Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia
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Parte 4
(dal n.25 al n.36)
(le parti precedenti sono
pubblicate nei post successivi, nei post precedenti sono pubblicate quelle successive.
Questo testo è pubblicato in 8 parti)
di
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
edizione ottobre 2020, con nuovi materiali
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Fare memoria di un’alleanza
(30
ottobre 2012)
“…nell’episodio del roveto ardente (Es 3,2-6)
sul monte Horeb, l’angelo del’Eterno (malakh Adonai) che appare a Mosè ‘in una
fiamma di fuoco’ nel mezzo del roveto che non si consuma gli dice molto
esplicitamente: ‘io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di
Isacco e il Dio di Giacobbe’. La visione dell’angelo è dunque una teofania.
[…] L’Invisibile si presenta di nuovo,
sotto la forma di un angelo, per vivificare in Mosé … quella alleanza ‘per le
generazioni’ (ledorotam) (Gn 17,9).
[…]
Quella
teofania rende visibile all’anima l’alleanza immemoriale tra Dio e la Sua
creazione, alleanza che abitualmente l’anima non percepisce fintanto che guarda
il mondo e le creature che vi si trovano attraverso una morsa di paura e di
collera, di anticipazione avida e invidiosa, o fintanto che si rassegna alla
protezione tragica della rinuncia e sprezza il desiderio”,
[da:
Chaterine Chalier, Angeli e uomini,
Giuntina, 2009, euro 16, pag.19, 20 e 26]
L’altro giorno discutevo di come, per quello
che so, la nostra parrocchia perde la gran parte dei giovani adolescenti e
ventenni iniziati nel catechismo alla vita religiosa e non li recupera più. E,
in effetti, viene il momento in cui, nello sforzo di approfondire i temi della
nostra fede e di ottenere un maggiore impegno, viene detto chiaramente loro,
più o meno esplicitamente, che sono sbagliati, che la loro vita è tutta da
rifare, che devono essere ricostruiti dalle basi, perché hanno toccato il
fondo, in particolare perché vogliono fare l’amore e questo è, per loro che non
sono sposati, peccato mortale. E’
chiaro che a questo punto loro scappano, perché, secondo natura, il loro
mestiere, in quell’epoca della loro vita,
è proprio fare l’amore. Non tollerano di sentirsi in questo come in libertà vigilata e di vivere con rimorso ogni soddisfazione sotto questo
profilo, dovendo immediatamente pentirsene.
Non è più come quando il prete diceva loro di “non toccarsi” e questo poteva essere accettato in un’ottica umana e
religiosa insieme, perché si sentiva che quelle consuetudini, pur nella loro
banalità, sarebbero state superate crescendo e che, anzi, crescere consisteva
proprio nel superarle. Quando poi si cresce, e di solito ad un certo punto si
trova un equilibrio nelle cose dell’amore, il problema si ripresenta sotto un
altro aspetto, perché, quando si riprende in considerazione una prospettiva di
fede, che in molti casi è la fede della propria tradizione familiare, quella
dei “propri padri”, si trova un
ostacolo nella pretesa etica religiosa di non porre ostacoli alla procreazione
e quindi di affrontare l’amore con una fiducia che, ad un animo ragionevole,
può apparire come un gioco d’azzardo, in cui però si punta tutta la propria
vita. E poi, naturalmente, ci sono le difficoltà che sorgono nel caso di crisi
e di fallimento dei matrimoni e di ricostituzione di nuovi rapporti coniugali.
Non sono problemi di oggi, ma di sempre, fin dalle origini, millenni fa, tanto
che si ritrovano nella Bibbia, ma un tempo ci si faceva meno caso, un po’
perché dai laici si tollerava una maggiore ipocrisia, specialmente dai maschi,
e poi perché per la maggior parte delle persone il tirare a campare, in un mondo tutto sommato molto più difficile di
quello dei nostri tempi, sovrastava tutto (con i problemi economici, le guerre,
le malattie inguaribili, la violenza sociale che c’erano). Una certa ideologia
repressiva nei confronti delle donne era poi vista come necessaria al
mantenimento dell’unità delle famiglie e, come contropartita, si era poi più
comprensivi verso di loro, viste come la parte debole e sottomessa di rapporti
personali dominati inevitabilmente dal capriccio degli uomini. Nella nostra
epoca invece, e specialmente dopo il Concilio Vaticano 2°, si pretende dai
laici un’adesione molto più consapevole e coerente in tutti gli aspetti della vita
e questo in un tempo in cui i modelli sessuali e familiari sono in veloce
evoluzione e in cui il successo sessuale viene visto, anche in tarda età, come
manifestazione di affermazione sociale in una società dominata dal consumismo e
dall’esteriorità.
Cari lettori, non sono un sacerdote. A ognuno
la sua parte. Non ho assunto il difficile impegno di risolvervi quei problemi o
anche solo di aiutarvi in questo dandovi
una direzione spirituale. E, lo dico francamente, non ho in tasca la soluzione
per tutti, non saprei proprio come fare. Se poi volete conoscere la posizione
del magistero, vi rimando al Catechismo
della Chiesa cattolica. Nella mia esperienza di solito si riesce ad un
certo punto a pacificarsi sotto quei profili ma si tratta di accomodamenti sempre
piuttosto precari che vanno rivisti di quando in quando, e in questo la pratica
sacramentale della penitenza qualche volta può aiutare. E’ più che altro un
esercizio di sapienza umana, non facile,
all’esito del quale, se le cose vanno bene e fintanto che vanno così, ci si
compiace anche da un punto di vista religioso. Ognuno in questo deve essere
piuttosto creativo, non deve aspettarsi che gli altri, anche autorevoli,
abbiano modelli di stili di vita adatti alla sua propria condizione
particolare. Lo sviluppo di una spiritualità adulta, matura, con l’aiuto del
sacerdote, è fondamentale in una prospettiva religiosa. Penso in definitiva che
un laico come me, nel relazionarsi con gli altri intorno a lui, dovrebbe
lasciare certi temi alla coscienza delle persone, nel rispetto della loro
dignità umana.
In Azione Cattolica, specialmente in quest’Anno della Fede in cui cerchiamo di
approfondire le ragioni della nostra appartenenza religiosa, sentiamo di avere
molto bisogno di persone di fede più
giovani d’età, che però si tengono ancora lontane. Non possiamo assicurare loro
che in parrocchia non troveranno problemi sulle questioni delle relazioni
sessuali, perché questo è un aspetto della vita delle persone umane che
interroga gli spiriti religiosi e quindi ci si discute su. Accade anche in
altre religioni. Quello che possiamo garantire è che in Azione Cattolica sarà
sempre rispettata la loro dignità umana e che non si tenterà di imporre loro da parte nostra, sotto
sanzione di esclusione, un certo stile di vita. Come ci è stato ricordato nel
Sinodo dei vescovi che si è concluso domenica scorsa, la Chiesa è la casa di tutti i battezzati, anche di coloro che, pur
sentendosi persone di fede, per tanti motivi non riescono a vivere in tutto
secondo le prescrizioni della morale religiosa corrente. Su certe cose si
ragiona, per cercare insieme soluzioni che poi ognuno proverà ad applicare
nella propria vita, se crede. E possiamo anche dire che l’impegno in Azione
Cattolica non è principalmente diretto a dare orientamenti sessuali. Esso ha
invece maggiormente a che fare con l’idea di cercare di radunare le persone
umane in un popolo nuovo, unito intorno a certi grandi ideali, che per noi
assumono anche una prospettiva religiosa. In questo viviamo un’epoca propizia,
perché nell’Europa di oggi viene data molta importanza a questo sforzo, tanto
che si è prodotto un imponente moto centripeto di genti verso il nostro
continente. Di recente noi europei abbiamo avuto il Nobel per i tanti decenni
di pace che si è riusciti ad ottenere da noi e la pace è un tema che ha una
forte valenza religiosa. L’aspetto peculiare dell’esperienza religiosa è che
essa non cerca di federare le genti
sulla base di compromessi di interessi o di uno scambio di equivalenti, come
accade nei contratti commerciali, ma a partire da un’interiorità che per noi,
comprendendo per molti aspetti realtà soprannaturali, assume il connotato di
una spiritualità. Accade, ad un certo punto, in molte vite che, nel mondo di
tutti i giorni, si colga, nella propria interiorità ma non solo emotivamente
perché c’entra anche la ragione, un senso dello stare insieme dell’umanità che va oltre quello che ordinariamente guida
le nostre azioni e che spesso ci lascia insoddisfatti. E’, in un certo senso,
l’esperienza di Mosè sull’Horeb evocata nel libro della Chalier. Una
interpretazione di quell’episodio è che le fiamme del roveto fossero immagine
di fiamme interiori. Mosè era fuggito dall’Egitto dopo aver ucciso un
sorvegliante che vessava gli ebrei, asserviti dalla violenza del popolo in cui
si erano rifugiati. Nella paura per la propria sopravvivenza, che lo aveva
determinato alla fuga, aveva represso il desiderio di tornare per attuare la liberazione di coloro che
erano schiavi. E’ a partire dalla sua interiorità che si attua un suo
cambiamento di vita. Egli si sente in esilio nella terra di Madian, il luogo
del suo rifugio, così come l’Egitto del faraone era terra di esilio per il suo
popolo, e ora anche per lui. Egli
vorrebbe agire in favore della sua gente, ma è bloccato dalla paura. La forza
di determinarsi secondo il suo profondo desiderio, vincendo quel timore per la
propria vita, gli viene dalla memoria dell’antica alleanza, che non era un
patto tra potenze terrene, ma con l’Eterno, del quale egli, ad un certo punto,
riesce nuovamente a sentire la voce che chiama all’azione, quindi ad alzarsi e andare.
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26
Azione Cattolica: insieme per promuovere la
pace universale
(1
novembre 2012)
Siccome il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr Gv 18,36), la Chiesa,
cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene
temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le
ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di
buono e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva.
[…]
Tutti
gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che
prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo
appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in
Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio
chiama alla salvezza
[Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]
Nei mesi
di mese di settembre e ottobre scorso,
scrivendo diverse riflessioni sulla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, mi sono limitato a
riferirmi ai soli numeri 9 e 13 di quel
documento, inseriti nel capitolo 2°. Questo può dare un’idea della vastità
delle questioni affrontate in quella grande assemblea, che segnò un punto di
passaggio importante nella storia ecclesiale, dando inizio a un gran fermento e
a sviluppi ancora in corso. Prenderne sufficiente consapevolezza non è lavoro
breve né facile, dato il linguaggio teologico con cui sono scritti i testi dei
documenti che furono allora approvati e diffusi nel mondo. E tuttavia bisogna tener conto del monito di
quel Concilio, rivolto a noi fedeli cattolici (Lumen Gentium, n.14), della necessità di corrispondere con il
pensiero, con le parole e con le opere all’azione soprannaturale per la quale,
non per nostri meriti, siamo stati pienamente incorporati nella nostra Chiesa,
e questo sotto pena di essere giudicati
più severamente degli altri nel caso di diserzione.
Il santo Concilio si rivolge quindi prima di
tutto ai fedeli cattolici.
[…]
Si ricordino bene tutti i
figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro
meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono
col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente
giudicati.
In quell’elenco di doveri del fedele, prima
viene il pensiero, vale a dire l’ascoltare
e il comprendere, ma anche l’ideare
e progettare per il presente e il
futuro, propri e delle collettività delle quali si è partecipi. Poi viene l’interloquire
con gli altri e l’operare: nella visione conciliare
questa parte deve farsi collaborando con tutte le persone bene intenzionate,
anche al di fuori del nostro contesto religioso (“sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine
tutti gli uomini senza eccezione”, brano della Lumen Gentium citato all’inizio).
Questo impegno ideale e sociale rientra in quelli in cui l’Azione Cattolica si
sente da sempre particolarmente coinvolta.
Per quanto l’Azione Cattolica com’è oggi sia
stata istituita e regolata dall’autorità ecclesiale, quindi dai papi e dai
vescovi, sia pure con l’importante partecipazione degli associati nelle forme
statutarie, essa storicamente nacque, visse e tuttora vive per iniziativa e
impulso della società dei fedeli laici, mossi in particolare dall’esigenza di
pensare e di attuare, sulla base delle idealità religiose, modi nuovi per influire come collettività sulle
società dei tempi in cui le persone di fede si trovano inserite e specialmente
su quelle con organizzazione democratica. Essa può considerarsi espressione di
quel grande movimento di popolo che dalla fine del Settecento si è espresso in
varie forme per una più larga partecipazione delle genti alla determinazione
dei destini dell’umanità, quindi per il passaggio delle persone dalla semplice
condizione di sudditi all’altrui potere alla condizione di cittadinanza
democratica. Per altro il coinvolgimento popolare venne visto all’inizio in funzione essenzialmente difensiva di un ordine sociale nel quale la
Chiesa era storicamente bene inserita,
con privilegi, esenzioni e uno spazio riconosciuto di autorità e di libertà,
quindi, per semplificare, contro i fermenti liberali e socialisti che si
andavano largamente diffondendo a partire dall’Ottocento. Questa impostazione si andò rafforzando dopo
la rivoluzione sovietica attuata nei domini dell’Impero russo. Diciamo che a
lungo l’esperienza democratica venne considerata con un certo sospetto dall’autorità gerarchica della
Chiesa. Questa posizione mutò dopo l’esperienza storica dei fascismi europei e
la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Fu allora che i capi della nostra
Chiesa cominciarono a chiedersi se la democrazia sarebbe potuta essere un
valido ostacolo a quei disastri. Come ho spesso ricordato, questo punto di
svolta si manifestò nel radio messaggio natalizio del papa Pio 12° del 1944:
Il problema della democrazia
[…] Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati
più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e
confusa, ma ormai incoercibile — che, se
non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei
poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso
della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile
catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
La pace universale ha sicuramente una valenza
religiosa, come è ricordato nel passo della Lumen
gentium che ho citato all’inizio.
Nel mondo di oggi, ed è la prima volta che accade, si pensa concretamente di
poterla attuare con una diversa organizzazione globale dell’umanità, sfruttando
le opportunità che derivano da quattro
fattori: assetto democratico
delle istituzioni, miglioramento
generalizzato delle condizioni di vita determinato anche da una più equa
distribuzione delle risorse consentita in ordinamenti democratici, miglioramento diffuso dell’istruzione ricercato
anche per l’esigenza di consentire la più larga partecipazione alla vita
sociale democratica, effettività di un
sistema universale di diritti umani, sul quale i sistemi politici
democratici di fondano. Anche la Chiesa dei nostri tempi crede in queste
potenzialità:
57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace
l'opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per
incentivare la collaborazione fraterna
tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per
la giustizia e la pace dell'umanità. Nella Costituzione pastorale Gaudium et
spes i Padri conciliari
affermavano: « Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere
che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo, come a suo
centro e a suo vertice ». Per i credenti, il mondo non è frutto del caso né
della necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i
credenti hanno di unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona
volontà di altre religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo
corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto
lo sguardo del Creatore.
[Dall’enciclica Caritas
in veritate – Amore nella verità
(2009), del papa Benedetto 16°]
Non
bisogna fraintendere pensando che la straordinaria opportunità storica che ci
si è aperta sia una manifestazione dell’avvento del Regno beato che
religiosamente stiamo attendendo. Sappiamo che quel Regno non è di questo
mondo. Questo significa che esso non può in alcun modo confondersi con alcuna
delle nostre realizzazioni, anche con le più grandi. A volta si è tentati di
farlo. E’ accaduto, ad esempio, nel ’91, con la fine dell’Unione Sovietica,
organizzazione politica imperiale che in tutta la sua storia ha costituito un
ostacolo micidiale per le Chiese cristiane. Ma si è visto che quello che ne è
uscito è il consueto insieme di grano e
zizzania, di bene e di male, che troviamo da sempre in ogni società umana e
in ogni persona. Ricordo ciò che sostenne Dossetti un suo celebre intervento
pubblico del 1987, pubblicato nel libretto Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011 (pagine 45 e 46):
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e
neppure si prepara o si affretta per
sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un
bene comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre
per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi, senza di
noi [… ] per un decreto del Padre, in un momento imprevedibile “che il Padre ha
riservato alla sua potestà (At 1,6-7).
E allora sarà non il
coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, “in ictu oculi” [trad. mia “in
un batter d’occhio”] (1Cor 15,52).
Sentiamo però nostro dovere religioso di scrutare i segni dei tempi e di
interpretarli alla luce del Vangelo (espressione che si trova
nell’enciclica pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes – La gioia e la speranza – n.4)
per scoprire in concreto quale sia il
nostro dovere oggi, per noi che siamo stati mandati nel mondo per radunare
le sue genti come in un’unica famiglia
umana (encicl.Caritas in veritate, n.53)
in una comunione di vita, di carità e di
verità (cost. Lumen gentium, n.9).
Come
non cessano di rammentarci il papa e i nostri vescovi, il sistema dei diritti
umani fondamentali sul quale si basano le democrazie contemporanee ha
fondamento religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano. Su che
base, altrimenti, può essere riconosciuto che esseri umani tanto diversi per
etnie, culture, religioni, lingue, condizioni sociali, ricchezze e altre importanti differenziazioni, quali
sono gli abitanti della Terra, hanno uguale
dignità e quindi sono titolari di
quei diritti umani fondamentali? Fondamento religioso significa soprannaturale,
vale a dire a prescindere da quello che si osserva in natura. La derivazione
cristiana del fondamento sta nel fatto che l’ordine soprannaturale al quale fa
riferimento è caratterizzato da amore
oblativo e viscerale, al modo dei genitori –padre/madre- per i loro figli, e
tuttavia universale, per tutti, oltre ogni differenziazione e
ogni divisione. Ebbene, quel fondamento religioso di principi di civiltà
che si sta cercando di attuare globalmente ci indica con chiarezza una via
importante di impegno cristiano (non l’unica). Perché, come ci è stato
ricordato due domeniche fa da un sacerdote missionario, i cristiani, cattolici
e di altre Chiese, sono una minoranza sulla Terra, circa il 15% dell’intera
popolazione umana. E’ veramente impressionante quindi che, nonostante ciò e
nonostante le stragi, vessazioni, oppressioni perpetrate nei secoli passati da nazioni sedicenti cristiane, certi valori
della nostra fede improntino ancora così profondamente la nostra civiltà a
livello globale. In questo si può senz’altro vedere la manifestazione del
disegno provvidenziale, senza però nascondersi che la realizzazione storica di quei valori è seriamente minacciata. Essa
è infatti opera umana e, come tale, suscettibile di degrado e di estinzione. La
storia dell’umanità non è infatti necessariamente una storia di progresso, come
dimostra il medioevo europeo, e,
senza un valido impegno di sufficienti forze umane che amano quei valori
e sono disposte a rischiare anche la propria vita nella lotta per essi, può prendere un altro corso. L’ideologia dei
diritti umani fondamentali regge infatti
le democrazie contemporanee e queste ultime rendono credibile la prospettiva di
una pace universale, per il tramite di una giustizia sociale che mantenga in
concreto, estenda o ristabilisca l’uguale
dignità degli esseri umani. L’Azione cattolica è schierata per la pace e la
giustizia universale e intende lavorare con particolare impegno in questo
campo. La nostra Chiesa, con il Concilio Vaticano 2°, ha rimosso ogni ostacolo
che, per incrostazioni storiche, poteva ostacolare al suo interno la riscoperta
e l’attuazione di tutte le potenzialità dell’antica dottrina della paternità
divina universale. Ad esempio la grave storica inimicizia verso le persone di
altre religioni, innanzi tutto gli ebrei e i cristiani di altre confessioni, e i non credenti. Ecco come si esprime la costituzione
pastorale Gaudium et spes:
Il rispetto e l'amore deve estendersi pure a
coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche
e persino religiose, poiché con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei
loro modi di vedere, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo.
Certamente
tale amore e amabilità non devono in alcun modo renderci indifferenti verso la
verità e il bene. Anzi è l'amore stesso che spinge i discepoli di Cristo ad
annunziare a tutti gli uomini la verità che salva. Ma occorre distinguere tra
errore, sempre da rifiutarsi, ed errante, che conserva sempre la dignità di
persona, anche quando è macchiato da false o insufficienti nozioni religiose.
Solo Dio è giudice e scrutatore dei cuori;
perciò ci vieta di giudicare la colpevolezza interiore di chiunque. La dottrina
del Cristo esige che noi perdoniamo anche le ingiurie e il precetto dell'amore si estende a tutti i
nemici; questo è il comandamento della nuova legge: «Udiste che fu detto:
amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri
nemici e fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per i vostri
persecutori e calunniatori » (Mt5,43).
[Gaudium
et Spes, n.28]
La Chiesa, poi, pur respingendo in maniera assoluta l'ateismo,
tuttavia riconosce sinceramente che tutti gli uomini, credenti e non credenti,
devono contribuire alla giusta costruzione di questo mondo, entro il quale si
trovano a vivere insieme: ciò, sicuramente, non può avvenire senza un leale e
prudente dialogo. Essa pertanto deplora la discriminazione tra credenti e non
credenti che alcune autorità civili ingiustamente introducono, a danno dei
diritti fondamentali della persona umana. [Gaudium et spes n.21]
Passando a trattare della nostra microscopica, sotto un certo profilo,
realtà di gruppo di Azione Cattolica in San Clemente papa, può sembrare che
l’impegno del quale ho trattato sia manifestamente sproporzionato alle nostra
forze. E’ un’impressione sbagliata: infatti l’apocalittica battaglia che decide
le sorti dell’umanità del nostro tempo passa anche per quella piccola parte del
mondo in cui abbiamo voce, nelle nostre famiglie, nel nostro quartiere, nei
nostri luoghi di lavoro. Partecipare al
nostro lavoro comune in Azione Cattolica è uno dei modi in cui ci si può
preparare per fare la nostra parte nella direzione che in religione ci è
indicata. Come ho detto si tratta infatti di esprimere una sapienza umana, una creativa e sapida integrazione di conoscenze
profane e di spiritualità per ideare e realizzare opere che, in quanto
riguardanti il mondo fuori dello spazio liturgico, spettano principalmente a
noi fedeli laici. Ma da soli in questo
si va poco lontano. Le prospettive umane individuali sono infatti sempre
limitate. Queste cose fanno affrontate insieme,
per arricchirsi dei punti di vista, della cultura, della fede, delle strategie
altrui e anche per farsi coraggio a vicenda nelle difficoltà e negli
insuccessi. E’ così che i cristiani hanno fatto sin dalle origini.
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27
Un nuovo modello globale di organizzazione e convivenza
dell’umanità. Il modello della famiglia
umana.
(2 novembre 2012)
Per molti versi l’umanità contemporanea si
viene organizzando sulla base di
principi religiosi cristiani. Religiosi
perché non basati sull’osservazione di come va la natura, quindi nel senso di soprannaturali. Cristiani perché improntati all’idea di pari dignità di ogni persona umana e ad una solidarietà compassionevole verso chi sta peggio. Questo può
sembrare paradossale nel momento in cui le Chiese cristiane registrano una crisi
grave delle adesioni nelle società umane più avanzate, quelle da cui
scaturiscano i modelli organizzativi su grande scala. in realtà non è la
visione religiosa delle cose che ha perduto credito popolare, ma il fondamento mitologico dell’autorità religiosa, per
cui c’è chi si presenta come autorizzato ad imporre agli altri stili di vita
parlando per conto del mondo soprannaturale. Questo equivale a dire che ai
tempi nostri ha meno forza nelle grandi religioni storiche dell’umanità l’uniformità intesa come sudditanza ad una
autorità sacrale. Di questo
fenomeno, da non confondere con la secolarizzazione,
vale a dire con l’indifferenza verso il soprannaturale, si è presa coscienza ai
tempi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
e si è cercato di rimediarvi recuperando, e in un certo senso strutturando
innovativamente per renderla praticabile nella contemporaneità, la concezione
religiosa dell’umanità come popolo di Dio,
basata su un’uniformità fondata su
principi condivisi. In questo contesto l’autorità perde una certa
connotazione di arbitrarietà che era
venuta storicamente ad assumere e si propone come servizio alla verità, per promuovere quel nuovo tipo di uniformità.
Si tratta di un’esperienza che tutti noi fedeli di oggi, se ci pensiamo bene,
abbiamo vissuto nella nostra esperienza di Chiesa, anche in quella
parrocchiale.
Un
modello alternativo di organizzazione globale dell’umanità è quello
basato sul riconoscimento delle differenze tra le stirpi e le società umane e
la competizione tra di esse perché emergano le migliori e, in particolare, una
umanità migliore, nel senso di fisicamente, spiritualmente e intellettualmente
più performante e società più potenti e ricche. In questa prospettiva non tutte
le persone umane hanno pari dignità. Questo modello ha improntato di sé la
colonizzazione europea dell’Africa e delle Americhe. Esso quindi storicamente
ha convissuto con il cristianesimo, che pure è fondato su principi opposti. Il
punto di conciliazione tra le due opposte visioni della vita è stato il concepire
la colonizzazione come evangelizzazione. Il contrasto tra
di esse è emerso con forza quando, all’inizio della colonizzazione delle
Americhe, nel Cinquecento, ci si è resi conto che la colonizzazione stava portando allo sterminio degli amerindi, dei nativi
americani. Analoghi scrupoli sono emersi molto più tardi riguardo allo
schiavismo contro le popolazioni nere dell’Africa.
Il modello basato sulla diversa dignità delle
vite umane e sulla competizione tra stirpi e società umane si ritrova nella
concezione politica nazionalsocialista tedesca tra le due guerre mondiali. Su
di essa venne costruita anche una mistica religiosa, per giustificare la
pretesa di prevalenza del tipo umano ariano-germanico.
Concezioni basate su idee in qualche modo
analoghe si rinvengono in alcune dottrine economiche correnti anche oggi, ma
senza connotati religiosi espliciti. Ci si rifà ad estensioni del modello di
evoluzione delle stirpi umane basato sulla sopravvivenza del più adatto
proposto da Charles Darwin (1808-1882): queste ideologie sono chiamate neodarwiniane.
Dopo la catastrofe della Seconda guerra
mondiale (1939-1945) prevalse l’ideologia della pari dignità umana e della solidarietà
mondiale per la pace e lo sviluppo. Essa si rinviene nei documenti del Concilio Vaticano 2°. Ci troviamo quindi
a vivere una straordinaria opportunità per il cristianesimo, in un mondo in cui
i
principi religiosi cristiani sono divenuti legge globale dell’umanità.
Naturalmente ciò è avvenuto senza che la nostra religione in sé, quindi con quella
che al di fuori delle Chiese cristiane può essere considerata la sua mitologia e con la sua organizzazione gerarchica sacrale, sia
stata nuovamente imposta in qualche modo alle società umane del nostro tempo. Questo
può essere spiegato in vari modi. Innanzi tutto l’esperienza storica europea
aveva dimostrato che il confessionalismo religioso era stato fonte di
sanguinose divisioni. Poi, in un mondo
in cui prendeva piede l’idea di una unità e di una pace fondata su una
solidarietà sorretta da principi diffusi
tra la gente, le autorità religiose non avevano sufficiente consenso popolare.
E, infine, l’idea di una imposizione alle
coscienze contrastava con la comune
dignità umana sulla quale si voleva costruire un futuro finalmente
pacificato, pacifico e pacificante. Può sembrare pericoloso l’aver affidato
grande idealità a fondamento religioso alle masse, ma, almeno da noi in Europa,
questa si è rivelata una buona scelta, visti i sessantasette anni di pace che
abbiamo costruito insieme, una cosa mai vista
nella storia dell’umanità e per la quale ci hanno dato il premio Nobel.
Poiché
stiamo vivendo qualcosa di veramente nuovo, c’è il problema di pensare e
attuare forme di organizzazioni dell’umanità che rendano stabile il nuovo
modello. E’ il lavoro che è in corso da
molte parti e, in particolare, da noi in Europa, verso la quale si è prodotto
un gigantesco movimento centripeto che addirittura ha coinvolto un nostro
storico nemico come la Turchia, erede dell’Impero Ottomano.
La più recente dottrina sociale della Chiesa,
diciamo dal 1944 in avanti, si è spesa molto nello sforzo di suggerire nuovi
modelli di convivenza umana in linea con i nuovi principi diretti al
mantenimento della pace mondiale e allo sviluppo globale di tutti i popoli. Uno dei più recenti e importanti contributi è
l’enciclica Caritas in veritate (2009)
del papa Benedetto 16°. In essa è proposto
il modello dell’umanità intera come famiglia. Si veda ad esempio,al n.7 di quel documento:
Quando la carità lo anima, l'impegno
per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto
secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in
quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara
l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla
carità, contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la
storia della famiglia umana. In una
società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non
possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle
Nazioni, così da dare forma di unità e
di pace alla città dell'uomo,
e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza
barriere di Dio.
Questo modello che possiamo dire della famiglia umana, piuttosto
evocativo, presenta alcuni aspetti critici.
Esso si presenta fin dalle origini della dottrina sociale della Chiesa, sebbene
con minore forza dei tempi più recenti:
Dal passato possiamo prudentemente prevedere
l'avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia
si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella
Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel fine
che ella si prefisse nella creazione della umana
famiglia.
[Enciclica Rerum
novarum (1981) del papa Leone 13°]
Nella Costituzione Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2°:
Per questo il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero
della Chiesa, non esita ora a rivolgere la sua parola non più ai soli figli
della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli
uomini. A tutti vuol esporre come esso intende la presenza e l'azione della
Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo che esso ha presente è perciò quello
degli uomini, ossia l'intera famiglia
umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il
mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca i segni degli sforzi
dell'uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il mondo che i cristiani
credono creato e conservato in esistenza dall'amore del Creatore: esso è
caduto, certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo, con la croce e la
risurrezione ha spezzato il potere del Maligno e l'ha liberato e destinato,
secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento.
Un
primo problema sta in questo: il modello
dell’umanità come famiglia richiama l’esperienza della famiglia come forma
di società naturale basata sulla propensione sessuale delle persone, su
finalità di procreazione e di cura della
prole e su una gerarchia parentale
che regola la solidarietà familiare. Ora,
le società umane più vaste come le nazioni o le unioni sovranazionali si basano
su altri principi. In particolare in esse si fanno più labili le relazioni
profonde tra gli individui, per cui esse richiedono una organizzazione politica che è costruita,
non presupposta. Inoltre la solidarietà sulla quale si fonda il
loro ordinamento pacifico non scaturisce,
se non ideologicamente, da un legame di
stirpe. Infine la difficoltà più seria di tutte: la famiglia naturale non è una società democratica e si ritiene, nel nuovo ordine di idee oggi prevalente,
che la democrazia sia indispensabile per il mantenimento della pace universale.
Il problema si propone con estrema forza quando si passa a ragionare dell’intera umanità, fatta di circa otto
miliardi di individui.
E c’è dell’altro.
La nuova organizzazione che si vuole costruire
a livello mondiale deve essere stabile, quindi destinata a durare per diverse
generazioni. La famiglia come piccola società naturale basata sulla propensione
sessuale è destinata fondamentalmente ad esaurirsi in non più di due
generazioni. Delle precedenti si ha labile memoria, salvo che, per ragioni di
casta o di dinastia, ci si incaponisca a mantenerla. Di solito solo due
generazioni sono tra di loro contemporanee, raro che lo siano i trisnonni.
Le
famiglie, inoltre, non sempre sono
società pacifiche e fondate sulla uguale dignità dei propri membri. Non si
dice forse “fratelli, coltelli”? Nella mia esperienza di pratico del diritto,
certe controversie ereditarie tra parenti sono acerrime e incomponibili.
Infine: i modelli familiari sono in rapida
evoluzione. Di fatto nelle società umane contemporanee più progredite si viene
affermando un modello di famiglia
parentale di durata limitata, in molti casi con un solo genitore, e, con l’affermarsi sociale delle famiglie basate
su propensione omosessuale e il diffondersi della poligamia, si viene creando
nel mondo in cui viviamo una pluralità di
tipi di famiglia. Quindi la forza
evocativa dell’analogia tra la famiglia parentale e la convivenza dell’intera
umanità viene scemando. Non do
qui una valutazione etica del fenomeno, ed è chiaro che secondo la nostra
morale religiosa esso è visto come negativo: sto solo descrivendolo.
In una prospettiva religiosa, il modello
dell’umanità come famiglia presenta un pregio per la nostra gerarchia
ecclesiale. Esso consiste in questo: essa intende esprimere una autorità paterna (“papa”, ad esempio, deriva da
un termine greco che significa “padre”); in un’ottica di analogia familistica
essa può quindi presentarsi come fondata
su basi naturali, a prescindere da un
consenso della base. Esso però ha anche un altro pregio, per tutti noi, che lo
rende tutto sommato effettivamente appropriato, pur bisognevole di
precisazioni: richiama l’idea di solidarietà incondizionata e oblativa, fino al
rischio della propria vita, nella buona e nella cattiva sorte, qualcosa di più
della semplice amicizia.
Ho parlato di modelli universali, ma si tratta di cose che vanno costruite
sperimentalmente anche a partire da scale molto più piccole, addirittura
microscopiche, come ad esempio può essere considerato, a confronto con l’intera
umanità, il nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica. Come viviamo la nostra appartenenza? Parlando con diversi soci ho avvertito in loro la nostalgia di tempi in
cui le relazioni associative erano più
forti. E, d’altra parte, relazioni più forti significano anche condizionamenti più forti e, crescendo,
si diventa sempre un po’ intolleranti verso cose simili. Vale la pena di
ragionarci su?
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28
Realtà
invisibili
(3
novembre 2012)
Fondamentale carattere della scienza moderna è
la capacità di varcare i confini del visibile.
Nessuno
ha mai visto un fotone [particella
di energia luminosa]. Nessuno vedrà mai
un sequenza cistronica [parte dell’RNA messaggero, una molecola che svolge
funzioni nella costruzione delle cellule organiche]. Tali entità sono reali, ma ricostruite da una laboriosa indaffarata
convivenza tra prove sperimentali e attività ipotetiche della mente. Essi sono
invisibili disvelati agli occhi dell’intelletto […]. Nella sociologia ci troviamo
in una situazione terribilmente arretrata. Siamo ancora timorosi nel compiere
il salto verso l’invisibile, già
compiuto da duemila anni nella matematica e da oltre cento anni nella fisica”.
[passo
tratto da un articolo di Giorgio Prodi, Lineamenti di una sociologia degli
invisibili, citato nel libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e Città, Editrice A.V.E., 2011, a pag.66]
Può accadere che noi persone di fede si sia
presi in giro o, comunque, sottogamba perché ci occupiamo anche di realtà
invisibili. Ci sono uomini di cultura che considerano la Bibbia e molte altre
storie che circolano in religione come delle fiabe. Altri, pur con meno
scienza, fanno loro eco e ci accusano di credulità. Ma, nella mia esperienza,
l’atteggiamento dei più non è di questo tipo. Di solito infatti la gente crede
nel soprannaturale, in genere perché trova più facile spiegare in quel modo ciò
che le accade. Ma trova difficoltà nel credere in un dio amorevole, benevolo.
Pare più rispondente alla realtà di tutti i giorni l’esistenza di geni, demoni
o folletti, e simili, che possono essere favorevoli o avversi, secondo il loro
capriccio. Questa può essere considerata una religiosità di tipo naturalistico,
che risale ai primordi della vita sociale umana, quando si riteneva che ogni
manifestazione del mondo intorno agli esseri umani fosse mossa da un dio. Essa
poi si sviluppò nel politeismo dell’antica religione latina e greca, che
precedette il successo del cristianesimo in Europa, nel Vicino Oriente e nel
Nord Africa e fu da esso combattuta ed estirpata, almeno nelle sue
manifestazioni pubbliche e nelle istituzioni. Nell’antica Preneste, l’attuale
Palestrina, nei dintorni di Roma, venne
edificato un grande santuario alla dea Fortuna
primigenia, molto venerata dagli antichi romani. In certi accaniti
giocatori alle lotterie e simili, che vediamo anche nel nostro quartiere,
potremmo in un certo senso riconoscere dei seguaci di quell’antico culto. Come
spiegare altrimenti tanta passione in
giochi in cui le probabilità matematiche di vincita sono tanto basse?
Certamente senza un legame con l’invisibile la
nostra non sarebbe una religione. Secondo la nostra fede, tutto ciò che esiste
è stato creato da una divinità che
ama noi esseri umani con amore di padre/madre e questo nonostante le nostre
imperfezioni e, in particolare, la nostra cattiveria. Questa convinzione trova
molte smentite nella realtà naturale. E’ quindi una fede soprannaturale, che ci porta a
rettificare abbastanza ciò che si osserva nella natura intorno a noi e in noi. Lì dove la vita appare ad un certo
punto finire, noi, ad esempio, siamo convinti di una vita eterna. L’esistenza degli esseri viventi appare dominata dalla
violenza. Gli animali si mangiano gli uni gli altri e anche noi ci nutriamo di
altri viventi. Le terre emerse si spostano generando terremoti. Oceani appaiono
e scompaiono. Le stesse stelle collidono o esplodono. Noi però siamo convinti,
per fede, che tutto ciò avrà, alla fine dei tempi, un compimento beato. Il
mondo in cui viviamo sparirà, certo, ma sarà sostituito da un mondo diverso,
preparato per noi e promesso. Esso non sarà però opera nostra, ma
dell’amorevole potenza creatrice dalla quale deriviamo. Dossetti nel discorso
da cui è scaturito quel libretto che ho sopra citato, invita a non metterla troppo
semplice parlando di questo con gli altri, come se tutto fosse ovvio, chiaro,
scontato. La fede, che in genere da bambini si acquisisce con una certa
facilità, confidando nei propri genitori e nelle persone da loro accreditate,
crescendo è messa alla prova. La religione serve appunto a custodirla e a
rafforzarla.
Come ho osservato in altre occasioni,
l’aspetto che va costantemente e sapientemente curato, come quando, da bambini,
si difende pazientemente un castello di sabbia costruito sulla riva del mare,
che l’acqua tende costantemente a sciogliere avanzando verso la terraferma, non
è tanto la convinzione che Dio c’è.
Spesso i “non credenti” partono da questo, parlando con le persone di fede, e
trovano poca soddisfazione. Certo, noi portiamo argomenti razionali a sostegno
dell’esistenza del nostro Dio, ma egli rimane pur sempre invisibile. Chi può negarlo? E’ la stessa Bibbia che a dircelo
chiaramente.
Scrive Dossetti, nel libretto sopra
citato, a proposito dell’Eucaristia:
Il
mistero cultuale rende oggettivamente presente l’evento del sacrificio di
Cristo, ma contemporaneamente lo vela: debbo trapassare il velo e questo mi è
possibile solo nella fede, che mi fa andare oltre le apparenze sensibili e
oltre il tempo […]
Nella mia esperienza di fede, ad un certo
punto, viene una voce che noi siamo capaci di udire; viene dalla storia umana
tramite la Chiesa, che l’ha fedelmente custodita nei secoli, e reca buone
notizie. Ci parla infatti di un creatore amorevole e suscita in noi, nel nostro
animo, nella nostra interiorità, una risposta, perché appunto quella voce è ciò
che si attendeva da sempre di ascoltare. E’ stato notato che noi, nell’evo
presente, non vediamo, ma possiamo udire. Detto in termini esplicitamente
religiosi, questo denota l’importanza che attribuiamo a ciò che sinteticamente
definiamo la Parola, vale a dire a
quello che religiosamente ascoltiamo e che ci narra delle realtà invisibili che
sorreggono le nostre vite. Nell’esperienza religiosa è questo che è centrale, come spesso ci
ricorda anche il nostro assistente ecclesiastico nelle nostre riunioni:
ascoltare e comprendere la Parola.
Questa relazione che abbiamo con il
soprannaturale ci cambia e ci arricchisce nello spirito, ma non ci aggiusta le
cose nel mondo in cui viviamo, che continua
ad andare come deve andare in base alle sue dinamiche naturali. La nostra fede
infatti non ha nulla a che fare con la magia. Non portiamo un dio dalla nostra
parte negli affari che abbiamo in corso in società e riguardo ai problemi che
abbiamo con la natura, innanzi tutto con i nostri corpi, che infatti ad un
certo punto ci danno qualche dispiacere, e sempre di più invecchiando.
Attendiamo invece un beato compimento che è completamente nelle mani di colui
nel quale religiosamente confidiamo e al di là di ogni nostra immaginazione.
Non tentiamo di portare un dio sulle nostre vie, ma cerchiamo la nostra strada
verso colui che ci chiama, ci trae a sé e ci attende alla fine della storia
dell’universo.
In conclusione: quando ci mettiamo a
immaginare nuove organizzazioni sociali, anche al fine di corrispondere a quella benevolenza soprannaturale che ci
sovrasta e ci colma, non dobbiamo dimenticare che il punto di partenza, sia
come individui che nei nostri gruppi, è nella realizzazione di una
spiritualità, lavoro questo non facile perché non si tratta solo di tirar fuori
cose da noi stessi, in particolare dalla nostra immaginazione e dalla nostra
emotività, ma di inserirci in una
tradizione molto antica dalla quale la Parola
è scaturita per noi. Per questo è stata istituita la Chiesa della quale
siamo parte viva, essa stessa realtà visibile e invisibile, punto di contatto e
di mediazione tra il visibile e l’invisibile.
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29
A occhi aperti
(5
novembre 2012)
“Condizione di qualunque progetto da parte di
gruppi cristiani
[…]
Occorre … che siano adempiute molto più di quanto non sia stato finora
tre condizioni precise:
-che questo progetto sia non solo
nominalmente, dire per una “pia fraus” [trad.: per una bugia a buon fine], ideato e perseguito anche praticamente, in modo totalmente distinto
dalla comunità di fede;
-che esso abbia una sua genialità creativa
(cioè non sia solo una rimasticatura di dottrina e progetti altrove nati) e
abbia una sua validità storica, risponda cioè ad un momento reale della storia,
interpretato non solo con scienza (cioè con l’intelligenza), ma anche con
sapienza (cioè con l’intuizione);
-e che infine esso nasca da un senso di
giustizia disinteressata e soprattutto di carità genuina verso i compartecipi
sociali, specialmente verso le categorie evangeliche privilegiate (i poveri,
gli umili, i piccoli).”
[da:
Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città,
Editrice A.V.E., 2011, euro 8,00, pag.57]
Nel momento in cui a noi laici viene
richiesto di influire sulla società del nostro tempo per promuovere certi valori che hanno un fondamento
religioso, dobbiamo chiederci come farlo. Infatti i cristiani storicamente
hanno a lungo improntato della loro fede le civiltà in cui si trovavano a
vivere, in Europa almeno fin dal quarto secolo della nostra era, ma non tutti i
modi in cui lo hanno fatto sono oggi praticabili, sia da un punto di vista
oggettivo, delle forze in campo, sia da un punto di vista etico. Oggi, ad
esempio, non ci affideremmo in questo a un imperatore cristiano o anche solo a una dinastia monarchica cattolica. E non accetteremmo di imporre
alla gente la fede cristiana sotto pena di
sanzioni criminali. Né lanceremmo una crociata contro popolazioni di
scismatici. Si tratta di forme di intervento dei cristiani nelle società del
loro tempo che sono state storicamente attuate. Ai tempi nostri in genere la si
pensa diversamente. Ma non è solo questione del senso comune, dell’opinione
corrente, ma è proprio la nostra Chiesa che si è data leggi diverse, che le
vietano quelle vie. Sono regole che troviamo nei documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), i
quali, come ho ricordato varie volte in precedenza, non sono solo testi
edificanti e istruttivi, ma leggi. Per alcuni di essi lo rivela il nome stesso
che è stato dato loro: costituzioni,
decreti. Ma anche quelli che sono stati denominati dichiarazioni hanno la stessa natura. E si tratta di leggi che,
promanando dal Papa in unione con un Concilio ecumenico, hanno una particolare
forza. Queste leggi, nonostante che nella loro stesura si sia avuta particolare
cura nell’evidenziare la continuità con il pensiero precedente dei capi della
nostra Chiesa, con le idee dei più autorevoli scrittori religiosi dei primi
secoli, con le liturgie praticate fin da tempi molto antichi e,
naturalmente, con le Scritture sacre,
divergono molto, quanto alle indicazioni operative, concrete, con quelle che
ebbero vigore in altre epoche della nostra confessione religiosa. La fede è rimasta
sostanzialmente la medesima, ma il modo di vivere dei cristiani nella storia è
molto cambiato. Per altro, a mio parere, il Concilio
Vaticano 2° non ha inventato
nulla di ciò che di nuovo si è prodotto. Nelle intenzioni del papa Giovanni
23°, il quale lo indisse, esso aveva come scopo principale un aggiornamento delle leggi della Chiesa a
una realtà che già i fedeli stavano
vivendo e praticando. Il risultato fu però qualcosa di più: quelle leggi furono
concepite in modo da imprimere un movimento
in avanti nel corpo ecclesiale, rendendo possibili ulteriori sviluppi delle
dinamiche in atto, che infatti si produssero. Il magistero e l’azione di
governo del papa Giovanni Paolo 2° ne sono stati straordinarie manifestazioni.
Ma ancora più rilevante, anche se forse meno evidenziata nelle grandi fonti
informative del nostro tempo, è stata la spinta che si è creata nella masse dei
fedeli. C’è stata, nella nostra Chiesa, un profondo mutamento della religiosità
popolare, del quale di solito si sottolineano gli aspetti negativi, ma che ne
ha avuti anche di positivi.
Vorrei evitare, in queste mie brevi note
quotidiane, di ripetere cose che potete leggere, scritte meglio, con più
scienza, in altri testi, ai quali rimando. Ragiono partendo dalla mia personale
esperienza, tenendo presenti le esigenze di lavoro del nostro gruppo di A.C. .
Quello che penso di poter dire è questo. A partire dalla metà del secolo scorso
il ruolo delle masse cattoliche, in particolare dei laici, è diventato più importante nella nostra Chiesa. Si
richiede alla nostra gente un impegno nella società che prima non era preteso e
veniva addirittura visto con sospetto. Lo si vuole informato e consapevole. Ma
non è solo questo: lo si vuole creativo.
Infatti l’assunto che i capi ecclesiali avessero il segreto della migliore
organizzazione delle società civili si è rivelato fallace. E quando il beato
Toniolo (1845-1918) scriveva che la salvezza sarebbe venuta da una società di santi, non da diplomatici, dotti o eroi, non si riferiva innanzi tutto alla gerarchia
ecclesiale. Questi nuovi compiti che, come laici, siamo chiamati ad assumere
comportano che si decida anche come lavorare insieme, con piena responsabilità.
Non si tratta più infatti di attuare
nel concreto decisioni di massima prese ai vertici.
In qualche modo, quella che stiamo vivendo è
un’era veramente nuova.
Si è presa, ad esempio, maggiore
consapevolezza della rilevanza religiosa delle realtà profane, di ciò che accade fuori degli spazi liturgici. In passato
si era giunti a una sorta di compromessi tra le autorità religiose e quelle
civili, che condividevano le popolazioni a loro soggette. Certe questioni, come
ad esempio le guerre, rimanevano fuori del campo del religioso. Popolazioni cristiane potevano essere arruolate le une
contro le altre, i sacerdoti e i vescovi di ciascuna di esse invocavano il
favore divino e prestavano l’assistenza spirituale ai combattenti e alle loro
famiglie, e non si pensava che qualcuno potesse lecitamente, anche da un punto
di vista religioso, sollevare una obiezione di coscienza in tutto questo. Una
volta che, invece, si decida di intervenire, animati da spirito religioso,
bisogna decidere come farlo tenendo conto che su certe scelte ci si può
dividere, ma che, come Chiesa, bisogna rispettare il comandamento dell’unità
del credenti, ma direi di più, dell’intero genere umano.
Anticipando quello che mi pare di avere
capito, bisogna considerare che sulle questioni sulle quali la gente di fede
ritiene ora di aver voce in capitolo anche sulla base di moventi religiosi si
deve discutere anche in chiesa. Sarebbe strano che non lo si
facesse, che cioè ognuno su argomenti di tale rilevanza fosse lasciato solo nel
capire e nel decidere. Anche perché
nessuno, da solo, può veramente pretendere di poter ideare o scegliere la
soluzione migliore. L’intelligenza dei fatti collettivi richiede una sapienza collettiva. Ma poi l’attuazione
delle scelte deve essere demandata alla responsabilità di ciascuno, non della
Chiesa, che ha rinunciato a questo tipo di potere dal momento che è espressione
embrionale di una realtà che non è di
questo mondo, e ognuno poi agirà insieme ad altri che compongono i vari
corpi sociali implicati nelle decisioni, in modo laico, inteso come non esplicitamente religioso, in modo da
poter coalizzare il massimo consenso possibile. Pensare di attuare esigenze di
fede con lo strumento di corpi sociali civili riproporrebbe infatti la modalità
desueta e impraticabile dell’impero
cristiano. Mentre rivestire di abiti
religiosi certe soluzioni storiche, certe forme organizzative, certi modi di
trasformare la società e la natura intorno ad essa, contrasterebbe con la
libertà di coscienza.
L’Azione Cattolica, nel suo percorso
formativo, ci consiglia esercizi di
laicità, vale a dire di provare in concreto, nei nostri gruppi, a prendere
in esame le nostre relazioni di fedeli cristiani con i corpi sociali nei quali
siamo inseriti e di capire come si possa fare per esprimere nell’azione civile
le nostre idee a fondamento religioso. Questa è una parte importante del lavoro
in Azione Cattolica e che differenzia molto i nostri gruppi da quelli molto più
centrati, ad esempio, su esperienze di spiritualità religiosa o di preghiera.
In questo Anno della Fede possiamo
però sentirci chiamati a qualcosa di più. Ne parla la lettera apostolica di
indizione. Sappiamo abbastanza della storia della nostra Chiesa, dei problemi
che ha dovuto affrontare, delle soluzioni che di volta in volta sono state
attuate? Questa è una parte importante dell’attività alla quale siamo stati
sollecitati. Non si tratta, quindi, solo di conoscere meglio il catechismo, fosse anche un’opera
piuttosto estesa come il Catechismo della
Chiesa cattolica, il quale pure è sicuramente un utile punto di
riferimento. Bisogna aprire gli occhi
sul mondo intorno a noi. Se non lo conosciamo bene, non possiamo influire su di
esso. E a volte a chi ci circonda può sembrare che la nostra esperienza
religiosa abbia la realtà di un sogno,
tanto è distaccata dalle dinamiche umane concrete. Eppure in certe storie
bibliche è proprio da certi sogni che
scaturiscono importanti decisioni nell’animo della persona di fede. Come in
ogni cosa, quando si tratta di religione, si tratta di tenere tutto insieme, prospettive religiose e prospettive profane,
il cielo e la terra, pur nella consapevolezza della loro diversità. E’ quello
che Giuseppe Lazzati (1909-1986) definiva unità
dei distinti.
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30
La città dell’uomo
(7
novembre 2012)
“… il concilio ha fatto quello che, nella
storia della chiesa, fino ad allora non era stato fatto: ha espresso
chiaramente quale sia la vocazione del fedele laico, precisando non tanto il
fine (la santità a cui tendere, di cui è piena, in dottrina e in fatto, la
storia della chiesa), quanto la via attraverso la quale tendervi e giungervi.
Il fine
è espresso nelle parole “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il
regno di Dio” [ Lumen gentium, n. 31]. La via da percorrere è indicata, con
altrettanta chiarezza: “trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”[Lumen Gentium n.31]
[da:
Giuseppe Lazzati, La città dell’uomo –
Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo, Editrice
A.V.E., 1984, pag.50]
“Col nome di laici si intendono qui tutti i
fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso
sancito nella Chiesa, i fedeli cioè che, dopo essere stati incorporati a Cristo
col battesimo e costituiti Popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi
dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte
compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo
cristiano.
[…]
Per la
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti
e singoli i doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni di vita
familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio
chiamati a contribuire, quasi all’interno e a modo di fermento, alla
santificazione del mondo mediante
l’esercizio del proprio ufficio e sotto la guida dello spirito
evangelico, e in questo modo, a manifestare Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della
loro stessa vita e col fulgore della loro fede, speranza e carità. A loro
quindi particolarmente spetta di illuminare e
ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati,
in modo che siano sempre fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al
Creatore e Redentore.”
[Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
cap.4° n. 31, lett.a) e b)]
Le parole della costituzione dogmatica sulla
Chiesa Lumen Gentium, del Concilio Vaticano 2°, che ho sopra
citato sono uno dei punti fondamentali dei vari ragionamenti e delle decisioni
di quella grande assemblea di vescovi che si riunì tra il 1962 e il 1965. Una
novità assoluta nella legislazione nostra Chiesa, come rilevò Giuseppe Lazzati
(1909-1986) nel libro che ho menzionato (purtroppo non più in commercio). Non
certo del tutto una novità nell’esperienza storica dei cristiani. Bisogna dire
però che, a mio parere, solo con i moti europei e nordamericani di fine Settecento la questione di un ruolo
più attivo in religione della gente comune, di coloro che quindi non erano capi
religiosi riconosciuti, si pose in modo
nuovo, rendendo possibili gli sviluppi che, nella Chiesa cattolica, hanno
portato alla situazione dei tempi nostri, che manifesta ancora potenzialità non
sfruttate. I problemi che in merito sono sorti e che ancora sorgono sono
analoghi a quelli che si sono prodotti nell’evoluzione politica democratica
delle società contemporanee. Questo manifesta con una certa evidenza che si
tratta di movimenti della stessa natura, pur in ambiti diversi. Nel passaggio
dalla posizione di sudditi, solo soggetti a un potere altrui, a quella di
cittadini, partecipi delle decisioni più importanti che riguardano le
collettività, c’è chi si sente disorientato, impreparato, deluso dai risultati
ottenuti, sfiduciato nelle prospettive, e allora guarda con una certa nostalgia
al passato, per altro piuttosto idealizzato, quindi abbastanza distante dalla
realtà storica. Infatti nella via verso la cittadinanza compiuta si incontrano
le masse, grandi collettività, composte di persone che si vuole con la medesima
dignità, di gente che reclama di poter dire la propria e di essere ascoltata.
Non sempre è un bello spettacolo. Decidere insieme, ascoltando le ragioni di
tutti e poi però accettando di seguire il volere di una maggioranza,
soprattutto subordinando il bene proprio personale a quello dell’intera
collettività, è difficile, a volte sfiancante. E’ problematico in particolare
avere una visione sufficientemente affidabile delle cose, perché questo
significa perdere tempo e fare uno
sforzo per informarsi, cercando di raggiungere un punto di vista realistico,
anche ascoltando chi ne sa di più. Chi ne sa di più deve da parte sua avere la
pazienza di comunicare con gli altri, anche se ignoranti di certe cose, e di
dialogare con loro, anche quando pongono obiezioni palesemente infondate. La
tentazione che c’è sempre è quella di tagliare corto e, da un lato, di seguire la gente che pare più
decisa nell’imporre la propria volontà e, dall’altro, di forzare la mano imponendosi sugli altri sovrastandoli e
tacitandoli in qualche modo.
Come c’entra tutto questo nell’esperienza di
un piccolo gruppo parrocchiale di laici come il nostro? C’entra perché il
lavoro per elevarsi, collettivamente, a quella nuova dignità laicale che è
espressa nelle parole della Lumen gentium
è ciò che maggiormente caratterizza l’Azione Cattolica dei tempi nostri. Come
si spiega questo? Si tratta di cosa che deriva da una realtà sociale di impegno
di fede che ha preceduto i
deliberati conciliari e di cui l’Azione Cattolica e le organizzazioni che
storicamente la precedettero furono protagoniste. Le decisioni del concilio
vennero infatti viste come un
aggiornamento. Ma aggiornamento di che e verso che cosa? Ad essere aggiornata è stata la legislazione della nostra Chiesa; essa
fu aggiornata per riconoscere la bontà di
un’esperienza laicale che già esisteva, dall’Ottocento. Questo significa
ammettere che i padri conciliari non furono veramente degli innovatori, ma, appunto degli aggiornatori, e che l’innovazione si era già prodotta e attendeva solo di essere riconosciuta.
Tornerò sulle questioni della nuova concezione
dell’impegno laicale formulata nel corso del concilio, ma, per rendere meglio
l’idea del cambiamento e della sua origine, voglio riferirmi alla questione,
molto grave, dell’antigiudaismo cristiano, una realtà molto antica e pervasiva.
Chi oggi, tra i fedeli cattolici,
sottoscriverebbe queste parole:
“Niente è più miserabile … di questo popolo che non ha mancato
occasione per rinunciare alla propria salvezza, sono bestie selvagge … come gli
animali, anzi più feroci di loro … il profeta espresse la insania della loro
libidine con una parola che si riferisce agli animali”
scritte a proposito degli ebrei?
Sono
citate nel libro di Gianna Gardenal, L’Antigiudaismo
nella letteratura cristiana antica e medievale, Morcelliana, 2001, a pagine
56 e 57, e attribuite a S. Giovanni Crisostomo (344-407), il quale le scrisse
in due delle sue otto omelie contro i
giudei.
L’antigiudaismo cristiano, ancora piuttosto marcato nel corso del
Novecento, fu ripudiato dalle genti cristiane dopo la tragica esperienza della
persecuzione e dello sterminio degli
ebrei perpetrati dai regimi nazisti e fascisti europei, prima di esserlo dalla
legislazione della nostra Chiesa. Anche in questo caso i deliberati del
concilio furono un aggiornamento, un
tenersi al passo con i tempi in ciò che
essi avevano prodotto di buono.
Per
quanto riguarda il nuovo impegno laicale dei cattolici nella società, in
particolare dalle società rette da regimi democratici, in cui la gente aveva
più voce e possibilità di influire sulle scelte supreme, esso iniziò a
manifestarsi nel corso dell’Ottocento, molto vivacemente, e non venne sempre
assecondato dai capi religiosi. Si tratta di una storia che presentò anche
aspetti dolorosi, in particolare in Italia, dove la frattura con
l’organizzazione civile del nuovo stato unitario, retto su basi democratiche,
fu estremamente netta, a causa della cosiddetta questione romana, che riguardava le rivendicazioni territoriali dei
papi sul territorio del Regno d’Italia, in particolare sulla città di Roma. In
generale i papi furono, almeno fino al 1944, piuttosto sospettosi sull’impegno
sociale autonomo dei laici cattolici e, di solito, ammisero un’attività sociale
del laicato solo come attuazione puntuale di deliberati pontifici, principalmente
in funzione difensiva del papato e delle organizzazioni del clero e dei
religiosi.
Il
fatto che i capi della nostra Chiesa siano venuti a sancire dopo certi cambiamenti che si erano già
prodotti nel loro popolo non deve però stupire. Essi infatti hanno formazione
prevalentemente teologica e ogni
teologia, anche quando appare innovativa rispetto ad una precedente, non innova veramente, perché ragiona
sempre sulla fede della Chiesa, quindi su qualcosa che già c’è. La fede è sicuramente creativa,
di questo abbiamo sicura esperienza, non così la teologia. Innovare non è il
suo mestiere. Essa però può dare veste
teologica a un’innovazione, chiarendo, ad esempio, che certi principi, come
la comune dignità degli esseri umani,
sono presenti nella fede delle origini, quindi nel cosiddetto deposito di fede, pur se come
potenzialità storicamente poco o per nulla sfruttate e, innanzi tutto, capite.
Per
oggi mi fermo qui. Vorrei invitarvi a tenere a mente e a riflettere su queste
parole della Lumen Gentium: “Per la
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio.”. Vi tornerò sopra, riassumendo quello che in merito mi è stato
insegnato in tanti anni di formazione alla fede. Vi prego di ragionarci su
anche voi e, in particolare, di correggere o integrare quello che su
quell’argomento scriverò. In particolare terrò conto dell’insegnamento di
Giuseppe Lazzati, dichiarato Servo di Dio,
il primo grado nel processo di proclamazione di uno dei santi ufficiali
della Chiesa, e del beato Giuseppe Toniolo, la cui esperienza ho potuto
conoscere fin da ragazzo attraverso ciò che ne scrisse in un libro un mio zio
professore. Invoco religiosamente la loro intercessione in questa mia opera di
divulgatore parrocchiale che faccio da ignorante
colto, da persona quindi che si è un po’ familiarizzata con certi concetti,
ma senza essere veramente esperta sulla maggior parte di essi, in particolare
nella materia teologica. La mia formazione specialistica è giuridica.
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31
Una lunga storia
(8
novembre 2012)
Nei miei precedenti interventi su cose della
nostra fede comune c’erano molti richiami a fatti storici. Si tratta di un modo
di procedere che non è molto diffuso, in particolare nella fase
dell’iniziazione religiosa. E’ una cosa che si può constatare, ad esempio, nel Catechismo della Chiesa cattolica,
un’opera destinata al grande pubblico su scala mondiale, e che pure ha avuto
una evoluzione storica dalla prima edizione, nel 1993, alla seconda, nel 1997,
in particolare sul tema della pena di morte. In quel testo non emerge con
chiarezza, anche se se ne parla, che la
Chiesa, nella sua componente “terrestre”, “nel secolo” come si suole dire, ha
avuto una storia, quindi diverse manifestazioni le quali hanno riguardato
anche concezioni molto importanti. Del resto si tratta di uno scritto su base
teologica e la teologia, in particolare quella cattolica, tende a lavorare per
stabilire una continuità con le origini, in primo luogo
perché quella continuità accredita la verità
della religione, per il legame molto stretto che nel cristianesimo si vuole
mantenere con il primo maestro, e poi perché essa è in linea con l’idea che la
Chiesa abbia anche una componente soprannaturale in virtù della quale è sempre la stessa in ognuna delle sue
varie espressioni compresenti sulla Terra e succedutesi nella storia. Questo
qualche volta porta a mettere in secondo piano l’evoluzione storica che c’è
stata anche nelle nostre collettività religiose e, comunque, a presentarla
fondamentalmente solo come una serie di progressi
verso una maggiore e migliore comprensione del messaggio di fede nei quali il
passato è comunque tutto contenuto nei tempi successivi, ponendo così in
risalto il dispiegarsi di un disegno soprannaturale coerente che regge le cose
umane. Questa visione è utile per dare il senso complessivo
dell’interpretazione della storia umana come noi la proponiamo in religione.
Può creare qualche problema se però, nel compito che è proprio dei fedeli
laici, vale a dire quello di trattare le
cose temporali e di ordinarle secondo Dio, secondo l’espressione utilizzata
nella costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
quindi, in termini correnti, di
realizzare un’organizzazione delle società umane più in linea con i nostri
ideali religiosi, noi trascuriamo certi dettagli della storia e certi
meccanismi delle cose umane e, in particolare, che il nostro presente per certi
versi ha significato il ripudio di
una parte del passato ed è fatto anche di questo. Bisogna infatti rendersi
conto che noi non costruiamo sul nulla, ma ci inseriamo in dinamiche
preesistenti e utilizziamo il materiale e le persone che ci sono. Giuseppe
Lazzati definì questo lavoro costruire la
città dell’uomo.
Egli scrisse nel libro La città dell’uomo – Costruire da cristiani la città dell’uomo a misura
d’uomo, Editrice A.V.E, 1984, pag.19:
Tenendo presente l’immagine del “costruire” che guida la nostra
riflessione, è immediato il riferimento all’architetto o all’ingegnere; al
progettista, insomma, che, per prima cosa, vuol rendersi conto del terreno sul
quale costruire l’edificio che gli è commissionato […] E’ questa l’immagine di quell’indispensabile coscienza
di un passato di cui non [si] può fare a meno […]
Il ricordato architetto
elaborerà poi il progetto dell’edificio commissionato tenendo conto dei
materiali che ha a disposizione e pensando le strutture rispondenti alle
esigenza che, in quel momento e per un certo periodo di tempo, possono
soddisfare meglio coloro che nell’edificio porranno la loro abitazione, i loro
uffici, la loro industria.
Bisogna ragionare molto su
questo sapiente costruire nel mondo che ci compete come laici e
che è quell’attività che nella Lumen
Gentium viene definita, con linguaggio teologico, ordinare le cose temporali secondo Dio. Qualche volta noi tendiamo
a concepirci più che costruttori come
dei restauratori di un edificio che
c’era già e che nel tempo ha subito danni. Interroghiamoci: questa idea è
affidabile, realistica?
Io vi
propongo questa riflessione: ci sono nel mondo in cui oggi viviamo tante cose
che non c’erano nel passato. Questo non ha influenza sul nostro lavoro di costruttori di mondi? Tutto ciò che di
nuovo si è prodotto è male?
Queste
differenze con il passato non riguardano solo gli oggetti, i materiali e gli
strumenti, ma anche le persone, le idee e le organizzazioni sociali. Ad
esempio, considerate come è mutato, dai tempi delle prime comunità cristiane,
il ruolo delle donne nelle società occidentali. Quella che nella Palestina di
due millenni fa era in un certo qual senso la regola, vale a dire la
discriminazione sociale nei loro confronti, oggi
è considerata come un illecito, perché vietata dalla nostra Costituzione e
da altre leggi nazionali, dalla Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea (entrata in vigore il 1-12-09) e
dalla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (1955).
Poiché la nostra azione nel
mondo in cui viviamo ha anche un significato religioso e la nostra fede
religiosa ha una sua importanza nel lavoro che svolgiamo nella società civile,
in particolare come cittadini di una democrazia, anche la storia rientra nel
campo dei nostri interessi specificamente religiosi. Questo significa che, pur
attendendo la manifestazione piena di ciò che nella fede religiosa crediamo, il
nostro atteggiamento nella storia non può essere solo quello dell’attesa.
Parafrasando un simpatica espressione in romanesco che una volta pronunciò in
una udienza pubblica il papa Giovanni Paolo 2°, dobbiamo darci da fare. Questo darsi da fare richiede appunto di prendere coscienza di ciò che si muove intorno a
noi e delle dinamiche storiche delle società in cui viviamo, perché non sia
sconsiderato, improvvisato, superficiale e quindi vano o addirittura
controproducente. Il Concilio Vaticano 2° ha usato per
rendere questa idea un’espressione che molti sicuramente conoscono: scrutare
i segni dei tempi:
È l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità,
corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il
cardine di tutta la nostra esposizione.
Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione
dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la
cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità
universale che corrisponda a tale vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo:
continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo,
il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e
non a condannare, a servire e non ad essere servito.
[…]
Per
svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di
interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna
generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso
della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti
conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni
e il suo carattere spesso drammatico.
[dalla costituzione pastorale Gaudium et spes]
Ieri ho richiamato la vostra
attenzione sull’espressione trattare le cose temporali per ordinarle
secondo Dio (nella
costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°), che, secondo
l’interpretazione di Giuseppe Lazzati, significa costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo; oggi
faccio la stessa cosa con scrutare i segni dei tempi (nella costituzione Gaudium et spes), che significa vivere, da cristiani, ad occhi aperti nel
mondo, consapevoli della sua storia e di ciò che in esso si agita. Penso
che, addirittura, trattandosi di cose che riguardano la nostra religione,
potremmo provare a costruirci sopra una preghiera da mandare a memoria. E
dovremmo riflettere su come fare, nel nostro lavoro associativo, nelle
occasioni che abbiamo di riunirci, per dare uno spazio a questi aspetti.
Ad esempio, nella riunione del
martedì abbiamo uno spazio di meditazione biblica, utilizzando le letture della
Messa della domenica seguente, un altro spazio di riflessione e discussione su
temi ecclesiali: potremmo forse dedicare almeno qualche minuto a quell’esercizio di laicità che consiste nel
prendere coscienza del corso della storia che stiamo vivendo a partire dalla nostra
concreta esperienza, dalle nostre vite. In questo costituisce senz’altro una
ricchezza avere un gruppo nutrito di anziani tra noi, che possono riferirci del
passato non sulla base di quello che hanno letto, ma di quello che hanno
vissuto. E’ una cosa che abbiamo iniziato a fare prima dell’estate. Ricordate
quando Maria Cretella ci ha narrato della sua esperienza di giovane di Azione
Cattolica in tempo di guerra, con gli aerei che, nei tempi di plenilunio,
venivano a bombardare, partendo dalla base britannica di Malta, la ferrovia che
passava vicino al suo paese? Non abbiamo allora apprezzato meglio, a partire da
quella storia così coinvolgente, il lungo periodo di pace che, dalla fine di
quella guerra, abbiamo vissuto in Europa?
Poiché si tratta di un’opera
religiosa, anche se si tratta di
recuperare ricordi di una storia molto concreta che si è vissuta nel mondo
profano, vale a dire di quello che c’è fuori delle nostre chiese, la possiamo
affrontare senza certi assilli che guastano le cose quando le si affronta, ad
esempio, negli studi, con l’ansia degli esami, o in politica, con la premura di
sovrastare gli avversari. Si procederà anche in questo con il ritmo lento e
attento di una preghiera, cercando di far
reagire i fatti di cui facciamo memoria con la nostra fede. Certe volte,
quando si prega intensamente, pare che il tempo si dilati e che quindi basti a
dire tutto ciò che si agita in noi. Allo stesso modo, con il ritmo della
preghiera, dobbiamo ricapitolare la nostra storia e il mondo in cui viviamo,
curando molto i dettagli, senza fretta, nello sforzo di non dimenticare nulla e
nessuno, nell’anelito religioso di venire incontro a tutti. Possiamo agire così
nel presupposto di fede che il beato compimento della storia, in cui
confidiamo, non sarà opera nostra, ma verrà dall’alto. A noi compete solo
assecondare questo movimento, non perché esso dipenda da noi, ma semplicemente
per continuare a farne parte, per assentirvi (questo effettivamente dipende da
noi), in quello che potremmo riassumere con la parola amen.
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32.1
Sentirsi responsabili di tutto
(10
novembre 2012)
“Il questa solitudine, che ciascuno ‘regala’ a
se stesso, si perde i senso del ‘con-essere’ … e la comunità è fratturata sotto
un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole …. sino alla
riduzione al singolo individuo.
[…]
C’è da chiedersi, a questo punto, se tali
degenerazioni non siano insite nella decadenza del pensiero occidentale, come
sostiene Lévinas [Emmanuel
Lévinas, 1905-1995, filosofo francese]. A
suo parere, possono essere evitate non con il semplice richiamo all’altruismo e
alla solidarietà; ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè
ritornando alla impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio
questa partenza dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel
momento fondante di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge,
hanno detto: ‘Faremo e udremo (Es
24,7)’.
Cioè
essi scelsero un’adesione al bene, precedente alla scelta tra bene e male.
Realizzarono così un’idea ‘pratica’ anteriore all’adesione volontaria: l’atto
con il quale essi accettarono la Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e
via della vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del ‘senso’,
l’evento fondante l’instaurarsi di una ‘responsabilità irrecusabile’”.
[Dal
discorso Una sentinella nella notte, pronunciato da Giuseppe Dossetti nel 1994
nell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe Lazzati. Ora in Armando Oberti
(a cura), Lazzati, un cristiano nella
città dell’uomo, Editrice A.V.E., 1996, pag.27]
Una delle caratteristiche dell’esperienza
religiosa cristiana è che essa non nasce da una contrattazione con un dio, per
assicurarsene i favori nelle cose della vita. Non ha quindi molta importanza
sapere che cosa si guadagnerà in concreto avendo fede e che cosa di preciso si
dovrà fare per avere un certo risultato. E, in definitiva, rimangono in secondo
piano anche le stesse questioni dell’esistenza di una controparte soprannaturale, quindi l’argomento “un dio c’è”, e dei prodigi che il
soprannaturale produce nella storia. Questo è paradossale agli occhi dei non
credenti, i quali invece attribuiscono molta rilevanza a tutte quelle cose e,
pensando di scuotere le convinzioni religiose, fanno notare che il
soprannaturale è invisibile, che non si manifesta nel mondo dal momento che le
cose vanno sempre come devono naturalisticamente andare e che tutte le nostre
storie religiose hanno la consistenza di fiabe, per altro neppure costruite in
modo tanto coerente. Non sono questioni che lasciano indifferente la persona di
fede, certamente la fanno soffrire; è scritto ad esempio nei salmi, che sono
parte della Bibbia: i nostri nemici
ridono di noi (Sal 80,7), le lacrime
sono il mio pane giorno e notte / mentre mi dicono sempre: “Dov’è il tuo Dio?”
(Sal 42,4). Ma, in definitiva, l’animo religioso sente di non poter rinunciare
a una certa visione della vita, per una questione che riguarda la giustizia e
che apre il cuore: corro sulla via dei
tuoi comandi / perché hai allargato il mio cuore (Sal 119, 32). Non accetta
la violenza che vede intorno a sé e non sopporta di fuggirne la responsabilità
rispondendo a quella voce interiore che ode in sé con un “Sono forse io il guardiano di mio fratello?” (Gen 4,9). Come
argomentato da Dossetti, sulla linea di Lévinas, la nostra adesione religiosa
al bene precede qualsiasi contrattazione, qualsiasi ragionamento di
convenienza, è assoluta, non dipende in alcun modo dal corso naturale delle
cose (infatti diciamo che ha origine soprannaturale) e per questo non è
smentita dalle sconfitte, nasce da un sentimento molto forte di giustizia che
origina nello stare con gli altri e che è piuttosto duro reprimere.
Quest’ultimo ha a che fare con la felicità umana. Lo avvertiamo in noi, ma
capiamo che non ha fondamento in noi: infatti siamo cresciuti imparando a
conoscerlo, è oggetto di un insegnamento, che il più delle volte abbiamo
ricevuto fin da molto piccoli. E’ un comando interiore, ma non è costrizione:
esso infatti dà gioia e ha storicamente avuto intense espressioni sociali,
tanto da improntare di sé l’Europa fin dal tempi molto antichi. E’ a questo che
ci si riferisce quando si parla di radici
cristiane dell’Europa.
Ci sono altre forme di religiosità? Certamente
sì. Quindi pensare al fenomeno religioso come un qualcosa di unitario, perché “si crede in un dio” è errato. Ciascuna
religione ha un suo specifico, in particolare quelle che hanno avuto una lunga
storia. Ma non è solo questo. Anche all’interno delle singole confessioni, di
ciascuna collettività religiosa esistono molte varianti ammesse. Accade anche
nella Chiesa cattolica, la cui principale caratteristica, nonostante
un’opinione corrente, non è l’uniformità.
Nell’Italia di oggi, oltre alla storica
presenza di Chiese cristiane riformate si è aggiunta, per l’immigrazione,
quella di confessioni dell’ortodossia dell’Europa orientale. Con gli altri
cristiani i cattolici condividono, in misura maggiore o minore, quasi tutto di
ciò che nella nostra concezione religiosa è essenziale.
C’è poi l’ebraismo italiano, una presenza che
è coeva con la diffusione del cristianesimo nella penisola. Dopo oltre
millecinquecento anni di discriminazioni e vere e proprie persecuzioni subite
dagli ebrei da parte dei cristiani, il cui inizio si fa risalire al quarto
secolo della nostra era in concomitanza
con l’affermarsi del
cristianesimo nelle istituzioni dell’impero romano, a partire dal Concilio Vaticano 2° si sono dischiusi ai cattolici i tesori del
pensiero ebraico, che sempre più spesso vengono menzionati dai nostri teologi e
che sono stati divulgati in ambienti più vasti da autori come il Levinas, sopra
citato da Dossetti.
Sempre per via dell’immigrazione, dall’Asia e
dall’Africa, stanno affermandosi anche da noi fedi islamiche, le quali sono
piuttosto distanti dal cristianesimo, pur condividendone alcune storie
religiose.
Ma il
panorama della religiosità in Italia non si esaurisce qui: conviviamo, ad
esempio, con genti che praticano l’induismo, il buddismo e il sikhismo.
Infine, nella nostra Italia sono abbastanza
diffuse credenze di tipo magico, in cui si pensa di poter ottenere vantaggi
soprannaturali nelle cose della vita mediante certe pratiche, in particolare
certi riti. Fedi di questo tipo hanno preceduto e accompagnato il cristianesimo
e quest’ultimo in genere le ha contrastate, anche piuttosto duramente.
Ai tempi nostri appare anche possibile in
concreto un’esistenza umana priva di esplicite convinzioni religiose,
dell’adesione a una confessione istituzionalmente costituita. Su Il Venerdì di Repubblica di questa settimana, Andrea Tarquini,
nell’articolo I senza Dio, riferisce
del fatto che, come scritto dal giornalista polacco Mariusz Szczygiel nel libro
Fatti il tuo paradiso (Nottetempo
editore), solo il 14 % degli abitanti
della Repubblica Ceca si definisce credente
nei sondaggi, questo nonostante che
in quella nazione la vita sociale sia
improntata a forti valori etici. Ma, in definitiva, quel dato non
sorprende perché è tutto sommato in linea con i dati sulla pratica religiosa
nell’Europa del nord, che per altro registra anche valori ancora più bassi.
L’Italia di oggi, con il suo circa 30% di praticanti,
di persone che vanno a Messa la domenica, costituisce in questo una eccezione
(ma la percentuale di coloro che si definiscono genericamente credenti e che mantengono un riferimento
al cristianesimo come religione è molto più alta, superando la maggioranza
assoluta della popolazione).
Dopo il Concilio
Vaticano 2° e a seguito dei principi in esso affermati, possiamo vivere da
cattolici con più serenità l’attuale pluralismo in materia religiosa e
instaurare e mantenere rapporti amichevoli con fedeli di altre religioni e con
persone non religiose. Non è stato sempre cosi, siamone consapevoli.
In particolare, l’iniziativa dell’Anno della Fede, che stiamo vivendo
nella nostra Chiesa, non è stata pensata per contrastare quel pluralismo o per
conseguire una maggiore uniformità nella nostra confessione religiosa. Non c’è
questo nella lettera apostolica di indizione Porta Fidei dell’11 ottobre 2011.
In questo Anno
della Fede siamo stati invece invitati a riflettere, acquisendone maggiore
e più precisa consapevolezza, su ciò che specificamente caratterizza la nostra
esperienza religiosa. Abbiamo infatti la convinzione che il cristianesimo abbia
ancora qualcosa da dire e da fare nel mondo di oggi, che quindi sia
possibile e necessaria una nuova evangelizzazione, a partire
innanzi tutto da una rinnovato impegno pubblico nel quale la professione
religiosa sia concepita e vissuta come un
atto personale ed insieme comunitario.
Poiché è venuto ad avere meno credito nella
società, per il pluralismo di cui dicevo, l’affidamento sacrale nelle autorità
religiose cattoliche, che pure mantengono un ruolo importante come punto di
riferimento etico, e nella dottrina da esse insegnata, sta divenendo più
importante l’azione svolta dai fedeli laici nella società per promuovere valori
in linea con la nostra fede religiosa. Essa è stata finora piuttosto efficace,
consentendo una certa pervasività delle idee religiose nella società,
nonostante la diminuzione delle vocazioni sacerdotali e di quelle religiose. E
lo è stato perché non si è limitata alla mera propaganda religiosa e al proselitismo,
ma ha agito in concreto per
quell’azione di costruzione della città
dell’uomo, di cui parlava Giuseppe Lazzati nei brani che ho citato nei
giorni scorsi. Ognuno ha sicuramente in mente esempi di quello che dico. Questo si è fatto in tempi che, per vari
motivi, non sono stati molto favorevoli allo sviluppo dell’azione propriamente
laicale, tanto che il laicato italiano è stato definito il brutto anatroccolo (in Fulvio De Giorgi, Il brutto anatroccolo, Paoline Editoriale Libri, Saggistica
paoline, 2008, euro 16).
L’Azione Cattolica è da sempre particolarmente
impegnata nel miglioramento della presenza dei laici cattolici nella società
del loro tempo, non tanto con il metodo della contrapposizione, del fare blocco
sociale o del costituire piccole isole
di salvati, ma con quello del farsi evangelicamente lievito o sale per
metaforicamente fare crescere e rendere sapidi in umanità. Una delle ragioni che possono spingere a un
impegno in un gruppo di Azione Cattolica è quella di voler vivere in questo
modo l’impegno di responsabilità religiosa di cui ci si sente partecipi.
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32.2.
Costruire la città dell’uomo
come dovere religioso
(12 novembre 2012)
[…]
APPELLO FINALE
Cattolici
81. Noi scongiuriamo per primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di
sviluppo non meno che altrove, i laici devono assumere come loro compito
specifico il rinnovamento dell'ordine temporale. Se l'ufficio della gerarchia è
quello di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da
seguire in questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e
senza attendere passivamente consegne o direttive, penetrare di spirito
cristiano la mentalità della loro comunità di vita. Sono necessari dei
cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde: essi devono impegnarsi
risolutamente a infondere loro il soffio dello spirito evangelico. Ai Nostri
figli cattolici appartenenti ai paesi più favoriti Noi domandiamo l'apporto
della loro competenza e della loro attiva partecipazione alle organizzazioni
ufficiali o private, civili o religiose, che si dedicano a vincere le
difficoltà delle nazioni in via di sviluppo. Essi avranno senza alcun dubbio a
cuore di essere in prima linea tra coloro che lavorano a tradurre nei fatti una
morale internazionale di giustizia e di equità.
[dall’enciclica Populorum progressio (termini latini.
Traduzione: Lo sviluppo dei popoli),
del papa Paolo 6°, del 1967]
“Considero l’enciclica Populorum progressio, del papa Paolo 6°, pubblicata il 26 marzo
1967, di gran lunga il documento del magistero ecclesiale in materia di
dottrina sociale più coinvolgente ed emozionante. Ad essa si è esplicitamente
collegato il papa Benedetto 16° nell’enciclica Caritas in veritate” [traduzione: l’amore nella verità], del 2009,
un altro testo importantissimo.
Potete leggere la Populorum progressio sul WEB
a questo indirizzo:
Quando fu pubblicata ne sentii
parlare in famiglia, ma ero troppo piccolo (avevo dieci anni) per capirne
l’eccezionale rilevanza. Da adolescente, negli anni ’70, ne vissi gli ideali e
gli sviluppi, ma non mi curai di conoscerla in dettaglio. Solo da
universitario, in FUCI, ne fui come folgorato.
Da allora l’Appello finale che
ho sopra trascritto sta fisso nel mio cuore. Rimpiansi di non aver cercato di
capire meglio l’anziano papa dei miei anni più giovani, che era da poco morto.
Era stato molto criticato, anche tra i suoi. Anch’io avevo avvicinato la sua
figura con un po’ di sufficienza, come spesso usano fare i ragazzi con i molto
anziani, con le persone che appartengono a un altro tempo. Può sembrare strano
oggi, dopo che con il papa Giovanni Paolo 2° ci siamo abituati a folle di
giovani che acclamano il papa. Negli anni ’70 era molto diverso. Fu un’epoca
che parve molto promettente, ma che fu anche tragica, attraversata da conflitti
durissimi e da sconsiderate esagerazioni polemiche. Il papa Montini, fine
intellettuale e profondo conoscitore delle cose del mondo, soffriva. Vedeva la
Chiesa che sembrava sbandarsi, nei contrasti accesi tra rivoluzionari e
conservatori. Intuiva meglio di altri le gravissime conseguenze che potevano
derivare dall’affermarsi di ideologie che svalutavano la famiglia come fonte di
relazioni amorevoli. Nello stesso tempo resisteva a chi proponeva di cancellare
o di neutralizzare l’aggiornamento ordinato dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Il dolore interiore che
traspariva dalla sua figura fu scambiato per incertezza dai conservatori. I
rivoluzionari videro in lui un ostacolo al progresso. Eppure egli fu il papa
della Populorum progressio. Si
pensava che fosse un uomo del passato, di un altro tempo: egli fu effettivamente
uomo di un altro tempo, ma del tempo futuro, di questo nostro tempo che stiamo
vivendo. Il gigantesco riequilibrio a livello globale tra popoli un tempo
poveri e i popoli più ricchi, che caratterizza la nostra epoca, è infatti la
manifestazione ancora travagliata e minacciata di un nuovo ordine mondiale che
potrebbe realizzare su scala globale l’era di pace sperimentata da noi europei
dalla fine della Seconda guerra mondiale. Come per ogni cosa umana questo
movimento è suscettibile di regressi e di mutamenti di direzione. La Populorum
progressio ci insegna che è nostro dovere
religioso intervenire nella sua storia per evitare che le cose si mettano
male.
Costruiamo sulle parole di Paolo 2° una
preghiera, una specie di salmo:
Noi laici rispondiamo all’appello:
assumeremo come nostro compito
specifico il rinnovamento dell'ordine
temporale;
di nostra libera iniziativa e
senza attendere passivamente consegne o direttive, al fine di penetrare di spirito cristiano la mentalità delle nostre
comunità di vita.
Promuoveremo cambiamenti e
le indispensabili delle riforme profonde;
ci impegneremo risolutamente ad
infondere in essi il soffio dello spirito evangelico.
Porremo la nostra competenza nella nostra attiva partecipazione, in prima linea, alle organizzazioni
ufficiali o private, civili o religiose che si dedicano a tradurre
nei fatti una morale internazionale di giustizia e di equità.
Oggi in genere c’è scarsa consapevolezza della
storia ecclesiale che precede quella del papa regnante. E’ come se la morte di
un papa chiudesse un’era.
Quando morì il papa Paolo 6°, il mio zio
professore di Bologna, Achille Ardigò, mi portò su Ponte Sisto, qui a Roma, che
allora era sovrastato da strutture metalliche, delle passerelle pedonali
costruite nell’Ottocento, e, guardando il “Cupolone” mi disse proprio così “E’ la fine di un’era; ogni morte di papa chiude un’era nella storia
della Chiesa”. Con una chiave incise sul parapetto metallico della
passerella la frase “E’ la fine di un’era”,
perché, ogni volta che sarei passato di lì, mi ricordassi di questo concetto.
Ma, circa vent’anni dopo, le passerelle metalliche vennero levate e con esse
anche quella frase, che tuttavia mi porto dentro molto chiaramente.
La Populorum
progressio non è una legge della
Chiesa, ma un documento del magistero ecclesiale e contiene insegnamenti
particolarmente autorevoli provenendo da un papa. Quel magistero non è stato
mai revocato; è quindi ancora attuale e vive nella Chiesa di oggi in vari modi.
Quell’enciclica liberò forze potenti nella nostra Chiesa a livello mondiale. In
un certo senso costituì una sorta di ordine di esecuzione dei deliberati
conciliari. Essa conteneva un appello ai popoli della Terra che non aveva
precedenti, in quanto diretto a suscitare a partire da essi stessi un movimento
mondiale per la realizzazione nelle società civili di una pace fondata sulla
giustizia. In particolare esso coinvolgeva i laici cattolici, con una
grandissima apertura di credito nei loro confronti, chiamati ad agire nella
storia senza attendere consegne o direttive dal clero.
In Italia una delle conseguenze più importanti
di quell’appello fu il fondamentale convegno ecclesiale nazionale tenuto a Roma
nel 1976 sul tema Evangelizzazione e
promozione umana, preceduto da una lunga fase di preparazione in cui tutto
il laicato italiano fu coinvolto. Dalla fine degli anni ’60 i concetti di promozione umana e di liberazione cominciarono ad essere
affiancati a quello di evangelizzazione,
nello spirito della Populorum progressio.
Questo segnò una discontinuità nella storia dell’impegno nella storia dei
fedeli laici italiani. In precedenza infatti essi erano stati prevalentemente
chiamati a un attivismo pubblico in difesa dell’organizzazione del clero, in
particolare in difesa delle prerogative dei papi, dei vescovi, dei sacerdoti,
degli istituti religiosi e per la tutela del patrimonio della Chiesa, ancora
imponente pur dopo le spoliazioni conseguenti all’unità nazionale dell’Italia,
in cui il papato era stato tra le monarchie italiane sconfitte.
Riassumendo molto, si può dire che, a partire
dalla Populorum progressio, l’azione
per la realizzazione della giustizia sociale venne considerata una forma di
evangelizzazione e, anzi, la più efficace tra esse. Si noti, per avere un’idea
della cosa, che l’introduzione di quell’enciclica aveva come titolo: “La questione sociale è oggi mondiale”.
Cercando di dare una valutazione complessiva
agli sviluppi della storia ecclesiale negli anni ’70 si deve riconoscere che
questa nuova prospettiva non entusiasmò la gran parte dei fedeli cattolici
italiani, anche indubbiamente produsse movimenti di tipo nuovo centrati
sull’idea di azione sociale per la promozione umana, in particolare per
l’elevazione degli ultimi, e della conversione
religiosa come esperienza di liberazione. Non si riuscì veramente a cogliere il
nesso tra religione e azione sociale diretta a rimuovere e sostituire strutture
sociali ingiuste. Non si trattò (solo) di resistenze nella gerarchia ecclesiale
locale, ma di una incomprensione molto più radicata e diffusa. Si possono
individuare diverse cause di questo.
La prima, a mio avviso, per quello che
ricordo, fu l’impreparazione del laicato italiano, del quale negli anni ’70
iniziai anch’io ad essere parte attiva. Ricordo che da ragazzo, pur militando
negli scout cattolici, in cui quelle nuove idee circolavano molto, conoscevo
poco della Bibbia, della storia della Chiesa e dei concetti teologici
fondamentali. Per me Chiesa significava liturgie e Sacramenti, i sacerdoti
della parrocchia e il papa.
Una seconda causa è che i cattolici italiani
erano stati storicamente abituati, a volte sotto minaccia di esclusione
ecclesiale, a dipendere molto dalle direttive dei papi.
Infine c’era il fatto che la democrazia
italiana, che costituiva anche, indirettamente, un presidio per
l’organizzazione del clero, era fondata sull’unità politica dei cattolici nella
Democrazia Cristiana. Per realizzarla si era dovuto centrare l’impegno politico
sull’interclassismo, del resto sulla base degli insegnamenti della dottrina sociale
della Chiesa risalente all’Ottocento; tuttavia sulla via della realizzazione
della giustizia sociale emergevano conflitti sociali che contrastavano con
quell’obiettivo. Essi inoltre erano stati storicamente il terreno dell’impegno
politico delle forze socialiste, le quali, benché nell’Ottocento avessero
sviluppato punti di contatto con l’azione sociale dei cattolici, già in quel
secolo ma soprattutto a partire dalla rivoluzione sovietica in Russia erano
state considerate dalla gerarchia cattolica come avversarie della Chiesa.
Nell’Italia degli anni Sessanta, essere cattolici significava nella maggior
parte dei casi votare democristiano per dovere religioso. La conseguenza era
che, se ad un certo punto, per motivi anche religiosi, si era insoddisfatti della
politica democristiana, si era tentati dall’abbandonare la Chiesa. Bisogna dire
che a questa conseguenza si era tentato di rimediare, intuendo con lucidità i
possibili sviluppi storici del Concilio
Vaticano 2°, durante la presidenza nazionale dell’Azione Cattolica di
Vittorio Bachelet (1964-1973). In quegli anni, in cui l’Azione Cattolica era
ancora molto forte e diffusa sul territorio, radunando la gran parte del
laicato italiano, si cercò di sciogliere il legame di collateralismo tra
l’organizzazione religiosa del laicato italiano e l’organizzazione politica
della Democrazia Cristiana, centrando l’impegno religioso sulla formazione
delle coscienze e rendendo in tal modo legittimi impegni politici su diversi
fronti senza che ne fosse pregiudicata l’appartenenza ecclesiale. I tempi erano
tuttavia prematuri. Solo dopo la fine dell’Unione Sovietica, a partire quindi
dal 1991, si produsse una situazione simile. In quegli anni si era però già
realizzata nella nostra Chiesa la svolta impressa dal papa Giovanni Paolo 2°.
Diciamo che con lui l’impegno laicale tornò ad essere molto centrato sulla
figura del papa. Il papa Giovanni Paolo 2° ripropose sostanzialmente il modello
di impegno storico laicale che era stato sperimentato nella sua Polonia, nel
duro confronto con il regime comunista che all’epoca dominava quella nazione.
In esso era vista con un certo sospetto l’autonoma azione laicale finalizzata
alla realizzazione della giustizia sociale, in particolare in Occidente, in
Europa e nell’America latina. In quanto essa tendeva ad entrare in polemica con
i regimi democratici dai quali l’Est Europeo attendeva un aiuto per la propria
liberazione dal giogo sovietico, veniva vista come oggettivamente
controproducente, quando non realmente influenzata dagli storici avversari
della Chiesa.
Noi oggi viviamo in un’era diversa. Conosciamo
bene i profondi legami di stima, amicizia e collaborazione tra il papa Giovanni
Paolo 2° e l’attuale papa Benedetto 16°. E tuttavia mi pare che, nonostante
superficiali considerazioni correnti, l’attuale papato abbia una sua
particolare caratterizzazione, che, in particolare, ha portato a riaprire via
che sembravano abbandonate. Ad esempio, nell’enciclica Caritas in veritate (2009)
si legge:
esprimo la mia convinzione che
la Populorum progressio merita di essere considerata come « la Rerum novarum
dell'epoca contemporanea », che illumina il cammino dell'umanità in via di
unificazione.
Potete leggere l’enciclica Caritas in veritate sul WEB
all’indirizzo:
E’ ridiventato quindi di stretta attualità
l’appello che il papa Paolo 6° rivolse al mondo, e innanzi tutto ai laici
cattolici. Esso riguarda anche noi, del piccolo gruppo di Azione Cattolica in
San Clemente papa. Anche noi infatti abbiamo la possibilità di fare qualcosa,
nei settori di vita sociale in cui siamo inseriti, ad esempio nella famiglia e
nel lavoro, e quindi dobbiamo acquisire consapevolezza della relativa
responsabilità religiosa. La Caritas in
veritate ci mette però in guardia:
il nostro impegno per la giustizia sociale non deve essere velleitario, deve
collegarsi sapientemente con i principi di fede. Innanzi tutto, quindi, bisogna
conoscerli meglio. Ecco quindi il senso dell’iniziativa in corso dell’Anno della Fede.
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33.
Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò che di
vitale si è ricevuto dal passato
(14
novembre 2012)
Marco Ivaldo, in un breve saggio dal titolo Lazzati, il Movimento laureati e il MEIC
inserito nell’omonimo fascicolo n.15 di Dossier
Lazzati, Editrice A.V.E., 1998, € 6,00 (attualmente disponibile in
commercio), scrive, riferendosi a un discorso tenuto da Giuseppe Lazzati il 7
dicembre 1968 nell’Auditorio di palazzo Pio in Roma e pubblicato sul mensile Coscienza del Movimento laureati di A.C. lo steso anno:
Traspaiono da questo testo il travaglio di quegli anni, ardui ma
fecondi, le trasformazioni del costume, la crisi del quadro politico degli anni
Sessanta, la complessa ricezione del Concilio nelle comunità ecclesiali, la
ricerca di nuove forme dell’apostolato dei laici, l’itinerario di ridefinizione
dell’Azione Cattolica Italiana con il nuovo statuto. Lazzati non sfugge a
questa problematica. Un’ampia parte del suo discorso è volta a riprendere
esauriente e concreta memoria dei “valori del passato”. Ma poi egli osserva:
“Non possiamo nasconderci le
difficoltà innanzi alle quali l’Azione
Cattolica si è trovata e si trova in
questa situazione; talora è sembrato che fosse sopraffatta da altri tipi di
azione, forse più appariscenti o passibili di più definite misure; la
tentazione dell’efficienza immediata l’attira; un certo senso di vera e propria
crisi ha pervaso strati più o meno ampi dei suoi aderenti e l’ha condotta a
quel ripensamento di se stessa, dei propri metodi di formazione e di azione,
dal quale dovrebbe uscire sofferto ma vivo, semplice e dinamico il suo nuovo
statuto [che fu approvato nel 1969 – nota mia]. L’ispirazione idonea, l’atteggiamento giusto
per affrontare la situazione che allora si delineava Lazzati invita a trovarli
in una celebre espressione di un sermone di Ambrogio, il “De paradiso” [latino.
Trad. “Sul paradiso – nota mia], dove il
padre e dottore della Chiesa sostiene che il compito del cristiano è “nova
sempre quaerere et parta custodire” [latino. Traduzione libera mia:
“Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato].
Bisogna “aprirsi al nuovo senza timori e
rimpianti” e insieme occorre mantenere “fedeltà ai valori che hanno costituito
la trama” della storia dell’Azione Cattolica e hanno “data la misura della sua
validità”. Non è lecita la “pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è
stato”, ma la “smania del nuovo” non deve “prendere il sopravvento sull’amore
del vero e la ricerca di ciò che vale”.
Cari amici del gruppo parrocchiale di Azione Cattolica in San Clemente
papa e cari altri amici che avete occasione di leggere queste parole, oggi vi
voglio parlare di questioni associative, che però sono legate ad argomenti più
vasti.
Quando,
verso la fine degli anni ’70, entrai nel gruppo FUCI di Roma che si riuniva a
piazza S.Apollinare, eravamo una ventina di universitari, ma ci sentivamo
pronti a conquistare in mondo. Quando il cardinal vicario Poletti ci disse che
eravamo i suoi occhi e le sue orecchie nel mondo universitario, non fummo
colpiti dalla sproporzione di forze, dall’essere noi una percentuale minima
degli oltre centomila studenti romani. Nel nostro gruppo siamo di più dei miei fucini di allora, ma ci sentiamo un po’
in crisi. Non è così? Passando una volta per i corridoi della parrocchia, ci ho
sentiti definire gruppo anziani. E’
chiaro che può parlare così solo chi non ci conosce bene. Però è vero che
esteriormente possiamo talvolta sembrare effettivamente un gruppo anziani.
Persone più giovani ci sono, ma sono in minoranza. A volte non vengono alle
riunioni del martedì perché impegnate sul lavoro o negli studi. Io stesso non
di rado faccio fatica ad essere in parrocchia alle cinque del pomeriggio, dopo
il lavoro in ufficio, e a volte non ci sono riuscito. Questa carenza di persone
più giovani incide abbastanza anche sul lavoro che ci proponiamo di fare in
Azione Cattolica, anche qui a Monte Sacro – Valli. Mancano infatti molti
stimoli al rinnovamento, che come sosteneva Lazzati sulla linea di S. Ambrogio,
è uno dei compiti propri di noi laici. Ma non è forse vero che anche l’altro
compito, quello di custodire, ci
appassiona di meno? Si va un po’ a memoria, ma la memoria degli anziani
comincia a fare difetto e non si ha tanta voglia di rinfrescarla. Perché è
quando si è chiamati a comunicare qualche
cosa alle persone più giovani che si ripensa più validamente al passato: questo
è un fatto naturale e noi siamo esseri naturali. Ma gli esseri umani sono
capaci anche di uno sguardo soprannaturale. E’ ad esso che ho chiamato le mie
figlie universitarie quando ho proposto loro di aderire al nostro gruppo di
A.C. . Non dobbiamo fidarci delle apparenze: dobbiamo essere capaci di intuire
l’anima negli altri. Questo è un esercizio fondamentale dell’esperienza
religiosa: andare oltre ciò che appare. E le vostre anime, cari amici del
gruppo, sono belle e parlano dei ragazzi e delle ragazze che eravate e che
interiormente ancora siete. Che soddisfazione sentire i più anziani parlare
delle loro esperienze di A.C. in un mondo di molti anni fa, tanto diverso, e per molti versi più
difficile, del nostro di oggi! Un’A.C.
indomita quella loro di un tempo, il cui ardore e il cui attivismo traspare ancora in certe prese di posizione nei discorsi
che si fanno nelle nostre riunioni. Cose che certamente non ci si aspetta in un
gruppo anziani. Ma direi di più: cose che oggi non ci si aspetta neppure dai
giovani. Come mi riferiscono le mie figlie, oggi gli universitari sono spesso
dei conservatori per sfiducia nel cambiamento, non si aspettano nulla di buono
dal futuro. Del resto non è quello che
nei giornali e in televisione si dice sempre loro? Paradossalmente, allora, è
proprio dalla memoria del passato che possono venire stimoli per il
rinnovamento, quello personale e quello della società in cui viviamo.
Pensare
religiosamente la storia ha questo di confortante: non è legato a tempi
precisi, a scadenze inesorabili. Possiamo, religiosamente, curare certi
dettagli, così come certe preghiere vengono recitate molto lentamente, con il
ritmo della vita che scorre in noi, con il ritmo del respiro come insegnavano
alcuni maestri di spiritualità monacale. E non si è nemmeno legati molto
all’attualità, ai titoli di testa dei giornali e dei telegiornali. Possiamo
dedicare molto tempo a fatti minimi, così come i monaci a volte dedicano molto
del tempo non impegnato nelle liturgie
alla cura paziente e minuziosa di una pianta o ad altre faccende minime o che richiedono grande
applicazione per un risultato che verrà magari oltre la loro vita personale.
Facciamolo, però! E’ esperienza comune dei più anziani che i giorni corrano via
più velocemente e che quindi giunga sempre, presto, la sera. Si finisce allora per sdormicchiare molto, lo
ha scritto Carlo Maria Martini in uno dei suoi ultimi libri di spiritualità, Qualcosa così personale, Mondadori, 2009, € 17,50. In
questo Anno della Fede ci viene un
appello forte a scuoterci, a rinnovarci, ripensando, e innanzi tutto motivando
meglio, i nostri ideali religiosi. Poi ci viene chiesto un impegno pubblico che può cominciare, ad esempio,
da questo (del resto siamo persone religiose): pregare perché persone più
giovani partecipino di quegli ideali e ci aiutino, nel nostro gruppo, stando
insieme a noi, a rinnovarci custodendo ciò che del passato merita di essere
conservato. E poi pregare perché, attingendo ai tesori del passato, anche agli
aspetti preziosi delle nostre vite, si abbia qualcosa da comunicare ai più
giovani. Non si costruisce dal nulla: i più anziani, in quanto religiosi
custodi del passato migliore e fedeli memori di quello peggiore, hanno anche,
in un certo senso, il segreto per costruire un futuro all’altezza dei nostri
grandi ideali.
Non è lecita la pigrizia, fatta anche solo
di amore per ciò che è stato, riteneva Lazzati ed è sorprendente che questa
sua convinzione sia rimasta fortissima anche tra i membri più anziani del
nostro gruppo. E questo è ancora più sorprendente tenendo conto
dell’orientamento generalmente un po’ più nostalgico del passato degli anziani
del quartiere.
Trattare le cose temporali per ordinarle
secondo Dio: questo il compito di cui religiosamente dobbiamo prendere
consapevolezza. Si tratta di un impegno veramente smisurato, come tutto ciò che
riguarda Dio. E’ chiaro che sarebbe anche sproporzionato alle nostre forze se
non confidassimo anche in un sostegno soprannaturale, innanzi tutto per la
rigenerazione del nostro gruppo. La dobbiamo desiderare con molta
determinazione e pregare molto perché essa si compia.
L’efficacia storica della nostra azione
dipende dai contatti che riusciamo a stabilire con la società del nostro tempo
e quindi dalla nostra capacità di influire su di essa. Serve gente. Ora, nel
nostro lavoro natura e sopranatura sono strettamente commiste, dunque non si fa
affidamento solo sull’elemento naturale, quindi sulle nostre sole forze umane, ma esse comunque contano e
devono esserci, è legge di natura questa, il mondo è stato creato così: i
nostri grandi ideali, che servono ancora al mondo di oggi, sono incarnati in
noi e hanno bisogno di nuova umanità per continuare a pervadere la società,
perché noi, ad un certo momento, finiremo.
La
caratteristica del nostro atteggiamento verso i più giovani deve avere, a mio
parere, questa caratteristica, conformemente al metodo praticato in Azione
Cattolica: non cerchiamo nuove forze per indottrinarle
o per cambiare le loro vite. Noi non
abbiamo infatti la ricetta della felicità per i più giovani. Essi la devono
inventare da se stessi. Noi abbiamo una ispirazione ideale e siamo custodi di
una tradizione di fede che ci spinge avanti,
in un incessante rinnovamento.
Insieme ai più giovani vorremmo quindi ideare e attuare il nuovo che necessita
al mondo di oggi, secondo quell’ispirazione.
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34
La fede fa scandalo?
(16
novembre 2012)
In molti casi l’ostacolo alla fede è
costituito da una situazione di scandalo, o voluta falsamente, ad esempio
falsità diffuse contro la Chiesa e i cristiani;
o per fatti reali. Non crediamo di aiutare i lontani nascondendo o
negando la verità. Se si tratta di errori
storici ristabilire la verità; ma se c’è un autentico scandalo bisogna
avere il coraggio di riconoscerlo e di far capire che la fede non consiste nel
negare lo scandalo; ma far comprendere che lo scandalo è un motivo di più per
credere in quel Dio che supera l’ostacolo rappresentato dalle deficienze e
dagli scandali degli uomini, siano essi laici o uomini di Chiesa o anche Papi
da Per
la catechesi ai lontani, articolo di Giuseppe Lazzati, pubblicato nel 1967
su mensile del Movimento laureati e
ora nel fascicolo n.15 di Dossier Lazzati,
“Lazzati, il Movimento Laureati e il Meic,
Editrice A.V.E, 1998, € 6,00]
Verso la fine degli scorsi anni ’60, quando
Lazzati scrisse le frasi che ho citato, costituiva un ostacolo alla vita di
fede pensare che nella Chiesa c’erano stati tanti cattivi esempi, anche da
parte di capi religiosi, e che i cristiani si erano resi responsabili
collettivamente di fatti efferati, come guerre, persecuzioni, schiavismo,
predazione delle terre e dei beni di altri popoli e delle loro stesse vite e altro.
Ai tempi nostri mi pare che nel nostro popolo la religione sia meno apprezzata
più che altro perché sembra che sia inutile
nelle faccende della propria vita. Le cose sembrano sempre andare come devono,
come ci si aspetta che vadano secondo natura, e non cambia nulla se uno è religioso o non lo è. I forti
vincono e i deboli perdono, così è sempre stato, si pensa. Forse però, si
argomenta, non è la religione, in generale, a non andare, ma è la religione
cristiana e, in particolare, la sua versione cattolica, così ragionevole, così poco aperta al
prodigio nella vita di tutti i giorni (quanto ci mette, si osserva, a
riconoscere un miracolo o un’apparizione soprannaturale!). In definitiva, si
pensa, la dottrina cattolica sembra
volerci convincere di doverci rassegnare
a ciò che accade: quindi per ora si deve cedere al male prevalente e lasciarsi
schiacciare, poi, in un’altra
dimensione però, avremo il premio. C’è chi allora si affida ad altre versioni
religiose o varianti della fede cristiana, che danno più soddisfazioni sotto
quei profili. Ma c’è anche chi decide di fare a meno del tutto della religione
e si costruisce allora un’etica individuale e collettiva che si basa sul tipo
di società in cui si sente meglio inserito, ottenendone poi un riconoscimento
appagante, come persona buona, onesta.
L’atteggiamento di chi si lascia alle spalle
la religione, che spesso è quella appresa in famiglia e nelle comunità di
riferimento, come può essere un paese, con le sue feste e le sue costumanze,
anche alimentari, può dispiacere, ma noi, nel lavoro che abbiamo in mente per
recuperare coloro che sono diventati i lontani,
siamo piuttosto vincolati dai nostri principi di fede, da quella che crediamo
essere la verità sul mondo intorno a noi e sul soprannaturale.
Non possiamo quindi approfittare di quella sorta di disposizione della gente a
credere nell’azione soprannaturale, nel miracolo,
che confina abbastanza con la credulità e inventarci
delle storie consolanti ma ingannevoli. Non possiamo dare alla gente quello che
in fondo essa ci chiede: la religione che mette a posto le cose della vita, che
risana tutte le malattie, che allontana la morte, che salva il rapporto con il
coniuge e i figli, che fa trovare o mantiene il lavoro, che ci fa tornare sani
e salvi a casa la sera dopo aver circolato per la città, e cose simili. Né possiamo promettere che essendo buoni,
partecipando diligentemente alle liturgie e pregando molto le cose cambieranno,
che tutti i problemi si risolveranno. Non è questo che ci è stato insegnato in
religione. Ricordate?: ora e nell’ora
della nostra morte… Quando mai ci hanno detto che alle persone religiose
sarebbe andato tutto bene in questa vita?
E io francamente non mi sento nemmeno di proporre, ai sofferenti, l’idea
che il male che capita loro è in realtà il loro bene, anche se essi, proprio
perché non abbastanza religiosi, non riescono a capirlo. Il male rimane male:
poi si può riuscire a dargli un senso
religioso e allora, come è accaduto in certe vite di santi, si può
addirittura ad avere una confidenza con esso che libera dalla paura o giungere
a desiderarlo perché si pensa che attraverso di esso si partecipi alla
redenzione dell’umanità intera, a una grande opera di salvazione. Ed è questo
lo stesso atteggiamento di chi in guerra compie un’azione eroica, altruistica,
a costo della propria vita. Ma si tratta, è chiaro, di una cosa molto diversa
da chi semplicemente tenta di voltare la
frittata e dice sbrigativamente che il
male sofferto (da un altro) è bene per il sofferente, e chi non lo capisce
non ha fede (aggiungendo così sofferenza a sofferenza, alla sofferenza della
vita quella del rimprovero religioso), ottenendo da parte di chi soffre un
sentimento interiore di rivolta che è umanamente del tutto comprensibile.
Come fare allora? Direi che potremmo farne
argomento di dibattito tra noi. Che cosa
rispondere all’argomento Dio è
inutile? E’ qualcosa di più forte
della considerazione Dio non c’è, che noi risolviamo
obiettando che in realtà Dio non si vede,
ma opera: e quest’ultima è una considerazione pacifica nel pensiero
biblico, mi pare di aver capito.
Lo
scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio, scrisse Lazzati nel
1967. Per me è proprio così. Mi pare
così assurda e inaccettabile un’esistenza senza Dio, dominata dalla cieca
violenza delle cose e degli esseri viventi, senza amore-agape, quello che raccoglie pacificamente intorno alla tavola
comune per un bel pasto che nutre e dà gioia, che contro l’idea di una vita
così sento di dovermi rivoltare e proprio da questa rivolta nasce la mia
religiosità. Ma penso che negli altri vi siano tanti altri motivi per i quali
la fede religiosa è diventata l’aspetto fondamentale della loro vita. In questo
Anno della Fede siamo chiamati ad
approfondire questi argomenti, a riscoprire le ragioni del nostro atto di fede.
Chissà che questo possa anche servire ad aiutare coloro che sentiamo lontani in certe loro difficoltà
religiose, quelle che riguardano l’inutilità
di Dio, le quali, in fondo, possono anche scaturire da un certo pessimismo
sulla storia umana e quindi non
riguardare tanto il soprannaturale ma il mondo quaggiù. Poiché la storia umana
è lo specifico campo d’azione di noi laici cattolici, direi che è proprio un
lavoro per noi.
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35
Fede e promozione umana
(19-11-12)
Il
moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini costituisce uno degli aspetti più
importanti del mondo di oggi, al cui sviluppo molto contribuisce il progresso
tecnico contemporaneo.
Tuttavia il fraterno dialogo tra gli
uomini non trova il suo compimento in tale progresso, ma più profondamente
nella comunità delle persone, e questa esige un reciproco rispetto della loro
piena dignità spirituale. La Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla
promozione di questa comunione tra persone; nello stesso tempo ci guida ad un
approfondimento delle leggi che regolano la vita sociale, scritte dal Creatore
nella natura spirituale e morale dell'uomo.
[dalla
Costituzione pastorale Gaudium et spes (latino.Trad.:La gioia e la speranza) sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo, del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), n. 23]
Come ho già scritto, per il metodo seguito nel
redigerli, non è facile cogliere con immediatezza le novità nel documenti del Concilio Vaticano 2°, denominati costituzioni, decreti e dichiarazioni secondo un criterio che tenne conto della forza
normativa che si volle attribuire loro, dal punto di vista giuridico e quindi
nelle loro reciproche relazioni e nelle relazioni con altri atti normativi
della Chiesa, e delle finalità pratiche che con essi si volevano realizzare.
Essi infatti furono scritti in linguaggio teologico e la teologia, in
particolare quella cattolica, tende a mettere in risalto la continuità, piuttosto che a esaltare le
novità. E, quando novità ci sono, esse in genere sono presentate come sviluppo o riscoperta di
qualcosa che già c’era prima. Questo modo di procedere è necessario per valutare se il nuovo che si
propone è conforme al deposito di fede
che abbiamo ricevuto dalle origini. Ma non si tratta solo di questo. Si tratta
di capire, nelle varie manifestazioni storiche della nostra fede, come tenere tutto insieme, il presente, il
futuro e il passato, i vivi e i morti, tutti i popoli della terra, secondo il
comandamento religioso ricevuto: ristabilire
l’unità del genere umano. La teologia è riflessione sulla fede comune, nei
suoi fondamenti e nelle sue manifestazioni storiche, compresi anche agli atti
normativi di coloro che nella Chiesa esercitano l’autorità. Ecco perché nei
documenti più importanti del magistero, scritti in linguaggio teologico, quelli
che vogliono essere di orientamento ai fedeli, troviamo tanti riferimenti alla
Bibbia e al pensiero religioso del
passato. Nei documenti più recenti, dall’Ottocento in poi, troviamo riferimenti
più precisi alla storia del loro tempo, in particolare in quelli che si fanno
rientrare nella materia della dottrina
sociale. Un esempio di ciò che ho detto, di quel particolare metodo
nell’argomentare, si può trovare leggendo un documento fondamentale per la fede
del nostro tempo come l’enciclica Caritas
in veritate, del papa Benedetto 16°.
Vi posso confermare che nei documenti del Concilio Vaticano 2° il nuovo
c’è. Ne ho già trattato in altri miei precedenti interventi, mettendo in
risalto, siatene consapevoli, solo di pillole
di novità, quindi una piccola parte
del nuovo che c’è.
La novità
delle novità può considerarsi innanzi tutto quello che è stato definito il metodo conciliare. Nell’annunciare l’indizione del Concilio
ecumenico, il papa Giovanni 23° disse che avrebbe consultato tutti i vescovi
del mondo, perché il lavoro che ci si proponeva di fare richiedeva di conoscere
i punti di vista e di sfruttare le conoscenze e le capacità di molti. Ora,
bisogna capire che questa intenzione del
papa veniva incontro a un moto molto esteso che già c’era nella Chiesa
cattolica, in tutto il mondo. Il papa Giovanni 23° stesso ne era stato
partecipe e volle darvi voce. Insomma, il Concilio
Vaticano 2° può essere considerato
il culmine di un movimento, che comprendeva, come sempre accade nelle cose
religiose, vita e pensiero. C’erano
state negli anni passati nuove esperienze di vita di fede alle quali erano
corrisposte anche nuove analisi teologiche. In Europa, in particolare, erano state decisivi le riflessioni e i sentimenti indotti negli anni tra le due
guerre mondiali, che avevano visto, oltre al dominio dei totalitarismi fascisti
e nazisti su larga parte del continente,
anche l’affermarsi della rivoluzione sovietica in una nazione di antica
formazione cristiana come la Russia. Essi avevano trovato una sfogo, dal 1945,
con la vittoria sui regimi fascisti e nazisti europei, nell’epopea della
costruzione di una nuova Europa, che si era articolata, con metodi divergenti e
addirittura confliggenti ma con il dichiarato obiettivo comune della giustizia
sociale come fondamento della pace, sia nella parte occidentale, rimasta sotto
l’influsso della nuova potenza globale statunitense, sia nella parte orientale,
finita sotto il dominio sovietico. Questo intenso lavorio collettivo non era
stato solo tecnica: aveva avuto anche
una marcata componente ideale. Ne
possiamo trovare un esempio nella nostra Costituzione, approvata nel dicembre
1947, dopo un anno e mezzo di confronti assembleari di rilevante livello
culturale ed etico, ed entrata in vigore nel 1948. Semplificando molto,
possiamo dire che quel dibattito ideale coinvolse sempre in maggior misura
anche la Chiesa cattolica, fino ad arrivare ai massimi vertici. Sarei grato a
chi, più a conoscenza di questi fatti, volesse approfondire il tema delle
radici lontane del movimento conciliare
e segnalare testi per approfondirlo. Dal mio (limitato) punto di vista credo di
poter consigliare per avere un’idea di ciò che intendo il libro Esperienze pastorali, di Lorenzo Milani,
pubblicato nel 1957, ancora in commercio, edito da Libreria editrice fiorentina, € 18,00.
E’ vero che l’annuncio del papa Giovanni 23°
di voler indire un concilio ecumenico
sorprese i suoi contemporanei, in particolare i cattolici. Non però perché non
si sentisse nel mondo l’esigenza di una cosa simile, ma perché non ci si
aspettava che proprio dal papa romano venisse questa iniziativa. Infatti, fino
ad allora, i papi erano apparsi più preoccupati di porre limiti ai moti
popolari, più che di dar loro strada e occasioni per manifestarsi. Nuovo era
poi il metodo di consultare i vescovi
del mondo, come se a Roma non si avesse già una soluzione pronta per tutti i
problemi di cui si sarebbe discusso. Ora, questa consultazione rea intesa
evidentemente a far emergere quel
movimento che, come ho osservato, già
c’era e invocava cambiamenti. Tuttavia nella prima
fase preparatoria del concilio si ebbe la sorpresa di scoprire che i vescovi
non ne erano in genere consapevoli. Scrisse lo storico Giuseppe Alberigo nella sua preziosa Breve storia del concilio Vaticano II, Società editrice Il Mulino,
2005, € 10,50, ancora in commercio:
Caduta
l’ipotesi di consultare i vescovi con un questionario, il papa fece invitare
ciascuno a indicare i problemi e gli argomenti che il concilio avrebbe
dovuto affrontare. Nei mesi successivi
sono arrivati al Vaticano circa duemila pareri (“vota”) da tutto il mondo. La
maggioranza di questi scritti testimoniava la sorpresa e il disorientamento:
Roma non ordinava, ma chiedeva suggerimenti! Moltissimi hanno auspicato che il
concilio si occupasse di argomenti di modesta portata; ben pochi avevano
orizzonti ampi ed erano assuefatti a prospettive coraggiose.
Tornando alla citazione dalla costituzione
pastorale Gaudium et spes con cui ho
aperto questo intervento, vorrei invitarvi a porre
attenzione a queste espressioni: Il moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini; esige un
reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale; approfondimento
delle leggi che regolano la vita sociale;
la Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di questa comunione tra persone. Ora, tenuto conto di quello che
ho osservato nei miei precedenti interventi sulle caratteristiche ideali delle
democrazie contemporanee, quelle parole della Gaudium et spes, espresse in terminologia teologica, inquadrano il
problema fondamentale dei nostri attuali regimi democratici: una diversa organizzazione della società
basata su nuove relazioni umane scaturite dall’idea di una comune dignità di
tutti gli esseri umani. Mai, prima
d’ora, che io sappia, i popoli, intesi
come comunioni di persone con pari dignità e
non solo come insiemi di sudditi di storici despoti o dinastie, erano venuti ad assumere questo rilievo in un
documento ecclesiale cattolico di quell’importanza. E’ quindi veramente un linguaggio nuovo. Il movimento che si
vuole produrre nei fedeli è analogo a quello dal quale sono scaturite le democrazie contemporanee: la promozione umana, vale a dire l’elevazione
delle masse (infatti non si fa distinzione tra le persone umane), mediante
il riconoscimento di una loro comune dignità,
dalla quale deriva l’esigenza di adeguate leggi,
vale a dire il riconoscimento di diritti
umani fondamentali, per un miglioramento della società (nel documento denominata comunione di persone). Questo lavoro, si dichiara, ha fondamento e
quindi rilievo religioso, essendo compreso nei principi fondamentali della fede
(la Rivelazione).
Quali conseguenze?
Direi innanzi tutto che, come molte altre
affermazioni o auspici dei documenti del Concilio
Vaticano 2°, quel principio stabilito nella breve frase che ho citato
all’inizio merita un approfondimento.
Anche in questo il Concilio Vaticano 2° non è
stato un punto di arrivo ma, in metafora, un apparato propulsore che ha messo un movimento un corpo sociale, la
Chiesa, che sembrava destinata al progressivo declino nel confronto con i tempi
nuovi, per il fatto di rimanere sempre immobile e quindi, nell’avanzare della
storia, sempre più arretrata.
Prendiamo ad esempio questo pensiero, che si
trova a pag.14-15 di Pass-wor(l)d –percorso formativo per gruppi di adulti, Editrice A.V.E., 2012, €
8,00, il sussidio che l’Azione
Cattolica ci propone per la vita associativa:
La virtù
del discernimento è quella qualità che consente di distinguere in ogni
circostanza cosa convenga fare e, ancor prima, che si può e si deve prendere
una decisione senza restare sempre e solo spettatori della propria vita. Perché
questo discernimenti può essere anche comunitario? Perché l’intera comunità di
battezzati e chiamata alla corresponsabilità: ognuno porta la propria
esperienza, i propri talenti, la propria umanità costruita nei luoghi di
partecipazione e di vita, in famiglia, al lavoro a scuola, con uno sguardo
ampio e l’orizzonte dell’intera comunità. Non è una moda, non ha una logica di democrazia, che non ha posto nella Chiesa, ma
la necessità di mettere all’opera tutti i carismi del corpo della Chiesa.
Siamo veramente certi che, nel momento in cui si
richiedono ai laici azioni collettive di promozioni
umane, fondate su un discernimento
comunitario, inteso come distinguere
in ogni circostanza cosa convenga fare, e questo viene considerato loro compito religioso, la democrazia,
nel senso in cui oggi la si intende, non
abbia posto nella Chiesa? Non dico,
ad esempio, per l’elezione di rappresentanti ad un concilio in cui si debba
decidere qualche corollario del dogma trinitario, ma, poniamo, per decidere che
posizione prendere, come comunità di fedeli, quindi collettivamente, nei
confronti di una guerra incipiente, le cui origini risalgano, come sempre
avviene, ad una complicata situazione politica e che, per poter essere sedata,
richiede non solo solenni dichiarazioni ieratiche, ma l’esercizio di una
sapienza e di un’abilità specificamente laicale,
basata su una conoscenza delle dinamiche storiche e una sapienza nel trattarle
che esorbita dal campo specificamente teologico e liturgico.
L’Azione Cattolica si definisce palestra di democrazia, quindi è retta
con metodo democratico, ma naturalmente, pur essendo parte della Chiesa, non
parla a nome della Chiesa. Secondo l’ordinamento delle leggi della Chiesa
possono farlo solo il papa e i vescovi, individualmente o collettivamente, nel
sinodo o nel concilio. Essi tuttavia, sempre più spesso, e anche nella
redazione di importanti documenti del magistero, chiedono la collaborazione di
laici sapienti e tengono conto di ciò che si agita nel corpo ecclesiale, quindi
della storia del loro tempo e delle reazioni che essa suscita tra i fedeli. C’è
quindi un dialogo tra i capi e le loro comunità. Ma queste ultime, come corpi
collettivi, possono esprimere una decisione unitaria veramente affidabile solo
con metodo democratico. E’ lo stesso metodo che è stato utilizzato per formare
e approvare i documenti del Concilio
Vaticano 2°. Per ognuno di essi è riportato il numero di voti favorevoli e
contrari che ha riportato ed è stato approvato il testo votato dalla
maggioranza degli aventi diritto ad esprimersi. Questo anche se poi i documenti
del Concilio Vaticano 2° sono entrati
in vigore in quanto promulgati (approvati,
decretati, stabiliti) dal Papa.
Pongo una questione sulla quale discutere, non
do soluzioni.
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36
Il conflitto come esperienza religiosa
(19
novembre 2012)
Anni fa uscì un film dal titolo Saving private Ryan – Salvate il soldato
Ryan. In esso si racconta di una pattuglia di soldati statunitensi che,
scelta tra i militari sbarcati in Normandia nell’invasione degli eserciti Alleati del giugno 1944, ha avuto la missione
di rintracciare e riportare in patria un soldato semplice americano che aveva
diritto all’esonero, per essere l’ultimo ancora in vita di quattro fratelli
partiti militari per la guerra in Europa. All’inizio c’è una sequenza che mette
in scena lo sbarco su una spiaggia della
Normandia dei componenti di quella pattuglia. Di fronte alla violenza estrema e
alla morte tutt’intorno vengono presentati vari atteggiamenti religiosi dei
soldati americani. C’è che invoca la Madonna, chi recita il Padre nostro e c’è
un tiratore scelto che, nel prendere la mira pronuncia le parole dell’inizio
del salmo 144:
Benedetto il Signore, mia roccia,
che addestra le mie mani alla guerra,
le mie dita alla battaglia,
e poi,
pam!, spara e colpisce il nemico.
Nel
vedere questa scena, le parole del salmo in bocca a una combattente che sta per
uccidere mi hanno colpito, eppure indubbiamente erano appropriate alla
situazione.
La nostra Chiesa nel corso della storia è rimasta molto spesso coinvolta direttamente
o indirettamente in eventi bellici. Ricordo, tra i molti episodi storici, la
sanguinosissima guerra combattuta da una federazione di stati cristiani,
coalizzati sotto le insegne pontificie (era Papa Paolo 5°), contro l’impero
Ottomano, nel Cinquecento e culminata
con la battaglia navale davanti a Lepanto
(1571 – Lepanto si trova nella Grecia occidentale). In
genere non vi ha trovato difficoltà, almeno fino agli anni della Prima
Guerra Mondiale (1914-1918).
Si ricorda in merito la Lettera del Santo Padre Benedetto 15° ai capi dei popoli belligeranti
(1917)
Chi ha seguito l'opera Nostra per tutto il
doloroso triennio che ora si chiude, ha potuto riconoscere che come Noi fummo
sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di beneficenza, così non
cessammo dall'esortare e popoli e Governi belligeranti a tornare fratelli,
quantunque non sempre sia stato reso pubblico ciò che Noi facemmo a questo
nobilissimo intento.
[…]
In sì
angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire
politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti
belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre
comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la
Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione,
alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene
in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci sulle generali, come le
circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più
concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi
sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace
giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e
completarli.
E
primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza
materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di
tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e
garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento
dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi,
l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e
norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o
di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la
decisione.
Stabilito
così l'impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei
popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe
molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di
progresso.
[…]
Quanto
ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale
di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai beneficai
immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di
tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche
caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed
equità.
Sono queste le precipue basi
sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali
da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la
soluzione della questione economica, così importante per l'avvenire e pel
benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel presentarle pertanto a
Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo
animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così
quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage.
Un episodio significativo del cambiamento di
mentalità si ebbe quando il papa Paolo 6° incaricò l’internunzio apostolico mons.Francesco Lardone di
restituire al governo della Turchia, in persona del ministro degli esteri, lo
stendardo dell’ammiraglio Muezzinzad Alì Pascià catturato agli ottomani durante
quella battaglia che era conservato in Vaticano, consegna che fu eseguita il
5-3-1965 ad Ankara – Turchia. Ecco come il Papa, il 19-1- 1967, descrisse le
intenzioni di quel gesto in una lettera al nuovo ambasciatore della Turchia
presso la Santa Sede:
Sotto il pontificato del Nostro predecessore Giovanni XXIII, avevamo
appreso con viva soddisfazione che si stabilivano le relazioni diplomatiche tra
la Sede Apostolica e il Suo Paese, e questo aveva incontrato la Nostra piena approvazione.
Tali relazioni sembra a Noi che fino ad oggi si siano sviluppate in
un’atmosfera di reciproca comprensione e di amicizia; e non possiamo che
congratularcene, mentre ne è una nuova conferma la recente elevazione del
Delegato, poi Internunzio in Turchia, al rango di Pro-Nunzio Apostolico.
Poiché
Noi stessi desideravamo manifestare in qualche modo i Nostri sentimenti, con un
gesto che potesse essere gradito alle Autorità della Turchia contemporanea, è
stata per Noi una gioia restituire un antico stendardo, preso al tempo della
battaglia di Lepanto, che, da allora, si conservava nelle collezioni del
Vaticano.
Questo
Le dice, Signor Ambasciatore, quali siano le disposizioni che Ci animano nei
riguardi della Sua grande e bella Nazione. Crediamo di poterle garantire che i
membri della Chiesa Cattolica, che abitano sul Suo territorio, professano la
fedeltà più sincera alle Autorità del Paese. Se la Chiesa si preoccupa che i
Poteri civili riconoscano sempre ai suoi figli i loro diritti e ne assicurino la
piena libertà di azione, Essa non intende certamente sminuirne gli obblighi di
cittadini e di sudditi. Anzi, la fede ch’essi professano impone loro il dovere
di non essere secondi a nessuno in tutto ciò che riguarda l’attaccamento alla
Patria, e il giusto rispetto, dovuto alle legittime Autorità.
Nelle epoche che hanno preceduto la Prima
guerra mondiale, i conflitti bellici venivano considerati facenti parte della
natura dell’umanità, in quanto degradata dal peccato e bisognosa di redenzione,
cose inevitabili come la morte stessa e destinate ad essere superate alla fine
dei tempi. Ancora nell’Ottocento il papato impegnò propri eserciti in guerre
italiane (Prima guerra d’Indipendenza – 1848/1849; difesa di Roma nel 1848 e
nel 1870). Successivamente si orientò per una posizione di neutralità, almeno
fino al 1944 (Radiomessaggio natalizio di Pio 12°). Nel corso della
contrapposizione tra blocco delle potenze influenzate dagli Stati Uniti
d’America e il blocco influenzato dai sovietici parteggiò per il primo. Nel
1968 il cardinal Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, si dimise dopo le
polemiche causate da una sua presa di posizione contro il bombardamenti
statunitensi in Vietnam (fonte: Lorenzo Bedeschi, Il cardinale destituito, Gribaudi, 1968 – titolo non più in
commercio). Dopo la fine dell’Unione Sovietica e della contrapposizione per
blocchi, il papato è diventato una potenza di pace, anche se non del tutto
pacifica, in quanto, con Giovanni Paolo 2°, è giunto ad invocare interventi
militari umanitari, come durante la
crisi tra la Serbia e il Kossovo secessionista (1996-1998).
Le dinamiche conflittuali sono ancora un grave
problema irrisolto nella nostra confessione religiosa. Conflitti ci sono sempre
stati, fin dalle origini, nella Chiesa e intorno alla Chiesa. In genere,
storicamente, i cristiani e anche la Chiesa, intesa come papi e vescovi, vi hanno partecipato, senza confidare di
poterli prevenire. E’ molto recente l’idea di poter riuscire a farlo. Essa risale
alla fine della Seconda Guerra mondiale. Per riuscirci si confida negli
ordinamenti democratici, in cui i popoli hanno più voce. Il paradosso è questo: il magistero confida nella
democrazia come fonte di relazioni pacifiche, evidentemente ritenendo che i
popoli, liberi da despoti, si orientino per la pace, ma nella sua
organizzazione diffida profondamente della democrazia, perché in fondo ritiene
che i supremi principi non siano in buone mani se lasciate a quelle dei popoli.
L’insegnamento attuale del magistero, che in questo non è cambiato da quello
più antico, è che la logica della democrazia non ha posto nella Chiesa.
All’interno della nostra Chiesa le dinamiche conflittuali, talvolta assai
aspre, in genere vengono negate; la via principale per risolverle è il cercare
il favore dell’autorità sovraordinata.
Nel momento in cui si confida nella democrazia
per promuovere la pace nel mondo bisogna però prendere coscienza che il metodo
democratico non nasconde, ma porta alla luce i conflitti e le loro ragioni. Nel
dialogo ragionevole tra fautori di opposte fazioni si cerca innanzi tutto di
far emergere ciò che unisce e, facendo forza su di questo e, in particolare,
sul rispetto della dignità degli avversari, si cerca poi di giungere a
decisioni condivise. Quando ciò non è possibile, la regola è che decida per
tutti la maggioranza. I soccombenti si impegnano ad accettare tale decisione
perché non sono mai in questione i principi fondamentali della convivenza
civile, quelli che sono sottratti agli arbitri delle maggioranze. Si tratta di
ciò che rientra nei diritti umani fondamentali. Questo metodo richiede che nel
conflitto si abbia comunque un’etica, delle regole morali. Questo accade anche
nell’esperienza religiosa del conflitto, anche se ai tempi nostri se ne ha meno
coscienza. Oggi ad esempio può essere difficile accostare l’esperienza umana di
un personaggio storico come santa Giovanna d’Arco, una santa combattente.
Eppure in religione potremmo essere facilitati per il fatto che nella Bibbia,
in particolare nell’Antico Testamento, ci sono moltissime storie di guerre,
vissute in un orizzonte etico.
Dall’esperienza storica, anche recente, come
quella dei gruppi resistenziali cattolici combattenti tra il ’43 e il ’45, può
trarsi l’insegnamento che il vero pacifico non è quello che elude o nega i conflitti
che ci sono, o si limita a subirli passivamene, ma che invece vi partecipa con
spirito religioso. Questa azione può essere vista, sull’esempio dell’esperienza
democratica, come finalizzata alla promozione umana, al miglioramento degli
assetti sociali. In questo essa può avere una valenza religiosa. L’ispirazione
etica può portare al rifiuto di certe tecniche convenzionali di conflitto e, ad
esempio, all’impiego delle tecniche non violente che per la prima volta sono
state esposte da Ghandi.
Comunque, se nel perseguimento della pace le
masse devono avere un ruolo, e oggi la dottrina sociale della Chiesa ritiene
che debbano averlo, l’obiettivo a cui si mira richiede l’impiego del metodo
democratico. Ritenendo diversamente le masse possono trasformarsi rapidamente
anche in quelle bestie spaventose di cui scrissero gli antichi, quindi in folle
violente e sanguinarie che frequentemente hanno dato nella storia il peggio di
sé.