Capire la democrazia
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Richiamo la definizione di democrazia che ho proposto all’inizio:
«La democrazia è un sistema di convivenza che consente di
superare i conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società o generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio
di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro estensione».
Se la democrazia, prima che un sistema di regole formali, è una
forma di convivenza, c’è molto spazio per l’ingegno e la creatività personali. Essa
è stata anche interpretata in istituzioni, in organismi sociali costruiti per
durare e quindi più rigidi, ma le istituzioni democratiche non coprono l’intero
campo della democrazia come convivenza. E, per quanto molto dettagliate, le
regole delle istituzioni democratiche non riescono mai a disciplinare ogni
aspetta della convivenza democratica nelle istituzioni. Infine c’è la grande area
sociale non ancora democratizzata o non
completamente democratizzata. Come si disse per la nonviolenza, anche per la democrazia ogni giorno può
portare progressi per l’azione dei democratici, per cui si può concludere che «ieri eravamo meno democratici». Se scopo della democrazia come
oggi la si intende è anche quella di aumentare la felicità e il benessere
sociali, questo significa che la democrazia è una forza sociale di progresso.
La mentalità democratica, come anche la nostra mentalità religiosa,
comporta un certo grado di insoddisfazione nei confronti di ciò che è
stato realizzato: una società democratica è necessariamente dinamica.
L’anno scorso ho scritto:
«"Chi è il più
grande tra voi diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve.
Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui
che sta a tavola? Eppure io sto tra voi come colui che serve" (dal
Vangelo secondo Luca, capitolo,22, versetti 26 e 27 - traduzione in italiano
CEI 2008. CEI 1974, dove CEI 2008 ha "il più giovane" traduce
con "il più piccolo" - il testo in greco antico
ha "neòteros": letteralmente "il più
nuovo").
Credo che storicamente nessuna autorità, civile o religiosa, anche se
ispirata ai principi di fede, sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica
il comando evangelico che ho sopra citato. E questo anche nel caso di vere
rivoluzioni, vale a dire di un completo rovesciamento di un ordinamento
politico, con instaurazione di un nuovo ordine politico retto da regole opposte
rispetto alle precedenti.
Rivoluzione è un termine che il pensiero politico ha tratto dall'astronomia,
dove significa il moto di un corpo intorno ad un altro corpo, che si considera
come centro. Una rivoluzione è compiuta, dal punto di vista politico, quando
viene istituito un nuovo ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai
potenti di stare come colui che serve, vale a dire
di agire di conseguenza, significa introdurre un principio di
insoddisfazione permanente davanti a qualsiasi potere, quindi anche a quello
che si presenti come rivoluzionario. Questa appunto l'origine dei gravi
problemi politici che le nostre prime comunità di fede ebbero nei primi quattro
secoli dell'era corrente e, in seguito, degli analoghi problemi che
travagliarono i nostri riformatori che intesero promuovere un ritorno alla
fedeltà a quel comando evangelico.»
Il sistema democratico è anche,
quindi, una convivenza sociale in cui è ammessa la libera critica di ogni
potere, pubblico o privato, rispetto al quale si conviene che ciascuno abbia libertà
di coscienza, e dunque di pensiero, e di manifestazione del pensiero,
nella parola, negli scritti, nelle arti e in ogni altro modo in cui questa
libertà possa essere esercitata. Questo significa che è aliena alla convivenza
democratica la pretesa e la pratica della sottomissione. Una persone che
vive democraticamente non si sottomette mai. La sua osservanza alle regole
stabilite democraticamente, all’esito di una procedura regolare che abbia
consentito anche la presa di coscienza e il dialogo su di esse, non è sottomissione,
ma adesione ad un metodo e accettazione delle decisioni pubbliche che produce.
Rimane però sempre spazio per la resistenza, che in democrazia è un
diritto e un dovere, quando un potere collettivo, anche con metodi corretti dal
punto di vista delle procedure, leda una posizione umana che si ritenga incoercibile
e non vulnerabile, un diritto umano inviolabile in quanto connesso con
la dignità della persona umana. Certamente questo pone sempre la convivenza
sociale democratica in una situazione di fisiologica instabilità, nella quale
ogni potere deve sapersi conquistare e saper mantenere innanzi tutto con la
persuasione la propria legittimazione sociale e politica, a prescindere da
quella giuridica, e in cui il corpo sociale organizzato per convivere
democraticamente mantiene un permanente stato di tensione dialettica verso qualsiasi
potere. In particolare la delega per la rappresentanza politica non consiste,
in democrazia, in una investitura, come le incoronazioni dei monarchi, data la quale quel potere non
potrebbe più essere messo in questione per tutta la sua durata istituzionale. E’ proprio quella fisiologica instabilità che
consenta al sistema di convivenza democratica di adattarsi ai mutamenti sociali e di resistere ad ogni potere che tenda ad espandersi arbitrariamente.
E, va detto, la legge sociale del potere pubblico è che esso tende ad
espandersi fino a che incontri una resistenza valida.
La gran parte delle relazioni
sociali più significative della nostra vita si svolgono in spazi non o poco
istituzionalizzati. La famiglia, un’associazione ricreativa o sportiva, hanno
quel carattere. Vi sono però spazi sociali quotidiani piuttosto
istituzionalizzati nei quali tuttavia vi è molto spazio per configurare
liberamente una convivenza sociale, ad esempio nella scuola e nella parrocchia.
Gli ambienti di lavoro sono spesso poco o per nulla democratizzati,
specialmente quando l’organizzazione del lavoro è fatta da un datore di lavoro
proprietario. Sui luoghi di lavoro la democratizzazione è rappresentata dall’azione
sindacale che è in tensione dialettica con i potere del soggetto proprietario
dell’impresa. La democratizzazione delle organizzazioni del lavoro è una grande sfida e ha un significato
altamente politico dove mette in questione la concezione della proprietà.
I processi politici di democratizzazione delle società europee, dal Settecento,
ebbero nella proprietà quale frutto del lavoro e quindi
espressione della dignità sociale personali un punto di forza, e
questo in particolare verso quei poteri politici connessi alla proprietà
terriera tramandata di generazione in generazione in dinastie di nobili, accreditate
da un potere supremo anch’esso dinastico e sacralizzato. Ma nel progresso delle
concezioni democratiche sta venendo meno l’assolutizzazione della proprietà,
espressione, proprio in quell’assolutizzazione, di un potere con caratteri di
arbitrarietà sociale, a favore di una diversa concezione, che troviamo scritta
nella nostra Costituzione repubblicana, che ne richiede una funzione sociale,
vale a dire una finalizzazione anche al benessere e alla felicità collettivi.
Ciò detto, il primo passo per un tirocinio democratico non è studiare un
complesso di regole, come viene in genere proposto agli studenti nell’insegnamento
di educazione civica e allora si prende in mano la Costituzione, di creare forme di convivenza democratica nella propria
quotidianità o di modificare in
senso democratico quelle alle quali si partecipa nella propria quotidianità. Il
primo campo di applicazione è il piccolo gruppo di prossimità, ad esempio la classe scolastica,
o un gruppo parrocchiale, come è il nostro dell’AC parrocchiale.
Si riscontrerà che elevare un gruppo alla democrazia richiede uno
sforzo, una fatica, per la necessità di vincere resistenze determinate da
abitudini consolidate, in particolare da stati di sottomissione nei
quali alcuni si trovano rispetto ad altri. Ho notato che non di rado nei gruppi
religiosi i capi tendono a debordare nel loro potere, che assume carattere
autocratico e addirittura sacralizzato. Data questa condizione, i capi così
impostisi hanno poi in genere la scomunica facile, come i bellicosi primi
vescovi delle nostre comunità religiose, anche se si tratta di un potere arbitrario, perché nella
nostra Chiesa l’allontanamento del fedele è disciplinato rigidamente da una
normativa penale, analoga a quella degli stati, è riservato a casi gravissimi, e nessuno può arrogarselo. Una delle prime
manifestazione democratiche è dunque quella chi resiste a quella pretesa di allontanamento
arbitrario, ad opera di colui che, avendo conseguito una qualche posizione di
potere ed avendola estesa di fatto a danno altrui, indica sbrigativamente la
porta al dissenziente. Se in passato si avesse avuto più coraggio in questa
azione di resistenza attiva, ci saremmo potuti risparmiare molti problemi e, innanzi
tutto, una certa disaffezione da parte delle persone più giovani alla vita
religiosa. La democrazia non è fatta certamente per persone remissive verso le
posizioni di potere, per persone con la tendenza ad essere docili, richiede coraggio, e innanzi tutto quello di
rimanere ad occupare gli spazi sociali contro ogni potere pubblico o privato
che pretenda di escludere e, lì, di prendere la parola.
Mario Ardigò – Azione Cattolica
in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli