Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia
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Parte 3
(dal n.10 al n. 24)
(le parti precedenti sono
pubblicate nei post successivi, nei post precedenti sono pubblicate quelle successive.
Questo testo è pubblicato in 8 parti)
di
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
edizione ottobre 2020, con nuovi materiali
10
Azione Cattolica: un’esperienza di Chiesa
(7
ottobre 2012)
10.1. Non sono di quelli che, educati nella fede cattolica, poi l’hanno
abbandonata o addirittura rinnegata e vi si sono riavvicinati da adulti o,
comunque, crescendo. Con questo non voglio dire di essere stato una persona
esemplare secondo le esigenze etiche della mia religione. Del resto nessuno si
è mai aspettato nulla di simile da me, anche se sempre mi è stato additato
l’obiettivo della santità. Fin da molto piccolo mi è stato detto che il male
nella vita c’è e che ne sarei stato responsabile anch’io, per cui mi è stato
insegnato a individuarlo, a pentirmene e
a cercare sempre, pervicacemente, di cambiare.
E’ ciò che ho fatto, confidando nei preti che ho incontrato e nella
Chiesa come essi me la presentavano, convinta, sulla parola del suo primo
maestro, che il male nel mondo non avrebbe prevalso, quindi anche quello di cui
io ero stato artefice. Così la mia vita di fede in religione è stata improntata
a una certa serenità. E c’è una continuità, mai veramente interrotta, tra la
mia esperienza religiosa di bambino, degli inizi, e quella di oggi, di uomo di
mezz’età. Se riprendo in mano il libretto del catechismo della mia Prima
Comunione, che feci in quarta elementare qui nella nostra parrocchia di San
Clemente Papa, e lo leggo oggi da cinquantenne
posso concludere serenamente con un amen,
condivido ancora tutto quello che c’è scritto. Mi è sempre venuto naturale essere una persona
di fede, non vi ho trovato alcuna difficoltà, non mi è stato necessario fare
particolari sforzi. In questo penso che la mia vita si differenzi un po’ da
altre di cui ho saputo. Ci sono persone che sono molto più meritevoli di me
sotto questo profilo, per aver dovuto faticare e soffrire molto per giungere
dove io sono sempre tranquillamente rimasto. Quello che ho detto vale anche per
la mia esperienza di Chiesa. L’ho considerata sempre la mia casa, la mia
famiglia, dovunque sono stato. Anche nei periodi della mia vita in cui l’ho
frequentata di meno, essa rimaneva dentro di me, perché non ho mai avuto il
dubbio di non farne più parte. Sono stato scout, fucino, aderente ai Laureati
Cattolici – MEIC e all’Azione Cattolica (della quale FUCI e MEIC un tempo
facevano parte), ho partecipato a diversi gruppi di ispirazione religiosa,
parrocchiali e non, e mi è sempre parso di muovermi da una stanza
all’altra delle medesima casa. Ricordo che una volta, da scout (facevo le
medie), condussi la mia squadriglia a Sulmona, secondo la missione che avevo
ricevuto durante un campo estivo sui monti d’Abruzzo, e chiesi ospitalità al
parroco di una chiesa vicina al centro: lui ci fece dormire, con i nostri
sacchi a pelo, nel museo della parrocchia, che conteneva tante cose preziose;
mi diede la chiave e mi disse che sarebbe ripassato il giorno dopo. Io mi
meravigliai di quella fiducia, concessa a ragazzini che non aveva mai visto
prima, e, riflettendoci su nel corso di quella notte, conclusi che lo aveva
fatto perché noi lì eravamo di casa, eravamo infatti Chiesa, e le nostre divise
da scout glielo avevano confermato, è come se lo avessimo scritto in fronte,
come si legge nell’Apocalisse dei giusti.
Il lavoro che si fa nella società come Azione
Cattolica lo si fa come Chiesa. Non è inutile quindi confrontarsi sulle nostre
esperienze di Chiesa e su che cosa sappiamo della fede comune su di essa.
Ricordo ancora quando, da bambino, il parroco
mi parlò della differenza che c’era tra “chiesa” (edificio) e “Chiesa” (gente).
Con il Battesimo ero entrato a far parte della
Chiesa ed era per questo che venivo in
chiesa. Ne rimasi molto colpito e per un certo tempo lo andai ripetendo in
giro, ai miei coetanei. Poi, crescendo, ho scoperto che il discorso sulla
Chiesa è molto, molto più complesso. Una volta, mentre ero alle Paoline in via
della Conciliazione, notai un libro di Battista Mondin sulle “ecclesiologie”
(le concezioni sulla Chiesa), lo comprai, lo lessi con una certa difficoltà e
scoprii che in giro, sia nella nostra Chiesa, sia nelle altre Chiese cristiane,
c’erano tante idee di Chiesa. A parte questo, ci sono le varie esperienze
individuali e collettive che uno fa della Chiesa durante la propria vita, che
influiscono sul modo di condursi fuori
della Chiesa.
Se, ad esempio, una persona pensa di trovarsi
in una sorta di fortezza assediata, con dentro pochi eroici difensori, un po’
come accadde a Fort Alamo (1836) in cui un piccolo presidio di secessionisti
nordamericani tentò invano di resistere all’attacco dell’esercito messicano
mandato a reintegrare l’unità nazionale, allora sarà portata a diffidare di
tutto ciò che gli viene dall’esterno
e a cercare di fare da sé in ogni cosa, utilizzando solo quello che gli viene di dentro, dal proprio gruppo, dal
proprio ambiente abituale, costruendo
in tal modo una sorta di città di Dio
opposta alla città del diavolo,
quella di fuori. Ci si muove un po’
in quest’ordine di idee nella poderosa opera De civitate dei (trad.Sulla
città di Dio) di S. Agostino di Ippona (5° secolo dell’era antica), scritta
in un tempo in cui l’ordinamento dell’Impero romano era travolto dalle
invasioni di popolazioni del nord Europa.
Sulla dottrina della fede in merito alla Chiesa
ci sono diversi testi fondamentali del magistero mediante i quali ci si può
informare meglio. Ricordo la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che potete
leggere sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Avverto che, trattandosi di un documento normativo, esso è scritto nel
linguaggio e con il metodo della teologia, che potrebbe essere un po’ ostico ai
non iniziati.
Della
Chiesa si tratta anche, in termini più accessibili, nel Catechismo della Chiesa
cattolica (Parte prima, Sezione seconda, Capitolo terzo, art.9, numeri da 748 a
975). Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM
Se ne
tratta in modo più semplice nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica
(Parte prima, Sezione seconda, capitolo terzo, numeri da 147 a 201). Lo trovate
sul WEB all’indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/compendium_ccc/documents/archive_2005_compendium-ccc_it.html
Leggendo le prime due opere, potrete
constatare che nella nostra Chiesa,
quando si ragiona sulla fede comune, si tiene ben presente tutta la storia
bimillenaria della nostra religione e i testi sacri, citando le fonti da cui si
ricavano certe idee, a cominciare da quelle bibliche. Non si parte mai da zero
e si cerca di tenere tutto insieme.
Nel Compendio, per il carattere sintetico dell’opera, queste citazioni sono di
meno, ma ci sono.
Storicamente l’Azione Cattolica ha ritenuto di
potersi confrontare positivamente con la società in cui la Chiesa italiana
vive: il suo moto fondamentale è stato quindi, ed è ancora, quello
dell’apertura, non dell’opposizione, e questo naturalmente non significa
accettare tutto ciò che gira nel mondo di
fuori, ma pensare che certe idee sulla società che hanno un fondamento
religioso possono (ancora) essere diffuse utilizzando il metodo e i principi
della democrazia, sui quali l’ordinamento della nostra società si basa, e che
ciò che si agita nel mondo abbia anche un significato religioso. Viene in
Azione Cattolica chi non pensa di essere nella condizione di Fort Alamo.
L’Europa di oggi, che ha realizzato un lunghissimo periodo di pace, dopo la
serie storica interminabile dei conflitti armati tra i suoi popoli, e mira ancora alla pace si fonda su idee
cristiane: il Papa e i nostri vescovi non cessano di ricordarcelo. Spinti dal magistero, in Azione Cattolica
cerchiamo di agire di conseguenza.
10.2 Costruire nella società per narrare il
fondamento della nostra speranza
Continuo le mie riflessioni sulla base del
libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrica A.V.E.,
2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo ragionevolmente confidare del
tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre
nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa
sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni
indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di
prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in
noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare al cristiano che non
solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo
la misura dei doni ricevuti e le opportunità
pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In
definitiva il nostro atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose
del mondo dovrebbe essere più che altro quello di una pervicace e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò
che accade e che ci circonda sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi,
ma siamo convinti che non siamo mai veramente noi che conduciamo la storia
verso il suo compimento. Di questo possiamo aver una conferma per così dire
“sperimentale”: tutte le potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a
processi evolutivi simili a quelli degli organismi singoli. Nel complesso,
tirate le somme, si scopre di aver vissuto molto condizionati da fattori
esterni a noi, la nostra sfera di influenza, anche come collettività piuttosto
numerose, rimane sempre piuttosto limitata. E’ la sensazione che si ha, ad
esempio, durante la crisi economica globale che è attualmente in corso. E
spiegare con precisione il corso delle cose è sempre piuttosto difficile,
quando si ragiona in termini di moltitudini umane. Poi però, quando ci si bene
su è possibile che si riesca a produrre una interpretazione degli eventi
compatibile con l’idea di un disegno provvidenziale. Quest’ultimo, secondo
Dossetti, più che argomentato, quindi
compreso con precisione, va piuttosto narrato e testimoniato. Questo
atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen Moltmann, citato da
Dossetti,
[…] rende buona la vita,
perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo
nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di
Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La
speranza religiosa vive nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare
dagli insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi,
che pure sa essere sempre minacciati e
caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla
fine della storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così
Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione
Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a
svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e
convinzioni. In quest’ottica il profano,
ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una
valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di
rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.
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11
Noi cattolici: cittadini o stranieri nella
società in cui viviamo?
(8
ottobre 2012)
L’Azione Cattolica non avrebbe senso in una
società in cui non fosse consentita, in qualche forma, la partecipazione della
gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più buio della sua storia,
quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò un’altra cosa. Nel 1931
le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che costituivano il braccio
operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la presa di distanza dei
cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione della legislazione
discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa può essere
considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono diverse eccezioni
(ad esempio la FUCI e Movimento Laureati
di Azione Cattolica), una delle
organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime fascista, il quale
con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un accomodamento con i vertici
ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani furono effettivamente,
nella grande maggioranza, fascisti.
Riprendo a questo punto alcune delle
riflessioni esposte nel libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e città,
A.V.E. editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento pubblico di Dossetti
del 1987).
Nella Bibbia c’è un certa diffidenza per le
città e per gli ordinamenti politici, specialmente quelli che riunivano molti
popoli diversi. La concezione ebraica di città era molto distante da quella
greca, che impronta gli ordinamenti politici democratici contemporanei. Nella
prima la città era essenzialmente un insediamento chiuso, protetto da alte mura, in funzione difensiva. Per i greci
era principalmente il luogo in cui si svolgeva la cittadinanza comune, la
partecipazione al governo, quindi la politica
(dal termine greco pòlis, che
significa città). Per certi versi la
città, nella concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di
violenza e di presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero
vita travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si
mostrò infedele e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto
(ne abbiamo un esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione
lo spirito religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai
centri urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata
nella prospettiva evangelica. Il regno a cui tendono i discepoli cristiani non è di
questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano
addirittura come stranieri. Sono
infatti portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti
sociali e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a
loro è dovuto (a Cesare quel che è di
Cesare), ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre
obbedire. Loro compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il
perdono dei peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità
cristiane, un ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta
qualche affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne
concepito come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse
17,6 e 18,2).
Scrive Dossetti, nell’opera citata
(pag.45-46):
Per il regno di Dio e per
la città di Dio va ancora fatta una
precisazione a scanso di equivoci.
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non
si realizza e neppure si prepara o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non
è un bene comune, architettonicamente
sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi senza di noi. Il
pensare che noi possiamo attirarcelo e appropriarcelo
è “stoltezza umana, presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.
All’uomo compete solo la fedeltà alla Parola,
l’annunzio di essa, la pazienza longanime che
non spegne lo Spirito credendo di accelerarne le operazioni, la ferma fede che
il grano del Regno “cresce da solo” (in
greco: automàte) (Vangelo secondo Marco 4,26- 29).
Anche perché il Regno verrà,
per un decreto del Padre in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato
alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).
E allora sarà non
il coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, in “ictu oculi”
(Prima lettera ai Corinzi 15,52).
Un
famoso passo della Lettera a Diogneto,
scritto cristiano che si fa risalire al 2° o 3° secolo della nostra era, è
questo:
[I cristiani] Abitano ciascuno
la propria patria, ma come residenti stranieri; a tutto partecipano attivamente come cittadini e a tutto
assistono passivamente come stranieri; ogni
terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera.
[… ]
Passano la vita sulla
terra, ma sono cittadini del cielo.
Obbediscono alle
leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi.
Insomma, concluderei che in religione non
siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle nostre
costruzioni sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non sarà
dalle nostre mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo che
riteniamo di aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere seguito da
un regresso.
Ma
direi anche di più. Nella Bibbia c’è sicuramente il fondamento del concetto di dignità dell’uomo dal quale oggi
ricaviamo la convinzione giuridica e politica in certi diritti umani inalienabili, che sono la base delle
democrazie contemporanee, ma la
democrazia non c’è. Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun
problema nell’aver mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha
avuto alcun problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi,
nel passato, a regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso
naturalmente potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata
elaborata anche una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che
volesse dirsi ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si
dovesse fare, da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in
queste che sono delle specie di note
operative per la nostra situazione concreta di oggi quel discorso non serve.
Io sto
prendendo coscienza di questo: la situazione in cui ci troviamo nell’Europa
democratica di oggi non ha precedenti storici, è qualcosa di totalmente
inedito. E bisogna dire che questa realtà veramente nuova è stata costruita con
l’apporto fondamentale del pensiero di cristiani sulla democrazia e della loro
azione politica, di governo delle società.
Noi, ad
esempio, diamo per scontato che questo lunghissimo periodo di pace, che in
Europa si protrae ormai dal 1945, rientri nella normalità. Ma non è così. Tanto
che, quando frequentai le elementari, nella scuola di piazza Capri, il nostro
maestro era solito dirci che dopo qualche anno saremmo diventati uomini,
saremmo andati in guerra, e più o meno la metà di noi vi sarebbe morta. Le
cose, diceva, erano sempre andate così, una guerra più o meno ogni quindici o
vent’anni (e allora si era negli anni ’63-’67). Poi non andò così. L’ultima
grande frontiera, edificata tra Est e Ovest Europa dopo la Seconda guerra
mondiale, è caduta nel 1991, senza la catastrofe che per tanto tempo si era
temuta.
Aver
realizzato, in democrazia, una potenza di pace sugli antichi, immensi, campi di
battaglia ha un significato per la nostra vita in religione?
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12
Europa, pace, diritti umani. E noi? Abbiamo
vinto il premio Nobel.
(13
ottobre 2012)
Non mi pare che finora abbia fatto molta
impressione il premio Nobel per la pace dato all’Unione Europea, vale a dire anche a tutti noi italiani, cattolici compresi. La nuova Europa è infatti
innanzi tutto una realtà di popolo, e
di questo c’è veramente scarsa consapevolezza, perché è fondata, più che su un
sistema di relazioni intergovernative per lasciare libero passo all’economia
(questa fu sostanzialmente la caratteristica della Comunità Economica Europea),
sulla proclamazione di un sistema di
diritti umani fondamentali (è una delle caratteristiche fondamentali della
nuova organizzazione creata dal Trattato
di Lisbona del 2007, entrato in vigore il 1 dicembre 2009). Essi non sono
stati ideati dai vertici dell’organizzazione europea, ma, prima di essere
formulati in un testo normativo, in quella Carta
dei diritti fondamentale la quale con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è divenuta legge
europea, hanno corrisposto a un’esigenza forte posta dai popoli ora federati
nell’Unione Europea. Su di essa si è fondata la duratura pace continentale e il
processo straordinario di inclusione di nazioni che per millenni si erano
combattute che ha convinto la celebre istituzione svedese a riconoscerne il
merito non a questa o a quella
personalità, ma a tutti noi. “Bravi!”, ci hanno detto, “avete fatto una cosa grande”. E noi? Noi siamo rimasti perplessi, come è
scritto che rimarranno i giusti, quando, alla fine dei tempi e presentatisi per
il giudizio su ciò che sono stati e su ciò che hanno fatto, verrà loro indicata
la porta del Regno beato. Che abbiamo
fatto per meritarci questo apprezzamento? Abbiamo fatto, abbiamo fatto…
Ad esempio noi cattolici siamo divenuti più
tolleranti verso le altre confessioni cristiane e verso le altre religioni che
sono professate nell’Europa di oggi. Non si tratta di un impegno attuato solo
dai capi delle nostre comunità, ma di una pratica molto diffusa tra le nostre
genti, forse anche al di là di una chiara consapevolezza delle questioni
implicate. In certi casi, come nei rapporti con l’ebraismo, a rapporti di aspra
conflittualità è subentrata una franca amicizia. E’ uno sviluppo veramente
importante, tenendo conto che la tremenda storia europea è stata duramente
travagliata da guerre e altre stragi a fondamento religioso, in particolare
nello scorso millennio. Abbiamo costruito in tal modo una civiltà fortemente
inclusiva, in cui questo e quello possono trovare la loro patria
indipendentemente dal loro rapporto con il soprannaturale, e infatti il moto
fondamentale che riguarda l’Unione Europea è un afflusso di popoli dall’esterno
verso l’interno, un moto centripeto, tanto che addirittura gli eredi di un
nemico storico come l’Impero Ottomano turco bussano alle nostre porte
nonostante tra loro prevalga di gran lunga la fede islamica; è qualcosa che
richiama l’immagine del libro biblico di Isaia, nel brano in cui si
profetizzano carovane di genti che da tutto il mondo vanno verso una
Gerusalemme molto idealizzata, manifestazione dell’unione tra divino e umano,
vale a dire di certi principi supremi e realtà
di vita. Questa cosa non c’è mai
stata nella storia dell’umanità: prendiamone coscienza. Dispiace che non
sia una cosa cattolica? Oh, ma è
anche una cosa cattolica.
Due giorni fa, con una fiaccolata, qui a Roma
abbiamo celebrato il cinquantenario dell’apertura del Concilio Vaticano 2°. In quella occasione, avanzando in processione
verso piazza San Pietro ci siamo manifestati come Chiesa che vuole essere luce delle genti, secondo l’insegnamento
di uno dei documenti conciliari fondamentali, la costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: luce delle genti). Ebbene, convinciamoci
che negli anni passati lo siamo veramente stati, tutti noi. Il papa Giovanni Paolo 2° volle invitarci a rifletterci
su durante il Grande Giubileo dell’Anno
2000. Considerate come siamo cambiati in meglio, noi Chiesa, da quando su
certe cose andavamo molto per le spicce, come si suole dire. Ho cinquantacinque
anni e non sono un nativo conciliare,
vale a dire che ho avuto modo di vivere la Chiesa di prima, anche se da molto
piccolo. Chi è più grande ricorderà meglio. E comunque ci si può informare sui
libri di storia. Ai nativi
conciliari, a quelli che sono nati e vissuti interamente nella nuova era,
coloro che si incaponiscono ancora a vivere come si era prima sembrano un po’ strani. Non è così? Ma ci sarà modo di
approfondire di più in questo che è stato proclamato, innanzi tutto come
obiettivo del nostro impegno, Anno della
fede.
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13
Insieme per agire da gente di fede
(14
ottobre 2012)
Qualche anno fa partecipai a una riunione del
mio gruppo del MEIC – Movimento
ecclesiale di impegno culturale, alla Cappella universitaria dell’Università La
Sapienza, qui Roma, in cui un teologo ci parlò dei vari modi di pensare una
dimensione comunitaria della vita di fede e di interventi nella storia
dell’umanità motivati religiosamente e osservò che spesso si erano scelte delle
vie che poi avevano costretto a dire molti “si,
però…”, vale a dire a cercare di giustificare in qualche modo quelle che,
con il senno del poi, venivano
individuate come insufficienze in base all’etica religiosa proclamata. Ad
esempio, la cristianità medievale, in cui indubbiamente affondano alcune di
quelle che possiamo considerare come radici
delle società europee di oggi e che talvolta viene considerata un modello ancora
attuale per la sua forte integrazione culturale del cristianesimo, produsse
anche l’Inquisizione e le Crociate, modi di vivere la fede dai quali oggi abbiamo preso le distanze
dichiarando di impegnarci a non replicarli; ma, ciò detto, siamo portati ad aggiungere si però … l’idea di una società
civile fortemente ispirata alla religione in fondo ci piace e cose simili.
Non ci si poteva pensare un po’ meglio, prima,
per non dover poi essere costretti a
pentirsi? E’ un problema che riguarda anche noi, che vogliamo ancora influire
nella società in cui viviamo per cercare, nella dinamiche democratiche, di
determinare collettivamente scelte ispirate a certi valori che per noi hanno fondamento religioso. O forse sarebbe
meglio non agire affatto e limitarsi solo ad attendere con pazienza che le cose cambino perché trascinate dal
disegno provvidenziale, mentre noi ci incoraggiamo e aiutiamo a vicenda
edificandoci nelle nostre comunità religiose con salmi, inni e canti
spirituali, secondo le espressioni di San Paolo (Lettera ai Colossesi 3, 16. 1
Lettera ai Tessalonicesi 5,11)? Tenuto conto di quante sono le cose di cui
abbiamo sentito il bisogno di chiedere collettivamente perdono, da quando ci
siamo consentiti un simile esercizio, ci si potrebbe pensare seriamente.
Riprendo a questo punto a seguire, in queste
riflessioni, il libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrice A.V.E., collana Le Tessere e il Mosaico, 2011, euro 8,00, pagine 131, con
prefazione di Giorgio Campanini.
Il mondo nuovo che religiosamente attendiamo
non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi la responsabilità. I nostri
progetti non possono e non devono estendersi fino ad esso. Né possiamo
immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una società da noi
edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti (pag.45-46):
Il Regno, giunge a noi, senza
di noi.
[…]
,,,il Regno verrà, per un
decreto del Pare in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato alla
sua potestà” (Atti degli apostoli 1, 6-7).
E allora sarà non il
coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, in ictu
oculi [trad.:in un batter d’occhio
– greco: en ripè oftalmù] ” (1
Lettera ai Corinzi 15,52).
Quest’ordine di idee è un bel sollievo. Secondo
le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati colpevoli di non aver saputo
realizzare, nelle nostre faticose e lunghe approssimazioni, il Regno, la
società perfetta che non ha bisogno di lampade o di sole, “perché il Signore Dio li illuminerà”, secondo l’emozionante
profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3, e anche di non aver asciugato ogni lacrima dagli occhi dei sofferenti,
e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il lutto, il pianto e il dolore. Fatemi sapere se condividete questo
discorso.
Ciò posto, se guardiamo all’Unione Europea di oggi, per la quale
inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio
Vaticano 2°, nella quale abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo
stati Luce delle genti, ce ne
compiacciamo, pur pentendoci del male che in esse non siamo riusciti ad evitare
e sentendoci pur sempre impegnati a migliorarci, perché non solo ad esse
apparteniamo, ma anche esse ci appartengono, nel senso che sono un nostro modo
di essere e quindi riflettono coralmente nel bene e nel male le nostre vite, e
noi, lo sappiamo, non possiamo dirci perfetti,
anche se in qualche modo desideriamo, e a volte anche cerchiamo e addirittura ci sforziamo, di corrispondere
al disegno che religiosamente pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in
definitiva, quei risultati, quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non
sono tati accidentali, ma voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi che lo volevamo fare e l’abbiamo fatto. Sono
effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo
e vediamo in esse cose buone ma anche
cose da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e
zizzania, di Città secondo Dio e di Città
secondo l’avversario di Dio che non è in
fondo in nostro potere sciogliere del tutto.
Ha un significato, per la nostra fede, l’aver
agito e costruito? Dossetti ritiene di poter concludere di sì. Per amore infatti abbiamo agito. Scrive
(pag.103-104):
Tutto nella via del cristiano
agito dallo Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere banalmente
sulla contrapposizione fra “contemplazione” e
“azione” […] “contemplazione” per il senso originario [che aveva nell’antica
filosofica greca, in particolare in Plotino (3° sec.) – nota mia] ,,, non [è] propriamente un concetto cristiano e [continua] a trascinare e a veicolare più di un equivoco nella storia della
spiritualità cristiana.
In senso propriamente cristiano
tutto è azione, e con diversi gradi di efficacia, peculiarmente là dove il
concetto abituale di azione ne saprebbe vedere di meno.
Azione è l’Eucaristia: prima di
tutto azione di Cristo, poi azione della Chiesa, azione della comunità che la
celebra, del cristiano che vi partecipa.
Ogni preghiera, se fatta come
deve essere fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.
La lettura, e ancor più la
“ruminatio” della Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.
La malattia che riduce immobile
in un letto, accettata nella fede, è
azione […].
La concentrazione dell’anima nel suo oggetto
più proprio […] è azione”.
Per Dossetti, si agisce come
risposta d’amore all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è una carità verticale, appunto dall’alto, che è “generante e condizionante rispetto ad ogni
altro amore, sia pure il più santo e benefico” (pag.117).
“L’amore rivolto ai fratelli
ne sarà un segno necessario e precipuo: ma derivato…”.
Dossetti segnala l’esistenza di un paradosso della carità eucaristica, dell’agire
insieme, nel nostro mondo, su fondamento religioso:
“L’altissima risposta d’amore trinitario sarà
tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si preoccuperà e
saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto più sarà silenziosa
e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà quel grado di
sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che può pervadere
gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza 7,22-24) senza che se ne
accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio genuino della gloria
dell’Onnipotente” [Libro
della Sapienza 7,25].
Insomma: si agisce, si agisce insieme e si agisce per amore, ma amore di una specie particolare, che è risposta
ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così, non si fa conto del
risultato, che poi si è convinti che verrà in
un battito di ciglia a tempo debito e non per opera nostra: lo scopo
dell’azione è infatti solo quello di diffondere nella società un “effluvio puro della gloria dell’Onnipotente”
(Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997). Questo equivale, detto in
termini profani, a infondere nella società intorno a noi dei valori. Tutto ciò definisce bene il
compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si prepara,
si ragiona, si fa pratica e, infine, ci
si organizza e si va in prima linea,
dove per quei valori si lotta, e
addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario,
nel senso che in esso sono avversati quei valori.
Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di
altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace,
con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione
Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli
specificamente mariani, segno
dell’anelito a valori anche
specificamente nostri, di quelle radici
cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il
richiamo alla corona di dodici stelle della donna
vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene,
l’Unione Europea di oggi ci appare
veramente un segno grandioso, anche
in senso specificamente religioso.
Ho parlato di amore e questo termine, con il quale traduciamo tutti i termini del greco neotestamentario con i
quali specificamente si descrivono le relazioni tra i fedeli e tra essi e il
mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri umani e il fondamento
soprannaturale, suona equivoco, e anche
un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel greco del Nuovo Testamento (per
quello che ho letto – ma la mia in merito è solo erudizione di liceale, neanche
tanto studioso; non sono uno specialista) si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di
quando si sta insieme per fare un bel pranzo; il secondo si riferisce
all’amicizia, a un rapporto di reciproca simpatia e di preferenza, il terzo
richiama l’idea di quando si partecipa ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario del greco del Nuovo Testamento
non viene riportato il termine èros,
che pure rientra nei significati della nostra parola italiana amore, e definisce la passione sessuale,
quella che trascina emotivamente dalle viscere e acceca. Penso quindi che questa metafora non sia
stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente nell’Antico, mentre
anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di molto più complesso, perché
è insieme èros (come base emotiva
della predilezione per una persona fisica), agàpe,
filìa e coinonìa, oltre a patto ed alleanza.
Poiché la qualità e la direzione del nostro agire
dipende molto dalle ragioni e del modo del nostro stare insieme, è
interessante ragionarci un po’ su. Mi piacerebbe sapere a quali conclusioni siete giunti, cari
lettori; come vi regolate nelle vostre vite.
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14
Costruire nella società per narrare il
fondamento della nostra speranza
(12
ottobre 2012)
Continuo le mie riflessioni sulla base del
libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrica A.V.E.,
2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo ragionevolmente confidare del
tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre
nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa
sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni
indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di
prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in
noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare al cristiano che non
solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo
la misura dei doni ricevuti e le
opportunità pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In
definitiva il nostro atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose
del mondo dovrebbe essere più che altro quello di una pervicace e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò
che accade e che ci circonda sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi,
ma siamo convinti che non siamo mai veramente noi che conduciamo la storia
verso il suo compimento. Di questo possiamo aver una conferma per così dire
“sperimentale”: tutte le potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a
processi evolutivi simili a quelli degli organismi singoli. Nel complesso,
tirate le somme, si scopre di aver vissuto molto condizionati da fattori esterni
a noi, la nostra sfera di influenza, anche come collettività piuttosto
numerose, rimane sempre piuttosto limitata. E’ la sensazione che si ha, ad
esempio, durante la crisi economica globale che è attualmente in corso. E
spiegare con precisione il corso delle cose è sempre piuttosto difficile,
quando si ragiona in termini di moltitudini umane. Poi però, quando ci si bene
su è possibile che si riesca a produrre una interpretazione degli eventi
compatibile con l’idea di un disegno provvidenziale. Quest’ultimo, secondo
Dossetti, più che argomentato, quindi
compreso con precisione, va piuttosto narrato e testimoniato. Questo
atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen Moltmann, citato da
Dossetti,
[…] rende buona la vita,
perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo
nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di
Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La
speranza religiosa vive nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi
scoraggiare dagli insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei
successi, che pure sa essere sempre
minacciati e caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto
promesso alla fine della storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così Moltmann,
citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica:
la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo
collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In
quest’ottica il profano, ciò che si
muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza
religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare
e capire quelli che sono stati definiti i
segni dei tempi.
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15
Noi: popolo di Dio
(15
ottobre 2012)
Nella riunione di martedì 16 ottobre 2012 ci è
stata presentata la costituzione dogmatica Lumen
gentium, del Concilio Vaticano 2°. Si tratta di un atto normativo, di una
legge della nostra Chiesa. La Chiesa ha bisogno di leggi? Come ogni società di
esseri umani, sì. Ma quella costituzione conciliare è molto più di una legge.
E’ l’indicazione di una strada da prendere. Con autorità siamo stati chiamati a
percorrerla, tutti noi che siamo stati persuasi dalla fede cristiana e quindi
confidiamo in Gesù, il Cristo,
affidandoci a lui qui nella vita
terrena e oltre, sperando in quella eterna. Noi siamo convinti di costituire un
popolo, il nuovo (rispetto all’antico
popolo israelitico) popolo di Dio,
non fuso in unità sulla base di
discendenza etnica (secondo la carne),
ma mediante la nostra fede (nello
Spirito).
Riconosciamo nostro capo Cristo, che riteniamo
regni glorioso in cielo, quindi al di sopra di tutto: il suo è un nome al di sopra di ogni altro nome.
Il nuovo popolo:
Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio [noi ci chiamiamo anche così],nel
cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un Tempio [Lumen Gentium, cap.2°, n.9],
Nella
fede siamo stati come rigenerati
dall’alto: La nostra legge suprema è ora di
amare come lo stesso Cristo ci ha amati, secondo quanto espresso nel
Vangelo di Giovanni 13,34 [Lumen Gentium,
cap.3°,n.9]. Siamo così popolo costituito per una comunione di vita, di carità e di verità [Lumen Gentium, cap.2°,
n.9].
Riteniamo che ci sia stato affidato un
compito, in particolare di essere stati inviati
a tutte le genti del mondo, come strumento di redenzione, luce del mondo e sale della terra. [Lumen
Gentium, stesso numero sopra citato]. Dobbiamo estendere il nostro popolo, che deve però rimanere uno e unico, a tutto il mondo e a
tutti secoli, per fare ciò che Dio vuole, vale a dire per radunare insieme i suoi figli dispersi [Lumen Gentium, cap.2, n.13].
Bene,
ma che cosa c’è di nuovo in questo
rispetto alla fede della Tradizione, dei secoli precedenti? Ci ragioneremo su,
in questo Anno della fede. Chi ha
fatto esperienza ravvicinata della Chiesa prima
del Concilio Vaticano 2° sa bene che qualcosa è effettivamente cambiato. Ma,
nella nostra Chiesa, quando si cambia si cerca comunque di tenere tutto insieme, in particolare di collegarsi sempre alle
esperienze delle origini, dei primi tempi, specialmente quando si scrivono i
documenti ufficiali. Così, leggendoli
superficialmente, si può in qualche modo rimanerne delusi. Anche perché, quando
si parla del Concilio Vaticano 2° al di fuori della nostra Chiesa, lo si
presenta come una sorta di svolta rivoluzionaria,
che non c’è stata. Non è vero che c’è ancora un Papa a Roma? E ll vescovo suo
vicario per la città di Roma? E un parroco nel nostro quartiere?
Vi
voglio però indicare un segno.
Pensateci su. In parrocchia, davanti all’altare qualche volta ho visto esposta
una grande menorah, il candelabro a
sette braccia che è uno dei simboli dell’ebraismo.
Oggi non ce ne stupiamo. Ancora nell’Ottocento ci sarebbe costato però molto
caro, saremmo stati trattati un po’ come eretici
e forse scomunicati, vale a dire
tenuti isolati nella nostra comunità (non significa sbattezzati). Oggi invece è cosa
del tutto lecita e, anzi, ci edifica.
Insomma, da sempre abbiamo saputo di essere
stati inviati alle genti, ma dopo il
Concilio Vaticano 2° abbiamo cominciato ad entrare in relazione con esse, come
collettività e come individui, in modi sicuramente più amichevoli del passato.
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16
Essere popolo unito da una fede religiosa
(16
ottobre 2012)
Uno dei
temi sui quali il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) ha riscoperto nella dottrina
della tradizione potenzialità meno sviluppate nella storia bimillenaria della
Chiesa è quello dell’essere tutti i cristiani un popolo messianico, vale a dire genti unificate da una fede e da
una missione. E, in questo parlare di popolo,
hanno influito non poco concezioni moderne della politica, intesa come organizzazione della convivenza civile, così
come quando in passato si parlava dello stesso tema si faceva riferimento ad
altre concezioni in merito. Non dobbiamo meravigliarcene, perché la Chiesa è anche una organizzazione umana e in
quanto tale è anche opera nostra e
risente delle nostre visioni sul mondo e la storia. Questo che ho scritto da
ultimo è sempre stato ben presente nell’idea che, riflettendosi
sistematicamente sopra, si aveva della Chiesa, ma non lo era più tanto, e da
secoli, quando iniziò il Concilio Vaticano 2°, nella ideologia ecclesiale, vale a dire in quella visione semplificata delle dinamiche sociali che serve a tenere unita
la gente in una collettività organizzata. In quest’ottica, poiché si
confidava molto negli effetti che alla Chiesa derivavano dall’essere insieme
realtà umana e soprannaturale e corpo sociale sottomesso ai Pastori (il Papa
– padre universale e vicario di
Cristo, capo invisibile: viene dal greco pàpas
che significa papà- e i vescovi –dalla parola greca epìscopos, che significa sorvegliante), si pensava che essa
potesse sicuramente essere ordinata in modo diverso nel tempo e nei vari luoghi
in cui viveva, ma che di volta in volta essa fosse il meglio che c’era in un
certo momento e in un determinato luogo, vale a dire che nella storia fosse stata e fosse sempre una società perfetta. Ma vi è di più. Una conseguenza che si traeva da
quest’ordine di idee era che la Chiesa, attraverso i propri Pastori, potesse, non solo insegnare con
autorità, ma anche avere l’ultima parola in merito a tutte le altre
organizzazioni sociali umane, che è come dire sulla politica delle società in cui viveva. Fin da quando, nel quarto
secolo della nostra era, la Chiesa uscì, come dire, dalla clandestinità e
cominciò ad influire con le proprie idee sulle società politiche in cui era
immersa, quest’ultima pretesa fu materia di contrasto con i capi civili, i
quali, al contrario, volevano spesso dire con autorità alla Chiesa come essa
doveva essere. L’idea di una certa divisione di ruoli, di compiti e di materie
da trattare tra le organizzazioni politiche civile e l’organizzazione della
Chiesa, ciò che oggi chiamiamo laicità dello
stato, è moderna: risale alla fine del Settecento. La troviamo attuata per la
prima volta nella storia dell’umanità dopo la rivoluzione nordamericana,
nell’ordinamento costituzionale degli Stati Uniti d’America (“nessuna professione di fede religiosa sarà
mai imposta come necessaria per ricoprire un ufficio o una carica pubblica
degli Stati Uniti”, art.6°, 3° comma, della Costituzione federale), benché
i rivoluzionari avessero espresso nella Dichiarazione
di indipendenza forti idealità religiose cristiane.
Nella storia dell’umanità dalla fine del
Settecento ad oggi abbiamo assistito ad un mutamento delle organizzazioni
politiche da modelli monarchici, in cui il potere supremo era attribuito a una
persona fisica o ad essa e a suoi stretti parenti, a modelli più partecipati da
altri strati della società civile. Questo moto è all’origine delle democrazie
di popolo contemporanee, basate sull’uguaglianza
– intesa come pari dignità sociale – dei cittadini. In qualche modo esso si è
espresso anche nella concezione di Chiesa che è stata proclamata con autorità
durante il Concilio Vaticano 2°, anche se esso non ha avuto esiti propriamente
rivoluzionari, né nelle intenzioni, né nella volontà espressa, né soprattutto
nella pratica ecclesiale postconciliare.
Bisogna però osservare che ciò è dipeso anche dal fatto che la Chiesa ha
rinunciato ad una sovranità politica su società civili, come quello che
storicamente era stato attuato nello Stato pontificio, nell’Italia centrale,
con capitale Roma. Sotto questo profilo ebbero effetti propriamente
rivoluzionari la Repubblica romana napoleonica
(1798), quella di Mazzini (1949)
e la conquista e soppressione dello Stato pontificio (1870), nel senso che
l’ordinamento politico instaurato dai Papi nell’Italia centrale venne in quelle
occasioni sovvertito, nel primo caso il
Papa regnante fu preso prigioniero, nel secondo caso dovette fuggire da Roma e
nel terzo dichiarò di considerarsi prigioniero in Vaticano.
Possiamo misurare la rapida evoluzione di
certe concezioni dal confronto tra queste due pronunce autorevoli, datate 1882
la prima e 1965 la seconda:
“[…]Presso i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e
costanti nella religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà
della Chiesa, di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da
tutte le pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in
forza dei quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini
religiosi; confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le
unioni contratte fuori del rito cattolico; esclusa l’autorità ecclesiastica
dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa
guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa
oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è
stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale,
cadde necessariamente nel potere di altri.
E Roma, la più augusta città
del mondo cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e
si vede profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio
dell’eresia. Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad
accogliere i rappresentanti e i capi della setta più ostile alla religione
cattolica, i quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È
abbastanza palese il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono
con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio
che portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al
Papato, sfidandolo nella sua stessa sede. Non è certamente da dubitare che
la Chiesa esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia
certo e manifesto che essi con siffatte arti intendono colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e
distruggere, se fosse possibile, la religione.[…]
[Dall’enciclica Etsi nos, del papa Leone 13°, del 1882.]
http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15021882_etsi-nos_it.html
“76. La comunità politica e la Chiesa
È di grande importanza,
soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei
rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli,
individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati
dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della
Chiesa in comunione con i loro pastori.
La Chiesa che, in ragione del
suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la
comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della
persona umana.
La comunità politica e la
Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini.
Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più
efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo
modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L'uomo infatti non è
limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva
integralmente la sua vocazione eterna.
Quanto alla Chiesa, fondata nell'amore del Redentore, essa contribuisce ad
estendere il raggio d'azione della giustizia e dell'amore all'interno di
ciascuna nazione e tra le nazioni. Predicando la verità evangelica e
illuminando tutti i settori dell'attività umana con la sua dottrina e con la
testimonianza resa dai cristiani, rispetta e promuove anche la libertà politica
e la responsabilità dei cittadini.
Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo
inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell'esercizio
del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso
manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti
quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i
mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri
della città terrestre.
Certo, le cose terrene e quelle che, nella condizione umana, superano
questo mondo, sono strettamente unite, e la Chiesa stessa si serve di strumenti
temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa
non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa
rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove
constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua
testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni. “
[Dalla costituzione pastorale Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo – Concilio Vaticano 2°- 1965]
In sostanza il fattore unificante della Chiesa
intesa come popolo di Dio è stato visto, nella concezione dell’ultimo concilio
ecumenico, più nella fede e nella missione
comune, vale a dire di tutti, che
nell’essere soggetti alla sovranità
del Vicario di Cristo e, per quest’ultima, che ancora sussiste come legge della
Chiesa, è stato posto l’accento sulla
sua finalità di servizio della
vocazione personale e sociale delle
persone umane.
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17
Unire le genti per una vita buona
(17
ottobre 2012)
La prima e fondamentale esperienza di una
relazione con un’altra persona è quella che si fa da molto piccoli e qualcuno,
di solito la madre, si prende cura di noi. E’ una cosa che ho letto, ma che
corrisponde anche a quello che è successo a me. Da bambini piccoli non si
potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro. Quel rapporto tra un
adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto profondamente in noi.
Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in particolare
approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra la parola mamma. L’ho sentita pronunciare da
diversi morenti. In qualche modo quel legame
tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne sentiamo
l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune
tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta
La Pietà, posta nella basilica di San
Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che
pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di
viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra
cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso.
Ci attraversa e, riflettendosi
in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento
religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno
verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione,
di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre
per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente da ogni condizione
esterna mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122].
Spesso, quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una
parrocchia, lo facciamo disposti alla devozione
filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo
delusi. Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé
stesse come (utilizzo un termine di Dossetti) micro modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente
impegnate nel realizzare una comunità di vita amorevole. E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito
di istruire i nuovi arrivati alle costumanze di un ordine o di una
congregazione di vita religiosa, si sentivano in dovere di disilludere subito
in merito i giovani. Del resto nelle disposizioni date da alcuni fondatori di
collettività di frati e monaci ci sono esplicite disposizioni che riguardavano
questo aspetto. Non si entra in una vita
come quella per ottenere soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.
Più le dimensioni di un agglomerato di persone
che per varie ragioni devono vivere vicine crescono, più i problemi aumentano.
Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur come individui sociali, siamo
infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.
Considerate ad esempio la situazione che si
crea quando in piazza S. Pietro il Papa si affaccia, all’Angelus della
domenica, e si rivolge alle migliaia di persone convenute ad ascoltarlo,
dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto di una relazione profonda. Ciascuno/a ha un posto per lui
nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un cervello elettronico
che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a costruire eseguirebbe
probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni singolo individuo nella
piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca di dati. Un essere umano
non funziona così. Guarda in basso e vede una
folla indistinta. Il Papa per la folla è un fattore di unità. Ma il Papa, essere
umano, non è in grado biologicamente
di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore.
Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti
alle loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande
folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia
accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece
in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di
enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e
l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane Papa, e via dicendo, tanto che io, pur
avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora bene e mi ci commuovo.
Ora, la Chiesa cattolica ha preso sempre molto
sul serio l’impegno a radunare i figli di
Dio dispersi, per estendere il
suo popolo, mantenendolo però uno e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per farne una comunione di vita, di
carità e di verità (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e 13, del Concilio Vaticano 2° - passi
riportati in estratto in un post dei giorni passati]. Quando però si passa da
una comunità delle origini di poche decine di discepoli a una di diverse
centinaia di milioni di persone (se ne stimano ottocento milioni, in crescita)
occorre porre molta attenzione agli elementi unificanti. Per quasi due millenni
il principale di essi, nella Chiesa cattolica, è stato costituito dai Papi, nei
quali si concentrava dal punto di vista normativo (e si concentra tuttora,
nonostante qualche importante temperamento) l’autorità nella Chiesa, non
essendo mai stata concepita altra autorità
che, all’interno della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare quella del
Papa (altre questioni sono quelle dei problemi che sotto questo profilo i Papi
ebbero con certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia che, nel primo
millennio, ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa inoltre, come persona
fisica, a volte con l’aggiunta di una certa idealizzazione, che in alcuni casi
confinò con una sorta di mitizzazione della sua persona (ne era espressione il
fasto che in certe epoche la circondava),
poteva agevolmente conquistare i cuori dei fedeli.
Fin dai primi secoli sono stati importanti, al
fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati anche fonte di divisione)
anche quelle definizioni sintetiche dei principali argomenti di fede che sono
detti simboli, due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo
degli Apostoli che recitiamo insieme nella liturgia della Messa. Queste
solenni e autorevoli definizioni sono state raccolte in un libro, il
H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion
symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum [Raccolta di simboli, delle definizioni e
delle dichiarazioni in materia di fede e morale], molto utilizzato in
teologia.
186. Fin dalle origini la Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la
propria fede in formule brevi e normative per tutti. Ma molto presto la Chiesa
ha anche voluto riunire l’essenziale della sua fede in compendi organici e
articolati, destinati in particolare ai candidati del Battesimo.
Il simbolo della fede non fu
composto secondo le opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti
salienti, scelti da tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa
della fede. E come il seme della senape racchiude in un granellino molti rami,
così questo compendio della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà
contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento.
187.Tali sintesi della fede vengono chiamate “professioni di fede”,
perché riassumono tutta la fede professata dai cristiani. Vengono chiamate
“Credo” a motivo di quella che normalmente ne è la prima parola: “Io credo”.
Sono anche dette “Simboli della fede”.
188.La parola greca “Sy’mbolon” indicava la metà di un oggetto
spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come segno di riconoscimento. Le parti
venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno
di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a
significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la
raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso
costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.
[dal Catechismo
della Chiesa Cattolica 1992-1997]
I Simboli
della fede, alcuni dei quali per la loro
origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la
comprensione legando affermazioni che
riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il
legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un
gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le
persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può
facilmente tenere nel proprio cuore.
Non va infine dimenticata l’importanza che
storicamente ha avuto, come fattore unificante, la liturgia, anch’essa regolata spesso da leggi della Chiesa, quindi con autorità.
Ora, per capire l’importanza che il Concilio
Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica, bisogna comprendere questo: esso
ha in qualche modo inciso su tutti e tre quei tradizionali fattori unificanti e ciò anche se, da un punto di vista
teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti
conciliari, di stabilire una continuità tra l’aggiornamento realizzato e la precedente
Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una cesura non c’è e non si avverte
nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I capi della Chiesa ebbero
l’impressione, nel dopo concilio di un marcato
sbandamento del corpo ecclesiale e se
ne preoccuparono. La biografia dell’attuale Papa ce ne parla.
Nel corso di quella grande assemblea mondiali
dei capi della Chiesa di allora, riuniti intorno al Papa, ci fu però la riscoperta
di un ulteriore fattore unificante
che alle origini c’era senz’altro e di cui si aveva avuto sempre
consapevolezza, ma sul quale nel corso della storia bimillenaria della Chiesa
non si era fatto molto affidamento, anche perché, in effetti, non poche volte
aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.
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18
Un popolo nuovo
(19
ottobre 2012)
E’ possibile che alcuni dei lettori che
entrano in questo blog non abitino
nel quartiere romano di Monte Sacro e in quella sua porzione che va sotto il
nome di Valli, perché le sue strade
portano il nome di diverse valli d’Italia: il posto in cui io vivo con gli
altri del mio gruppo di Azione Cattolica. Possono trovarsi anche molto lontano,
oltreoceano e addirittura agli antipodi. So ad esempio di famiglie di Ardigò
che discendono da genti che dalla provincia italiana di Cremona, homeland di tutti gli Ardigò del mondo,
emigrarono in Brasile e in Argentina, come mio nonno paterno. Ecco che allora
uno di quegli Ardigò, per trovare lontani parenti in Italia, potrebbe impostare
una ricerca sul WEB su uno dei tanti motori che servono a questo scopo ed
essere casualmente trasportato nella nostra piccola frazione di mondo. A
pensarci bene è una cosa straordinaria, fantascientifica al tempo della mia
infanzia e della mia adolescenza: essere connessi in una rete che collega potenzialmente miliardi di elaboratori elettronici
e, idealmente e di fatto, le persone che sono dietro a loro. Certo, questa è
poi solo una potenzialità, perché una
sola vita umana non basterebbe per entrare effettivamente
in relazione con tutta quella gente. Però è come quando si installa un
cartellone pubblicitario sull’autostrada: chi passa legge. E allora, coloro che
da lontano si mettono a leggere quello che in questi giorni sto scrivendo
possono chiedersi dove voglia andare a parare. Dovete allora capire, cari
lettori, che, certo, siamo lusingati del vostro interesse, ma qui ci si occupa
di una piccola comunità religiosa, dall’Azione Cattolica che è nella parrocchia
di San Clemente papa, in via Val Sillaro, Roma, Italia, Unione Europea: essa
quest’anno, prendendo lo spunto dall’indizione di un Anno della Fede, aperto per la Chiesa cattolica lo scorso 11
ottobre, ha iniziato a riflettere sul significato della sua esperienza
associativa e del suo ruolo nella Chiesa, anche per continuare a proporsi nella società che la circonda e
convocare in tal nuovi amici che
condividano i suoi ideali. Questo orientamento per così dire operativo si riflette nei temi trattati,
per cui argomenti più generali vengono condensati e sistemati sulla base dei
problemi che sono emersi nell’attività del gruppo.
Roma è, a confronto con le maggiori metropoli
del mondo, una piccola città, che, tutto sommato, conserva ancora una
dimensione umana forte. Alcuni giorni fa lo si è detto di Firenze e i fiorentini
se ne sono risentiti. Ma non è una cosa
negativa. Roma e Firenze sono città europee in cui si vive meglio che in altre
agglomerati urbani molto più grandi. Per rendere l’idea, invito a portare
l’attenzione su una grande conurbazione come San Paolo del Brasile, che conta
una trentina di milioni di abitanti. Il nostro quartiere, poi, è, all’interno
della città di Roma, una zona periferica del nord est senza particolari
problemi. E’ cresciuta nel dopoguerra vicina alla riva destra dell’Aniene, uno
dei principali affluenti del fiume Tevere, non molto distante dalla confluenza
tra i due corsi d’acqua. All’inizio venne abitata da molti dipendenti pubblici,
dello Stato, in particolare del Ministero del Tesoro e di quello delle Finanze,
ma anche da militari, e da dipendenti di
altri enti pubblici, poi da una popolazione più varia. I romani
de Roma, quelli che discendono da famiglie insediate a Roma da molte
generazioni, non prevalgono: i primi abitanti del quartiere arrivarono da varie
parti d’Italia, dal Nord e dal Sud, ma anche dall’Abruzzo, ad Est, ed erano
piuttosto giovani. Poi la popolazione si è fatta più anziana e solo negli
ultimi anni sono cominciate ad arrivare famiglie con bimbi piccoli. Si è
aggiunta anche un’emigrazione dal continente indiano, dalla Cina e dalla
Romania. Nuovi poveri hanno ripreso ad abitare in rifugi precari nelle
vicinanze del fiume, dove nel primo e secondo dopoguerra e fino agli scorsi
anni ’70 c’erano i baraccati, gli
sfollati per la guerra mondiale e poi i nuovi giunti emigrati dal Meridione.
Il nostro gruppo di Azione Cattolica è
composto in prevalenza di persone appartenenti alle famiglie che per prime si
insediarono nel quartiere: costituiscono il nostro nucleo storico. Come si sa, l’Azione Cattolica dalla metà degli scorsi
anni Settanta iniziò a perdere aderenti e ad avere difficoltà ad attirarne di
nuovi. Si possono individuare diverse ragioni di ciò che è successo. I fattori
negativi si sono succeduti e sommati. Complessivamente si può dire che la fede
religiosa, come fattore sociale aggregante, ha perduto forza e questo,
paradossalmente, proprio in anni in cui alcune convinzioni tratte
dall’esperienza religiosa, in particolare quelle che riguardavano i diritti umani e la dignità delle persone umane, venivano poste alla base dello
straordinario processo di unificazione continentale europea, una cosa mai accaduta nella storia
dell’umanità, e determinavano il
convergere di moltitudini verso l’Europa e quindi un’imponente espansione
politica per inclusione e non per
conquista e sottomissione di altre nazioni. Si è trattato di un successo
spettacolare, del quale di solito si è restii a rendersi conto. Basti pensare
che una frontiera caldissima, come quella che divideva il continente europeo
attraverso la Germania e lungo le frontiere orientali dell’Austria e
dell’Italia si è improvvisamente dissolta tra l’89 e il ’91 senza un conflitto
catastrofico. Questo enorme risultato non è attribuibile a questa o a quella
persona, ad esempio al cancelliere tedesco cristiano democratico Khol, al quale
pure si deve il processo di riunificazione politica, economica e sociale della
Germania e il ritiro pacifico dell’Armata rossa dalla Germania orientale, o del
nostro De Gasperi, democratico cristiano, o di altri, che si spesero in momenti cruciali. Si è infatti trattato
innanzi tutto di un’opera collettiva, corale, in cui sono stati protagonisti i
popoli europei. Per questo qualche giorno fa ci hanno dato il premio Nobel. Penso che si debba partire da
questa considerazione anche per riflettere sulle ragioni del nostro stare
ancora insieme in un gruppo di Azione Cattolica, impegnato, soprattutto dopo il
Concilio Vaticano 2°, a diffondere valori
nella società, in unione con tutte le altre persone di buona volontà.
Si osserva qualche volta che il Concilio
Vaticano 2° ebbe una visione ottimistica dei tempi. Effettivamente,
considerando quell’evento complessivamente, può essere osservato che i capi
ecclesiali i quali ne furono protagonisti nutrivano una certa fiducia nella
gente comune, in particolare in noi laici.
E, visti i risultati, non direi che si siano ingannati. Scrutarono, come
scrissero, i segni dei tempi e vi videro straordinarie opportunità,
determinate dal fatto che la gente, che in passato era stata in genere succube
dei propri capi politici, si era mostrata in grado di influenzare positivamente
il corso della storia.
I documenti conciliari furono scritti da
teologi cattolici. Il particolare metodo seguito dalla teologia cattolica
comporta che il nuovo in genere non venga proposto come trascinato dal futuro e verso di esso in
rottura con il passato, ma venga presentato come scaturente, e spinto
verso il futuro, da radici, in primo luogo in base alle scritture sacre e alla
tradizione, quindi da un passato gravido di futuro, senza cesure, senza
soluzioni di continuità. Questo anche quando ci si propone di attuare
cambiamenti molto significativi.
Ad un certo momento diventò centrale, nei
discorsi conciliari, l’idea di popolo
animato da grandi ideali religiosi, che venne presentato come nuovo (benché iniziato quasi duemila
anni prima e animato da una missione analoga
di salvezza) rispetto a quello antico costituito dall’Israele storico, senza che però il nuovo privasse di senso l’antico, data
l’irrevocabilità delle promesse dall’alto e il radicamento del cristianesimo
nell’ebraismo antico. Oggi questi discorsi non suscitano generalmente problemi,
ma ancora ai tempi del Concilio Vaticano 2° sì, e di molto grossi, e questo sulla base di una
teologia molto antica, risalente ai primi scrittori autorevoli della Chiesa,
dalla quale si erano tratte (indebitamente come riconoscemmo) conseguenze molto
gravi dall’idea di un nuovo che sostituiva l’antico. Ecco che, allora, questo ideale di nuovo popolo (in senso
prevalentemente storico e religioso) al
quale ci si riferì durante il Concilio quando si parlava di popolo di Dio, iniziato con il
cristianesimo circa duemila anni prima, venne ad un certo punto ad assomigliare abbastanza, per come veniva
caratterizzato, a quello di popolo nuovo (in senso prevalentemente sociale:
nel senso di collettività organizzata con proprie istituzioni e principi) - in
italiano si coglie una differenza di significato anteponendo o posponendo
l’attributo nuovo - manifestatosi
solo dopo la Seconda guerra mondiale, dove nella prima espressione si aveva
riguardo essenzialmente alla formazione di un popolo unificato su basi
prevalentemente religiose rispetto a quello, che lo aveva preceduto
storicamente, costituito prevalentemente su basi etniche, mentre nella seconda
si faceva riferimento a un tipo di
società umana come non c’era mai stata prima, che si era organizzata
storicamente nelle Nazioni Unite e in
altre organizzazioni (tra le quali oggi vi è la nostra Unione Europea) caratterizzate dalle medesime idealità e in particolare
dall’affermazione dell’universalità di
certi diritti umani fondamentali e dell’obiettivo della pace perpetua globale. Un’umanità nuova in cui, ad esempio, appunto, i
cristiani, per quegli ideali umanitari
non (più) visti in contraddizione con quelli religiosi da loro professati, si
proponevano di non perseguitare più gli ebrei e quindi in cui coloro che consideravano sé stessi il nuovo non cercavano più di sopprimere
coloro che consideravano l’antico. In
questo si poté quindi cogliere una “novità” di tipo nuovo del popolo
di Dio, ma radicata nelle origini, per cui l’evidente cambiamento di rotta venne considerato, in definitiva, una correzione di rotta, insieme pentimento e conversione, teshuvà in ebraico, come poi, anni dopo,
venne detto esplicitamente, in particolare dal papa Giovanni Paolo 2°.
Ecco
quindi un compito che si può individuare per noi cattolici europei che viviamo
in una relativamente tranquilla periferia della
Roma di oggi: contribuire a consolidare come nuovo popolo (in senso religioso) il popolo nuovo (in senso sociale) che siamo diventati insieme a molti altri
i quali, anche se non sono come noi esplicitamente religiosi, condividono certe
nostre idealità che a ben considerare hanno fondamento religioso. Che è come
dire: consolidare nella società di oggi certi valori che hanno base religiosa, come non cessano di
ricordarci i nostri vescovi.
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19
Micro-Macro e la ricerca della felicità
(20
ottobre 2012)
Riprendo
la riflessione sul libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 129, euro 8,00,
formato tascabile (cm 11,5x16,5), con introduzione di Giorgio Campanini e un
pezzo di Giuseppe Gervasio inserito come prefazione alla precedente edizione
del 1997 (si tratta del testo di un intervento che Dossetti, ormai prete e
monaco dopo essere stato molti anni prima professore universitario e politico,
fece il 1 ottobre 1987 durante il Congresso eucaristico della diocesi di
Bologna):
Come la Chiesa riunita dell’assemblea
eucaristica è l’epifania [=manifestazione. Nota mia] anticipata del Regno, così la Chiesa
inviata dall’Eucaristia è un’epifania della “polis” [=città in senso
politico, come organizzazione sociale. Nota mia] salvata: “politicità” tutta “sui generis” [=in un senso
particolare, suo proprio. Nota mia], che
non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno
di appetibile, ma unicamente per quello che sono “in mysterio” [nel mistero
della loro realtà che rileva per fede religiosa. Nota mia] (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè
incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più
intimo, più invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso.
Nota mia], creando e divulgando ovunque –
nel seno di ogni società grande o
piccola, soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni
sociologi laici ora raccomandano – un’atmosfera
di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di
amore-oblativo [=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli
altri, con spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e
mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine
121 e 122].
Queste
parole di Dossetti ricordano quelle che troviamo nella costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°,
al capitolo 2°, n. 19:
[…] il popolo messianico, pur non
comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come
un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte
di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui
assunto ad essere strumento di redenzione di tutti e, quale luce del mondo e
sale della terra (si confronti Mt
5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Essere inviati
collettivamente al mondo per essere strumenti
di redenzione, vale a dire per influire
su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza
religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e
che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento
individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente
perché rifiuta di dominare gli altri
e si propone di incontrarli nel loro
intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di
relazioni personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto
un tipo di felicità, una società in
cui nessuno sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga
incontro alle esigenze degli altri con trasporto di tipo materno e li si tratti con animo fraterno, riconoscendo loro quella particolare dignità che deriva loro dall’essere figli di un padre comune
(notate che certi concetti possono essere espressi bene solo con metafore
tratte dalla vita familiare, molto idealizzata).
Ora,
naturalmente quest’ordine di idee presenta già qualche problema se lo si
applica a piccoli gruppi, i quali pure vogliano impegnarsi effettivamente a
realizzare quel tipo di comunità a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà
sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di
milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli
illuminati rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) si limitarono prudentemente a riconoscere il
diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come
collettività. E’ chiaro dunque che questo lavoro
nella società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere
stati ad essa inviati), è
particolarmente difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo
individuo e richiede un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono
ispirati dalle nostre stesse idealità. Esso parte dai principi religiosi, ma richiede anche una sapienza umana
che origina da ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la
comprensione dei tempi e del mondo in cui si vive, interagisce con quanto altri sono, fanno,
sanno capire, conoscono del mondo in cui vivono, e può produrre determinazioni comuni su ciò
che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti concreti. Ma c’è
di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche, come può essere ad
esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere, deve mantenere
comunque vitali quelle dimensione
sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più limitate, a
partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova sostegno,
orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio avviso,
significa non incontrare l’uomo
dall’esterno e in superficie, ma nel
suo “sé” più intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi
tenere insieme macro e micro.
Questo
lavoro di cui ho parlato è il campo operativo principale dell’Azione Cattolica.
Per
oggi concludo osservando, nella linea di Dossetti, che in tutto questo agire
collettivo ben ispirato si è indubbiamente esposti a una tentazione piuttosto
forte, che è quella di ritenere che l’opera del nostro ingegno, le costruzioni
sociali che riusciamo storicamente a realizzare, corrispondano ad un certo
punto a un modello di perfezione sotto il profilo propriamente religioso, si
tratti di famiglia naturale, di
comunità religiosa, di organizzazione di
una città, di uno stato nazionale, di un ordinamento pubblico sovranazionale e,
al limite, di un ordinamento globale di tutti i popoli della Terra, come nelle
intenzioni vorrebbe essere l’organizzazione delle Nazioni Unite. Questa identificazione tra soprannaturale e
naturale, espressa storicamente dal motto Dio
è con noi, non la possiamo però legittimamente mai affermare, perché ci è
stato detto che il Regno beato non è di
questo mondo, con tutto ciò che da questo consegue. Nella visione di
Dossetti, per quanto (giustamente) ci si dedichi a costruire comunità amorevoli e materne, ogni espressione
della socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e in essa
elementi positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre mescolati a
elementi negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti storicamente ad attuare e
quello che definiamo come “il Regno”. E ciò si avverte con più forza a
misura che le collettività organizzate diventano più grandi, aggregando
moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le dimensioni dell’umanità intera, e
a misura in cui esse incidono maggiormente nelle vite delle persone. Dossetti
precisa:
Il regno di Dio è Regno dei
cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e
neppure si prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente
sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo,
che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Rimane
pertanto questo paradosso, che, inviati verso gli altri per migliorare sulla base dei nostri principi di fede le
società in cui insieme ad essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle
società degli estranei, degli stranieri,
dal punto di vista religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione.
C’è sempre infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati
ottenuti e questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle
specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera
nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo
nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere
di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da
poco nell’ottica della nostra completa integrazione
civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto
alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il
nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e
quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità
costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di
loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre
obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro
omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.
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20
Uguale dignità nella Chiesa tra tutti i fedeli
(21
ottobre 2012)
Sintetizzo le riflessioni che ho svolto nei
giorni scorsi su uno dei temi ancora caldissimi
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), nel senso che in quella grande assemblea
fu intuito e sviluppato concettualmente, ma ancora la sua realizzazione è, come
dire, in corso d’opera, e si tratta di
un lavoro in cui l’Azione Cattolica è particolarmente impegnata.
Prima di cominciare richiamo alla vostra
memoria questo che segue, di cui mi sono occupato in interventi precedenti:
a)dalla fine del Settecento e in particolare dalla metà del secolo scorso, si è
prodotta nel mondo una evoluzione politica delle istituzioni supreme per
la quale si è passati da forme di governo caratterizzate dall’accentramento del
potere in poche persone, dalle quali poi il potere veniva delegato in un scala
gerarchica discendente, ad altre che consentivano una più larga partecipazione
delle genti; b) questi sviluppi erano basati sull’idea di uguaglianza intesa come pari dignità sociale; c) la pari dignità
sociale è fondata sull’affermazione di diritti
fondamentali che devono essere riconosciuti a moltitudini di esseri umani;
d) il riconoscimento di questi diritti fondamentali è alla base del metodo democratico, quello che rende
possibile la partecipazione di masse al potere supremo e che quindi non
consiste solo nella regola secondo la quale vince la maggioranza; e) dopo il
secondo conflitto mondiale il movimento per il riconoscimento universale dei diritti umani fondamentali di tutti gli
esseri umani ha avuto il suo massimo sviluppo, producendo, ad esempio con a Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo delle Nazioni Unite,
una serie di dichiarazioni in cui quei diritti fondamentali non vennero più
legati a una condizione di cittadinanza
politica particolare (essere cittadini italiani o di un altro stato), ma
alla sola condizione di esseri umani;
f) nel mondo globalizzato (che
significa unificato dal farsi più deboli le frontiere politiche che lo
dividevano) di oggi il sistema dei diritti umani fondamentali sta avendo la sua
massima estensione ed è alla base dell’idea di cittadinanza universale, realizzata la quale non vi sarebbero più
nel mondo apolidi, genti private di
una qualche possibilità di influire sui destini comuni; g) l’idea dell’esistenza
di diritti umani fondamentali ha
fondamento religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano, perché, in fondo, non può
argomentarsi per altra via l’idea della pari
dignità degli esseri umani, che per i cristiani dipende dall’essere stati tutti
gli esseri umani creati uguali sotto quel profilo della dignità, da un unico Padre.
Questi sviluppi democratici dell’ordine mondiale trovarono eco nella gerarchia
cattolica a partire dal radiomessaggio
natalizio del 1944 del papa Pio 12°
(la Seconda Guerra Mondiale era ancora in corso in una sua fase particolarmente
cruenta):
Il problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto
più importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete,
travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla
persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se
non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei
poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso
della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile
catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi
è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
Poiché
ha rinunciato ad esercitare un potere politico diretto, salvo che su una specie
di simulacro di stato nel quartiere Vaticano in Roma, e ritiene di avere la
missione di custodire inalterati alti ideali che riguardano il senso
dell’universo, il destino degli esseri umani e la morale, la gerarchia della
Chiesa cattolica, intesa come il papa e i
vescovi, non ha voluto, sulla scia del movimento democratico globale, democratizzare anche la Chiesa cattolica, nel senso di sottoporre certe decisioni
supreme, ma anche molte di minore spessore,
al consenso della maggioranza.
Paradossalmente quindi la Chiesa, pur consigliando la democrazia al suo
esterno, rimane una potenza non
democratica, essendo tutto il potere canonico (sull’organizzazione
ecclesiale) concentrato nel Papa romano e nella sua piccola corte (la Curia
vaticana) e solo parzialmente decentrato ad altri vescovi. Tuttavia gli
sviluppi contemporanei dell’idea di pari
dignità degli esseri umani, che del resto ha fondamento religioso, non sono
stati del tutto senza conseguenze nella Chiesa. Ciò si rileva particolarmente nei
documenti del Concilio Vaticano 2°, che per altro, secondo il metodo della
teologia cattolica, la quale si sforza di tenere
sempre insieme vecchio e nuovo,
passato, presente e futuro, l’umanità antica e quella nuova, i morti e i vivi e
i popoli di tutta la Terra, secondo il comandamento
di unità ricevuto, sono formulati in modo da evidenziare particolarmente la continuità piuttosto che la novità.
Un
passo centrale lo si ritrova nel capitolo 4°, n. 32, della Costituzione
dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa, dove è affermata la vera uguaglianza riguardo alla dignità e
all’azione comune di tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo.
Questo il brano:
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per divina istituzione,
organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo, infatti, che in uno-
stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le stessa
funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e
individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).
Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto
da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro
rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la
vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e
una carità senza divisioni. Nessuna
ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o
nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né
Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi
siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per
la stessa via, tutti però sono chiamati
alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella
giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo
siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri,
tuttavia vige fra tutti una vera
uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli
nell'edificare il corpo di Cristo.
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Che cosa comporta, per noi laici, questa pari dignità nella Chiesa?
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21
Città di Dio, città dell’uomo, città del
diavolo
(22
ottobre 2012)
Il peccato che è nell’uomo
decaduto si ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più vaste e
complesse: queste ultime possono assicurare agli uomini vantaggi sensibili in
varie direzioni, ma tendono a porsi come grandi concentrazioni di potere (le
megalopoli, gli imperi) e divenire sempre più anonime e soprattutto consentire
uno sfrenamento più incontenibile delle peggiori passioni umane: l’ambizione
prevaricatrice, l’avidità di illimitati guadagni, il lusso spettacolare, la
lussuria sempre più cupida di ogni perversione, l’adulterazione
industrializzata della verità, lo spargimento ingiusto di sangue ecc. Sicché
non si può parlare di un’ambivalenza delle forme sociali e del potere, come
fanno molti sociologi contemporanei, ma il credente deve riconoscere un loro
inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio più grave di tutti è la
guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a livello planetario.
[da Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]
Dossetti pronunciò le parole sopra riportate
dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e l’esperienza biblica,
dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si era nel 1987, in un
mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in particolare, non si era
ancora nell’era della globalizzazione,
della interconnessione planetaria delle economie e delle società umane. L’umanità era dominata da due grandi sistemi
politici sovranazionali, quello centrato sugli Stati Uniti d’America e quello
che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e seguiva due gruppi di sistemi
economici, piuttosto articolati al loro interno, quelli di tipo capitalista e
quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse di perversione sociale
venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli schieramenti, che
concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno il rovescio
dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli universi sociali
contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti della civiltà umana in cui si trovava, poteva fare
riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno
del bene, a un modello positivo.
Ai tempi nostri quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta
da potenze umane omogenee ed è diventata così più significativa la critica
globale alle società umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo
Dossetti: il male appare come universalmente connaturato con l’esperienza delle
società umane e da esse ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una
semplice ambivalenza tra male e bene,
ma un inquinamento profondo che ora
si manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E
tuttavia, paradossalmente, il rischio di
guerra globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle
parole, sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei
tempi antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un
tempo in cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa è anche opera umana. La pace ha anche una
valenza religiosa e quindi si è spinti a ragionarci su anche sotto questa
prospettiva. E ci si può chiedere come conciliare le esigenze di impegno nel mondo nuovo in cui ci troviamo a vivere
con il pessimismo biblico sulle
organizzazioni sociali umane.
Bisogna allora evidenziare un importante problema che noi, gente di
fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre persone al di fuori della cerchia
di chi condivide le nostre convinzioni religiose, le cose del nostro mondo: i
principi ai quali vogliamo riferirci per orientare le nostre condotte
individuali e collettive sono tratti da un’antica sapienza che si è formata in
un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo. Non si tratta di una
differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad esempio, il mondo è più
popolato; le armi oggi sono più potenti e via dicendo), si tratta di una novità profonda, strutturale e piuttosto
recente. Non dobbiamo però pensare che si tratti di un processo anche irreversibile. I tempi nuovi in cui ci troviamo dipendono da una certa
organizzazione sociale molto complessa e quindi anche particolarmente fragile,
nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni fa uno scrittore italiano
scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli, della
crisi di un’organizzazione sociale umana moderna molto articolata e complicata.
Un nuovo medioevo, in senso negativo,
una regressione catastrofica, è
quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo prefigurare le
condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche su scala
globale ne possono essere considerate in qualche modo delle avvisaglie. Oggi più che in qualsiasi altra precedente
epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre società, una
sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e dall’interazione
solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per
preservarla dai pericoli e dal male che
sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge
verso la Città di Dio e quella che
invece tenta verso la Città del diavolo,
compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per
la costruzione della Città dell’uomo,
espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba
impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in
concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e
cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di
mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello
di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non
poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una
specie di carestia biblica che
coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico
soprannaturale. Siamo spinti a scuoterci da una certa passività nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane a cui ho accennato e dal concepirci sempre
come stranieri in ogni patria
terrena, nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella
della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato
che questi sforzi collettivi possono avere successo. Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca:
per ogni problema se ne possono infatti
pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono
dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è
strettamente correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno
un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani.
Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo
realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa,
che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è
più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità
di una dottrina con quelle pretese
formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a
un contesto teologico, di coerenza teologica.
Mi piacerebbe, a questo punto, concludere
anticipandovi la soluzione delle soluzioni,
il discorso ragionevole che chiuda il sistema in modo rassicurante per noi
persone religiose, chiarendo che il problema è solo apparente e che vi è ancora
una via semplice per vivere da
persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo, perché di passo in
passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre concezioni religiose,
oltre le quali, benché la storia ci spinga collettivamente in quella direzione,
non si sa bene che cosa ci si debba aspettare.
Voglio precisare che la novità della
situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su scala globale,
mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città, quartieri,
condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena
affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede,
caratterizzato da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra
nella nostra esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in
essa, nella nostra vita feriale, e
può, ad esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che
chiede il riconoscimento di una cittadinanza
universale sulla base di quella nuova
organizzazione globale delle cose umane di cui dicevo. In questioni come queste anche
noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si
tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle
democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre
scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel
continente europeo.
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22
Quale impegno nell’Anno della Fede? Andare avanti!
(24
ottobre 2012)
Nella riunione di ieri del nostro gruppo ci
siamo interrogati su quale debba essere il nostro atteggiamento in questo Anno della Fede, indetto dal papa
Benedetto 16° con la lettera apostolica Porta
Fidei (trad. porta della fede) dell’11 ottobre 2011 e aperto lo scorso 11 ottobre, cinquantesimo
anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Potete trovare il documento all’indirizzo WEB:
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_porta-fidei_it.html
Leggendo le parole del Papa possiamo individuare
questi presupposti e obiettivi
dell’iniziativa:
·
entrare nella Chiesa significa impegnarsi in
un cammino che dura tutta la vita. La fede cristiana è come una porta che, attraverso il Battesimo, ce lo fa iniziare;
·
bisogna riscoprire questo cammino nella fede, perché la
fede ai tempi nostri non è più un presupposto ovvio;
·
dobbiamo ritrovare
il gusto di nutrirci del cibo che rimane
per la vita eterna, vale a dire della Parola
di Dio trasmessa dalla Chiesa e del Pane
di vita, per continuare a credere in Gesù, il Cristo;
·
attraverso la propria testimonianza di vita i
cristiani sono poi chiamati a far
risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato;
·
l’Anno
della Fede in questa prospettiva è un
impegno a una rinnovata e autentica conversione al Signore, unico Salvatore del
mondo;
·
in questo spirito è anche necessario un più convinto impegno ecclesiale a
favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e
ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede; esso scaturisce da una fede rafforzata;
·
il
percorso comune nell’Anno della Fede
deve portarci a capire in modo più profondo non solo i contenuti della fede ma anche il senso del credere, l’atto con cui
decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà, che è dono di Dio e azione della sua grazia, la quale agisce e trasforma la persona fin
nel suo intimo;
·
la
professione di fede comporta anche assumersi
la responsabilità sociale di ciò che si crede: non è un fatto privato e implica anche una testimonianza ed un impegno
pubblici; essa quindi è un atto
personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto
della fede;
·
per la conoscenza sistematica dei contenuti
della fede cristiana tutti
possono trovare nel Catechismo della
Chiesa cattolica (1993; 1997) un sussidio prezioso ed indispensabile;
·
non dobbiamo temere di argomentare
razionalmente la fede, anche in quest’epoca in cui molti ritengono che certezze
razionali possano conseguirsi solo nell’ambito del pensiero scientifico e
tecnologico, perché confidiamo che tra la fede e la scienza non vi sia
conflitto, in quanto entrambe, anche se
per vie diverse, tendono alla verità;
·
sarà decisivo nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della
nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e
peccato;
·
In
questo tempo siamo invitati a tenere
fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che dà origine alla fede e la porta a
compimento; in lui, morto e risorto
per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato
questi duemila anni della nostra storia di salvezza”;
·
nell’Anno della fede dobbiamo vedere anche
un’occasione per intensificare la nostra testimonianza
della carità; la fede senza la carità
non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia
costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una
permette all’altra di attuare il suo cammino;
·
nell’Anno della Fede siamo inviati a
scuoterci da una certa pigrizia nel
conoscere e testimoniare la nostra fede religiosa comune; in particolare ciò
riguarda i più anziani, che ritrovino gli ideali di gioventù: “Giunto ormai al termine della sua vita,
l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di ‘cercare la fede’ (cfr 2Tm 2,22) con la stessa costanza di
quando era ragazzo (cfr 2Tm 3,15).
Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede”.
·
nella
fede siamo ricolmi di gioia perché, pur vivendo anche l’esperienza della
sofferenza “noi crediamo con ferma
certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la morte. Con questa sicura
fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del
maligno (cfr Lc 11,20) e la
Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno
della riconciliazione definitiva con il Padre”.
Ora,
uno dei modi di intendere gli impegni proposti nell’Anno della Fede è
quello di presentarli come un cammino di
ritorno: ci siamo allontanati dalla verità e ritorniamo indietro, riconoscendo il male che c’è in noi e che da
noi è scaturito. Questo corrisponde a figure storiche che troviamo nell’Antico
Testamento e, in definitiva anche a insegnamenti che troviamo nel Nuovo. Ma
esso presenta alcuni problemi, che sono collegati all’idea di cammino, a questa che è una metafora
bella e suggestiva fino a che
corrisponda a come la Chiesa vuole concepire sé stessa. Ora, a ben considerare,
questa idea del ritorno nella lettera
apostolica citata non c’è (c’è quella
di conversione, che è un’altra cosa:
è cambiamento e nuovo orientamento come manifestazione di fede). Infatti il cammino che si propone ai fedeli non è verso la fede, ma a partire dalla fede (concepita come una porta). Certo, poi, per opera della grazia dalla nostra
testimonianza di fede può accadere che altri, dal di fuori, decidano di passare per quella porta, ma per loro non si tratterà di un ritorno. Il documento del Papa a questo proposito si apre con la
citazione di un brano degli Atti degli apostoli, 14,27 in cui si legge
(versione CEI 2008):
Appena arrivati, riunirono la
Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto capire per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della
fede.
Quel
passo si riferisce al ritorno di Paolo e di altri suoi compagni da una missione
in città del mondo pagano del loro tempo.
Per
quanto indubbiamente nella vita delle persone ci possano essere momenti in cui
esse si allontanano dalla Chiesa e
poi le si avvicinano nuovamente, in
un movimento effettivamente di ritorno,
e quindi ci sono anche dei gruppi per così dire specializzati nel favorire questa decisione di rientro (anche se è tutta la Chiesa che dovrebbe ritenersi
impegnata in questo), nella lettera apostolica citata non è questo ad essere centrale. Piuttosto il Papa appare
preoccupato di una certa pigrizia e distrazione
di noi fedeli nel rispondere alle
esigenze di fede, nel trarre le conseguenze dalla nostra professione di fede, e
teme che questo accada perché riflettiamo troppo poco su di essa. Non ci siamo
dedicati abbastanza a tenere viva la comprensione dei contenuti della nostra
fede e nel nostro impegno sociale, quando c’è stato, a volte abbiamo tenuto più conto delle conseguenze sociali,
culturali e politiche di esso
che della sua origine religiosa, in una sorta di secolarizzazione dell’azione nostra. L’Anno della Fede, per come io credo di aver compreso l’invito che ci
è stato rivolto, deve così servire a scuoterci
da questa pigrizia e a porci nuovamente in cammino secondo
l’orientamento che ci viene dalla comune fede
religiosa: appunto un cammino nella fede.
Come battezzati infatti, a prescindere
da quella pigrizia e da quelle distrazioni abbiamo mantenuto sempre
piena cittadinanza nella nostra Chiesa, non ne siamo mai usciti e nessuno ce ne
può cacciare fuori, e questo è un effetto irreversibile del Battesimo.
Questo dobbiamo sempre ribadire con
la massima forza, contro ogni retriva tentazione reazionaria, che storicamente
purtroppo è sempre presente di quando
in quando.
Per come la vedo io, noi, piccolo gregge
dell’Azione Cattolica in San Clemente papa, in questo Anno della Fede, non dobbiamo prendere la strada per andare da
qualche parte indietro, ma siamo spinti proprio dalla nostra fede in avanti.
La
lettera apostolica citata pone poi espressamente, tra gli impegni per l’Anno della Fede, quello di “ripercorrere la storia della nostra fede, la
quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato”.
“Mentre la prima evidenzia il grande apporto che uomini e donne hanno
offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con la testimonianza della
loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una sincera e permanente opera
di conversione per sperimentare la misericordia del Padre che a tutti va
incontro.”
In
questo ci indica anche quell’impegno di purificazione
della memoria, che significa comprendere ciò che nel nostro passato
ecclesiale non andava nella direzione giusta e distaccarsene per il futuro
(senza con questo volere anticipare il giudizio divino sulle vite delle persone
che di quel passato furono artefici),
sulla quale la nostra Chiesa si è avviata per iniziativa del papa Giovanni
Paolo 2° in occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
La
concomitanza tra l’apertura dell’Anno
della Fede e il cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2°, grande occasione di aggiornamento della nostra Chiesa, pur
nella fede della Tradizione, rende chiaro che non è al passato che ci viene
chiesto di guardare, in particolare a modi organizzativi che si riferiscono ad
epoche che non sono più.
Ciò che
del passato ci viene richiesto di riscoprire
è la fede della Tradizione, la fede
di sempre, che è fede in colui che riteniamo il Salvatore dei secoli, ieri,
oggi e domani: egli vive e trae a sé tutto.
Certo,
cari amici, ieri contandoci e considerando le nostre forze reali, dico noi del nostro
gruppo in San Clemente papa, ci siamo chiesti se questo compito verso il quale
siamo spinti in questo Anno della Fede
non superi di molto le nostre forze. Ma non dobbiamo scoraggiarci, perché, e
questa è una delle cose che possiamo riscoprire
in questo Anno della Fede, noi non
siamo soli: siamo parte di un lavoro collettivo molto più grande e poi
confidiamo, nella fede, in colui che può dare successo a tutte le nostre opere.
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23
E
pluribus unum: quale fondamento per l’unità?
(25
ottobre 2012)
Sullo stemma degli Stati Uniti d’America
compare il motto latino E pluribus unum,
che significa da molti, uno. Fu
proposto dai rivoluzionari autonomisti nordamericani Adams, Jefferson e
Franklin nel 1776 e successivamente adottato ufficialmente. Si riferisce alla
volontà delle tredici colonie britanniche nordamericane di unirsi in una
dichiarazione di indipendenza contro la Gran Bretagna, fondata sulla
convinzione della pari dignità umana, per essere stati gli esseri umani creati uguali in certi diritti umani fondamentali inalienabili
e, innanzi tutto, in quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della
felicità. Perché mi riferisco spesso alla nascita degli
Stati Uniti d’America? Perché quella vicenda storica segna l’origine delle
democrazie contemporanee e, nello stesso tempo, la creazione di un’unità
politica in democrazia caratterizzata da un forte anelito religioso cristiano.
Essa mostra quindi che ideali cristiani e
ideali democratici possono convivere, non sono necessariamente in conflitto.
Ciò con cui la democrazia non può convivere è infatti la tirannia. Questo era
tanto chiaro a quei rivoluzionari che Benjamin Franklin aveva anche escogitato
un altro motto: Ribellarsi al tiranno è
obbedire a Dio. Benché quest’ordine di idee fosse molto antico
nell’ideologia cristiana e fosse stato in particolare affermato, su basi bibliche, nell’ordine
concettuale di S.Tommaso D’Aquino (filosofo del Duecento, il cui pensiero venne
approvato ufficialmente con l’enciclica Aeterni
patris del Papa Leone 13° - del 1879), la democrazia come è intesa oggi (con l’affermazione del diritto
politico di resistenza al tiranno che violi quei diritti umani fondamentali
inalienabili) venne accettata dalla Chiesa cattolica come regime politico
preferibile solo nel 1944 (radiomessaggio natalizio del papa Pio 12°).
Anche lo stato dal quale i rivoluzionari
nordamericani vollero staccarsi era fondato sull’unità di diversi popoli
(Inghilterra, Galles e Scozia: la Gran Bretagna), In questo caso però il fattore di unità era la sudditanza a una
dinastia monarchica, la quale ad un certo punto, sulla base di precise accuse
storiche esplicitate nella Dichiarazione
di indipendenza del 1776, venne
vista come tirannica. Paradossalmente quindi la proclamazione di un’unità
politica su certi principi, fatta dai rivoluzionari nordamericana, coincise con
la secessione da un’unità politica fondata sulla sudditanza a un potere visto
come tirannico.
La questione dei fondamenti dell’unità è stata una di quelle fortemente critiche anche nella Chiesa cattolica, in particolare da
quando, nel quarto secolo della nostra era, essa divenne rilevante per l’unità
politica dei popoli unificati nell’impero romano e successivamente anche per quella dei nuovi stati sorti dalla
dissoluzione, nell’Europa Occidentale, di quel dominio. Quando si parla di radici cristiane dell’Europa ci si vuole
riferire anche a questo. In questa materia ha inciso
potentemente il Concilio Vaticano 2°, aprendo veramente una nuova epoca.
Il punto di partenza del nuovo ordine
concettuale è la pari dignità delle
persone che formano il popolo di Dio.
...comune è la dignità dei
membri per la loro rigenerazione in
Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla
perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna
ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa riguardo alla stirpe o
nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché “non c’è né Giudeo né
Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete
uno in Cristo Gesù (Gal 3,28 gr; cfr Col 3,11).
[…]
… vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e
all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Questa pari dignità conduce a rispettare la varietà nella Chiesa che raduna quel
popolo
La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con
mirabile varietà.
[…]
Così nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile
unità nel corpo di Cristo.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Il fattore di unità è di ordine spirituale:
… infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore,
il quale per tutta la Chiesa e per tutti
e singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell’insegnamento
degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle
preghiere (cfr At, 2,42).
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
La
realizzazione dell’unità è impegno comune di tutti i fedeli:
…le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la
Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono con uno scambio
mutuo universale verso la pienezza dell’unità.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
Ad essa
siamo spinti dalla legge dell’amore
cristiano:
Questo popolo messianico ha per capo Cristo […] Ha per condizione la
dignità e la libertà dei figli di Dio, nel core dei quali dimora lo Spirito
Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso
Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34).
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.9]
Per
capire a che tipo di amore ci riferisca quando si parla della legge cristiana dell’amore è opportuno leggere
il testo greco del brano del Vangelo di Giovanni citato nella costituzione
dogmatica: “Entolèn cainèn dìdomi umìn,
ina agapàte allèlus, cathòs egàpesa umàs, ina cai agapàte allèlus.”
(trad.:Vi do un comandamento nuovo
che vi amiate [agapàte] gli uni gli altri; come io vi ho amato
[egàpesa], così amatevi [agapàte] anche voi gli uni gli altri”. In questo
brano viene utilizzato il verbo greco agapào che ha la stessa radice del
sostantivo agàpe [in italiano tradotto con amore], il quale nella Bibbia richiama l’idea di pasti comuni come segno d’amore reciproco.
Riassumendo: secondo le concezioni conciliari,
l’unità non significa necessariamente uniformità
e trova fondamento dal basso, in una
comune ispirazione ideale che spinge gli uni verso gli altri, come
quando si partecipa a una bella cena tutti insieme, per una comunione di vita, di carità e verità [Lumen Gentium, n. 9].
Ora,
non è che queste idee siano veramente nuove, perché erano tra quelle
fondamentali fin dalle origini. La loro portata innovativa sta nel fatto che
esse sono stata proclamate nel Concilio Vaticano 2° dopo che per quasi due
millenni i fattori di unità nella Chiesa cattolica erano stati visti
principalmente nella sudditanza sacrale
ad un unico Pastore terreno e
nella stretta uniformità ideologica e
liturgica (ad esempio nell’uso universale del latino liturgico).
Dove
voglio andare a parare con tutto questo? Cerco di dirlo nel modo meno
“traumatico” possibile.
Il
fatto che l’Anno della Fede che è
appena iniziato sia stato così esplicitamente
collegato al Concilio Vaticano 2°, tanto da essere stato fatto iniziare nel
giorno del cinquantesimo anniversario dell’apertura di quel concilio, rende ben
chiaro che non si vuole da noi il ritorno
alla preponderanza degli antichi fattori di unità. Quell’era della nostra
confessione religiosa è finita.
Dobbiamo resistere alla tentazione di “ritornare” nel senso di
incamminarci di nuovo per vecchie strade che portano a un mondo dal quale
faticosamente ci siamo infine distaccati, dopo tanto dolore, perché basato su
principi non evangelici. L’evo antico ha comportato nella storia della
Chiesa, della quale nella lettera
apostolica Porta Fidei di indizione
dell’Anno della Fede siamo chiamati a
prendere maggiore consapevolezza, fatti gravi dei quali abbiamo dovuto
collettivamente pentirci, sotto la guida del papa Giovanni Paolo 2°, nel corso
del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
[…]
Un
Rappresentante della Curia Romana:
Preghiamo
perché ciascuno di noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Preghiera
in silenzio.
II
Santo Padre:
Signore,
Dio di tutti gli uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison; Kyrie, eleison.
[Dalla
liturgia della Giornata del perdono,
celebrata il 12-3-2000 nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000]
Come risulta
chiaramente dalla lettera apostolica di indizione, si vuole che nell’Anno della Fede noi fedeli approfondiamo un cammino comune nella fede,
aiutandoci gli uni gli altri in unione
spirituale pur nella legittima
varietà di stili di vita individuali
e comunitari, anche per un rinnovato impegno di testimonianza nella società in
cui viviamo, per influire in tal modo su di essa con rinnovata sapienza e consapevolezza infondendo valori cristiani, cercando di promuovere,
secondo il comando ricevuto, l’unità spirituale di tutti i popoli della Terra. Non ci viene chiesto invece di realizzare
un’unità discriminatoria, separando da noi, come “infedeli” o “scarsamente
fedeli”, coloro che su alcune cose legittimamente la pensano diversamente da
altri, nel presupposto che questi ultimi siano monopolisti della retta
dottrina, della retta liturgia, dei retti principi di vita comunitaria.
Questo significherebbe in un certo senso tornare al nostro tremendo passato,
equivocando gli scopi dell’importante iniziativa alla quale siamo stati tutti chiamati.
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24
Gioia e timore alla base dell’impegno religioso nella società
(27
ottobre 2012)
Leggo in Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8, che ho utilizzato questa estate per le mie
meditazioni religiose:
[…] nella … nuova economia l’amore –motivo
fondamentale dell’osservanza dei precetti non elimina il santo timore filiale
che, con soggezione totale e trepidante adorazione della maestà di Dio, deve
permanere a ogni livello della vita spirituale.
Perciò,
anche restando nel Nuovo Testamento, vediamo che c’è un timore di Dio che e
inculcato assiduamente dagli apostoli (la stessa Lettera ai Romani 11,10; la
Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato
da Gesù stesso come necessario (Mt 10,28),
[…]
Certo l’Eucaristia, se davvero vissuta nella
fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia sensibile.
Deve
esser una gioia non adolescenziale, ma da adulto, che non presuppone … di
saltare il timore, ma che nasce proprio da un timore virile e consapevole:
stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo eterno di Dio”.
Questo
discorso che Dossetti riferiva specificamente all’Eucaristia può essere
esteso all’atteggiamento che complessivamente la persona religiosa può avere
nei confronti del tempo e della società in cui si trova a vivere. Il timore
deriva dalla consapevolezza della grandezza degli ideali professati e dalla
conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della stessa fonte e, in
particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano basati solo sulle
proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso, sia tratto da una
forza irresistibile, non spinto da noi, verso un suo beato compimento. In altre circostanze,
al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva
dall’incertezza sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla
considerazione dell’insufficienza delle proprie forze e conseguentemente la gioia, se anche c’è,
finisce per essere piuttosto precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia nell’oggi e anzi addirittura solo nell’ora corrente. Quella che scaturisce dal
timore religioso è invece gioia per il passato,
per il presente e per il futuro, quindi si basa su una
valutazione complessivamente positiva e fiduciosa della storia. Si fonda su una
considerazione realistica delle cose come vanno, e questa è come si dice nel
lessico attuale la sua laicità,
perché la fede non è solo immaginazione e sentimento, ma anche su una
spiritualità intima e quindi profonda che cambia molto l’atteggiamento che si
ha verso ciò che ci circonda e che, in tanti modi, ci determina, ci interroga,
ci sollecita e, a volte, ci atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di
fronte ad ogni difficoltà della vita, sia
essa di quelle proprie personali o di quelle di realtà vicine come la
famiglia o l’ambiente umano abituale, come anche su scala maggiore, di quelle
che riguardano la propria città, regione, nazione o, al limite, l’intera
umanità, innanzi tutto si raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare
il suo legame con il fondamento beato, in quell’atteggiamento che Dossetti
indica come di devozione filiale,
quindi in una familiarità di relazione con esso che non intacca il sentimento
di stupore e trepidazione di fronte ad un assoluto che si pensa
sorprendentemente animato da amore viscerale, materno, ma anche virile, paterno, nei confronti di noi
umani. Il passo successivo è quello della comprensione
del mondo intorno a sé e poi dell’azione in
esso, nel tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel
proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire
e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica,
Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di
quel fondamento religioso, nell’impegno laicale
nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte,
innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle
istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come
cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione
sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi
dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente
responsabilità globale in ciò in cui di fatto si influisce su di essa
o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio
si definisce come cattolicità attiva,
che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti
della nostra confessione religiosa (ad esempio per procurarle privilegi ed
esenzioni) o di militi o messi di una
potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio
l’imperativo religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità,
insegnando loro ad osservare tutto ciò
che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.
Questo programma, che ho esposto brevemente,
non è facile da attuare e, innanzi tutto, richiede che si impari a collaborare
con gli altri. L’impegno religioso, come ci
è stato ricordato nella lettera apostolica Porta Fidei (2011) con cui è stato indetto l’Anno della Fede iniziato l’11 ottobre scorso, non è un fatto privato. Ecco che in questo può essere interessante
l’impegno in Azione Cattolica. Esso è appunto un impegno, quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del
tutto scontati e in cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una base di partenza negli esercizi di laicità che si faranno,
vale a dire nello sforzo di comprensione
realistica del mondo in cui si vive alla luce di una spiritualità
religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di Azione Cattolica
ricette di vita, personale o
comunitaria, già pronte e ammaestramenti globali su ciò che si deve fare o si deve pensare in ogni
occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui
sergenti maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione
Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di
azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui
viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta i
propri doni in un mutuo scambio che accresce
gli altri, in uno sforzo comune per promuovere
l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più vicine fino a
quella
globale.
“[…] la Chiesa cattolica efficacemente e
senza soste tende a ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in
Cristo capo, nell’unità dello Spirito con lui.
[,,,] In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i
propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le
singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo
comune verso la pienezza nell’unità”
[dalla
Costituzione dogmatica Lumen Gentium,
n.13, del Concilio Vaticano 2°]
Ora è
chiaro, riprendendo il discorso da cui sono partito, che l’universalità di questo impegno comune, la sua cattolicità, la sua effettiva apertura
a tutte le genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal
suo fondamento religioso e quindi da
quel timore di cui si diceva, il quale, in particolare,
deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare
una soluzione, un modello, un’esperienza, un cammino, una ideologia, una concezione
filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione
particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto
caratterizzata, appunto, da devozione
filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente
attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo
possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e
soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità. Questo, ben lungi dallo
scoraggiare e umiliare, è anche la base
della creatività religiosa nella società e quindi dell’efficacia
della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi e determinarsi con sapienza di conseguenza,
rinnovandosi incessantemente.