri umani devono essere considerati uguali nei diritti fondamentali. In un caso come nell’altro, sia che la si esprima in termini religiosi che con altri termini, a questa realtà si crede in modo religioso, vale a dire a prescindere da quello che si ricava dall’osservazione delle cose come vanno di solito e, in particolare,  della natura, in cui, come ho detto, l’uguaglianza non esiste e la regola fondamentale è pesce grosso mangia pesce piccolo e sopravvive il più adatto alla condizioni ambientali e biologiche. Insomma per uno spirito religioso cristiano l’affermazione della pari dignità creaturale degli esseri umani e tutto ciò che se ne fa conseguire non è un problema, mentre chi vuol far discendere quel principio dalla semplice natura, vale a dire dal nostro essere viventi prodotto della natura, deve affrontare un’insufficienza nel fondamento di quella pretesa.

 Gli illuminati artefici della rivoluzione nordamericana (1776) della fine del Settecento non trovarono infatti alcun ostacolo nel proclamare:

We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.

(trad.mia: Crediamo fermamente nell’evidenza di queste verità: che tutti gli esseri umani sono creati uguali, provvisti dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, e tra essi il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità.)

 La lotta contro le discriminazioni tra gli esseri umani nei loro diritti umani è alla base di molte delle costituzioni delle entità politiche contemporanee, in particolare di quelle europee e americane e di quelle che a queste ultime si sono ispirate. L’Unione Europea è tra quelle entità. Bisogna riconoscere che questa è una materia in cui ci sono state alcune prese di posizione divergenti tra le autorità civili e quelle religiose. A volte l’affermazione dei diritti umani è stata considerata antireligiosa. In campo civile si è presa ad esempio coscienza di forme di discriminazione che la dottrina religiosa non riconosce come tali. Segnalo solo un problema che è, come si dice, di stringente attualità. Una di quelle questioni è venuta in rilievo nell’ultima riunione del nostro gruppo e riguarda la disciplina giuridica delle unioni delle persone omosessuali. Su di essa ai laici cattolici è lasciata poca autonomia, perché rientra in quelle riguardanti i valori non negoziabili, sui quali l’autorità ecclesiastica, con vincolo di obbedienza canonica, chiede che si segua la sua linea. Ma comunque bisogna ragionarci su, perché come fedeli laici dobbiamo pur sempre rendere ragione al mondo della nostra fede e a questo fine non è sufficiente l’argomento “ci è stato ordinato di pensare e di fare così”. Si tratta del resto di problemi che  rilevano ancor più in materia di fede per la base in fondo religiosa del diritto umanitario.

 Nel campo dei diritti umani, le tematiche religiose, e in particolare quelle cristiane, stanno avendo, un po’ inaspettatamente, una particolare rilevanza nello sviluppo dell’organizzazione delle società civili più avanzate, in particolare in Europa. E’ un settore in cui sono chiamati a operare innanzitutto i fedeli laici, impegnati a spendersi in quello che nel gergo ecclesiale  è definita l’animazione del temporale. E’ questo, dall’inizio, uno degli ambiti spazio in cui l’Azione Cattolica ha deciso di lavorare prioritariamente. Infondere nelle società civili i valori, che sono alla base del diritto umanitario, è infatti necessariamente un compito collettivo, da affrontare insieme, dopo essersi preparati insieme. Così anche è da affrontare insieme il dialogo con altre componenti della società per individuare nelle condizioni contemporanee altri fattori, oltre a quelli storicamente già noti, che ostacolino la piena espansione universale della dignità degli esseri umani.

 Per molti versi tuttavia in molte realtà locali il discorso di Azione Cattolica è da riavviare o anche solo  da ravvivare, perché nei decenni passati  ci si è spesso concentrati su altre tematiche e altri modi di impegno religioso e si è quindi un po’ perso il senso del nostro impegno nella Chiesa e nella società civile. Veniamo da lontano, ma qualche volta appariamo alla gente come un’esperienza nuova, non esattamente in linea con le altre esperienze di collettività presenti nella vita delle parrocchie. Ad esempio può apparire che, dove altri mettono l’accento su una disciplina individuale, noi puntiamo molto sulla libertà delle persone nelle nostre dinamiche associative, in particolare su quella di pensiero e di espressione. Eppure la nostra rimane una esperienza di carattere religioso, in cui si vuole quindi rimanere legati alla fede comune, anche se effettivamente si punta a scoprire/riscoprire/sperimentare la nostra fede anche come strada verso la libertà, secondo l’espressione di Paolo Giuntella che ho citato nel post del 1 ottobre scorso.

 

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Un appello per ripartire insieme

(4 ottobre 2012)

 

 Negli ultimi giorni ho pubblicato alcuni contenuti in cui ho parlato degli obiettivi peculiari dell’Azione Cattolica nella società civile democratica di oggi. Può sembrare una cosa un po’ troppo grande per una realtà parrocchiale come la nostra. E per le nostre forze in concreto. Per certi versi noi dell’A.C. in San Clemente Papa siamo un piccolo resto, se ci paragoniamo a come era anni fa il nostro gruppo. Non abbiamo più una nostra stanza in parrocchia, di volta in volta ce ne assegnano una. Il nostro assistente ecclesiastico si trova a volte a parlare a poche persone e può domandarsi se, in fondo, ne valga ancora la pena. Avere una grande storia non potrà salvarci a lungo dall’estinzione se  il gruppo non si rivitalizzerà con l’ingresso di nuovi soci, in particolare di soci più giovani. E’ paradossale che questo accada in un mondo che ha tanto bisogno di ciò che la Chiesa si propone di dare e in un Chiesa che vuole essere tanto presente nel mondo, in particolare confrontandosi con le democrazie europee e l’Unione Europea sul terreno dei valori. Questo è appunto da sempre il campo specifico dell’Azione Cattolica, l’azione nella società civile per promuovere in essa i valori religiosi.

 E’ possibile che non si abbia ben chiaro, pensando ad un impegno in Azione Cattolica, che cosa si fa nei nostri gruppi e soprattutto quali risultati si riescano effettivamente ad ottenere. Bene, innanzi tutto occorre distaccarsi da una mentalità per così dire aziendalistica, per la quale si somma nei risultati positivi solo tutto quello che si fa sotto il marchio associativo.  Noi riuniamo gente che già opera nella società nei vari ambiti in cui si può farlo: la famiglia, il lavoro, lo sport, la cultura e via dicendo. Non dobbiamo inventarci cose nuove da fare lì come Azione Cattolica. Però formandoci e riflettendo in Azione Cattolica, in un gruppo che è federato in un’organizzazione che ne condivide le idealità, gli obiettivi e il metodo, possiamo manifestare meglio nel posto che occupiamo nella società il nostro essere  cristiani e i nostri valori, dialogando con altri sui temi e i problemi emergenti.  Per questo occorre una preparazione, sia spirituale che culturale, e una determinazione che scaturisce da una adesione consapevole e convinta ai valori di fede. Non è un lavoro che  troviamo già fatto, come se, per ogni situazione, la nostra Chiesa, il magistero in particolare, potesse fornirci una sorta di manuale operativo o di catechismo, e poi a noi spettasse solo di attuare cose decise da altri. Forse, al di fuori del mondo ecclesiale, si pensa che tra noi cattolici vada così, che insomma si faccia quello che in dettaglio viene stabilito più in alto nella scala gerarchica, dal Papa in giù. E’ il pregiudizio che, da cattolico, dovette superare John Kennedy assumendo la presidenza degli Stati Uniti d’America. In realtà ognuno di noi porta effettivamente la personale e diretta responsabilità della porzione di mondo che è sotto la sua sfera di influenza e le soluzioni vanno ideate e sperimentate di volta in volta, dialogando nella Chiesa e nella società. Se oggi si dispera di poter cambiare le cose che non vanno a partire dal basso è perché è un po’ svanito il senso democratico, che comunque pervade sempre la nostra società, per il quale si è capaci di individuare e capire la dinamica dei grandi numeri, delle masse, dietro certi cambiamenti storici. Di convincersi che in democrazia si cambiano effettivamente le cose a partire dagli sforzi delle persone nella loro particolare,  apparentemente umile e insignificante, storia.  Una parte del lavoro che si deve fare in Azione Cattolica consiste proprio in questo: nel comprendere meglio quello che l’azione collettiva democratica ha fatto, sta facendo e può ancora fare per il bene di tutti, per cambiare il mondo. Democrazia è agire in una collettività rispettando la personalità e i valori degli altri, con la fiducia di poter cambiare in meglio la società: l’Azione Cattolica concepisce sé stessa anche come una palestra di democrazia  (Atto normativo Diocesano di Roma). La fiducia nelle potenzialità dell’agire in democrazia si acquista lavorando insieme ad altri, in un gruppo aperto alla società, partecipando ad un’azione collettiva spinta da alte idealità, quali sono quelle religiose.

  La parrocchia è la casa di tutti e tutti possono trovarvi la loro casa, il tipo di impegno adatto a loro. L’Azione Cattolica è una stanza di quella casa di tutti, anch’essa quindi è di tutti e per tutti. E tuttavia il lavoro in un gruppo di Azione Cattolica può non venire incontro alle esigenze di tutti, perché in primo luogo esso non è volto tanto ad operare per coloro che ne fanno parte, a risanarli e sorreggerli nella loro psicologia e nella loro fede, ma per gli altri che non  ne fanno parte, la società intorno, e poi perché non è centrato tanto su ciò che si fa nel gruppo ma su ciò che si deve fare fuori di esso, non però come specifica collettività religiosa, come ditta ecclesiale, ma come parti della società civile. E l’azione che si cerca di svolgere nella società è innanzi tutto diretta alla promozione di valori, la specifica forma di apostolato che compete ai laici, non tanto a suscitare nuove adesioni al gruppo, all’espansione della nostra particolare realtà associativa. La particolarità della nostra esperienza associativa sta proprio nell’apertura alla società civile, non in un modo particolare di vivere la nostra fede inteso come spiritualità e disciplina individuale o di gruppo, dal momento che esso non differisce da quello comune della parrocchia. Mi pare di aver capito quindi che per associarsi in Azione Cattolica occorra: 1)aver già maturato una fede salda; 2)avere già una formazione catechistica di base; 3) avere un interesse alla vita della Chiesa, in particolare alla la missione che in essa e fuori di essa specificamente  compete ai laici; 4)avere interesse ad approfondire i temi proposti ai laici dal magistero, per quella specifica missione dei laici; 5) avere interesse per le dinamiche sociali contemporanee ed essere inseriti nella vita della società civile, negli ambiti propri dei laici (famiglia, lavoro, cultura, sport ecc.), in posizioni in cui si può concretamente influire su di essa. Per tutto ciò che non è di interesse specifico di un gruppo di Azione Cattolica la parrocchia offre altre forme di impegno sociale (ad esempio: catechesi per le varie età della vita, azione caritativa, socialità per il tempo libero, sostegno alla fede e via dicendo): l’associazione in Azione Cattolica non è esclusiva e non è totalitaria.

 Voglio concludere osservando questo: per quanto riguarda le fasce d’età 30/50 anni il nostro gruppo deve ripartire in pratica dall’inizio, si tratta di ripensarlo da capo. Ad esempio, partecipare ad una riunione con inizio alle ore 17:00 può essere difficile per persone di quell’età (io ho 55 anni e trovo difficoltà; la mia prole a quell’ora è quasi sempre impegnata all’università). Ma si possono escogitare alternative.

 

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Le ragioni di un lavoro insieme

(5 ottobre 2012)

 

 Nei giorni scorsi ho scritto sull’esperienza associativa in gruppo di Azione Cattolica. E certo ci si possono immaginare dei risultati. Ma non vorrei dare per scontato che si abbia chiaro perché, in definitiva, ci si debba unire per ottenerli. Qual è il movente interiore per fare questo? Non posso vivere la mia fede nell’interiorità nella relazione che ho saputo costruire con il soprannaturale, secondo la mia personale concezione? Anche così poi posso manifestare con la mia vita la fede nell’ambiente in cui vivo e opero.

 Da universitario ho partecipato alle settimane di riflessione che la FUCI – l’organizzazione degli universitari cattolici – svolgeva ogni anno a Camaldoli, sede di un celebre monastero di monaci di una congregazione appartenente alla famiglia benedettina. Lì c’erano alcuni monaci che conducevano vita eremitica da decenni, vivevano da soli nelle loro casette in cima a un monte e si ritrovavano insieme di quando in quando di giorno e nella notte solo per la vita liturgica. Erano persone di fede, indubbiamente, e vivevano la loro religiosità in quel modo. Bisogna dire però che si sentivano e volevano essere in unione spirituale con la Chiesa e l’intera umanità. Il loro isolamento era quindi solo esteriore.

 La fede cristiana in realtà ci spinge gli uni verso gli altri. Questo movimento emerge chiaramente negli scritti del Nuovo Testamento. In un libretto di Giuseppe Dossetti che ho utilizzato nelle vacanze per le mia meditazione personale (Giuseppe Dossetti, Eucarestia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8) ho trovato questa citazione da un’opera di San Basilio, una preghiera:

…noi tutti che partecipiamo all’unico pane e all’unico calice, unisci fra noi nella comunione dell’unico Spirito Santo”.

 Essa richiama le parole di S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10,17):

Vi è un solo pane e quindi formiamo un solo corpo, anche se siamo molti, perché tutti insieme mangiamo dell’unico pane (trad.interconfess. Elle Di Ci / Alleanza Biblica interconfes. 1976).

  In parrocchia, prima della Comunione, recitiamo una preghiera formulata su quelle parole:

         Poiché c’è un solo pane per noi tutti, uno solo è il corpo formato da noi che          partecipiamo al pane unico.

 Insomma, mi pare di aver capito che questa spinta a stare insieme abbia un fondamento teologico e non sia qualcosa di accidentale ed episodico. Essa ha coinvolto anche me, che per temperamento non sono particolarmente socievole. Mi sono sempre sentito arricchito dalle esperienze di fede vissute con gli altri.

 In un libro dello psicoterapeuta Bruno Bettelheim pubblicato nel 1967 ho letto questa osservazione che ho sentito convalidare la mia esperienza di vita:

La vita interiore, e con essa la personalità, non si sviluppa allo scopo di ottenere una sempre maggiore ricchezza di sensazioni e di esperienze interne, ma sostanzialmente per un’altra ragione: per entrare in rapporto con il mondo esterno nella speranza di poter agire su di esso. Se la personalità non arriva a questo, non vi è alcuna ragione di sviluppare le strutture interne. Esattamente come il linguaggio si sviluppa solo se desideriamo comunicare con qualcuno o comprendere quello che egli ci dice, così la personalità si struttura solo se desideriamo fare qualcosa a un’altra persona o con essa  o per essa.

[da Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti editore spa, 1976, pag.64].

 Gli studi scientifici di Bettelheim, in particolare quelli sull’autismo, oggi sono generalmente ritenuti superati da più recenti acquisizioni e scoperte, ma la sua esperienza umana, prima di recluso  in un campo di concentramento nazista e poi di medico nel campo della terapia per i bambini autistici, rimane importante e,  per molti aspetti della vita, illuminante. Tra ciò che si muove dentro  di noi e ciò che si muove e che facciamo fuori di noi c’è un continuo e vitale rimando.

 Ma, come ho osservato prima, non è detto che questo movimento verso gli altri si debba esprimere necessariamente nell’aderire a un movimento, ad una associazione, ad una fraternità. Esso può manifestarsi in altre forme, sebbene si ritenga che in qualche modo debba essere presente, anche, ad esempio, in quelle spiritualità eremitiche di cui ho detto.

 Molte volte una fede religiosa è produttiva e non si risolve solo nell’interiorità, quella cristiana stimola poi alla generosità: ognuno sente quindi, ad un certo punto, di avere qualcosa in sé che può essere non scambiato ma dato gratuitamente ad altri.

 A volte si concepisce, un po’ superficialmente, la Chiesa come una dispensatrice di beni spirituali, uno “ci entra” (nella Chiesa intesa come popolo) o “ci va” (nella chiesa intesa come edificio) e prende. A volte c’è anche l’idea di una sorta di scambio: vado a Messa e deposito la mia offerta nell’apposito contenitore che gira al tempo dell’Offertorio, poi partecipo alla mensa comune.

 Ecco, riunendoci insieme potremmo ad esempio riflettere se quell’impressione sia corretta e completa. Non credete che ci sia ancora qualcosa da imparare?

 Anticipo la mia opinione. Nell’esperienza religiosa siamo tutti noi, gente di fede, dispensatori, perché  è come se quello che ci arriva poi rifluisca intorno e verso gli altri, al modo di un irraggiamento. Quindi  nella Chiesa non si va solo per ricevere, ma anche per dare, per portare qualcosa, che è importante per gli altri e li conforta nella loro fede. Un teologo lo saprebbe dire meglio. Chi vuole può approfondire o chiedere spiegazioni. In parrocchia può farlo. Ci sono i sacerdoti e catechisti per ogni età della vita. Abbiamo anche una biblioteca piuttosto fornita (aperta lunedì e mercoledì, ore 16-18). Ne può discutere anche in Azione Cattolica, nel nostro gruppo, che è sostenuto dal prezioso apporto dell’assistente ecclesiastico.

 Nell’Azione Cattolica, che è un’associazione che si propone  di diffondere e promuovere valori cristiani nella società civile, è importante l’esperienza di vita degli aderenti. E’ questo il materiale prezioso che chi ci viene porta. Non si aderisce infatti per ricevere dall’alto le soluzioni ai vari problemi e direttive su che cosa fare fuori, o peggio (solo) moniti e rimbrotti su ciò che è male, come se ci fossero “istruzioni” precise per ogni situazione, ma per riflettere insieme, alla luce della comune esperienza civile e religiosa,  su ciò che accade e per illuminare vie praticabili, che poi ognuno proverà a percorrere lì dove concretamente opera, tornando a riferire ciò che gli è riuscito di fare e di scoprire. In una poesia che ho trascritto in uno dei passati post, padre David Turoldo scrisse:

Ancora un'alba sul mondo:

altra luce, un giorno

         mai vissuto da nessuno,

 Effettivamente il futuro è nostra particolare e attuale responsabilità, ci avventuriamo in esso al modo di esploratori.