Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia
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Parte 8
(dal n.72 al n.74)
(le parti precedenti sono
pubblicate nei post successivi.
Questo testo è pubblicato in 8 parti)
di
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
edizione ottobre 2020, con nuovi materiali
72
A
compagni di fede spietati
(agosto 2019)
72.0.
Premessa e contesto storico. Nel giugno 2019 il Governo italiano approvò un decreto legge, convertito
in legge nel successivo agosto, che consentiva al Ministro dell’Interno, di
concerto con i Ministri della Difesa e
delle infrastrutture e dei Trasporti di vietare alle navi che avevano
effettuato soccorsi in mare nel caso vi fossero motivi di ordine e sicurezza
pubblica o nel caso di violazione alle leggi sull’ immigrazione e della
disciplina internazionale sulla disciplina del soccorso in mare. Era attuazione
della politica dei porti chiusi (alle persone migranti
irregolari soccorse in mare e alle navi che avevano eseguito il soccorso). Di
seguito riporto le nuove norme.
Art. 1
Misure a tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e in
materia
di immigrazione
1. All'articolo 11 del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286,
dopo il comma 1-bis e' inserito il seguente:
«1-ter. Il Ministro dell'interno,
Autorita' nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell'articolo 1
della legge 1° aprile
1981, n.121, nell'esercizio delle
funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali
dell'Italia, può limitare o vietare
l'ingresso, il transito o la sosta di
navi nel mare territoriale, salvo
che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale,
per motivi di
ordine e sicurezza pubblica
ovvero quando si concretizzano le condizioni
di cui all'articolo 19,paragrafo 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione
vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto
del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, resa esecutiva dalla legge 2 dicembre
1994, n.
689. Il provvedimento
è adottato di concerto con il Ministro
della difesa e con il
Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti, secondo le
rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei
ministri.».
Art. 2
Inottemperanza a limitazioni
o divieti in
materia di ordine, sicurezza pubblica e immigrazione
1. All'articolo 12 del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo
il comma 6 sono inseriti i seguenti :
«6-bis. Salvo che si tratti di naviglio
militare o di
navi in servizio governativo non
commerciale, il comandante della
nave è tenuto ad osservare la
normativa internazionale e i
divieti e le limitazioni eventualmente disposti ai
sensi dell'articolo 11, comma1-ter.
In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, si applica al comandante della nave la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 150.000 a euro 1.000.000. La responsabilità solidale di cui all'articolo 6 della legge 24 novembre 1981, n. 689, si estende all'armatore della nave. E' sempre disposta la confisca della nave utilizzata per commettere la violazione, procedendosi immediatamente a sequestro cautelare. A seguito di provvedimento definitivo di confisca, sono imputabili all'armatore e al proprietario della nave gli oneri di custodia delle imbarcazioni sottoposte a sequestro cautelare.
All'irrogazione delle sanzioni, accertate
dagli organi addetti
al controllo, provvede il
prefetto territorialmente competente.
Siosservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.
6-ter. Le navi sequestrate ai
sensi del comma
6-bis possono essere affidate dal
prefetto in custodia agli organi di polizia, alle Capitanerie di
porto o alla
Marina militare ovvero
ad altre amministrazioni dello
Stato che ne facciano richiesta per l'impiego in attivita' istituzionali. Gli
oneri relativi alla gestione dei beni sono posti a carico dell'amministrazione
che ne ha l'uso, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
6-quater. Quando il provvedimento che dispone
la confisca diviene inoppugnabile, la nave e' acquisita
al patrimonio dello Stato e, a richiesta,
assegnata all'amministrazione che ne
ha avuto l'uso
ai sensi del comma 6-ter. La nave per la quale non sia stata presentata istanza di affidamento o
che non sia
richiesta in assegnazione dall'amministrazione che ne ha
avuto l'uso ai sensi del comma 6-ter e', a richiesta, assegnata
a pubbliche amministrazioni per
fini istituzionali ovvero venduta, anche per parti
separate. Gli oneri relativi alla
gestione delle navi
sono posti a
carico delle amministrazioni
assegnatarie. Le navi non utilmente
impiegabili e rimaste invendute
nei due anni dal primo tentativo di vendita
sono destinate alla
distruzione. Si applicano
le disposizioni dell'articolo 301-bis, comma 3,
del testo unico delle
disposizioni legislative in materia doganale, di cui al
decreto del Presidente
della Repubblica 23
gennaio 1973, n. 43».
A seguito dell’entrata in vigore delle disposizioni che
ho citato, si iniziò a vietare l’attracco in porti italiani alle navi, civili
italiane e straniere ma anche a navi della Guardia costiera italiana che
avevano effettuato soccorsi i mare di stranieri diretti verso le nostre con
imbarcazioni precarie e sovraffollate, nel verosimile intento di sbarcare in
Italia irregolarmente dal punto di vista della normativa sull’immigrazione,
vale a dire senza passaporto o altro documento valido all’ingresso in Italia e
il visto dell’autorità consolare dove richiesto. Le navi con la gente soccorsa
rimanevano a lungo al largo delle nostre coste, con i passeggeri in condizioni
sempre più disagevoli. Contemporaneamente fu attuata una politica per riservare
alla Guarda costiera libica, sostenuta e addestrata dall’Italia, i soccorsi i
mare in una vasta area di mare internazionale denominata S.A.R. (area di sorveglianza - Search e soccorso - Rescue) al largo delle acque
territoriali libiche, non impegnando in tale attività la missione
internazionale e nazionale, con navi, sommergibili, droni, aviazione, reparti
in Libia, istituita per il sostegno del governo della Libia occidentale,
riconosciuto dall’Italia e dall’ONU ma non dall’analoga entità insediata nella
Libia orientale. La Libia era in condizioni di guerra civile tra tali due
entità governativa. I soccorritori privati osservavano che la Libia non era un porto
sicuro ai sensi della convenzione sul soccorso in mare, per quella
condizioni di guerra civile. Inoltre, la gente soccorsa veniva catturata e
internata, in condizioni pessime, in campi di detenzione in Libia, in genere
senza prospettiva di altra soluzione in tempi brevi.
I vescovi italiani richiesero
pressantemente, in nome del Vangelo, di
non porre ostacoli al soccorso in mare e
di consentire alle navi dei soccorritori di sbarcare la gente soccorsa, salvo
poi eventualmente ripartire l’onere
dell’accoglienza, per chi risultasse averne diritto, con altre nazioni europee
in base ad accordi internazionali, o disporne ed eseguirne il ripatrio, in
condizioni di sicurezza e con un programma di assistenza, dopo le cure
sanitarie indispensabili (spesso le persone soccorse avevano subito sevizie,
torture e altre abusi in Libia e comunque erano state internate in condizioni
misere e igienicamente proibitive), per quelli che non ne avessero diritto.
Da una ricerca statistica diffusa da
IPSOS risultava che il 51% dei fedeli cattolici italiani, senza distinzione tra
praticanti e non praticanti, non erano d’accordo con ciò che richiedevano i vescovi italiani ed erano invece d’accordo
con la politica dei porti chiusi. Quale può essere stata la ragione? Per i più
verosimilmente è stata quella di sempre quando ci si manifesta spietati anche
senza essere personalmente cattivi: la paura, questa volta però anche indotta e fomentata mediante
l’influenza di potenti reti sociali di massa guidate con l’utilizzo di
tecnologie di intelligenza artificiale le quali, consentendo una accurata
personalizzazione del messaggio che genera paura, lo rendono più credibile.
E’ un problema antico. Ricordo
l’accorato appello di Karol Wojtyla, papa a lungo regnante come Giovanni Paolo
2° e poi santo riconosciuto, quando svolse l’omelia nella Messa di
inaugurazione del pontificato, il 22 ottobre 1978:
Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere
Cristo e di accettare la sua potestà!
Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo
e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera!
Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a
Cristo!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli
Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di
civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo
lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso
della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in
disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con
fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita,
sì! di vita eterna.
72.1. Motivazione alla fede
Una fede religiosa, la nostra,
c'è. Ha una sua realtà sociale che si manifesta anche in certe istituzioni. La
parrocchia è quella che ci è più prossima. Nasce appunto per questo: per farci
prossima la fede religiosa. Celebra riti, programma un'attività formativa. Per
la scarsità delle forze ci si concentra sull'essenziale: quella di base per i
più piccoli, quella di secondo livello in preparazione all'ingresso nella
società degli adulti, quella in vista del matrimonio. Questa formazione rientra
nell'idea di catechismo, perchè consiste anche nell'esposizione ordinata di
contenuti, che riguardano il Cielo, gli esseri umani e gli altri viventi in
rapporto al Cielo, la storia sacra, l'etica individuale e collettiva, i riti
individuali e collettivi e inoltre le varie funzioni che si svolgono nelle
collettività religiose, materia che comprende anche di sapere chi e in che
misura esercita l'autorità. Il tempo, però, è poco e l'interesse, al quale agli
inizi fa da stampella l'autorità dei genitori, tende in genere a calare quando
si cresce. Questo lavoro di istruzione ed educazione religiosa viene
completato, di solito, in chi si fa diacono o prete o in chi chiede di essere
ammesso in un ordine religioso, per farsi monaca o monaco, suora o frate.
L'altra gente spesso non ne sa a sufficienza e, non seguendo un
programma di formazione permanente, tende anche a scordare ciò che ha imparato.
Questo sta creando gravi problemi di questi tempi, nei quali si vanno
diffondendo correnti ideologiche esplicitamente contrarie ai fondamenti della
nostra fede. Non vi è una sufficiente resistenza culturale e pratica in coloro
che hanno conservato un orientamento religioso, che sono tuttora la grande
maggioranza di quelli che vivono in Italia.
È un'esperienza che si è vissuta
nel confronto con il liberalismo, con i comunismi atei, con i fascismi europei,
e con i capitalismi liberistici. Il liberalismo criticò l'oscurantismo
clericale e il suo dispotismo. I comunismi atei criticarono la fede religiosa
come frutto di un inganno delle classi dominanti in danno di quelle sottomesse,
che comprendevano la maggioranza della gente. I fascismi vollero inglobare la
fede religiosa nella loro ideologia nazionalista, basata sull'idea che ci si
dovesse compattare per predare gli altri popoli, considerati come inferiori. I
capitalismi liberistici criticano la pretese religiose di porre limiti ai
risultati dello scontro tra le forze economiche e al disequilibrio degli scambi:
ritengono che un affare sia condotto al meglio se c'è una parte che prevale,
considerano fonte di inefficienza la pretesa di equità perché pensano che i
deboli debbano essere eliminati dal mercato, e questo anche se si tratta della
vita delle persone non di merci o imprese.
Di fronte agli aspetti ateistici
di quelle ideolologie si ebbe una resistenza popolare efficace. Dal liberalismo
si imparó di nuovo il rispetto della persona umana, che del resto ha antichi
fondamenti religiosi, e il rispetto delle scienze e, in genere, della cultura;
dal socialismo si imparó di nuovo l'antica etica religiosa della condivisione.
Dal capitalismo si imparó l'etica dell'iniziativa privata e del rispetto di
essa, ponendo tuttavia dei limiti inderogabili allo sfruttamento degli esseri
umani e della natura. Del fascismo non ci fu nulla da salvare perché l'etica
della predazione è radicalmente irreligiosa. E tuttavia la religiosità di
alcune nazioni cattoliche rimase impregnata di fascismo, in particolare in
Italia dove si ebbe una commistione tra ideologia fascista mussoliniana e parti
dell'etica religiosa, dopo il Concordato Lateranense del 1929.
I tempi che stiamo vivendo vedono
il manifestarsi di neo-fascismi capitalistici. Dei fascismi storici hanno il
programma di repressione del dissenso e la volontà di predare. Del capitalismo
hanno il mirare all'arrichimento personale, mentre i fascismi europei storici
proponevano una mistica del sacrificio personale per la gloria delle nazioni di
riferimento. Da un punto di vista religioso essi sono gravemente peccaminosi,
perché negano uno dei principi fondamentali della nostra fede: quello della
fratellanza universale. Senza di esso, semplicemente la nostra fede non c'è
più. Si tratta quindi di ideologie atee.
Tuttavia ci si è accorti che la
(scarsa) formazione religiosa della gente non consente a molti di avvedersene e
ciò contro i chiarissimi moniti dei pastori, anzitutto del Papa. Nella prima
parte della mia vita sono vissuto in epoche in cui i Papi venivano duramente
criticati, e anche vilipesi, ma mai, assolutamente mai, ignorati. L'attuale
Papa deve invece far l'esperienza di essere ignorato. Anche dai suoi fedeli e
su punti fondamentali della dottrina, in cui ha senz'altro il diritto canonico
di essere obbedito. Ma questo, tutto sommato, è il meno. Si ignora addirittura
il Fondamento santo e la sua Via, che in una prospettiva religiosa è l'unica
che porti alla vera salvezza, che è anzitutto quella salvezza dal pericolo di
tornare come le antiche belve nostre progenitrici. Ci si illude di
potersi salvare per altra via e, a questo punto, la religione non è più
espressione di fede, ma più che altro un bel cerimoniale, dall'inizio alla
fine.
Che fare?
Alcuni propongono di predicare con
le parole dei Vangeli così come sono, senza alcuna mediazione, confidando che
esse possano (ancora) essere intese dalla nostra gente, così come le si legge.
Secondo la mia esperienza ci si illude che funzionino. Non funzionano.
Del resto, nei due millenni della
nostra storia religiosa esse hanno dovuto sempre essere spiegate, vale a dire
mediate. Era così anche quando ancora non erano state scritte, come dimostra
l'episodio evangelico dei discepoli di Emmaus. E non le si può nemmeno spiegare
semplificando molto come si fa con i bambini, e si faceva con gli incolti
quando in società non contavano nulla. In un'ambiente di democrazia popolare
come (ancora) è l'Italia, anche gli incolti votano, e così hanno nelle loro
mani le sorti della nazione, compresa la loro. Che succederà se decideranno
ignorando che si è tutti fratelli e che ci si salva tutti insieme o si perisce,
perché le società mondiali sono diventate talmente interconnesse da non rendere
possibile altra salvezza che quella?
L'affermazione sociale della
nostra fede religiosa, dalle origini nell'antica Siria all'epoca inglobata
nell'Impero greco-romano il quale,
sviluppatosi a Roma, si cristianizzò in Grecia, attorno alla corte di
Costantinopoli, fu difficoltosa e contrastata, durò circa quattro secoli, e fu
caratterizzata da aneliti rivoluzionari quanto al modo di esercitare il potere
politico. Essi furono all'origine di ricorrenti azioni di repressione. Il
politico cristiano lo si voleva molto diverso dai politici dissoluti di quelle
epoche. Lo si voleva sottomesso all'etica della fraternità universale. Che
dipendeva dall'idea di una comune figliolanza universale. Dall'avere,tutti, un
Padre comune. Gli imperatori romani consideravano se stessi
"padri" dei molti popoli caduti nel loro dominio. Ma tendevano
a considerarsi misura del giusto e dell'ingiusto. Quelli tra loro che chiesero
onori divin non era perché si considerassero onnipotenti,creatori del Cielo e
della Terra, (non erano dei folli), ma solo persone eccezionali: nell'antico
politeismo non vi erano dei onnipotenti. In virtù di questa loro
"eccezionale umanità" ritenevano di poter legiferare senza
altro limite che se stessi. Ma, secondo la nostra fede, nessun potere è
legittimo se rifiuta l'etica della fraternità universale: il che significa
porre limiti ad ogni potere che si esercita da esseri umani, benché
eccezionali, su altri esseri umani. Questa l'obiezione fondamentale della
dottrina etica secondo la nostra fede verso ogni potente della Terra. In
ambiente democratico essa riguarda anche tutti coloro che, a vario
livello, sono partecipi di dinamiche di potere. "Ricordati" è il suo
monito "che tu non sei un dio", "la vita dei tuoi fratelli non è
nelle tue mani". Chi si sente rimproverare così forse lo considera
ingiusto, perché pensa di essere lui in pericolo, non gli altri che subiscono
le conseguenze di certe politiche alle quali egli dá l'assenso, e di non avere
altra via d'uscita. Alla fine spesso ci sono quelli che finiscono per uscirsene
con qualcosa di simile al tremendo "sono forse io il guardiano di
mio fratello?" biblico.E non sono nemmeno capaci di rendersi conto di aver
così deliberato la propria condanna morale e storica,
Sentiamo ancora la necessità dì
fraternità universale? Crediamo ancora che in essa sia la vera salvezza, quella
individuale come quella collettiva? Si tratta, ancor prima
dell'evangelizzazione esplicita, di contribuire a ricostituire le motivazioni
alla base della decisione personale per la fede. È cosa che o si fa insieme, in
ambiente comunitario, innanzi tutto rimettendo insieme quel tipo di società di
base, o non riesce.
72.2. Un progetto per una realtà di base
Non scrivo per il mondo, anche se
il mondo potrebbe leggermi, se avesse abbastanza tempo. Il problema è che non
lo ha. Lo insegna la Scrittura: impara a contare i tuoi giorni. Ma non ho nemmeno
interesse a rivolgermi a tanta gente: rimarrebbero tutti degli sconosciuti.
Questo deriva da nostri limiti cognitivi di specie, per i quali possiamo
interloquire veramente con non più di una trentina circa di persone alla volta.
E anche su questo ci ammoniscono le Scritture. A chi, alle origini, venne
spiegata ogni cosa? A dodici uomini. Eppure, a partire da essi, in un
processo che nei primi secoli è ancora piuttosto oscuro, e lo rimarrà, la
nostra fede si è diffusa su tutta la Terra, secondo il comando ricevuto. Questo
modo di procedere è profondamente umano e comporta di prendersi cura degli
altri, nelle fasi di tradizione della fede, come una chioccia con i suoi
pulcini , e questa appunto è un'immagine evangelica (leggi nel Vangelo secondo
Matteo, capitolo 23, versetto 37), Ci avvertono che siamo sulle soglie di una
svolta epocale, che alcuni descrivono come la fondazione/creazione di una nuova
specie, che saprà superare quei limiti cognitivi umani. Nel nuovo mondo in cui
noi o i nostri discendenti vivremo, si rimarrà umani? Questo è un bel problema.
Alcuni tra gli esperti avvertono: "non è detto". Altri dicono: "
vedremo". Altri ancora: "È una delle possibilità". Per ora siamo
ancora un po' al di qua della frontiera che idealmente ci divide da quel futuro.
Già ora possiamo dire però che l'Intelligenza Artificiale (I.A.), che ancora
non è un'individualità ma solo un potente strumento, rende possibile
influenzare le masse come mai prima d'ora era stato possibile. Chi è colui che
può ascoltare tutti quelli che gli si rivolgono come se stesse parlando con uno
solo e che può leggere tutto ciò che si scrive? Lascio a voi la risposta.
Capite bene, allora, come deve sentirsi chi dispone di strumenti così potenti,
che lo innalzano tanto sopra gli altri. Ma a chi si occupa, a qualsiasi
livello, di tradizione della fede certe cose sono vietate. Si parte da realtà
di base, in modo da poter chiamare per nome gli interlocutori. Si confida che
il di più venga dal Cielo, che si attui il miracolo per cui l'universale scaturisce
dal particolare e limitato: il prodigio più sorprendente di tutti, ciò che ha
reso umani gli umani. Rimaniamo umani!
72.3. Mandati a tutti i popoli della
Terra
L'evoluzione della specie umana,
durata circa quattro milioni di anni, non ci ha reso in fondo molto diversi
dagli altri Primati che si sono evoluti insieme a noi e sono riusciti,
superando le crudeli dinamiche della natura, a sopravvivere fino ai nostri
tempi. La differenza fondamentale tra noi è loro può essere individuata in
alcune limitate porzioni del cervello, che ci rendono capaci di esprimere ciò
che chiamiamo "spirito" (diverso dall' "anima" in senso
religioso) e a cui alludiamo parlando di noi come "persona". Esso si
basa su fenomeni psichici che condividiamo con altri viventi, ma, almeno allo
stato delle nostre conoscenze, ci è caratteristico. Definiamo quindi
"essere umano" un vivente dotato di "spirito", se non
vogliamo limitarci alla classificazione puramente zoologica. Abbiamo lo
spirito e lo riconosciamo negli altri. Da bambini e nel sogno lo riconosciamo
anche ad altre realtà naturali, e così facevano pure gli antichi, ma per certi
versi l'abbiamo continuato a fare a lungo, fin quando l'era del pensiero
scientifico non ha preso piede nelle nostre società e, considerando la natura
per ciò che è, ha compreso quanto era diversa da noi. È quello che definiamo
"secolarizzazione", che comprende una "demitizzazione", la
liberazione dalle favole semplificatorie del lontano passato. Anche la
nostra religione ne è stata potentemente investita e in questo processo ha
perso/rinunciato a molto di ciò che le si era attaccato addosso e che non le
era proprio e cartteristico. Tra esso, ad esempio, la vuota pompa imperiale
praticata a lungo anche dalla corte papale romana e che venne appresa nel Primo
Millennio alla scuola di Costantinopoli. Ma anche l'idea che per noi esistano
Terre Sante e la fiducia in persone e siti miracolanti. Per molti che sono
divenuti esterni alla nostra fede perche vi hanno perso consuetudine personale
profonda, e dunque riescono ad accostare solo i "fatti"
religiosi,l'esteriorità, si tratta invece di idee e pratiche irrinunciabili. E
considerano disadorne, e non accattivanti, le consuetudini religiose che
evocano i fondamenti santi, ad esempio la celebrazione della Messa in ambienti
poveri e senza orpelli d'arte. Eppure, è un detto evangelico, la natura ha
saputo realizzare splendori tali che umiliano l'arte nostra, e, al più, noi
cerchiamo di farcene imitatori o evocatori (leggi nel Vangelo secondo Matteo, i
versetti dal 25 al 34 del capitolo 6).
Insieme allo spirito ci
distanzia dagli altri esseri viventi nostri simili l'idea che possa esistere
una fraternità universale. Essa è frutto dello spirito e nessun'altro vivente
l'ha mai praticata, non dico "pensata". È anche al centro della
nostra fede, che la presenta in un modo che le è fortemente caratteristico. È
proprio essa che giustifica la nostra missione fino agli estremi confini della
Terra. Non ci venne infatti comandato di "tornare" a una qualche Terra
Santa, ma di rendere tutti santi affratellandoceli, raggiungendoli dov'erano.
Ci venne dato il dono delle lingue, perchè non si doveva affratellare a
chiacchiere, ma soccorrendo, secondo l'esempio del nostro Maestro, il quale fu
medico prima che predicatore. Il soccorso è linguaggio che può essere inteso da
tutti. Cosí possiamo concludere che chi nega il soccorso va in altra direzione,
precisamente quella della spietata natura dalla quale originiamo secondo la
nostra biologia. Nega la nostra fede.
72.4 Filantropia
Filantropo è chi prende a cuore
la condizione dei bisognosi e dei sofferenti e realizza azioni caritatevoli in
loro aiuto. La parola "filantropo" deriva da due termini del greco
antico che significano "amicizia" e "uomo": il suo senso
letterale è dunque "amico dell'essere umano". L'amico aiuta l'amico
nel bisogno e nel pericolo. Perché però l'amico viene a trovarsi in quella dura
condizione? Se si cerca di capirlo e di porvi rimedio si aiuta tutta la società
intorno, perché la sofferenza dei suoi membri non le fa bene, la rende cattiva.
Così però si va oltre la filantropia come comunemente è intesa ed è attività
che richiede di mettere in piedi un'organizzazione sociale. Quando si è amici e
si collabora ad un'azione sociale con quelle carartteristiche ci si definisce
anche "compagni". È appunto in questo modo che l'apostolo Paolo
chiama il suo collaboratore Tito in una delle sue lettere ai cristiani della
greca Corinto (leggi nella seconda lettera ai Corinzi il versetto 23 del
capitolo ottavo). Il termine greco che usa è koinonòs, che ha
la stessa radice di quello koinonìa, parola che traduciamo di
solito in italiano con comunione e in dottrina indica la
particolare relazione amicale tra credenti della nostra fede nel fare insieme
ciò che a loro è stato comandato in religione.
Questa forma di amicizia è molto
importante perché è stata evocata in un detto evangelico molto significativo
riferito appunto alla missione tra gli altri esseri umani che ci è stata
comandata (leggi nel Vangelo secondo Giovanni nel capitolo 15 i versetti da 12
a 17). Che ci è stato comandato? Ciò che traduciamo in Italiano con amore,
ma nel testo greco evangelico richiama l'idea di organizzare un lieto convito
dal quale nessuno sia escluso, l'agápe. L'amore richiama
benevolenza e soccorso. Per noi fedeli è un comando e anche condizione
dell'amicizia verso il Cielo. Disobbedirlo è il peccato, e un peccato molto
grave perché riguarda il Fondamento. Così, mentre per il filantropo il soccorso
ai bisognosi può essere il soddisfacimento di un impulso emotivo e, tutto
sommato, nei limiti accettati dalla società intorno, con le sue convenienze e
le sue leggi di polizia, per chi è persuaso della nostra fede si tratta di
qualcosa di molto più profondo, senza il quale la religione, e in particolare i
suoi riti individuali e collettivi, ha poco senso e che va fatto ad ogni costo.
Ecco perché si suole dire che non siamo una ONG, vale a dire
un'organizzazione caritatevole privata, non governativa, anche
se lavorare in un'ONG può far parte dell'impegno di agápe che
ci è comandato in religione. Ciò risalta maggiormente quando l'azione
caritativa è vietata da norme di polizia, come ciclicamente è accaduto e
accade. In questo caso il filantropo rischia, come ad esempio rischiarono
coloro che in Europa decisero di recare aiuto ai perseguitati politici o etnici
dei fascismi europei e dei comunismi dispotici dell'Europa orientale, dando
loro rifugio e cercando di trasferirli clandestinamente in luoghi sicuri. Il
maggior pericolo di queste particolari attività filantropiche in quelle
condizioni storiche in cui la filantropia è socialmente sconveniente o
addirittura vietata richiede una motivazione più intensa, che anche la nostra
fede può dare. Al culmine può accadere di rischiare, e di perdere, la propria vita.
Non c'è amore più grande, è scritto nel brano evangelico che ho citato (leggi
il versetto 23). Dal punto di vista religioso quell'impegnativo tipo di amore/agápe è
legato anche all'altro comando di farsi prossimi degli altri,
che comporta l'amicale soccorso verso chiunque ne abbia necessità, non solo
verso i membri del proprio clan, e il muoversi per
andare verso chi si trova in pericolo. Ciò è reso anche con
l'immagine dell'ospedale da campo: non si attende che i feriti giungano
in una struttura stabile, ma si va e si allestisce il soccorso dove
serve, facendosi prossimi e innanzi tutto quindi approssimandosi ai
sofferenti.
72.5. Il nostro vangelo
La nostra fede è una sapienza
pratica: la sua bontà si riconosce dai suoi frutti. Questo è un detto evangelico
(leggi dal Vangelo secondo Matteo, dal capitolo 7 i versetti 15-20). Ciò ha
richiesto continui aggiustamenti per far corrispondere la pratica al modello
che ci è stato proposto come fondamento. Esso è l'agápe, che potremmo
tradurre con amicizia universale, senza limiti, senza esclusioni,
fino al sacrificio supremo di sè. Nei due millenni della nostra storia
ciascuno, e ogni collettività di fede, si è sforzato di tradurla in realtà
quotidiana, ma i risultati non si sono mai dimostrati definitivi e durevoli.
Del resto gli esseri umani mutano nel tempo e così le loro società e culture.
La pratica della nostra fede è quindi sempre in divenire ed è stato osservato
che non si è mai veramente uno della nostra fede, ma si è
sempre per via di diventarlo. Nel suo sforzarsi di diventare, ognuno
dice agli altri un proprio personale vangelo (parola che viene
dal greco antico e che significa buona notizia), che è il bene
che riesce ad essere per loro. Di ciò però non se ne assume il merito perché si
è sforzato in quanto si è fatto discepolo e allora rende grazie al
suo Maestro. Eucaristia, altra parola che viene dal greco antico e
significa appunto rendimento di grazia, è uno dei nomi che diamo al
centro delle nostre liturgie.
72.6. Oltre il mondo fisico e la storia
Questo blog è iniziato nel 2012 e
da allora non ha mai trattato temi esplicitamente religiosi, salvo che nel dar
conto di documenti del Magistero cattolico e di celebrazioni liturgiche. Ci si
è occupati prevalentemente di azione sociale ispirata alla fede religiosa,
quindi di come la fede la si è attuata. In questo quadro la fede veniva
presupposta. In un discorso di motivazione alla fede bisogna però andare
oltre, avvicinare il fondamento. Provo a farlo avvertendo dei miei limiti. La
nostra fede è frutto di un lavoro collettivo che si è sviluppato per oltre due
millenni e anche i più dotti ne sono solo parzialmente informati. Di solito ci
si concentra su un campo di indagine e sul resto si hanno in mente delle
sintesi. Si approfondisce quando serve. Nel dialogo ci si aiuta a capire. Basti
dire questo: approfondendo si scopre che molto raramente ciò che si è pensato
non è stato giá pensato, detto, scritto, discusso, confutato, ribadito,
corretto e riproposto prima. Ma anche che raramente ciò che è stato pensato
prima può essere riproposto senza adattamenti ai tempi nuovi. E infine che
tutto ciò che è stato pensato prima va attuato con una certa originalità in
ognuno, perché non ci si può limitare a copiare quello che altri sono stati.
Questo significa che ognuno introduce con la sua vita di fede qualcosa che
prima non c'era e anche riesce a tramandarla quando ha responsabilità
formative, come le hanno ad esempio i genitori.
Dunque, inizio così: non direi
tutto della fede se non avvertissi che ha convinzioni su ciò che esiste oltre
il mondo fisico e la storia.
Fin dall'antichità l'umanità le ha
avute, per spiegare il senso degli eventi in ciò che non erano sotto il suo
controllo, come l'azione delle forze della natura. Pensava che fossero dominate
da esseri personali superiori, gli dei. La mentalità e le consuetudini di
questi ultimi erano immaginate simili a quelle degli umani: in particolare si
riteneva che gli dei avessero emozioni e sentimenti analoghi a quelli degli
umani. Verso gli umani potevano essere quindi mossi da amore e simpatia o da
ira e avversione, da generosità o avidità. Si pensava che gli umani potessero
accattivarsene il favore mediante offerte rituali, sacrificali, altri riti e
costruendo santuari loro dedicati, con splendide statue che li raffiguravano.
Gli antichi erano profondamente religiosi, come ancora dimostrano chiaramente i
resti dei grandi templi da loro costruiti. A Roma possiamo entrare in uno di
essi, magnificamente conservato, il Pántheon, parola che
attraverso il latino ci arriva dal greco antico e che significa "Dedicato
a tutti gli dei". Ora è utilizzato come chiesa cristiana, a dimostrare
una certa continuità rituale tra antica e nuova religione. La stessa continuità
si coglie anche in altre nostre costumanze religiose, ad esempio nelle
spiritualità basate su miracoli, apparizioni, santuari e Terre sante.
Ora, bisogna capire che,
nonostante quelle costumanze tradizionali, la nostra fede si differenzia
radicalmente dalle antiche religioni politeistiche. Ma si differenzia radicalmente
anche dall'ebraismo antico e contemporaneo, con il quale pure condivide un
rilevante partrimonio culturale, e, in particolare, gran parte delle Scritture
sacre e alcuni importanti temi teologici, in specie di etica religiosa. Basti
pensare che l'ebraismo è molto preso dall'idea di un ritorno verso
la Gerusalemme della storia, mentre la nostra fede si è formata
allontanandosene. Da nessuna parte ci è stato comandato di ritornare in
quella città.
Quindi a chi fosse interessato a
capire o riscoprire la nostra fede direi innanzi tutto di non considerare
essenziali cose come basiliche, santuari, miracoli, luoghi e persone
miracolanti, apparizioni prodigiose, Terre sante, eventi folcloristici a sfondo
religioso, ma anche certe antiche tradizioni liturgiche che vengono mantenute
polemicamente con spirito reazionario, in particolare quelle che ancora
travagliano con il latino dei tempi in cui le liturgie erano oscurate ai più
con quella lingua dotta, e infine la vuota pompa di certe magnificenti liturgie
inscenate da coloro che ci si propongono come nostri "prìncipi"
religiosi. Insomma, avrete compreso che non vi propongo come essenziale la gran
parte di ciò che chi accosta superficialmente la nostra fede ritiene tale.
Non crediate neppure che il centro
della nostra fede sia puramente e semplicemente l'essere umano, pur con tutto
ciò che egli riesce a fare per merito degli sviluppi della sua evoluzione
biologica e dei suoi progressi culturali. L'antropologia ci rimanda tutto
sommato l'immagine di un vivente piuttosto limitato, non molto distante
biologicamente dai suoi antichi progenitori non umani e dagli altri Primati
suoi contemporanei. Si andrebbe poco lontano basandosi solo su
di lui.
I teologi della nostra fede
insegnano: al centro c'è Gesù di Nazaret. Io non posso che ripetervi appunto
questo. Egli è il Cristo della nostra fede, vale a dire colui
che ci è stato mandato a fini di salvezza. Egli è per noi l'unico mediatore con
un Dio Paterno, molto diverso da come si immaginava che fossero gli antichi
capricciosi dei. Gesù è stato mandato per condurci a lui, questa appunto la
salvezza: diciamo quindi che è la via. Non c'è un modo diverso
di dire il fondamento della nostra fede. Ma chi è Gesù? Su questo sono sorte
infinite discussioni e ancora si discute. Di lui sappiamo molto meno di ciò che
desideremmo. Per i cristiani della nostra Chiesa egli è vero uomo e vero Dio.
Proprio in quanto uomo, oltre che Dio, é la nostra via di salvezza. Anche altre
Chiese nostre contemporanee condividono questa convinzione. Chi è Dio? Nel
greco antico degli scritti sacri della parte della Bibbia scaturita
dall'esperienza di fede delle nostre prime comunità, si afferma che O
Teòs agápe estìn, che significa che Dio è agápe. In
italiano traduciamo agápe con amore, ma si rende
meglio l'idea dicendo amicizia universale di condivisione. Peró
Dio, nella nostra fede, è concepito come persona, non è solo un sentimento o un
orientamento dello spirito o un'energia. Delle persone abbiamo solo
l'esperienza umana e perciò, nella preghiera gli ci si rivolgiamo come se
avessimo di fronte uno di noi. Condividiamo in questo i costumi delle
antiche religioni? Sì e no. In realtà preghiamo come Gesù ci ha insegnato ed è
tutto ciò che abbiamo da dire sul punto.
Qual è poi la conseguenza di
quelli che ho detto? Che la nostra fede è misurata su ciò che ho definito agápe,
e che comprende condivisione e soccorso, non su tutto quello che ho definito
non essenziale. Ripudiare l'agápe è ciò che secondo la nostra fede
è il peccato. Di solito, quando pecchiamo, cerchiamo di proporre buoni motivi
per giustificarcene. La conversione consiste appunto nello smontarli e nel
ritornare sulla via giusta. Nell'ottica della nostra fede: a Gesù e ai suoi
insegnamenti e comandi. Accade agli individui e alle collettività. C'è un
peccato individuale e ci sono peccati sociali, che si manifestarono ad esempio
nella legislazione razzista del fascismo italiano storico. Bisogna obbedire
alla legge che va contro Dio o a Dio? È un problema che si pose molto presto
alle nostre comunità di fede, innanzi tutto nei rapporti con le autorità
religiose dell'antico ebraismo,che accusavano i cristiani di empietá, ma
anche,presto, nei rapporti con le autorità dell'antico impero romano, che
formulavano un'accusa simile, oltre a quella di sedizione. Si noti che nei
primi secoli i cristiani non godevano del favore della popolazione intorno. Non
è ancora ben chiaro come poi la loro fede sia riuscita a imporsi addirittura
come base di una nuova ideologia di stato. Sono state proposte diverse
spiegazioni. Al dunque il mondo antico aveva bisogno di qualcosa di simile e la
sofisticata teologia che fu sviluppata, inizialmente tra Antiochia, in Siria, e
Alessandria, in Egitto, né forni le basi culturali e anche giuridiche.
72.7. Un altro mondo
Sono tra coloro che danno poca
importanza al sacro, inteso come cose, istituzioni, persone che
manifestano realtà soprannaturali per come sono e non per come
funzionano/agiscono. Del resto chi è persuaso della nostra fede non è obbligato
a darvi alcun credito. A loro riguardo osservo che distraggono dall'essenziale.
Uno, ad esempio, porta con sè un'immaginetta mariana come un talismano,
pensando così di essere favorito nei suoi progetti per la virtù miracolante
dell'oggetto. Come può accadere? Agli scettici si oppone la fede, si dice
che è questione di fede, o ci credi o non ci credi. Ma il fedele non è
obbligato ad essere un credulone, un sempliciotto, uno a cui la si può dare a
bere facilmente. Se lo è, va aiutato da chi ne sa di più. Anche a questo serve
la Chiesa, l'agápe di coloro che cercano di rimanere uniti al
Fondarore attraverso i secoli. Soccorrere chi ne sa di meno è un'opera santa,
perché manifesta l'agápe e quindi il Fondamento. Opere di quel tipo
si fanno per comando di Gesù, che è Fondatore e Fondamento e via verso
il Padre: questo è un modo di dire la nostra fede.
Certo, uno legge di teologia e rimane affascinato, poi partecipa ad una
riunione di condominio o, per i più giovani, sta qualche ora negli ambienti
scolastici e tutto quel bel mondo ideale gli crolla addosso. Ricostituire il
mondo in modo da eliminare il male che c'è in esso non è alla portata delle
nostre sole forze. Questo ognuno lo può constatare ed è vero anche
secondo la nostra fede. Gesù, introducendoci all'agápe santa, non ci
ha mai detto che avremmo potuto da noi stessi cambiare il mondo. Farlo è quindi
opera soprannaturale, ma i frammenti di agápe che riusciamo
a realizzare giá qui ed ora nel nome di Gesù ne sono manifestazioni. Al
centro delle nostre celebrazioni liturgiche c'è appunto questo, un'agápe in
cui ci raccogliamo tra noi ma insieme a lui, nel suo nome e ci uniamo a lui.
Questo è un grande prodigio. Per questo anche la celebrazione meno apprezzabile
dal punto di vista artistico mantiene un valore infinito, come manifestazione
iniziale di un altro mondo. E lo sono anche tutti gli altri frammenti di agàpe che
ci riesce di rendere concreti nel nome di Gesù. Riprendendo un'immagine
evangelica li si può paragonare a semi che germogliano (leggi nel Vangelo
secondo Marco i versetti dal 26 al 32 del capitolo quarto). Perché, ne siamo
convinti nella fede, questo mondo con tutta la sua spietata
brutalità, il mondo di chi preda per primeggiare e di chi oppone la forza a chi
chiede pietá, è destinato a crollare sotto il peso della sua iniquità, e i suoi
potenti ad essere rovesciati dai troni che si sono costruiti, e sarà sostituito
dal Regno santo annunciato da Gesù, quello degli umili e amorevoli, a
discredito di ogni superbia. Questo è fondamentalmente il senso della pietà mariana,
che ho imparato a conoscere bene attraverso mia madre.
72.8. La patria celeste
Il Vangelo ci è venuto da Gesù di
Nazaret, il quale era ebreo e crebbe e iniziò il suo magistero nella Galilea
del Primo secolo, che così abbiamo iniziato a denominare contando gli anni
dalla sua nascita, quando abbiamo preso coscienza della svolta epocale che da
lui aveva preso origine e fondamento. Questo ci lega all'ebraismo di quel tempo
e, attraverso di esso, ci lega e ci legherà all'ebraismo di ogni tempo. E tuttavia
la figura e l'insegnamento di Gesù ce ne separa anche, e irreversibilmente. Di
ciò hanno insufficiente consapevolezza sia coloro che immaginano possibile
un'assimilazione del l'ebraismo nostro contemporaneo, sia coloro che tentano
un'ebraicizzazione dei nostri costumi immaginando così di avvicinarsi
maggiormente a Gesù. L'assimilazione è vissuta come un pericolo mortale
dall'ebraismo, oggi come sempre, e non è possibile un vero dialogo con
l'ebraismo, sulla base del rilevante parrimonio culturale che con esso
condividiamo, se non rinunciamo al proposito di assimilarlo, in particolare
sotto specie di conversione. Tra le principali differenze con l'ebraismo nostro
contemporaneo vi è la concezione di patria, che molte correnti
dell'ebraismo tendono ora a individuare nello Stato d'Israele e che in passato
i nazionalismi cristianizzati, oggi si direbbe sovranismi, tesero
a individuare nei rispettivi stati nazionali. In realtà, teologie cristiane
molto risalenti nel tempo, addirittura inglobate nelle Scritture, attendono
patrie dal fondamento più stabile, perché costruite da Dio
stesso. Ve ne è traccia nella seconda lettura della Messa di ieri,
tratta dal capitolo 11 della Lettera agli ebrei: "Egli [Abramo] aspettava
infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto è Dio stesso [...] Nella
fede morirono tutti costoro [Abramo, Isacco, Giacobbe], senza
aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano,
dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così mostra
di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano
usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarci; ora invece aspirano a una
patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di
essere chiamato loro Dio. Ha infatti preparato per loro una città". Patria
celeste non significa necessariamente nell'al di là, ma
senz'altro costruita da Dio stesso. Al di fuori di essa si
vive nella condizione di migranti, in viaggio verso di essa. Il confronto tra
essa e le nazioni è bruciante: queste ultime sono travagliate dalla brutalità,
non di rado dei loro stessi capi. Un'azione sociale per migliorarle è però
possibile, avendo come modello la Patria celeste, ma finché Dio
stesso non vi porrà mani i risultati saranno sempre provvisori, non
duraturi, così quei pellegrini che dovremmo sempre essere in
un'ottica di fede saranno sempre insoddisfatti e non potranno legare più di
tanto il loro cuore all'opera delle loro mani. Non avranno mai in questo mondo
una Gerusalemme a cui tornare e ne agognano una Celeste, vale
a dire scesa dal Cielo, secondo l'immagine che troviamo al
termine del libro dell'Apocalisse, che significa costruita
da Dio stesso. Nella Messa pensiamo di renderne visibile un
frammento, quando Dio viene a noi e in noi e ci manifestiamo nel rito suo
popolo, tratto da tutti i popoli della Terra per abitare con lui la Patria
celeste. Ognuno può dire di essere nato in essa, nessuno vi è più
straniero. E vi è abolita l'inimicizia.
72.9. Ad uno spietato
Non ho un'indole sacerdotale. Ad una persona che mi dice di non essere
credente, di solito rispondo: "va bene". Ne prendo atto e non sto a
insistere. Vada per la sua strada. Non di rado quella, però, si risente. A lei
non va bene. Ma che voleva da me? Lei da una parte e io dall'altra, non è che
ci si debba azzuffare, siamo persone civili. No, in realtà questa mia
indifferenza non l'accetta. Preferirebbe che questionassi, che le spiegassi
perché dovrebbe credere. In effetti, come cristiano, sono inviato anche a lei per
raggiungerla nella sua incredulità. Non è un compito solo per sacerdoti, anche
se per loro è una specie di mestiere, al quale si preparano a lungo. Io però
non so fare di meglio che indicare all'incredulo Gesù: egli è infatti via,
verità e vita (leggi dal Vangelo secondo Giovanni, il
versetto 6 del capitolo 14; in forma contratta si scrive Gv 14,6). In gran
parte dei post che ho scritto su questo blog non sono stato
così esplicito, perché mi sono occupato prevalentemente di azione sociale, che
richiede un complesso lavoro di mediazione per potersi
intendere con tutti, ma trattando direttamente di fede, e in particolare
di motivazione alla fede, non dando quindi la fede come presupposta, devo
esserlo. Ma è un lavoro semplice: infatti Gesù è principio e fondamento della
nostra fede. È la porta. L'ha insegnato lui stesso (leggi dal
Vangelo secondo Giovanni, il versetto 9 del capitolo 10; Gv 10,9). Non c'è
altro da dire sul punto. Tutta la complicata nostra teologia serve poi per
capire che fare in base a chi Gesù è, quindi per la
conseguente azione sociale. Che si deve fare in concreto?
Anche questo c'è l'ha insegnato lui, e si deve cominciare da lì: amare
come lui ha amato (leggi dal Vangelo secondo Giovanni i versetti 12 e
17 del capitolo 15). Amare: niente di sentimentale però. Si tratta
dell'agàpe che significa, nel greco antico evangelico, amicizia di
condivisione e soccorso universale, amore operoso. E
infatti: non c'è amore più grande che dare la vita per i propri
amici, ci è stato insegnato (leggi nel Vangelo secondo Giovanni
il versetto 13 del capitolo 15). Ma ci è comandata addirittura l'agape universale
incondizionata, per amare in quel senso anche i nemici
(leggi dal Vangelo secondo Matteo i versetti 43 e 44 del capitolo 5). Ora mi
proponi tante tue giustificazioni per limitare questa agápe universale?
Non ti ascolto. Conosco solo Gesù e Gesù crocifisso, lui, il Dio mio amico che
diede la vita per me, questo mi hanno insegnato (leggi nella prima lettera di
Paolo apostolo,il versetto 2 del capitolo 2). Mi dici che è difficile seguirlo?
Ti rispondo: sì e no. È difficile costruire nel
nostro mondo l'agape, dunque il fare, esso richiede sapienza,
che significa anche cultura oltre che buona volontà; molto più semplice è
il non fare, l'astenersi dal male. Comincia da lì. Anche questo può
costare caro, ad esempio il discredito sociale. Gesù morì da reietto sociale,
non solo fu ucciso, ma giustiziato. Ma, insomma, se, ad esempio, io
non mi associo al coro di quelli che di questi tempi gridano "Lasciateli
affondare! Chiudete i porti a chi li ha soccorsi!", che rischio?
Dico solo quello che dice il Papa. Sarò forse criticato da alcuni, forse sarò
aggredito a parole sulle reti sociali, ma poco di più. Mi costa poco seguire
Gesù nell'astenermi da quel male. Ad alcuni questo non va? Dunque vadano
per la loro strada, io non li seguirò. O meglio, sono tentato di non seguirli,
perché in realtà Gesù, via, verità è vita, Buon Pastore, li
segue per riportarli al sicuro, per la retta via, che è lui stesso, e così
devo fare anch'io, suo seguace, benché, lo confesso, molto riottoso perché per
indole preferirei tenermene lontano, Dove andate, voi, spietati, senza Gesù?,
mi corre l'obbligo di ricordare loro. Nella sofferenza non invocate anche voi
misericordia, quella stessa che però negate agli altri? Perché fate agli altri
quello che non vorreste fosse fatto a voi? Lo sapete che, una volta introdotto
in società il principio di spietatezza, quello vi si ritorcerà contro, quando
le forze, fatalmente, vi abbandoneranno? Questa è appunto la spietata legge di
natura, quella delle belve nostre antiche progenitrici secondo la biologia. Se
vi farete belve, farete la loro fine. Imparate dalla natura.
Gesù, nostra unica speranza nella
fede! Nei racconti evangelici delle procedure che condussero alla sentenza di
morte su di lui ad un certo punto entra in scena la folla, composta da abitanti
di Gerusalemme, città nella quale alcuni giorni prima Gesù era stato acclamato
a gran voce. Quella folla invocò, pretese la sua morte (leggi nel Vangelo
secondo Luca in versetti dal 13 al 25 del capitolo 23). Non ci sono forniti
particolari. A Gerusalemme c'erano sicuramente seguaci di Gesù. Egli infatti fu
condotto a Pilato, alto funzionario dell'Impero romano, potenza straniera che
occupava la Palestina dell'epoca, con l'accusa di essere un sobillatore del
popolo. Ecco che si rischia ad insistere con chi non vuol sentire! Ma, in
occasione di quella sorta di processo in piazza, la voce dei suoi sostenitori
non fu udita. Gesù non ebbe avvocati difensori. Fu lasciato solo nelle mani dei
suoi nemici. Ora, in genere, siamo portati a deplorare tutto questo e non ci
piacerebbe pensarci in mezzo a quella folla che urlava a Pilato "Crocifiggilo!".
Ma in realtà ci comportiamo proprio come quelli lá quando gridiamo "Lasciateli
affondare" o addirittura "Affondateli" e
comunque "Chiudete i porti". Non vi è stato
insegnato che tutto ciò che si fa a quei disperati in pericolo di affogare o
strappati al mare ma ancora in pericolo in mezzo al mare è come se fosse fatto
a Gesù stesso (leggi dal Vangelo secondo Matteo i versetti dal 41 al 46 del
capitolo 25)? Questo è il peccato, e un peccato molto grave perché commesso
contro Gesù, il fondamento. Sono solo chiacchiere, si dice. Che male possono
fare in fondo? Ma non sapete che anche quelle sono peccato, perché, come
recitiamo all'inizio della Messa, si pecca anche in pensieri e
parole? Ma poi ad esse, in democrazia, seguono anche le opere, opere
malvagie, perché in democrazia la voce della folla è ascoltata da chi comanda, come
lo fu da Pilato, e dunque ecco che quelli che abbiamo chiesto di lasciar
affondare affogano veramente e quelli che sono stati soccorsi e salvati
in mare soffrono vicino alle nostre coste perché i nostri porti sono stati
effettivamente chiusi, come era stato chiesto. Su tutto questo ci ammonisce il
Papa, con autorità, la suprema autorità secondo la nostra confessione: è peccato
e peccato grave, quello che macchia e che esclude dalla Comunione, ci
istruisce accorato, ma non è ascoltato. Attenti però, spietati, che lui ci
indica il Buon Pastore, la via, gli altri, quelli che vi hanno
persuasi alla spietatezza, sono solo ladri e briganti (leggi
nel Vangelo secondo Giovanni i versetti da 1 a 4 del capitolo 10).
72.10. Due parole sulla Chiesa
Nei giorni passati vi ho scritto
solo ciò che mi è stato insegnato. Di alcune cose vi potrei dire con precisione
quando e da chi le ho imparate. Alcune le ho imparate fin da bambino, perché
sono cresciuto nella Chiesa cattolica, una delle maggiori Chiese cristiane. Chiesa: la
parola ci deriva attraverso il latino dal greco antico ekklesìa,
che significava assemblea. Una Chiesa cristiana unisce anche a
Gesù, non solo tra chi ne è partecipe. Della Chiesa cattolica sono
parte viva e nessuno mi può togliere questa mia condizione. Mi deriva dal
Battesimo, con il quale sono stato unito a Gesù, e mediante lui a tutta
l'umanità di ogni tempo. Quale parte viva non sono la semplice replica di
altri: questo significa che in quello che vi ho trasmesso c'è indubbiamente
qualcosa di mio che voi probabilmente ricorderete. È come con ciò che abbiamo
appreso dalla persona che ci è stata madre. La madre è la prima maestra. E i
cattolici chiamano la loro Chiesa madre e maestra. Vivere
insieme agli altri è profondamente umano. La nostra Chiesa lo è. Vive da due
millenni e molto si è aggiunto a ciò che c'era alle origini. È servito a vivere
i tempi nuovi e in particolare per la missione che le è stata affidata da Gesù,
quella di raggiungere gli esseri umani fino agli estremi confini della Terra,
per farne dei discepoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo e insegnando loro a osservare tutto ciò che Gesù ha comandato.
Gesù ha promesso di essere con noi, in questo lavoro, fino alla fine del mondo
(leggi nel Vangelo secondo Matteo, i versetti dal 16 al 20 del capitolo 28). Le
Chiese cristiane sono riuscite a svolgere questa missione? Sì, altrimenti non
avremmo conosciuto Gesù. Insieme all'essenziale è stato trasmesso molto altro.
L'essenziale, quello che ci mantiene uniti a Gesù, non passa, il resto potrebbe
essere cambiato senza danno, ed in effetti così si è fatto. Il volto delle
Chiese cristiane, come società di credenti, è molto cambiato dalle origini,
anche perché i tempi sono cambiati. Anche questo è profondamente umano. Il
passato non ci domina, il nostro sguardo è rivolto al futuro. Nel presente
dobbiamo sempre discernere ciò che del passato deve essere mantenuto, e
senz'altro c'è!, ed è ciò che ci unisce a Gesù. È una decisione collettiva, non
individuale, perché la missione è collettiva. Ciascuno però può collaborarvi,
con l'esempio di vita, la proposta motivata, il dialogo, secondo il proprio
ruolo nella propria Chiesa e l'autorità che gli è storicamente riconosciuta in
essa. Ad esempio: la Città del Vaticano, lo stato che la Chiesa
cattolica possiede (non "è": la
Chiesa cattolica non è uno stato) qui da noi a Roma non
rientra nell'essenziale.
72.11. Su tutta la Terra
È ancora piuttosto misterioso
come la nostra fede abbia potuto diffondersi alle sue origini intorno al
Mediterraneo fino a creare le premesse della sostituzione dell'ideologia
politica basata sull'antico politeismo. Le fonti storiche appaiono influenzate
dagli sviluppi successivi. Probabilmente ebbe un ruolo importante lo sviluppo
di una sofisticata teologia sulla base dei concetti filosofici ellenistici, di
cultura greca, che fornì la risposta a molti problemi politici dell'epoca. Ma
l'evoluzione più spettacolare si ebbe nell'integrare le culture dei popoli che,
intorno al Quinto secolo della nostra era, iniziarono a premere contro la parte
occidentale dell'Impero romano, finendo per conquistarlo ma facendosene
assimilare culturalmente. Il fattore più influente di questo processo può
essere individuato nella rilevantissima forza di integrazione interculturale
che è insita nei principi sociali della nostra fede.
Quest'ultima infatti manca del tutto, a differenza della cultura
religiosa del suo ebraismo delle origini, di connotati etnici o geografici. Il
Dio in essa rivelato è detto Padre di tutte le genti. Il
suo Regno è universale ed è fondato sull'agápe, l'amicizia
universale di condivisione e soccorso. I discepoli della nostra fede
sono inviati fino agli estremi confini della Terra per insegnare a tutte le
genti il comando dell'agàpe. Questo insegnamento è totalmente traducibile nella
lingua dell'agàpe, che è l'agape stessa, la quale può essere intesa da
tutti. Tanti anni fa un famoso fisico credente, il prof. Enrico Medi, veniva
chiamato, anche dai vescovi, a tenere affollate conferenze di argomento
religioso. In una di esse, della quale sono disponibili fonoregistrazioni (la
mia purtroppo l'ho persa), disse che il laico cattolico ha l'occasione nella
sua vita di celebrare una sola Messa, ed è in occasione della sua morte, con
l'affidamento del suo spirito al Padre e l'offerta della sua vita per gli
altri. È un modo molto suggestivo di presentare il contributo del singolo
a quella grande liturgia che è la pratica dell'agàpe.
Ora, se cerchiamo di discernere i segni dei tempi, di quelli
nostri che stiamo vivendo, vediamo con chiarezza che essi sono
costituiti principalmente dall'abolizione di ogni confine e divisione
nell'umanità, ciò che da un po' va sotto il nome di globalizzazione, con
riferimento prevalentemente alle sue caratteristiche e dimensioni
geografiche, ma che, se riuscissimo ad umanizzarla, dovremmo probabilmente
chiamare con un nome nuovo. In questo quadro si offrono inedite
opportunità all'agápe secondo la nostra fede. Le possiamo sperimentare
tutte le volte che incontriamo di persona gente di altre culture ed etnie.
Un'esperienza che caratterizzò le nostre comunità delle origini.
72.12. Cose dell’altro mondo
La nostra fede
ci spinge a lavorare per cambiare la società in cui viviamo, aspettando che
l’opera sia portata a compimento da Dio stesso alla fine dei tempi, o,
principalmente, a essere buoni, e quindi anche a fare il bene,
per procurarci dopo la nostra morte un posto in un mondo di spiriti
con Dio, ai quali, alla fine dei tempi, sarà restituito un corpo e che quindi
rivivranno? Pensate che sia facile dare una risposta? Vi consiglio
allora di approfondire la storia della nostra religione: vi convincerete che
non lo è. Non si tratta solo di complicazioni inutili. Per dire: a chi propone
di soccorrere in base ad un imperativo etico religioso, si lancia spesso
l’accusa di fare sociologia e non teologia,
di occuparsi quindi (troppo) della cose della Terra a discapito di quelle del
Cielo. Che rispondere? Uno come Francesco d’Assisi, vissuto tra il 1182 e il
1226, ha cercato di tagliare cortoimitando Gesù. Non dava importanza
allo studio colto della teologia, nel quale vedeva la presunzione di
inserire glosse, vale a dire aggiunte esplicativa, al Vangelo,
depotenziandolo, ma, in effetti, ebbe una sua teologia, che è appunto quella
dell’imitazione dei Gesù. I frati dell’Ordine da lui fondato, che poi si
sviluppò in varie organizzazioni religiose, furono però anche persone molto
colte.
Sicuramente
nella nostra fede pensiamo ad una vita dopo la morte fisica, e anzi vi confidiamo, e
lo facciamo perché ce l’ha insegnato Gesù. Ma la vita in questo mondo ci
deve essere indifferente, vada come vada, noi si deve pensare solo a
quell’altra? Ci sono correnti spirituali che l’hanno pensata così. Esse
si contrappongono frontalmente al nostro mondo e
sembrano però anche inaugurarne un altro qui tra noi a
fianco di esso, vivendo un’etica molto rigorosa. Che
valore ha questo mondo alternativo, separato?
Nel greco
evangelico la parola che traduciamo con mondo erakòsmos e
in quell’antica lingua richiamava l’idea di ordine.
Nell’antica
religione politeistica dei greci, Kàos - l’universo
disordinato - era uno degli dei delle origini, insieme
a Gea, la Terra, Tartaro, l’al di là,
ed Eros, la forza riproduttiva. Si riteneva che tutti gli altri dei
fossero nati da Kàos e da Gea. Dalle
loro lotte, secondo questa storia di dei detta teogonia -
generazione degli dei - emerse alle fine un ordine, ilKòsmos,
governato da un dio supremo Zèus, Giove nell’italiano
di derivazione latina, detto Padre universale degli dei e degli esseri
umani.
Uno dei brani
evangelici più importanti in cui è utilizzata la parolakòsmos è
quello del Vangelo secondo Giovanni, capitolo 1°, versetto 10, che nella Bibbia
CEI 2008 viene tradotto così:
Era
nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
e che nel testo greco
ritenuto maggiormente affidabile suona:
En
to kòsmo en,
nel mondo era,
kai
o kòsmos di’ autù egèneto
e il mondo
per mezzo di lui nacque
kai o kòsmos ouk
ègno.
e il mondo non lo riconobbe.
Un’altra frase
evangelica molto importante che ha kòsmos è quello nel Vangelo
secondo Giovanni, capitolo 18, versetto 36, che riporta la risposta di Gesù
alla domanda di Pilato “Tu sei il re dei Giudei”, che la Bibbia
CEI 2008 traduce in questo modo:
Rispose
Gesù: "Il mio regno non è di questo mondo;
e che
nel testo greco ritenuto maggiormente affidabile suona:
Apekrìte
Iesùs e basilèia emè uk èstin ex tù kòsmu tùtu
rispose Gesù
il regno mio non
è del mondo questo.
Parlando
di un altro mondo / kòsmos Gesù intendeva riferirsi al
mondo degli spiriti lassù o a un altro ordine universale e
quindi anche sociale già quaggiù, conforme al suo Vangelo?
La
questione non può essere risolta solo sulla base dall’analisi letteraria del
testo, perché il greco antico kòsmos aveva vari
significati e viene utilizzato nei testi evangelici con vari significati.
Un
raccordo tra Terra e Cielo può essere visto in questo famoso detto evangelico
che troviamo nel Vangelo secondo Matteo, nel capitolo 10, versetti da 25 a 46,
che CEI 2008 traduce così:
[31]
Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si
siederà sul trono della sua gloria.
[32] E saranno riunite davanti a lui tutte le
genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore
dai capri,
[33] e porrà le pecore alla sua destra e i capri
alla sinistra.
[34] Allora il re dirà a quelli che stanno alla
sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno
preparato per voi fin dalla fondazione del mondo.
[35] Perché io ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete
ospitato,
[36] nudo e mi avete vestito, malato e mi avete
visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.
[37] Allora i giusti gli risponderanno: Signore,
quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e
ti abbiamo dato da bere?
[38] Quando ti abbiamo visto forestiero e ti
abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito?
[39] E quando ti abbiamo visto ammalato o in
carcere e siamo venuti a visitarti?
[40] Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi
dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli
più piccoli, l'avete fatto a me.
[41] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via,
lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i
suoi angeli.
[42] Perché ho avuto fame e non mi avete dato da
mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere;
[43] ero forestiero e non mi avete ospitato,
nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato.
[44] Anch'essi allora risponderanno: Signore,
quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o
in carcere e non ti abbiamo assistito?
[45] Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni
volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più
piccoli, non l'avete fatto a me.
[46] E se ne andranno, questi al supplizio
eterno, e i giusti alla vita eterna".
Dunque, si
insegna di solito nella nostra pastorale, ciò che facciamoquaggiù è
importante anche lassù. Ma fino a che punto la nostra
missione quaggiù è collegata con il nuovo ordine
di lassù? E’ solo questione di retribuzione nel mondo di lassù?
Nell’ordine di idee dell’imitazione di Gesù si può argomentare in
modo diverso, vale a dire che la nostra missione quaggiù non
abbia solo senso per accumulare crediti per la vita di lassù.
Vi dico che cosa
ho imparato in una vita trascorsa nell'ascoltare quegli
insegnamenti: in materia di fede, non bisogna avere fretta di rispondere,
bisogna riflettere molto. Come in ogni cosa, meglio partire dalle cose semplici
per arrivare, riflettendoci molto sopra, a quelle più complesse. Quindi, ad esempio,
accogliere lo straniero che giunge tra noi nudo, affamato,
assetato, malato. Questo comando è molto chiaro e ci viene da
Gesù. Egli, la via, la porta, del Cielo. Chi l'accoglie passa per
quella porta, non così chi non l'accoglie. Secondo quel brano evangelico, chi
non accoglie, non accoglie Gesù e allora non avrà in eredità il Regno.
Ma che cos'è questo Regno? In questo detto evangelico se ne cerca
di rendere un’idea (lo trovate nel Vangelo secondo Marco, al capito quarto,
versetti 31 e 32):
[31]
Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il
più piccolo di tutti semi che sono sulla terra;
[32] ma appena seminato cresce e diviene più
grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo
possono ripararsi alla sua ombra".
Un’altra
avvertenza che ciclicamente faccio: ricordate che su ogni parola della Bibbia,
ma in particolare dei Vangeli, si sono scritte, nei due millenni della nostra
storia collettiva di fede, tantissime pagine, tante che ormai nessuno, nemmeno
i più dotti, riescono ad averle tutte presenti, e inoltre che dalle parole
bibliche ergono ancora tantissimi altri nuovi significati ai quali prima non si
era ancora pensato. Occorre quindi affrontare ogni brano biblico con spirito di
massima umiltà, pronti ad essere corretti da chi ne sa di più e meglio, tanto
più se non si è passata un’intera vita affinando una sapienza su quei temi,
come chi di mestiere o per ministero li insegna, ma si è solo un fedele tra i
tanti, come me.
72.13. Sono persone!
In questo sesto
anniversario della visita a Lampedusa, il mio pensiero va agli “ultimi” che
ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li
affliggono. Sono gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto; sono
gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli
ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in
campi di un’accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea. Essi sono
solo alcuni degli ultimi che Gesù ci chiede di amare e rialzare. Purtroppo le
periferie esistenziali delle nostre città sono densamente popolate di persone
scartate, emarginate, oppresse, discriminate, abusate, sfruttate, abbandonate,
povere e sofferenti. Nello spirito delle Beatitudini siamo chiamati a consolare
le loro afflizioni e offrire loro misericordia; a saziare la loro fame e sete
di giustizia; a far sentire loro la paternità premurosa di Dio; a indicare loro
il cammino per il Regno dei Cieli. Sono persone, non si tratta solo di
questioni sociali o migratorie! “Non si tratta solo di migranti!”, nel
duplice senso che i migranti sono prima di tutto persone umane, e che oggi sono
il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata.
[Papa Francesco -
dall'omelia dell'8-7-19 - Messa nella Basilica di San Pietro a Roma in
occasione dell’Anniversario della sua visita a Lampedusa]
Il Papa insegna una cosa ovvia: chi
incrudelisce contro i migranti va contro Gesù, che «ci chiede di amare e rialzare». Bisogna scegliere. La
scelta ha un carattere particolare perché è politica. Non è come quando, ad
esempio, decidiamo come comportarci con una persona della nostra famiglia o con
un vicino di casa. Questo non mi pare chiaro a molti e, del resto, i
nostri politici non aiutano a capirlo. Anzi tendono ad assimilare quella
scelta, che riguarda il governo della società, a quelle che facciamo nei nostri
ambienti di prossimità. Accade così quando, a fronte delle critiche a certe
politiche di discriminazione e respingimento, dicono ai dissenzienti di prenderli
a casa loro [i migranti poveri]. Ancora agli inizi del Novecento si
ragionava in Italia in questo modo in merito alle spese sanitarie per curare le
singole persone: la malattia era un male privato e ciascuno doveva sostenere da
sé il costo delle cure. In gran parte del mondo è ancora così, in particolare
nei Paesi più poveri. Ma anche negli Stati Uniti d’America solo di recente è
stato introdotto un sistema di assicurazioni private con finalità sociali che
garantisce a una parte della fasce meno abbienti di quella nazione (che è
ancora tra le più ricche del mondo) una parte delle cure loro occorrenti, senza
che facciano carico del tutto ai malati e alle loro famiglie. Ma l’attuale
Presidenza federale statunitense si propone di abolirlo. In generale, negli
Stati Uniti solo chi ha un lavoro stabile ha garantite le cure mediche a carico
di assicurazioni private e le prestazioni variano a secondo del tipo di impiego
o professione. In Italia , invece, gran parte delle cure sanitarie, anche quelle
molto costose, sono a carico del Sistema Sanitario Nazionale, gestito dalle
Regioni con fondi che in massima parte derivano dai tributi che versiamo allo
Stato. Questo è previsto nella nostra Costituzione. E' stata una scelta
politica.
Il problema del
soccorso, accoglienza e integrazione o respingimento dei migranti è sociale,
collettivo, e va risolto con un’organizzazione collettiva. Il fatto che al
soccorso in mare ai migranti nel tratto di mare tra le nostre coste e quelle
libiche si dedichino in prevalenza organizzazioni private è un segnale che
qualcosa non va: e infatti da qualche anno lo Stato italiano non organizza più
quel servizio e ha ritirato la flotta che impiegava per svolgerlo. Di esso vi
sarebbe ancora necessità: infatti fonti affidabili segnalano che finora circa
novecento persone sono annegate nel 2019 in quel tratto di mare. Non
solo: recenti disposizioni di legge creano difficoltà anche alle organizzazioni
private. Vorremmo che a soccorrere fosse la Guardia costiera libica. Questo soccorso
si configura in realtà come una cattura, perché le persone soccorse vengono poi
internate in centri in Libia in condizioni di detenzione, che l’ONU ha
dichiarato pessime. La Libia è uno stato in guerra. Ad oriente vi è
un’organizzazione che sta attaccando quella ad occidente, dove attualmente
manteniamo un corpo di spedizione. La Guardia costiera libica è organizzata
nella parte occidentale, dove teniamo lla gente nostra, soldati e funzionari
civili. Opera con navi fornite dall’Italia, con personale addestrato
dall’Italia e verosimilmente sulla base di informazioni sulla posizione dei
migranti fornite dall’Italia, che le acquisisce mediante il proprio dispositivo
militare nell’area. Osservo: si può capire che uno stato in condizioni di
guerra come quello della Libia occidentale cerchi di contrastare l'immigrazione irregolare
di stranieri, ma perché dovrebbe contrastare anche l'emigrazione irregolare
di stranieri (non di propri cittadini)? In realtà questa attività di contrasto
dell'emigrazione irregolare di stranieri dalla Libia viene
svolta nell’interesse dell’Italia, è un forma di protezione avanzata
delle nostre frontiere. Essa non viene svolta solo
nelle acque territoriali libiche, ma molto oltre, nel mare internazionale.
Quando viene svolta nel mare internazionale può riguardare solo imbarcazioni in
difficoltà, perché le norme internazionali vietano di assaltare quelle che non
lo sono (sarebbe pirateria), salvo il caso di guerra o di convenzioni
internazionali che consentano quell’attività, come quando una nave militare
inizia l’inseguimento nel mare territoriale e lo prosegue in acque
internazionali. Le operazioni di polizia libica su navi di migranti in
difficoltà, per catturarne i passeggeri e riportarli in Libia, sono svolte
dalla Guardia costiera libica nel quadro di un’attività di sorveglianza e
soccorso in un’area di mare internazionale individuata come zona S.A.R. - di
sorveglianza e soccorso - e riconosciuta alla competenza e responsabilità
della Libia occidentale nel giugno dell’anno scorso. La critica che si fa è
questa: non si tratta in realtà di soccorso ma di cattura,
a cui segue un internamento in Libia, in pessime condizioni, senza prospettive
di una rapida soluzione per gli internati. Ciò che si fa, si fa con mezzi
forniti dall’Italia e nell’interesse dell’Italia, ma senza che l’Italia si
assuma la responsabilità degli internati, vale a dire delle persone catturate
mentre stavano emigrando dalla Libia più o meno verso le
nostre coste (l’Italia è lo stato europeo che con Malta, un piccolo arcipelago,
è il più vicino alla Libia: è la principale porte d’Europa per chi parte dalla
Libia occidentale). Questo il problema sociale, che è anche politico, e
che in democrazia riguarda tutti quelli che hanno il diritto di votare alle elezioni.
Con il loro voto possono scegliere tra le soluzioni politiche
proposte e indirizzare l’azione di governo. Quel problema non è da
oggi: si è manifestato dall’inizio degli anni ’90, quindi da circa trent’anni,
ma la politica italiana, senza distinzione dei suoi orientamenti politici, non
è riuscita finora ad andare molto più in là del sistema ora vigente, che risale
ad accordi conclusi molto tempo addietro con il capo libico Gheddafi, ucciso
nel 2011 nel corso della prima fase della guerra civile libiche, che da allora
è stata sempre in corso e che ha visto e vede l’intervento di varie potenze
straniere, tra le quali l’Italia [fino al settembre 2018 la missione in Libia
MIASIT prevedeva un impiego massimo di 400 militari, 130 mezzi terrestri e
mezzi navali e aerei (questi ultimi tratti nell’ambito delle unità del
dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro)
fonte:https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/Libia_Missione_bilaterale_di_supporto_e_assistenza/Pagine/Contributo_nazionale.aspx].
Per i migranti
la nostra scelta è per la vita o per la morte e ne ha la responsabilità chi in
Italia ha voce in politica, innanzi tutto gli elettori. Ma il problema riguarda
da vicino anche la nostra vita, perché, semplicemente respingendo, non lo si
risolve, ma lo si aggrava poco al di là dei nostri confini, lì dove abbiamo
importanti fonti di approvvigionamento energetico e dove, pertanto, abbiamo
interesse a mantenere tranquilla la situazione.
72.14. Riconoscere o rinnegare Gesù
Dal Vangelo secondo Luca, capitolo 12,
versetti 8 e 9: «8 Io vi dico: chiunque mi riconoscerà
davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli
angeli di Dio; 9 ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini,
sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio.»
C’è una relazione tra Terra, dove
siamo noi ora quaggiù, e il Cielo, la nostra vera e unica patria
secondo la fede, che indichiamo con lassù per significare la
distanza, ma senza sapere dove precisamente sia,
essendoci state date solo immagini di come è, ed è
insieme a Dio e ai suoi angeli. Quella relazione è mediata da Gesù, detto anche
la via e la porta, che danno accesso
al Cielo. Non si tratta di fargli atto di formale sottomissione, ma di fare
ciò che comanda, ed egli ci comanda l’amore-agàpe, l’amore
di condivisione e soccorso. Il modello è il farsi prossimi agli
altri come il Samaritano della parabola narrata nel
Vangelo secondo Luca, nel capitolo 10, versetti dal 25 al 37. Questo mi è stato
insegnato. La pratica della fede sta tutta qui. E’ una cosa semplice da dirsi e
da capire, molto più difficile da farsi. Molto, molto più difficile di tutta la
teologia di ogni tempo, che è solo cultura pensatae detta,
per di più riferita a quel Cielo di cui ho scritto prima, che ci si sottrae
nella sua distanza dalle cose e dalla vita di quaggiù. La pratica
della fede richiede una certa sapienza: la si impara, certo, ma la si deve
anche sperimentare, e non è detto che vada sempre bene al primo colpo. E’ come
tutte le cose umane: sempre perfettibile. Per la fede, ciò che motiva a quella
pratica, è invece diverso. Dicono che si cresce nella
fede, ma nella mia esperienza non è proprio così. Vedo che si ricomincia sempre
da capo, di età in età, e non è detto che si migliori con la sua pratica,
acquisendo quindi una certa sapienza pratica. Non è detto che i vegliardi siano
migliori dei più giovani. E’ questo che si vuol dire in religione quando si
afferma che la fede ci è donata. E’ come con
la manna, il pane dal Cielo, dell’episodio biblico, che non poteva
essere accumulata (leggi nel libro dell’Esodo, i versetti dal 14 al 21 del
capitolo 16). Il dono deve essere rinnovato di giorno in giorno, per tutti i
giorni della vita. Così può accadere che uno sappia di teologia e di liturgia,
che quindi sappia parlare con sapienza della fede e sappia insegnare preghiere
e riti ma, ad un certo punto, non abbia più la fede, ad esempio se non accetta
di riceverla in dono ma cerca di costruirsela in base a ciò che sa. E’
descritta anche come sorgente d’acqua
che zampilla per la vita eterna, acqua viva (leggi
dal Vangelo secondo Giovanni, i versetto 10 e 14 del capitolo 4). Ci viene da
Gesù, questo si insegna in religione. Non è opera nostra. E, del
resto, è tanto diversa dalla logica delle cose di quaggiù! Solo dal Cielo ci
poteva venire. Supera ogni nostra attesa. Ci conduce al Cielo.
Per chi si
allontana da Gesù le cose di quaggiù riprendono però il loro
aspetto di natura e la società appare nuovamente espressione della sua dura e
spietata legge, che è quella a cui soggiacciono gli animali i quali, dal punto
di vista della biologia, discendono anch’essi dalle antiche belve nostre
progenitrici. Nell’allontanarsi non si tratta della fede pensata o parlata, ma
della sua pratica, ad esempio quando si rifiuta di soccorrere, di farsi
prossimi ai sofferenti che chiedono aiuto. Ci è infatti
comandato di amare, non di ragionare sull’amore. Non obbedire al
comandamento dell’amore - agàpe è appunto il rinnegare Gesù e
dipende da noi. Ci è stato insegnato infatti che ogni cosa che si fa ai
sofferenti è come se fosse fatta a lui (leggi nel Vangelo secondo Matteo, dal
capitolo 25 i versetti dal 31 al 46). Questo ci ripete il Papa,
accorato, quasi ogni giorno, ma è poco ascoltato, anche da chi parla di
fede e sbandiera simboli religiosi. «Maria Santissima ci aiuti
a lasciarci purificare il cuore dal fuoco portato da Gesù, per propagarlo con
la nostra vita, mediante scelte decise e coraggiose.» ha detto all’Angelus
domenica scorsa. Così avvenga, così sia, amen.
72.15. Il principio evangelico di
insoddisfazione
"Chi è il più grande tra voi diventi come il
più giovane e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande,
chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto
tra voi come colui che serve" (dal Vangelo secondo Luca,
capitolo,22, versetti 26 e 27 - traduzione in italiano CEI 2008. CEI 1974, dove
CEI 2008 ha "il più giovane" traduce con "il
più piccolo" - il testo in greco antico ha "neòteros":
letteralmente "il più nuovo").
Credo che storicamente
nessuna autorità, civile o religiosa, anche se ispirata ai principi di fede,
sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica il comando evangelico che ho
sopra citato. E questo anche nel caso di vere rivoluzioni, vale a dire di un
completo rovesciamento di un ordinamento politico, con instaurazione di un
nuovo ordine politico retto da regole opposte rispetto alle precedenti.
Rivoluzione è un termine che il
pensiero politico ha tratto dall'astronomia, dove significa il moto di un corpo
intorno ad un altro corpo, che si considera come centro. Una rivoluzione è
compiuta, dal punto di vista politico, quando viene istituito un nuovo
ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai potenti di stare come
colui che serve, vale a dire di agire di conseguenza,
significa introdurre un principio di insoddisfazione permanente davanti a
qualsiasi potere, quindi anche a quello che si presenti come rivoluzionario.
Questa appunto l'origine dei gravi problemi politici che le nostre prime
comunità di fede ebbero nei primi quattro secoli dell'era corrente e, in
seguito, degli analoghi problemi che travagliarono i nostri riformatori che
intesero promuovere un ritorno alla fedeltà a quel comando evangelico.
72.16. Grideranno le pietre
Alcuni farisei tra la folla
gli dissero: "Maestro, rimprovera i tuoi discepoli". Ma egli rispose:
"Io vi dico che se questi taceranno, grideranno le pietre" [dal Vangelo secondo
Luca, i versetti 39 e 40 del capitolo 19 - vi vengono riferite parole di Gesù
pronunciate entrando a Gerusalemme tra la folla che lo acclamava re].
Per trattare di questioni sociali
nell'ottica della mia fede cristiana facendomi intendere da tutti non mi
occorre un linguaggio esplicitamente religioso: mi basta usare quello
universale dell'agápe, dell'amicizia di condivisione e soccorso. In
questo senso è senz'altro vero: anche le pietre gridano. Se
però vi devo parlare della mia fede, devo indicarvi Gesù: non conosco altro
Dio, e per il resto sono completamente ateo. Apprezzo ogni persona religiosa,
anche di altre fedi, che riesca anche a manifestarsi buona. Con lei ci
intendiamo con il linguaggio dell'agápe. Ma non so parlare di Dio se non
mediante Gesú. Vorrei appartenere al suo Regno e ne attendo la piena
manifestazione: è ciò che è stato promesso, egli tornerà nella gloria. Non
saprei condurvi a Dio per altra strada, al massimo potrei riuscire a
convincervi degli antichi dei della natura, a questo portano le prove dell'esistenza
di Dio che nei secoli passati sono state escogitate, tutte. Perché dunque sono
passato dal linguaggio dell'agàpe a quello specificamente
cristiano? Ho cambiato gli interlocutori, per un po': ora sono i miei compagni
di fede, quelli che nel greco evangelico sono chiamati koinonòi appunto compagni. Così
si chiamavano gli uni gli altri i cristiani delle prime comunità (con il
termine comunitá traduciamo il greco del Nuovo
Testamenti koinonìa). Il termine koinonòs definisce
letteralmente chi è parte attiva di un impegno collettivo, comune nel
senso di condiviso. Che mettono in comune i cristiani? Ciò che
non deriva da loro, che è stato loro donato, la loro fede. Il termine
italiano compagni richiama qualcosa di più: il condividere
il pane. Ma intende la stessa cosa. Si condivide la vita nel corso di un
lavoro collettivo. Come compagni ci si fa attivi d'intesa con
altri che condividono la medesima fede. I cristiani sono compagni perché
sono impegnati in un'opera comune, inviati a tutte le genti del mondo per
condividere con loro il pane di vita, che è Gesù stesso, per
la salvezza dell'umanità. Sono mandati in suo soccorso. Leggiamo nel Vangelo
secondo Giovanni, nel versetto 35 del capitolo 6: "Gesù rispose loro: 'io
sono pane della vita; chi viene a me non avrá fame e chi crede in me non avrà
sete, mai!". Leggiamo anche nel capitolo 15 del Vangelo secondo Giovanni,
nei versetti 12 e 14: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli
uni gli altri, come io vi ho amati [...] Voi siete miei amici,
se farete ciò che io vi comando". Questo mi è stato insegnato,
questo ho appreso, questo condivido con voi, miei compagni di
fede.
Vi domando: si può essere spietati e
cristiani? Storicamente lo si è stati. Ma è stato giusto esserlo? È, oggi,
giusto esserlo? È un tema di stretta attualità, come sapete, per noi italiani.
Voi spietati che vi dite anche cristiani, che per confermarlo
esibite pubblicamente anche la corona del Rosario, la preghiera che ci fa fare
memoria di Gesù in ogni suo capitolo (detto mistero), quale
maestro, quale pastore, quale profeta, state seguendo? Non è la spietatezza il
comando di Gesù, egli che è la via, la porta, l'acqua
viva, il pane della vita. Ma l'amicizia di condivisione e
soccorso. Questo continuano a ripeterci concordemente e pressantemente il Papa
e i vescovi, e, tra i pastori cristiani, non solo loro. In
questo tante divisioni del passato sono state superate.
72.17. Sapienza evangelica
" In quel tempo Gesù
disse: 'Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
nascosto queste cose ai sapienti (il testo greco ha sofò sofòn, con
la stessa radice di sofìa che significa sapienza")
e ai dotti (il testo greco ha sunetòn, cioè coloro
che sono capaci di capire e di fa capire, rendendo condivisa la conoscenza;
da sùnesis che è appunto questa facoltà) e
le hai rivelate ai piccoli (il testo greco ha nepìois, da nèpios, che
significa bambino che ancora non sa parlare). [traduzione in
italiano CEI 2008 dal greco antico; dal Vangelo secondo Matteo, il versetto 25
del capitolo 11]
Il detto evangelico che ho sopra
trascritto è polemico verso gli intellettuali dell'ambiente sociale in cui Gesù
svolse il suo ministero. I bambini capiscono meglio le cose della fede
degli adulti che si sforzano di capire? Il lavoro degli intellettuali è
inutile per la fede e, anzi, controproducente? Così, ad esempio, intese Francesco
d'Assisi. Nei Vangeli però l'unico ragazzino che troviamo discutere con degli
intellettuali, indicati con il termine greco didàskalos (insegnante),
è il Gesù dodicenne, nel Tempio di Gerusalemme, dell'episodio che
leggiamo nel Vangelo secondo Luca, in particolare nel versetto 46 del
capitolo 2. Però egli non insegnava: è scritto che ascoltava e faceva domande, come ci si attende
che faccia uno scolaro. Nel versetto 47, che segue, si legge: "E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza [il testo greco
ha epì te sunèsei] e le sue risposte". I maestri, dunque, interrogarono il
ragazzino, anche qui come ci si aspetta che avvenga a scuola. Secondo quei
brani evangelici l'intelligenza/sùnesis di Gesù a quell'epoca
venne valutata da quei suoi maestri dalle sue domande e dalle sue risposte alle loro
domande. Quando però si discute tra intellettuali tutto è più complicato,
perché si ragiona tra pari e conta la validità delle argomentazioni svolte
secondo certi schemi condivisi. Poco prima del versetto del Vangelo di Matteo
che ho sopra citato si legge (capitolo 11, versetto 19) si legge: "Ma
la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa
compie". Le opere di Gesù non vennero
interpretate correttamente da molti del suo ambiente. In base ad esse egli
pretendeva che gli fosse riconosciuta autorità. Del resto egli proponeva
una via e un metodo che, benché presentati con le categorie culturali
dell'ebraismo della sua epoca e del suo ambiente, non corrispondevano a schemi
condivisi nel ceto dei maestri di fede di quella cultura e richiedevano un
radicale cambiamento di mentalità. Nella cerchia dei primi più stretti seguaci
di Gesù non vengono menzionati intellettuali. Tra loro e per loro egli fu
quindi l'unico Maestro. Essi fecero affidamento su di lui, ma, benché testimoni
delle sue opere, non capirono tutto subito di lui.
L'intellettuale lavora con la
mente, che è la funzione fisiologica dell'elaborazione dei pensieri e del
decidere consapevolmente. Nel greco antico mente si diceva nòus (si
pronuncia nus). Il nòus è
implicato in una pratica religiosa molto importante che nel greco antico si
dice metánoia, parola che ha in sè la
medesima radice del nòus / nus e che letteralmente
significa cambiamento di mentalità e in italiano in
genere si ritiene corrispondere alla parola conversione. Il
principio della vita cristiana è la conversione a Gesù come Cristo, appunto
ciò che Gesù, nel detto che ho,sopra citato, lamentava essergli stato
rifiutato. È il raggiungimento di una sapienza pratica perché
si manifesta ed è quindi riconoscibile nell'agápe, l'amicizia universale
di condivisione e soccorso, ma richiede anche una preventiva comprensione,
un'attività del nòus, che si consegue dal valutare
correttamente certi fatti, dal domandare e dal rispondere, anche con certe
azioni. Si è riconosciuti cristiani essenzialmente in base a queste ultime.
Esse però si basano su decisioni che avvengono nel nòus e che
richiedono il confronto con i maestri. Questa è un'esperienza comune. Spesso,
nelle società profondamente permeate dalla nostra fede, i primi maestri sono i
genitori. Crescendo ne incontriamo altri. Dal punto di vista della nostra fede,
tutti i maestri fanno bene il loro mestiere se ci portano verso il Maestro,
Gesù. Perché, come ho detto, la conversione, nell'ottica della nostra fede, è
solo conversione a lui. Di qui l'impossibilità di quelli che vengono
chiamati atei devoti, vale a dire di coloro che aderiscono ad una
chiesa cristiana senza volersi convertire a Gesù, fascinati solo dalla capacità
di una chiesa di imporsi in società: senza Gesù, sono atei e basta.
Nel capitolo 11 del Vangelo di
Matteo, da cui ho tratto il versetto citato all'inizio, la metánoia è
citata al versetto 21: "Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsáida! Perché
se a Tiro e Sidone fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi,
già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero
convertite [il testo greco ha metenòesan, forma
passata del verbo metanoèo, che significa convertirsi,
con la stessa radice di metánoia [CEI 2008]. Corazìn e
Betsáida erano città della Galilea di cultura e religione ebraica, regione dove
Gesù iniziò la sua azione pubblica; Tiro e Sidone erano città fenicie, più a
nord, di altra etnia cultura,religione,lingua.
Gesù nel capitolo 11 del Vangelo
di Matteo ci viene presentato come impaziente: un'impazienza analoga prende
talvolta anche chi ai tempi nostri è impegnato nell'evangelizzazione. Perché
non seguendo la via di Gesù si va a finire male e chi evangelizza lo sa bene.
Si è mandati ad evangelizzare per diffondere la via di salvezza, che è Gesù
stesso. Chi ha bisogno di essere salvato è in pericolo. Al versetto 23 del
capitolo 11 del Vangelo secondo Matteo leggiamo infatti altre parole di Gesù
stesso, con questo monito: "E tu
Cafárnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché,
se a Sodoma fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a te, oggi
esisterebbe ancora!". Cafárnao era un'altra città della Galilea
del tempo di Gesù, nella cui sinagoga egli predicò il Vangelo; secondo quanto
si legge nel capitolo 19 del libro della Genesi, Sodoma era una città situata a
sud di Canaan che venne distrutta da un cataclisma mandato dal Cielo come
punizione dei suoi vizi. Qui la critica evangelica non riguarda solo gli
intellettuali, ma tutta la popolazione di quelle città della Galilea dei tempi
di Gesù.
Noi non siamo Gesù, ma lo abbiamo
ancora con noi, se riusciamo a mantenere la nostra conversione a lui. Possiamo
ancora metterci alla sua scuola e poi secondo il comando ricevuto, andare ad
insegnare a tutti i popoli a osservare tutto ciò che ci ha comandato e, innanzi
tutto, l'agápe, l'amicizia universale operosa di condivisione e
soccorso. A volte questi insegnamenti sono accolti male anche tra gli stessi
popoli già evangelizzati fin da tempi antichi, che dunque vengono a trovarsi
più o meno nella situazione di Corazìn, Betsáida e Cafárnao dopo che Gesù aveva
agito tra loro. Addirittura nella nostra Italia di oggi, la predicazione dell'agápe che
viene fatta da un pastore con grande autorità come il Papa viene sospettata di
mettere in pericolo la nostra sicurezza pubblica. Egli viene dunque trattato
come un sobillatore, andando incontro alla medesima cattiva fama che portò Gesù
davanti a Pilato. Da un punto di vista cristiano quelli che gli fanno
quell'accusa sragionano, il nòus / nus non li
assiste. Se non riescono a tornare come bambini nell'accogliere
Gesù, dovrebbero almeno cercarsi un buon maestro, che li guidi verso il
Maestro. Ma già lo hanno!? Com'è che non riescono più a dargli retta?
Che dobbiamo pretendere dagli
altri? Di tornare come bambini o di ragionare meglio, attivando il nòus
/ nus, e, ragionando meglio, cercando in particolare di non
sragionare, di convertirsi a Gesù, mettendosi alla sua scuola? Lascio a voi
queste conclusioni. Da padre di famiglia ho avuto a che fare con bambine
piccole, e a volte sono stato sorpreso del loro senso della giustizia, ma anche
con loro più grandi e allora sono stato per loro tra i primi maestri, quindi
didàskalos. L'esortazione finale del Risorto che troviamo al
termine del Vangelo secondo Matteo,nel capitolo 28, versetto 19, è di farci
insegnanti, nel testo greco didáskontes, tradotto
da CEI 2008 con insegnando. Che cosa? Tutto ciò che ha comandato
Gesù. Il Maestro.
72.18. Operatori
di ingiustizia o di giustizia?
25 Quando il padrone di
casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare
alla porta, dicendo: "Signore, aprici!". Ma egli vi risponderà:
"Non so di dove siete". 26 Allora comincerete a
dire: "Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle
nostre piazze". 27 Ma egli vi dichiarerà: "Voi,
non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di
ingiustizia [il testo greco ha adikìas, che significa
senza dìke, senzagiustizia]!".
[Dal Vangelo secondo Luca, capitolo 13,
versetti dal 25 al 27 - CEI 2008]
Questo brano
evangelico mi ha molto colpito fin da quando lo udii per la
prima volta riuscendo a capirlo, all’età delle scuole medie. Lo abbiamo
proclamato nella Messa domenicale di oggi. Spesso lo si ascolta distrattamente.
Sono parole attribuite a Gesù, quando insegnava per città e villaggi in cammino
verso Gerusalemme. E’ scritto che: «Un tale gli
chiese: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?"». Gesù gli rispose
rivolto ad un uditorio più ampio, ma utilizzando la seconda persona
plurale, voi. «Sforzatevi di entrare per la porta stretta»,
e poi l’insegnamento che ho sopra trascritto. Sentendo leggere quel brano
evangelico, non vi sentite chiamati in causa? Io sì, tutto le volte che lo
sento o lo leggo. Il problema è lanostra ingiustizia.
Nell’ottica evangelica, giustizia è fare ciò che Gesù comanda: l’agàpe operosa
e universale, estesa anche ai nemici, l’amicizia di condivisione e soccorso
senza alcun limite fino all’estremo sacrificio di sé. Nell’antico mondo
greco-romano Dìche, la giustizia personificata, era una
dea, quindi un principio supremo, che imponeva che a ciascuno fosse dato il
suo. Un’altra dea, Nèmesi, si incaricava di punire gli ingiusti.
Era quindi opinione comune che l’ingiustizia turbasse l’ordine dell’universo
voluto dagli dei e che, alla fine, quell’ordine sarebbe stato da loro
restaurato punendo i malvagi. Ma ciò che ora mi interessa sottolineare è
che ci sono ingiustizie operate dai singoli e altre operate da collettività. Lo
sappiamo bene. La via più semplice per affrontarle, da lato degli ingiusti, è
trovarvi giustificazioni. Per quelle collettive ci riesce molto più facile,
perché raramente trovano unanèmesi da parte delle autorità
pubbliche. Qualche volta è la storia che si incarica di realizzarla. Così, ciò
che accadde agli italiani durante la Seconda guerra mondiale, che combatterono
dal giugno 1940 all’aprile 1945, può essere visto come la nèmesi del
peccato di fascismo in cui incorsero. Ci pare però ingiusto vederla così,
perché, insomma, soffrirono giusti e ingiusti, colpevoli e innocenti, sebbene
il fascismo, con la sua ideologia di discriminazione sociale ed etnica e di
predazione di altri popoli, avesse avuto un vastissimo consenso popolare, in
particolare tra il 1930 e il 1938, anni in cui si ebbe la compromissione con
esso della Chiesa cattolica, dopo il Concordato Lateranense del 1929, e quindi
degli stessi cattolici italiani. Una parte degli italiani, però, resistette, ma
non fu sufficiente a contrastare efficacemente i progetti di guerra del
regime. Senz’altro, comunque, quel male che venne con la guerra
nella quale il fascismo storico cacciò l’Italia può essere visto
come una diretta conseguenza storica della decisione collettiva di massa per il
fascismo mussoliniano. Ma non è solo a una cosa simile che mi pare ci si
riferisca nell’insegnamento evangelico. Gesù infatti non disse semplicemente
che essendo ingiusti poi si finisce male (come in Matteo
26,52: “tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno”),
ma: "Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi
tutti operatori di ingiustizia”. E’ in questione, con l’ingiustizia
che anche collettivamente pratichiamo, il nostro rapporto
con lui, la porta per la nostra salvezza: “voi
tutti”, vale a dire, visto dalla parte degli operatori di
ingiustizia, “noi tutti”. Anche l’ingiustizia che si fa
collettivamente conta. Non basta essere personalmente una
persona buona? Ma come lo si può essere partecipando a certe decisioni, e
questo anche se lo si fa spinti dall’emotività di massa o dalla violenza
generalizzata altrui? I primi cristiani, per ciò che ce ne è stato riferito, si
dimostrarono persone coraggiose e ferme nell’affermare pubblicamente e
collettivamente i principi di giustizia a cui avevano dato il loro assenso di
fede. Tanto che, di questo ho preso consapevolezza leggendo recentemente un
commento al brano evangelico che trascrivo di seguito:
36«Mentre essi parlavano di queste cose,
Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!". 37 Sconvolti
e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. 38 Ma
egli disse loro: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro
cuore? 39 Guardate le mie mani e i miei piedi: sono
proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete
che io ho". 40 Dicendo questo, mostrò loro le mani e
i piedi. 41 Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed
erano pieni di stupore, disse: "Avete qui qualche cosa da
mangiare?". 42 Gli offrirono una porzione di pesce
arrostito; 43 egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
44 Poi disse: "Sono queste le parole che io vi dissi quando ero
ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella
legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". 45Allora aprì
loro la mente per comprendere le Scritture 46 e disse
loro: "Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo
giorno, 47 e nel suo nome saranno predicati a tutti i
popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da
Gerusalemme. 48 Di questo voi siete testimoni. 49 Ed
ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in
città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto".
50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li
benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e
veniva portato su, in cielo. 52 Ed essi si prostrarono
davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53 e
stavano sempre nel tempio lodando Dio.» [dal Vangelo secondo Luca, capitolo
24, versetti 36-53].
i primi discepoli di
Gesù, dopo l’evento tragico della Crocifissione di Gesù,
la Resurrezione e l’Ascensione, tornarono a Gerusalemme con grande
gioia e stavano sempre nel Tempio lodando Dio. E
negli Atti degli Apostoli, capitolo 3, versetto 1, leggiamo anche: «Pietro e Giovanni
salivano al tempio per la preghiera delle tre del pomeriggio». I primi discepoli
si cacciarono, in definitiva, proprio lì, nel Tempio di Gerusalemme, dove il
pericolo era ancora molto alto. Non tutti in Gerusalemme , evidentemente,
avevano condiviso il grido di “Crocifiggilo!” contro Gesù
e si andò manifestando molto presto una aperta resistenza
collettiva.
Ma, insomma, mi vorreste
chiedere, dove vuoi andare a parare con questi discorsi, in che cosa
tu e noi saremmo colpevoli di ingiustizia collettiva?
Sul Corriere della
Sera di oggi (pag.28), ho letto che, da una
ricerca dell’istituto di ricerca IPSOS il 51% dei cattolici
(la maggioranza!), praticanti o meno, è favorevole alla politica cosiddetta
dei porti chiusi, che vieta alle navi che soccorrono i migranti in
pericolo di naufragio nel tratto di mare tra le nostre coste e
quelle africane di attraccare in Italia. Ho anche letto nei giorni scorsi che
si stima in 859 [fonte: Organizzazione Internazionale per le
migrazioni. Dato citato in Avvenire del 23-8-19] il
numero delle persone migranti affogate nel 2019 in quel tratto di mare, nel
quale si vorrebbe che operassero solo le vedette della Guardia costiera
dell’entità governativa della Libia occidentale (sostenuta dall’Italia e
attualmente assediata dalle truppe della Libia orientale nel quadro di una
sanguinosa guerra civile), che, raggiunti migranti in difficoltà in quel tratto
di mare, li cattura e li interna in pessime condizioni di detenzione in
strutture governative in Libia, impedendo, nel nostro esclusivo interesse, che
raggiungano le nostre coste, così come non le raggiungono quelli che affogano.
Si realizza, per noi, un importante risparmio economico, perché arriva molta
meno gente.
Come si concilia quell’orientamento
di massa con la nostra fede in Gesù?
Non sentiamo
collettivamente, noi Italiani cittadini di una Repubblica democratica nella
quale la voce delle masse conta soprattutto quando diventa maggioritaria,
non sentiamo, dico, sulla coscienza, come ingiustizia contro Gesù,
quei morti, quei tanti morti affogati?
La questione,
vedete, è molto semplice ed è tutta qui.
Nei giorni scorsi è
partita dall’Italia una missione di soccorso di un’Organizzazione
non governativa italiana, Mediterranea. Ecco alcuni
messaggi indirizzati all’equipaggio della nave umanitaria da vescovi italiani
(fonte: Avvenire del 23-8-19):
«Sentitemi uno di voi, con voi», ha
scritto Corrado Lorefice [Arcivescovo di Palermo] che ha trasmesso il suo
pensiero attraverso il capo missione Luca Casarini. «Mentre siamo sommersi da
questo mare di indifferenza e di aggressività – si legge nel testo
dell’arcivescovo di Palermo –, di odio e di livore, di individualismo e di
arroganza, scriviamo pagine belle di vita, di incontri, di amicizia, di
solidarietà, di amore, scritte con cuori rimasti umani, ispirati dall’umanità
bella di Gesù». Perciò Lorefice dice «grazie per quello che siete, per il
vostro coraggio, perché amate!». Nel suo ruolo di pastore Lorefice suggerisce
di leggere durante la missione alcuni passi del Vangelo di Giovanni. E così sta
avvenendo: «Come ho fatto io, così fate anche voi».
L’equipaggio, giunto alla settima
missione, ha incrociato la Ocean Viking, poco prima che ottenesse lo sbarco a
Malta. Durante la navigazione notturna anche il vescovo di Cefalù ha voluto
esprimere vicinanza e amicizia: «L’umile e vero devoto popolo siciliano ha
inventato il titolo mariano di Porto Salvo per invocare l’aiuto della Vergine
Madre Maria verso tutti i naviganti. A lei – è l’invocazione di Giuseppe
Marciante – rivolgo la nostra preghiera perché il cuore dei credenti italiani
sia un porto aperto e sicuro per tutti i naufraghi».
Alle «carissime amiche e amici della nave
Mare Jonio», si è rivolto il presidente di Pax Christi. «Salvare vite – ha
scritto il vescovo Giovanni Ricchiuti [vescovo di Altamura] – è un valore in
sé, grande, indiscutibile. Grazie per il vostro impegno a tenere accesa la
speranza in un mondo più umano. Abbiamo bisogno di gesti che indichino la rotta
della pace e dell’ umanità». Non si può guardare a Mediterranea «e alle persone
che potrete salvare senza pensare ad altre navi cariche invece di
"cose" che arricchiscono noi Occidente opulento: Coltan, oro, diamanti,
petrolio. E come non pensare – insiste Ricchiuti – alle navi cariche di armi
che, lo speriamo, la smettano di rifornire di bombe, spesso Made in Italy,
diversi Paesi in guerra».
Questi messaggi, in linea con
quanto insegnato e raccomandato dal Papa, esprimono l’orientamento che i nostri
pastori indicano come conforme alla nostra fede in Gesù. Da che parte stiamo?
Chi seguiamo?
72.19. Azione cattolica e riforma sociale
Il collegamento tra l'Azione
Cattolica e l'azione sociale promossa dal Papa e dai vescovi è stato sempre
centrale nell'attività associativa, fin dalla sua fondazione, decisa dal Papa
Giuseppe Sarto - Pio 10° con l'enciclica Il fermo proposito del
1905, e attuata l'anno seguente con la deliberazione e approvazione degli
statuti della nuova organizzazione. Quest'ultima proprio nel suo
collegamento organico con il Papato differiva sostanzialmente dalle precedenti
iniziative sociali del laicato italiano, ma con esse condivideva l'intento
espressamente politico dell'agitazione delle masse per la riforma sociale, in
un'epoca di acutissimo contrasto tra il Papato e il Regno d'Italia, dopo la
soppressione, nel 1870 a seguito di conquista militare da parte dell'esercito
italiano, dello Stato Pontificio, il piccolo regno territoriale che il
Papato manteneva dall'antichità nell'Italia centrale, con capitale Roma.
Questa azione sociale e politica si allineò progressivamente e in gran
parte con quella fascista dal 1930 al 1938, il periodo della compromissione dei
cattolici italiani con il regime mussoliniano dopo iPatti Lateranensi conclusi
nel 1929 tra il Regno d'Italia e il Papato romano. L'anno di svolta fu il 1931,
quello in cui l'Azione Cattolica fu attaccata da squadre di delinquenti
politici fascisti e il Papato con l'enciclica Il Quarantennale -
Quadragesimo anno, del Papa Achille Ratti - Pio 11°, invitò
i cattolici a collaborare con il regime. Certo, alcuni settori dell'Azione
Cattolica, come quello degli universitari, mantennero una posizione critica nei
confronti del regime, facendosi forza anche in base a quanto argomentato da
quello stesso Papa sempre nel 1931, con l'enciclica Non abbiamo
bisogno, un tentativo (ambiguo e sostanzialmente tiepido) di
mantenere uno spazio di azione religiosa dell'organizzazione, pur tra (oggi)
sconcertanti affermazioni come questa "Crediamo
poi di avere contemporaneamente fatto buona opera al partito stesso ed al
regime." Dal 1939, con il Papa
Eugenio Pacelli - Pio 12°, l'orientamento del Papato mutò radicalmente e
condusse l'Azione Cattolica ad avere un ruolo decisivo nella costruzione di una
nuova democrazia repubblicana in Italia, con l'affermazione politica di tanti
principi umanitari del pensiero sociale cristiano e della dottrina sociale
cattolica.
Non deve stupire,
quindi, che l'Azione Cattolica segua il Papa e i vescovi nella loro attuale
aspra polemica, su base prettamente evangelica e senza intenti di egemonia di
potere, contro la politica dei porti chiusi da
chiunque propugnata, in linea con la critica, contenuta nell'enciclica
citata Non abbiamo bisogno, che "non si è cattolici se
non per il battesimo e per il nome — in contraddizione con le esigenze del nome
e con gli stessi impegni battesimali — adottando e svolgendo un programma che
fa sue dottrine e massime tanto contrarie ai diritti della Chiesa di Gesù
Cristo e delle anime".
72.20. Predicazione
[1]Saulo frattanto, sempre fremente
minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo
sacerdote [2]e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al
fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne,
seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. [3]E avvenne
che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo
avvolse una luce dal cielo [4]e cadendo a terra udì una voce che
gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». [5]Rispose: «Chi
sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! [6]Orsù,
alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». [7]Gli
uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la
voce ma non vedendo nessuno. [8]Saulo si alzò da terra ma, aperti
gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a
Damasco, [9]dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né
cibo né bevanda.
[10]Ora c'era a Damasco un discepolo di nome
Anania e il Signore in una visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi,
Signore!». [11]E il Signore a lui: «Su, và sulla strada chiamata
Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco
sta pregando, [12]e ha visto in visione un uomo, di nome Anania,
venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista». [13]Rispose
Anania: «Signore, riguardo a quest'uomo ho udito da molti tutto il male che ha
fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. [14]Inoltre ha
l'autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il
tuo nome». [15]Ma il Signore disse: «Và, perché egli è per me uno
strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di
Israele; [16]e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio
nome». [17]Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani
e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è
apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia
colmo di Spirito Santo». [18]E improvvisamente gli caddero dagli
occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, [19]poi
prese cibo e le forze gli ritornarono. Rimase alcuni giorni insieme ai
discepoli che erano a Damasco, [20]e subito nelle sinagoghe
proclamava Gesù Figlio di Dio.
[Dagli Atti degli
apostoli, capitolo 9, versetti 1-20]
In genere la vita cristiana
inizia ascoltando altri che raccontano di Gesù: è la predicazione. Per
chi vive in famiglie cristiane, i primi predicatori sono coloro che fanno da
genitori. Crescendo, si ascoltano quelli che sono accreditati nelle comunità di
riferimento e hanno ricevuto l’incarico di svolgere quel compito, preparandosi.
Non ho mai incontrato finora qualcuno che sia riuscito a fare da sé, anche se
non posso escludere che ve ne siano. Nemmeno Paolo di Tarso, stando a quanto si
racconta nel brano degli Atti degli apostoli che
ho sopra trascritto, ci riuscì. In Siria, sulla strada di Damasco, ebbe
un’esperienza prodigiosa che possiamo definire visione. Una
luce, una voce dal cielo: "Io sono Gesù, che tu
perséguiti! Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi
fare". La visione lo rese cieco. Nella città, Damasco, un
discepolo di Gesù, Anania, ebbe anche lui una visione e gli fu detto: "Su,
va' nella strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha
nome Saulo, di Tarso; ecco, sta pregando e ha visto in visione
un uomo, di nome Anania, venire a imporgli le mani perché recuperasse la
vista" e "Va', perché egli è lo strumento che
ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai
figli d'Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio
nome". Paolo recuperò la vista dopo che Anania gli ebbe
imposto le mani, un gesto che significava il dono dello Spirito Santo:"Saulo,
fratello, mi ha mandato a te il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla
strada che percorrevi, perché tu riacquisti la vista e sia colmato di Spirito
Santo".
Fare da sé in materia
di fede espone al pericolo di non incontrare veramente Gesù e di costruirsi un
dio a propria misura. Per quanto uno sia grande e sapiente, quella misura
non è mai quella giusta, perché siamo viventi limitati. Nelle Scritture
si trova in molti brani l’esortazione a contare i propri giorni.
Se ad una persona però basta l’illusione di breve periodo, una specie di aiuto
psicologico per superare brutti momenti della vita… Così la religione diventa
una specie di analgesico. Un sogno piacevole come quello indotto da certe
droghe. E’ una delle critiche più dure che le sono state fatte. Ma la fede che
mi è stata insegnata non è fatta così e non serve a quello.
La riflessione sui fatti rilevanti
per la fede, alla luce di essa, ciò che trovate su questo blog, non è predicazione.
E’, al più, un discorso colto per condividere l’esperienza di fede, come potete
trovare anche in altre pubblicazioni. Tra ciò che qui condivido vi è anche
l’esortazione ad esporsi alla predicazione, nella comunità di riferimento, per
saperne di più ed essere indirizzati per la via giusta. Sento che alcuni
vorrebbero farne a meno. Su Famiglia Cristiana in edicola
leggo addirittura di una imponente opposizione dei fedeli contro il Papa su
questioni importanti. Quelli lì, dopo una visione prodigiosa per via, addirittura
di Gesù stesso!, si sarebbero eletti in proprio predicatori, nonostante
l’esortazione del Signore: “…entra nella città e ti sarà detto ciò che
devi fare”. Ma lo avrebbero fatti da ciechi! E’ questo, appunto,
che accade, nella mia esperienza, a quella specie di sedicenti sovraumani che
seguono quella via. I risultati, poi, non mi sembrano veramente un granché.
Ecco che ad esempio, dunque, nonostante magari un gran brandire di amuleti religiosi,
simboli ridotti a tali perché strumentalizzati, ci si manifesta spietati,
facendosi lecito di ignorare il comando di Gesù dell’amicizia universale
operosa. La cosa poi, come insegna la storia, va in genere a finire male,
perché, quando in una società si introduce il principio di spietatezza, al momento
in cui fatalmente si è colpiti da rovesci della fortuna se ne sarà travolti,
come accadde storicamente a molti rivoluzionari francesi di fine Settecento.
72.21. Ciò che è di Cesare
"È lecito, o no, pagare il tributo
a Cesare? [...] Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di
Dio" [dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 22, versetto 17 e 22]
Alcuni sostengono che fede e
politica debbono essere rigorosamente separate e accusano il Papa e i vescovi
di fare politica, ad esempio: perché ora si immischiano contro la
politica governativa dei porti chiusi? Non ricordano che fu
detto rendete a Cesare quel che è di Cesare? Il tema è di
grande attuale interesse perché il contrasto politico tra la Chiesa cattolica e
la Repubblica italiana su quell'argomento indubbiamente non ha precedenti e
ricorda quello che ci fu con i regimi comunisti nell'Europa orientale, fino
alla loro caduta negli scorsi anni '90, o, ancor prima, con il Regno d'Italia
dopo la conquista militare e la soppressione dello Stato Pontificio, nel 1870.
Addirittura, a partire dal problema creatosi l'estate scorsa con i migranti
soccorsi in mare dalla nave militare Diciotti si è fatto appello alla
disobbedienza civile nei confronti di norme ed ordini governativi che
vietassero quel tipo di soccorso (allo stato non vi sono norme che lo vietino,
ma norme italiane danno facoltà al Ministro dell'Interno di vietare che gli
stranieri soccorsi vengano sbarcati in Italia). Il recente messaggio di
incoraggiamento e condivisione dell'arcivescovo di Palermo all'equipaggio di
nave Mare Jonio, partita per una missione di soccorso organizzata
dall'organizzazione non governativa Mediterranea contro
l'attuale indirizzo politico governativo, in merito è indicativo di questo
orientamento. Quest'ultimo è espressione di un antico principio di teologia
politica cristiana, trattato per esteso negli Atti degli Apostoli, secondo il quale un ordine di qualsiasi autorità
terrena obbliga in coscienza solo se non contrasta con i comandi di
Dio. Tra essi vi è quello di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio
quel che è di Dio. Se ne sono date diverse interpretazioni, sapete.
Alcuni lo intendono come un riparto di diritti di supremazia e di poteri nel
quadro di una sorta di condominio tra l'autorità che domina le società umane e
Dio. Dio, insomma, non dovrebbe né potrebbe impicciarsi nel campo dell'altra
autorità. Altri sostengono che con quel comando si sia inteso vietare alle
autorità istituite dalle società umane di contrastare quella di Dio e si sia
resa lecita e anzi doverosa la critica e l'opposizione verso ordini
contrastanti con la legge di Dio (dare a Dio quel che è di Dio). È così
che storicamente l'intese la maggior parte dei cristiani, in particolare nei
primi tre e mezzo secoli della nostra era, nei quali fu acutissimo il contrasto
con le autorità istituite nell'antico impero umano, la cui ideologia
politeistica, piuttosto tollerante in maniera religiosa, richiedeva appunto che
i comandi dell'imperatore non potessero essere messi in discussione dai suoi sottoposti.
Egli pretendeva, appunto, in questo, di essere un dio tra i tanti, non
certamente onnipotente, come non erano considerati tali gli altri dei della
religione politeista dell'epoca, ma comunque un dio: un dio di settore insomma,
con una sua area di competenza riservata e garantita. Un po' secondo
l'interpretazione data al comando evangelico date a Cesare quel
che è di Cesare secondo la quale esso significhi appunto questo,
l'istituzione di un'area di competenza riservata all'autoritá civile. I cristiani
dei primi tre secoli si fecero massacrare in massa nei modi più atroci per
contrastare questa pretesa. Ora i cristiani dei nostri tempi sembrano invece
trovarvi una certa ragionevolezza, in particolare nell'Italia di oggi. Chi ha
ragione? Lascio a voi la scelta. Ragionateci sopra. Non ho alcuna autorità su
di voi (il Papa e i vescovi invece l'hanno verso i fedeli cattolici). Propongo
solo argomenti. Quale pensate sia il comando di Dio in merito ai rapporti con
l'autorità civile e sul soccorso in mare?
72.22. Desacralizzazione
La dottrina sociale dovrebbe rientrare
anche nella nostra formazione formazione di base del fedele laico e invece ciò
non accade nemmeno in quella successiva. Dovrebbe mettere il laico in
condizioni di sviluppare un autonomo pensiero sociale non solo agendo come
singolo, ma specialmente nelle collettività alle quali partecipa.
Di solito quella formazione viene
conseguita dai laici di fede nel corso degli studi universitari nelle facoltà
umanistiche. Ma, allora, spesso, più che una formazione è un'informazione, salvo
che per quelli che approfondiscono in gruppi ecclesiali specializzati, che nel
mio caso sono stati costituiti dalla FUCI, gli universitari cattolici, e dal
MEIC, il movimento culturale che opera appunto in questo settore. Queste due
organizzazioni furono fondate in Italia in due periodi radicalmente
diversi: la prima in epoca di acutissimo
conflitto tra il Regno d'Italia e il Papato per la questione della
soppressione, nel 1870, dello Stato pontificio, conquistato militarmente dagli
italiani per ordine del Governo regio (la precisazione è importante perché
alcuni anni prima se ne era tentata la conquista per via rivoluzionaria da
parte dei mazziniani); la seconda per venire incontro all'esortazione del
Papato, con l'enciclica il Quarantennale - Quadragesimo anno, del
1931, di partecipare alla riforma sociale che il fascismo mussoliniano in
quegli anni stava progettando ed attuando e, in quel contesto, tendeva alla
formazione di una nuova classe dirigente. Va segnalato che la seconda
all'inizio si presentava come il proseguimento della prima, per il periodo dopo
la laurea: all'origine si chiamava infatti Movimento Laureati di Azione
Cattolica.Costituita da laureati provenienti dalla FUCI e ispirata dalla
guida spirituale e politica di Giovanni Battista Montini, che della FUCI fu a
lungo assistente nazionale, mantenne il suo carattere di gruppo di critica
sociale e di pedagogia e pratica democratica, non lasciandosi mai assimilare
dal regime fascista, e anzi creando le basi culturali per la resistenza ad esso
e per l'attivazione partecipazione alla costruzione di un nuovo regime
democratico. Gran parte dei giovani cattolici che, nella Resistenza
antifascista italiana e nella successiva fase costituente democratica, furono
impegnati nei più importanti ruoii politici proveniva da FUCI e Movimenfo
Laureati.
Una
analoga opera di formazione politica democratica ispirata alla dottrina sociale
non vi fu mai a livello popolare, mentre durante il fascismo mussoliniano ne
era stata fatta una ispirata dal regime e assecondata in ambiti ecclesiali,
nella stessa Azione Cattolica, che tra il 1931 e il 1938, l'anno della rottura
ideologica del Papato con il regime, prese a fascistizzarsi. Il fascismo tese
ad ottenere una sacralizzazione della sua politica autoritaria e assolutista,
sfruttando la storica diffidenza del Papato verso la democrazia. In parte
l'ottenne. Parte dell'ideologia sociale del fascismo (ad esempio in materia di
rapporti di famiglia e di valutazione della politica democratica) si
legò, in Italia, alla tradizione della fede. Questo spiega il permanere
tutt'ora di alcuni elementi di ideologia politica reazionaria tra i cattolici
italiani riconducibili alla compromissione con il fascismo storico e la
scarsissima capacità dei cattolici italiani di scandalizzarsi per certi
cortocircuiti tra politica e religione, come nel recente sventolamento pubblico
di corone del Rosario nel corso di comizi politici e addirittura in Parlamento.
Ieri ho citato il detto evangelico
del rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di
Dio. Questo principio è quello della desacralizzazione del
potere politico, di ogni potere politico, compreso quello religioso. La
questione della laicità della politica, che certamente di quel
principio è un sviluppo, si pose solo molto più vicino a noi nel tempo, a
partire dai moti rivoluzionari europei e nordamericani di fine Settecento, a
seguito dei quali si cercò di attuare il più ampiamente possibile una
legittimazione popolare alla decisione politica e se ne dovettero fissare
i limiti, le forme e le caratteristiche. Le monarchie europee contro le quali
quei moti si diressero pretendevano di regnare per volontà di
Dio, avevano quindi imposto una sacralizzazione del
loro potere politico, e quindi non accettavano che il loro potere potesse
essere messo in questione, e anzitutto criticato, dalle nascenti democrazie
popolari di massa. In queste ultime i conservatori vedevano un fattore di
disordine sociale. A quei tempi in Europa la religione cristiana era divenuta
prevalentemente fattore di conservazione sociale. Tra i monarchi europei che
pretendevano di regnare per volontà di Dio vi erano anche i
Papi, per quanto riguardava il piccolo regno territoriale che erano riusciti
storicamente ad assicurarsi nell'Italia centrale, con capitale a Roma,
detto Stato della Chiesa e, più recentemente, Stato
Pontificio. È per questo che il papa Pio 9^, regnante nel 1870 quando
Roma fu conquistata dagli italiani e lo Stato Pontificio venne soppresso,
considerò tale conquista un atto empio dal punto di vista religioso e scomunicò
il Re d'Italia (!) e il Presidente del Consiglio dei ministri che l'avevano
ordinata, ritirandosi nei palazzi Vaticani come in una (tutto sommato
confortevole sebbene angusta tenendo conto del precedente spazio di manovra
politica) prigione, vietando altresì ai cattolici di partecipare alla politica
nazionale. Tale è la cosiddetta Questione romana. Per arrivare
a una sconfessione, nel vero senso del termine, di questa posizione da parte
del Papato, si dovette attendere il regno del Papa Paolo VI, Giovanni Battista
Montini, l'antico assistente nazionale della FUCI, che qualificò come provvidenziale la
fine dello Stato Pontificio. La questione politica e patrimoniale, con un
ingentissimo risarcimento e l'istituzione della Città del Varicano a Roma, fu
invece risolta con il compromesso con il regime mussoliniano a seguito del
quale il Papato concluse nel 1929, con il Regno d'Italia rappresentato dal Capo
del Governo Benito Mussolini, quegli accordi denominati Patti
Lateranensi, perché firmati nel complesso dei palazzi pontifici del
Laterano, che poi vennero richiamati, e quindi mantenuti, dalla nuova
costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Ho letto che l'art.7, che
li menziona, fu scritto dal politico democristiano Giorgio La Pira e da
Giovanni Battista Montini, che all'epoca lavorava nella Segreteria di Stato
vaticana, qualcosa di intermedio tra un governo e un ministero degli esteri.
Il principio di laicità, alla
base del pensiero democratico contemporaneo, vieta di sottrarre alla critica
qualsiasi istituzione politica (anche religiosa) o decisione politica (anche
adottata da autorità religiose) sulla base di motivazioni religiose, sostenendo
quindi che la legge di Dio ne vieti la critica e/o la riforma.
Esso è sviluppo del principio di desacralizzazione della politica espresso
nel rendere a Cesare quel che è di Cesare che però contiene
anche il dare a Dio ciò che è di Dio (attenzione: qui non sono
in questione la chiesa e le sue istituzioni, ancora da venite
quando il detto evangelico fu pronunciato), che significa che nessun
politico può farsi lecito di ordinare alcunché contro la legge di
Dio, la quale, dal punto di vista cristiano, consiste principalmente
in quella dell'agápe, dell'amicizia universale ed operosa di
condivisione e soccorso, che è ciò che definiamo amare Dio e amare gli
altri esseri umani, senza esciusione alcuna, facendosi loro prossimi al modo
del Samaritano della parabola (quindi in particolare senza che possa far
problema l'appartenenza confessionale o nazionale di chi soccorre o di
chi necessita del soccorso ).
Ogni potere politico che presenti
i suoi ordini come voluti da Dio, o ad esempio dalla Madonna
e/o da altri santi, viola i principi di laicità e di desacralizzazione; se poi,
ad esempio, vieta di soccorrere i sofferenti o pone impedimenti ai soccorsi
contrasta ancor più gravemente con la legge di Dio. Alcuni hanno osato fare
entrambe le cose e, allora, può essere loro religiosamente contestata la legittimazione
a presentarsi come agenti divini (è la critica che i primi cristiani mossero
agli imperatori romani che pretendevano onori divini e quindi di essere
insindacabili). La loro politica deve essere desacralizzata innanzi tutto dalla
stessa religione, quindi come dovere religioso del credente, in obbedienza al
comando rendete a Cesare quel che è di Cesare. Ma
attenzione! Il principio di desacralizzazione richiede anche che la critica
politica non si fermi a questo. Non basta dire che una certa decisione politica
contrasta con legge di Dio, perché: rendete a Cesare quel che è di
Cesare. Altrimenti si ricade nel peccato di sacralizzazione della
politica. Da parte di chi critica un potere o una decisone politici
occorre spiegare razionalmente perché una certa decisione è dannosa per la
società, ad esempio evidenziando che, come storicamente è sempre accaduto,
introdotto in un ordinamento il principio di spietatezza, gli stessi spietati
ne saranno poi fatalmente travolti, a cominciare dai ceti che in società sono
meno potenti, quelli popolari, la maggioranza di solito benché spesso alla
mercé di minoranze privilegiate. L'idea di una realizzare una tendenziale
uguaglianza negli aspetti sociali fondamentali, ad esempio nel rispetto della
vita altrui, che comprende anche l'assicurare condizioni minime di benessere a
tutti, inabili compresi, è tra quelle fondamentali delle democrazie avanzate
contemporanee. Per ottenere che una decisione politica non risulti dannosa per
la maggioranza, che storicamente è stata sempre costituita da chi stava peggio.
Bisogna quindi prendere coscienza di questo: anche la critica politica è
esercizio di un potere sociale che soggiace alla legge del rendere a
Cesare quel che è di Cesare. Questo spiega perché, nell'ottica della
fede, nessuna legge di Dio può essere sottomessa ad un giudizio politico per la
sua validità, fosse anche quella di una vasta maggioranza espresso con metodo
democratico, e il credente debba rimanerle fedele sempre, anche a costo della
vita. C'è in questo un obbligo di resistenza a Cesare che storicamente è stato
sempre attuato dai cristiani, anche nei confronti di regimi politici sedicenti
cristianizzati. In quest'ultimo caso ciò in genere è stato il fritto di un
approfondimento del processo interiore, personale ma anche collettivo, di
conversione alla luce del Vangelo. Questo ad esempio è accaduto a riguardo del
genocidio degli amerindi, a seguito della conquista europea del continente
americano da parte degli europei dal Cinquecento, compiuto brandendo il
libro con il Vangelo come una sorta di bandiera di guerra (non certamente
il Vangelo). La storia dimostra che non sempre chi sventola o indossa simboli
religiosi segue la legge di Dio, il Vangelo. Capirlo non sempre è facile: nel
lavoro culturale ci si aiuta gli uni gli altri a capire meglio. Questo rientra
anche nel lavori di formazione religiosa, in particolare del laico che
partecipa a società democratiche, nelle quali le masse hanno voce e sono
ascoltate.
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73
Capire e praticare la democrazia
73.1. La democrazia: non solo regole, ma una forma di convivenza sociale per
risoluzione pacifica dei conflitti.
La
democrazia è un sistema di convivenza che consente di superare i
conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società o
generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto
limitandoli nel tempo e nella loro estensione. Una volta che si è radicata in
un corpo sociale, ne consente anche l’evoluzione senza che esso venga disperso
nel corso di conflitti violenti. Per questo la democrazia viene mantenuta
sempre in una fisiologica instabilità, in modo da consentire le dinamiche
sociali di potere, ma in una instabilità controllata, come accade nei reattori
nucleari per la produzione di energia elettrica, nei quali le reazioni di
fissione nucleare, capaci di produrre potenze distruttive, vengono moderate e
contenute, ma comunque attivate.
Gli esseri
umani, in particolare nelle società contemporanee estremamente complesse in
particolare per essere composte da vastissime moltitudini di individui,
dipendono dalle loro società per la sopravvivenza. Un gruppo di esseri umani
diventa società quando manifesta la capacità di azione collettiva. Le azioni
individuali devono quindi essere coordinate, per produrre un’azione collettiva.
Questo coordinamento è dato da dinamiche di potere che coinvolgono individui e
gruppi di individui. Ad un certo punto un individuo o, più spesso, un gruppo di
individui riesce ad imporsi e a dettare le linea collettiva: questa è una
situazione di potere. Essa tende sempre a prolungarsi nel tempo e ad
estendersi, finché non incontra una resistenza. In questo momento si produce
una situazione di conflitto sociale che arcaicamente veniva risolta
prevalentemente mediante la violenza collettiva e, progressivamente,
producendosi delle culture dalle società umane, quindi evolvendo le società
umane, anche con altre modalità che preservassero la società dall’essere
sfasciata nel conflitto. In particolare questo avvenne, e ancora avviene,
mediante la produzione del diritto. Il diritto è uno dei modi in cui si
possono limitare i poteri collettivi e privati in modo che non
giungano a confitti distruttivi. E’ integralmente una produzione sociale, che
si basa essenzialmente sull’esperienza storica e sociale delle conflittualità
sociali. Oggi siamo abituati a pensare il diritto come un sistema di ordini di
autorità pubbliche, quindi di leggi, ma esso non si genera
solo in quel modo, anzi, per millenni, la legge non ne fu la fonte prevalente.
Una volta accettata l’idea che alla società convenga limitare i conflitti
sociali per preservare la sua integrità e quindi la sua efficacia per la
sopravvivenza collettiva, essa costituisce un valore, e un valore
molto importante, che è anche tra quelli fondamentali nelle concezioni
democratiche. Come risolvere senza violenza i conflitti sociali? Mediante la
pratica dell’equità, che implica una certa proporzionalità negli scambi
e una certa ragionevolezza nella pretesa dell’esercizio di poteri pubblici,
sugli altri. L’equità e la ragionevolezza sono
altri valori tipici del diritto, ma anche molto rilevanti nelle concezioni
democratiche. Sono espressione dell’idea di dignità della
persona che si trova inserita in una società, persona della quale i poteri
sociali, privati o collettivi, non possono, appunto per ragione di equità, fare
ciò che vogliono, a loro arbitrio. Le democrazie contemporanee si distinguono
da quelle antiche, medievali e moderne (che si sono sviluppate dalla fine del
Settecento alla metà del Novecento) per aver molto sviluppato l’idea di dignità della
persona umana, fino a fare un valore fondamentale,
attorno al quale ruotano tutti gli altri. Precisamente le concezioni
contemporanee della democrazia riconoscono ad ogni
persona umana una dignità che non può essere
lesa da alcun potere pubblico o privato, che quindi viene limitato. Questa
concezione di dignità è uno sviluppo del pensiero sociale cristiano, dall’epoca
in cui le masse europee iniziarono ad affermarsi politicamente. Essa è anche
insegnata dalla dottrina sociale cattolica, sebbene la Chiesa cattolica sia
stata storicamente uno dei più accaniti avversari della democrazia
contemporanea, fino addirittura a scomunicarla nel 1901, con l’enciclica Le
gravi controversie sulle relazioni economiche del papa Vincenzo
Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°. Solo a partire dal 1939, dopo aver
preso consapevolezza dei disastri che la compromissione con i fascismi mondiali
aveva provocato, la posizione iniziò a cambiare, fino a giungere nel 1991, con
l’enciclica Il Centenario del papa Karol Wojtyla, ad un
riconoscimento dell’utilità dei processi democratici nel governo delle società
civili, per indurne la pacifica evoluzione nel senso di sviluppare la dignità
delle persone. La democrazia è in genere ancora negata nell’organizzazione
ecclesiastica, da cui lo sciocco e superficiale detto “La Chiesa non è
una democrazia”: chi ne fa uso mostra di non avere consapevolezza della
realtà sociale della Chiesa e delle sue dinamiche di potere, a cui certamente
converrebbero processi democratici. Può accadere che ne abbia consapevolezza,
ma tema che con la democrazia venga mutato un sistema di potere che lo
avvantaggia o, molto spesso, teme, una volta scelta la strada della democrazia,
si perda il controllo del corpo sociale dei fedeli. In effetti la
democrazia consente l’evoluzione delle società. Del resto solo una concezione
mitica della nostra Chiesa, e in particolare della sua gerarchia, può condurre
a negare che essa sia mutata anche su aspetti essenziali. Ma l’evoluzione è
stata storicamente molto travagliata e a prodotto atroci sofferenze e violenze.
Le guerre di religione sono cessate, nelle loro
manifestazioni più eclatanti, con l’affermarsi dei processi democratici. Essi
hanno portato a riconoscere la dignità delle persone anche nei confronti delle
autorità religiose e, in particolare, a negare validità pubblica alla loro
pretesa di incondizionata sottomissione. Questa pretesa non è però
ancora sopita ed è legata al valore dell’obbedienza incondizionata all’autorità
religiosa, che senz’altro non è evangelico e umilia la dignità delle persone.
In quest’ottica, la vera libertà starebbe nella rinuncia alla propria libertà,
quindi alla propria dignità. Si crede, in questo modo, di prevenire i conflitti
sociali e di preservare l’unità del gregge, risolvendo i
confitti sociali mediante la pretesa, appunto, di sottomissione. La
sottomissione non è certamente un valore democratico. La democrazia conosce,
nelle dinamiche di potere, il valore dell’adesione, a seguito di
dibattito pubblico secondo procedure democratiche, e quello della resistenza,
quando pace, equità, ragionevolezza e dignità sono minacciate da poteri che si
manifestano dispotici, in quanto pretendano sottomissione arbitraria, e ciò
anche se si tratti di poteri maggioritari. La resistenza è un dovere
democratico anche contro la tirannia della maggioranza, come venne
definita dai primi teorici dei processi democratici. La democrazia non tollera
alcun potere arbitrario, che si pretenda illimitato e voglia sottomissione,
perché contrario alla dignità delle persone. Non tutto in democrazia è
nell’arbitrio delle maggioranze: non lo sono la pace, l’equità, la
ragionevolezza, la dignità delle persone.
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73.2. Cambiare democraticamente la società.
La dottrina sociale indica ai laici
l’obiettivo di cambiare la società in modo da consentirvi l’attecchimento della
buona novella cristiana. Non si tratta di cristianizzare la
società: questo è un fine molto diverso. Le persone possono divenire persuase
della buona novella cristiana e allora vengono accolte tra i cristiani, nella
Chiesa. Se consideriamo invece le società cristiane, esse non
hanno mai funzionato tanto bene. La cristianizzazione delle persone può presentare
grandi vantaggi per le società, la cristianizzazione della
società, vale a dire costruire l’organizzazione politica intorno a una qualche
ideologia cristiana, porta ad escludere molti, e non solo i non cristiani, ma
anche coloro che vogliono essere cristiani in modo diverso dal modello proposto
dalla politica cristiana. La democrazia come ai tempi nostri la si
intende è incompatibile con la cristianizzazione politica della
società, non può darsi questo scopo se vuole mantenersi democrazia. Questo perché
deve rispettare la dignità della persona, vale a dire il complesso dei diritti
fondamentali che le sono connaturati e non dipendono da un riconoscimento
politico. Tra essi, anche quello di professare una fede religiosa nel modo in
cui se ne è persuasi. Questo diritto fondamentale è una delle condizioni per
l’attecchimento della buona novella cristiana. E’ il diritto alla libertà
religiosa. La fede non può essere imposta. Avverto che questa convinzione è
molto recente tra i cattolici e non condivisa in altre confessioni religiose.
Uno dei principali e più fruttuosi metodi di evangelizzazione cristiana dal
Quarto secolo fino al Ventesimo è stata la violenza politica, che storicamente
raggiunse punte di spietata efferatezza ed ebbe anche connotati stragisti. E’ a
questo che, ad esempio, si deve l’evangelizzazione dell’America Latina. Non ci
si deve però scoraggiare: quella della pace sociale è un ideale molto recente,
e non universale, acquisizione in nelle culture del mondo e, in passato, ognuno
si è condotto secondo la cultura di riferimento. Così fanno gli umani e non
possono fare diversamente, appunto perché sono umani, esseri limitati che
dipendono dalle società che costruiscono.
Cambiare la società significa
influire sul suo governo, e quindi sulla sua politica. Significa anche
misurarsi con le situazioni di conflitto che sempre travagliano le dinamiche
sociali, in particolare quelle tra i gruppi che dominano e quelli che sono
dominati, tra chi è ricco è chi non lo è (posizioni dipendenti da situazioni di
dominio sociale), ma anche, ad esempio, tra chi parla una lingua maggioritaria
e chi ne parla un’altra, da anziani e giovani, tra uomini e donne anche nella
sottospecie delle relazioni coniugali (che esprimono posizioni sociali di
dominio), tra chi vive in certi quartieri ben tenuti e chi in altri dove vivere
è più penoso e via dicendo. Le situazioni di conflitto sociale dividono la
società per strati, ceti, classi. L’apparenza di stabilità è ingannevole, come
quella del suolo: al di sotto sono in azione forze potenti che ciclicamente si
squilibrano con conseguenti sommovimenti. Questa situazione può
osservarsi in tutti i gruppi sociali, fin dai più piccoli, e anche nelle
società dei bambini. Quando l’individuo inizia a interagire in società, fatalmente
emergono situazioni di conflitto. Ma l’essere umano non può liberarsi a lungo
dalla società perché ne dipende per la sopravvivenza. Solo nella collaborazione
sociale è possibile procurarsi beni indispensabili. L’essere umano è un
vivente che crea e governa società, è stato scritto nell’antichità: è
un’affermazione che tutt’ora è valida. Ma come superare i conflitti? Questo il
principale problema della politica. Ciò che ho scritto della società in
generale, vale anche per la nostra Chiesa, nel suo aspetto di società umana.
Dal punto di vista teologico vi è anche altro di molto importante, ma
considerandola come società umana vi si notano tutte le dinamiche che si
osservano più in generale nelle società intorno.
La nostra Chiesa è anche una
società umana. Questo significa che anche in essa è possibile agire
politicamente, perché è una società che, come tutte le altre, deve essere
governata, e lo si deve fare in particolare per creare le condizioni per
l’attecchimento della buona novella cristiana. Si potrebbe però osservare che,
per definizione, la Chiesa dovrebbe essere la migliore delle società sotto
questo profilo, ma nell'esperienza pratica non è così. Una volta dirlo sarebbe
costato caro, molto caro. Ora che però lo hanno insegnato anche i Papi è diverso.
Un grande maestro in questo fu il papa Karol Wojtyla, che regnò dal 1978 al
2005 con il nome di Giovanni Paolo 2°, proclamato santo nel 2014, il Papa della
mia giovinezza, al quale sono spiritualmente e affettivamente molto legato pur
avendone chiari i limiti politici. Ci guidò, nel percorso di preparazione al
Grande Giubileo dell’Anno 2000, nel lavoro che definì di purificazione
della memoria, che consiste nel considerare realisticamente ciò che i
cristiani hanno fatto in passato per trarre esempio solo da ciò che, con il
criterio del Vangelo, possiamo riconoscere come ben fatto. Non si
tratta di condannare i morti. Ma di capire i limiti di come intesero essere
cristiani e di cercare se sia possibile affrancarci, oggi, da quei limiti, per
non ripetere un passato che non proprio non va. Si tratta, quindi, di un
giudizio su di noi, innanzi tutto. Noi che, come sempre si è fatto fin dalla
storia più antica, facciamo memoria degli avi per trarne orientamento.
All’inizio del suo regno, nel
2013, l’attuale Papa, regnante con il nome di Francesco, ed era (ed è per certi
versi) Jorge Mario Bergoglio, argentino, ci ha esortato ad essere Chiesa
in uscita, avendola trovata come barricata nei propri spazi liturgici con
figure di doganieri ai varchi per selezionare chi poteva
entrare o non. E’ stata una dura critica a come si era stati Chiesa, in Italia,
e in particolare a Roma. La leggiamo nell’esortazione La Gioia del
Vangelo, del 2013, il suo primo messaggio a noi tutti. I
Papi scrivono molto, anzi l’attuale Papa meno di altri, ma spesso le loro
parole non ci raggiungono. Ci sono stati momenti nei quali l’imponente
letteratura pontificia superava le nostre capacità di assimilazione, in
un’Italia dove, stando alle statistiche, la maggior parte delle persone non legge
nemmeno un libro all’anno. Bisogna dire però che papa Francesco ha integrato
gli scritti con una catechesi verbale, e per gesti simbolici, molto efficace,
per cui l’essenziale ci è divenuto sicuramente accessibile. Egli però viene, in
tutti i sensi, da un altro mondo, lontano non solo in senso spaziale, ma anche
culturale. Più lontano, in tutti i sensi, da quello da cui veniva san Wojtyla,
tutto sommato vicino in senso geografico ma diviso da noi dalla barriera che
fino agli anni ’90 divideva l’Europa tra sistemi politici di democrazia
liberale e capitalista e sistemi politici ideologicamente di democrazia ed
economia comunista ma degradatisi in autocrazie oligarchiche dispotiche,
secondo la scuola sovietica ai tempi di Stalin. Il principale problema che
riscontriamo con papa Francesco, come già con san Wojtyla, riguarda la
concezione della democrazia, sulla quale i cattolici italiani progredirono
molto, tanto che l’attuale Repubblica democratica è in gran parte opera loro. I
due Papi, in particolare, appaiono disallineati con l’evoluzione ideologica che
ha caratterizzato il processo di costruzione dell’Unione Europea. Ho spesso
osservato che, del resto, per ciò che ne so (e mi ritengo solo una persona
colta, ma non uno specialista delle scienze implicate in questa valutazione),
non è stata ancora elaborata in ambito cattolico una teologia della
democrazia. Il nostro potere ecclesiastico parla e intende secondo
la teologia e quindi non appare avere ancora gli strumenti sufficienti per
intenderla bene.
Per la gran parte dei cattolici
italiani (ma residuano correnti clerico-fasciste di varia natura) quella della
democrazia è stata, più o meno dal ’39 e su esortazione pontificia del
Papa Eugenio Pacelli – Pio 12° (1939-1958), la via privilegiata per incidere
sui fatti sociali in modo da cambiare la società per favorire l’attecchimento
della buona novella cristiana. Parlo naturalmente di un lavoro in società che è
diverso da quello sulle persone, sulla loro formazione, sulla loro
spiritualità. In particolare gran parte dei cattolici italiani ripudiarono il
disegno perseguito sotto il fascismo storico, quello mussoliniano (1922-1945),
di cristianizzare forzatamente la società. E, con metodo
democratico, riuscirono ad inserire nella Costituzione repubblicana i principi
fondamentali della dottrina sociale cattolica. E procedettero nello stesso modo
nel costruire l’Unione Europea, la cui bandiera è palesemente un simbolo
mariano, con la corona di dodici stelle in campo
azzurro. Va detto che a quella diffusa dai papi Leone 13°
(enciclica Le novità, del 1891) e Pio 11°
(enciclica Il quarantennale, 1931), profondamente rielaborata
dai loro successori, storicamente si ispirarono anche despoti che si
proposero di cristianizzare coercitivamente la società, del
resto forti di apprezzamenti positivi del corporativismo mussoliniano contenuto
nella seconda.
Bisogna prendere atto che
nell’Italia di oggi l’azione sociale per cambiare la società secondo le
esortazioni della dottrina sociale può e deve farsi solo
con metodo democratico. Ogni altro metodo contrasta con l’affermazione di
dignità inviolabile delle persone che, a ben vedere, è di diretta discendenza
dal pensiero sociale cristiano.
Tuttavia la democrazia si pratica
poco nelle istituzioni ecclesiastiche, salvo che in alcuni limitati ambiti
associativi o di vita religiosa. Ad esempio n on si insegna e non si
pratica, in genere, nelle parrocchie. La prima formazione religiosa, che per la
maggior parte dei laici rimarrà l’unica per tutta la vita, è fatta di
solito di alcuni rudimenti di storia sacra, di alcune istruzioni etiche basate
sui Comandamenti, e di un addestramento minimo su come partecipare alla Messa
(in piedi, seduti, in ginocchio, come recitare le invocazioni e risposte che
competono al popolo, come ricevere la Comunione). Non c’è da stupirsi che poi i
ragazzi non manifestino interesse ad approfondire, visto che, crescendo, hanno
bisogno di dritte per inserirsi in società e quello che
hanno imparato da piccoli al catechismo non serve. Servirebbe, invece,
integrare fede e democrazia, perché
nell’Italia democratica di oggi, il saper agire in un contesto democratico fa
una grande differenza. La formazione che si cerca di dare, anche raggiungendola
mediante auto-formazione tra adulti, in Azione Cattolica mira
principalmente a dare quel tipo preparazione. E’ per questo che l’Azione
Cattolica definisce se stessa come palestra di democrazia (nell’atto normativo diocesano per l’AC
nella Diocesi di Roma).
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73.3. Democrazia
e istituzioni.
Spesso ho sentito
presentare la democrazia come un insieme di regole di buona creanza civile
imposte dall’alto. Lo stesso per la religione. Entrambe sono molto di più, ma
anche di diverso.
Viviamo in
società che sono altamente istituzionalizzate. Questo significa che ci si
muove, nelle relazioni sociali quotidiane, secondo rigide regole formali che,
se violate, comportano vari tipi di sanzioni. Ci si trova inseriti in
organizzazioni disegnate da quelle regole. Accade sul lavoro, nell’utilizzare
servizi pubblici, ma anche, ad esempio, nella pratica della nostra
religione.
La
parrocchia, ad esempio, è stata istituita anche come
un ufficio burocratico dipendente gerarchicamente dal vescovo. E’ retta da un
funzionario ecclesiastico che è il parroco, che la rappresenta giuridicamente e
accentra ogni potere. In questo contesto, i fedeli sono utenti di un servizio
ecclesiastico, gli altri preti e i diaconi, come anche i
catechisti e chiunque altro abbia affidate mansioni ecclesiastiche
anche a titolo di volontari, sono sostanzialmente
degli impiegati. In parrocchia i fedeli ricevono
un’istruzione religiosa e vari servizi liturgici. Sono anche organizzati spazi
conviviali, specialmente per i più anziani, che si ritengono ormai usciti dal
sistema della formazione. Non vi è possibilità di esercizio di una certa
autonomia da parte dei fedeli, che, al più, sono chiamati a collaborare come
impiegati o consulenti. Questa la realtà istituzionale della
parrocchia. Se però ne vogliamo parlare con i concetti della teologia, allora
essa ci viene presentata come comunità, nella quale ognuno ha pari
dignità e vi partecipa come in una famiglia allargata. Il parroco e i preti e
diaconi che con lui collaborano sono pastori che
conducono il gregge per il giusto cammino, in un
contesto di relazioni di benevolenza e rispetto. Il gregge ama il
buon pastore ed è da lui riamato. Questa realtà, di carattere spirituale, non
corrisponde però a quella istituzionale, formale, giuridica. Entrambe non sono
democratiche. La parrocchia, in entrambi quegli aspetti, non è un ambiente
democratico, la democrazia non vi viene praticata, non vi viene insegnata, la
si riserva per i rapporti civili, dove però dovrebbe essere lo strumento con il
quale i laici di fede dovrebbero influire sulla società per renderla
aperta a ricevere la buona novella della fede. Dove si impara la democrazia? A
scuola, viene da rispondere. In realtà, però, a scuola la si insegna
sommariamente, come dicevo prima, come un sistema di regole di buona creanza
imposte dall’alto. Ma ben presto si fa esperienza di una cosa fondamentale: in
società le regole vivono diversamente da come sono scritte o anche solo
tramandate per consuetudine. Questo perché le società, come gli esseri viventi
cambiano. Quindi ognuno, nel concreto delle relazioni sociali quotidiane, è
costantemente impegnato ad impersonare quelle regole che
trova in società e, innanzi tutto, a decidere se, e in che misura, valgono per
lui e nei rapporti sociali in cui è coinvolto. In questo, ciascuno di noi
esercita un potere sociale, anche se spesso non ne ha
consapevolezza o ne sottovaluta l’importanza.
Questo che ho
osservato serve a rendere l’idea che ogni fatto sociale, come lo sono la
democrazia e la religione, come anche qualsiasi altra forma di potere sociale,
ad esempio quello in cui si dovrebbe essere solo sudditi di un’autocrazia, un
potere che non vuole rendere conto che a se stesso, o quello rigidamente diviso
per caste o ceti corporativi, nel quale le
regole cambiano a seconda del gruppo sociale in cui ci si trova inseriti o si è
ammessi, vive e quindi viene impersonato, e,
in questo, viene anche cambiato, perché, per quanto ci si sforzi di ottenere
uniformità, rimane il fatto che gli esseri umani sono viventi l’uno diverso
dall’altro, è ciò anche nella coscienza e nella volontà.
Il sistema
politico e la religione non sono solo un sistema di regole, ma
innanzi tutto sistemi di convivenza sociale sempre soggetti a mutamenti più o
meno rapidi secondo le dinamiche sociali, quindi alle relazioni di potere in
cui ciascuno, solo che viva in società, è coinvolto come attore e, insieme,
oggetto.
La Chiesa
assume teologicamente di essere sempre la stessa dalle origini, e questo,
secondo una concezione mitologica che non significa erronea ma non necessariamente
corrispondente alle dinamiche sociali, perché comprende anche aspetti emotivi
che sono connaturati negli umani, può anche essere accettato, tenendo conto
degli elementi di continuità che indubbiamente emergono nella sua storia
bimillenaria, innanzi tutto la riflessione sulle Scritture. Ma, da un punto di
vista sociale, e anche giuridico, la nostra Chiesa è molto diversa da quella
delle origini, perché è espressa da una società molto diversa, anzi, studiando
la sua storia, ci si può convincere che nel tempo, sotto l'aspetto sociale, ci
sono state molte Chiese, quindi molti modi in cui si è vissuta e
impersonata la Chiesa, e certamente quelli dei bellicosi e irruenti vescovi dei
primi secoli della storia della nostra fede, che avevano l’anatema (oggi
diremmo scomunica) facile, non corrispondono al nostro attuale
modo di essere Chiesa. E, tuttavia, noi cattolici veneriamo i nostri santi,
ma anche nella tradizione delle altre confessioni religiose c’è una analoga
alta considerazione per certi personaggi del passato molto significativi nelle
questioni di fede, perché vorremmo stabilire una continuità ideale
con le vite di chi ci ha preceduto e ci ha trasmesso quello
che definiamo deposito di fede, che non è fatto solo di scritti,
concetti, pensieri, regole, ma soprattutto di modi di vivere la
fede. E’ per questo che troviamo annoverati tra i nostri santi anche
persone di fede del passato piuttosto criticabili sotto vari aspetti, ma delle
quali apprezziamo ancora l’impegno fortissimo a vivere la
propria fede come il valore fondamentale della loro
vita. Quindi non le lasciamo seppellire dal passato, ma recuperiamo il loro
messaggio di vita per trarne ispirazione oggi. Ed è anche per questo che
ciclicamente rivediamo il catalogo dei santi, che una
volta proclamati tali sicuramente non possono essere come dire declassificati dal
punto di vista delle procedure istituite nella nostra Chiesa, nel senso che di
epoca in epoca ne risaltano di più alcuni e meno altri. Ad esempio, dell’elenco
dei papi “Pii” dall’Ottocento al Novecento, le scelte
politiche antirisorgimentali di un papa Pio 9°, il Papa del Sillabo (1964;
l’elenco di proposizioni erronee contro il liberalismo che contribuì a rendere
difficilissima l’assimilazione della democrazia tra i cattolici), o quelle
religiose di un papa Pio 10°, che ordinò una durissima e spietata persecuzione
antimodernista causando gravissime sofferenze e lacerazioni nella Chiesa e la
perdita di grandi anime (lo stesso don Romolo Murri, che aveva teorizzato tra i
primi l’ida di una democrazia cristiana ne cadde
vittima), che, con il senno del poi si sono rivelate del tutto
inutili, o l’apprezzamento positivo verso il corporativismo del fascismo
mussoliniano e l’elogio della repressione antisocialista di un papa Pio 11°, ci
creano ora qualche difficoltà e, di fatto, non seguiamo quei loro insegnamenti.
Noi, oggi, non impersoneremmo più la fede in quel modo. La
nostra religione, intensa nel suo aspetto di convivenza sociale, è molto
diversa.
E,
tuttavia, parlando di democrazia, che è il sistema politico in cui i più sono
nati e che solo i più anziani hanno contribuito a costruire con il loro voto
per l’Assemblea Costituente nel 1946, e di religione, e uno della mia età ne ha
vissuto ormai almeno cinque versioni, a partire da quella degli anni Sessanta
del secolo scorso, nel trapasso dalla rigidità gerarchica della Chiesa del papa
Pio 12° alla Chiesa del Concilio, a che punto siamo in termini di convivenza sociale?
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73.4. Democrazia,
desacralizzazione e secolarizzazione. Le società creano istituzioni allo scopo
di durare. Così, nella vita quotidiana, ciascuno sa qual è il suo posto, chi
comanda, che si deve fare in ogni occasione, come può relazionarsi con gli
altri per avere ciò che gli necessità, quando rischia una sanzione. Una
istituzione è un sistema di regole formali che riguarda l’esercizio del potere
pubblico. Ingloba, quindi, un sistema di potere. Per alcune istituzioni sono
previste regole per modificarle, altre, quasi nessuna in democrazia, vengono
presentate come non modificabili e quindi sono sacralizzate.
Il sacro è appunto ciò che in nessun caso può essere cambiato.
Ogni potere storicamente ambì la sacralizzazione. Le religioni, anche la
nostra, vennero strumentalizzate per produrla. Di fatto le società cambiano e
con esse le loro istituzioni, vale a dire i loro sistemi di potere. Se questi
ultimi mantengono la loro pretesa di sacralizzazione, ad un certo punto vengono
rovesciati, se non riescono a reprimere i movimenti rivoluzionari. Nella
preghiera del Magnifica (Vangelo di Luca, capitolo 1, versetti
49-53), che si recita ogni sera nei Vespri, c’è un versetto che
accenna a questo:
Grandi cose ha fatto
per me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome;
50 di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
In quelle parole vi è
la descrizione di un processo propriamente rivoluzionario. Un monito severo
verso ogni potere che pretenda di sacralizzarsi. Per quanto si finisca umiliati
da un potere dispotico, si confida che esso abbia fine e in
un diverso modo di convivenza. La nostra Chiesa ha prodotto una forte
sacralizzazione del proprio potere pubblico, ma, fin dall’antichità, i biblisti
hanno concluso che quel “Ha rovesciato i potenti dai troni”, non
le si applica. Tuttavia, nonostante la sacralizzazione delle sue istituzioni,
elaborata in particolare all’inizio del Secondo Millennio, quando il Papato
romano si costituì in una sorta di impero religioso, affrancandosi dal
precedente vassallaggio politico agli imperatori civili, esse sono storicamente
molto cambiate. In particolare vanno ricordate tre grandi stagioni di riforma,
nell’11°, nel 16° e nel 20° secolo, quest’ultima con il Concilio Vaticano 2°,
celebrato a Roma, in Vaticano, dal 1962 al 1965. La seconda fu catalizzata
dalla Riforma protestante, che, in religione, costituì un moto propriamente
rivoluzionario, quindi un rovesciamento.
La democrazia è un
tipo di convivenza sociale che non utilizza la sacralizzazione per avere
continuità. Quando se ne cominciò a parlare, nel Settecento se ne temette
l’instabilità. Nell’Ottocento la parola democrazia venne
anche utilizzato per intendere confusione sociale. Questo
perché si voleva praticarla con un’estensione che non aveva mai avuto nel
passato, in particolare nell’antichità greca, da cui ricevemmo le prime
teorizzazioni e il termine stesso democrazia (che in italiano
e nel greco antico e contemporaneo suona
uguale), nell’esperienza repubblicana di Roma antica, dove si
contava in base al censo, e in quella del Medioevo europeo, in cui era dominata
dalle corporazioni dei mestieri. Nell’era contemporanea se ne predica l’universalità senza
distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni
politiche, condizioni personali e sociali. E’ chiaro, da ciò, il
motivo per cui l’affermarsi dei processi democratici, in particolare in Europa,
comportò il ripudio del propositi di cristianizzare, con le
buone (la persuasione) o con le cattive (la coercizione mediante le
istituzioni), la società. Quando si parla di secolarizzazione delle
nostre società contemporanee, si vuole appunto intendere questo, non certo che
la gente non creda più all’azione di agenti soprannaturali.
Quindi certamente la secolarizzazione della società, nel senso
di desacralizzazione dei suoi poteri pubblici, è elemento
costitutivo della democrazia: non può esservi democrazia in un
ambiente di istituzioni sacralizzate. Questo spiega i problemi che i
democratici, anche i cristiano democratici, hanno sempre
incontrato, e per certi versi ancora incontrano, nelle loro Chiese, ma in
particolare nella Chiesa cattolica, data l’elevata sacralizzazione delle sue
istituzioni e addirittura delle persone stesse che dirigono ai vertici quelle
istituzioni. Nella Chiesa cattolica ancora si teme la dissoluzione procedendo
nella desacralizzazione dei propri poteri pubblici, e questo anche se
l’esperienza delle democrazie Occidentali contemporanee dovrebbe convincere del
contrario. Quindi nella dottrina sociale, il pensiero sociale
diffuso dal Papato e dagli altri vescovi, non troviamo una teologia della
democrazia, ma solo una cauta ammissione dei processi democratici nel governo
delle istituzioni civili in quanto più confacenti alla dignità delle persone
umane, come oggi anche nella Chiesa la si intende. Di conseguenza, la
formazione alla democrazia non viene ritenuta compresa nei programmi per
l’istruzione religiosa di base, e nemmeno per quella di secondo livello,
venendo certamente fatta, e questo è un bel passo in avanti, prevalentemente
per i fedeli che hanno un’istruzione superiore, quindi agli universitari e
post- universitari. L’Azione Cattolica fa certamente eccezione perché la
pratica fin dai più piccoli: anche per loro vuole essere quindi palestra
di democrazia.
Poi, naturalmente, i
nostri vescovi si lamentano che i laici di fede non contano più molto nella
società civile, in particolare nei processi politici. Certo, ancora dalla
scuola della dottrina sociale escono ancora grandi ingegni, persone alle quali
tutti si rivolgono nei tempi di crisi come riserve della Repubblica,
ed esse si riconoscono per avere nelle loro biografie periodi più o meno
lunghi, più o meno intensi, di formazione alla democrazia nelle istituzioni
culturali religiose (molte università religiose hanno corsi specifici), ma i
più hanno avuto solo la formazione alla democrazia che è comune a tutti, vale a
dire i pochi cenni alla democrazia come buona creanza civile
che si fanno nella scuola e poi nulla di nulla, anzi l’anti-formazione che si
riceve nel marketing politico, quel modo di accattivarsi la simpatia
dell’elettore che è pubblicità commerciale e che si base
essenzialmente nello sfruttare le possibilità di inganno cognitivo su base
emotiva che la nostra mente offre, un’anti-formazione che umilia dove
invece la democrazia si propone di elevare.
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73.5. Democrazia: una
forma di convivenza che consente il cambiamento sociale.
Richiamo la
definizione di democrazia che ho proposto all’inizio:
«La democrazia
è un sistema di convivenza che consente di superare i conflitti
senza che l’impiego della forza distrugga la società o generi
infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel
tempo e nella loro estensione».
Se la
democrazia, prima che un sistema di regole formali, è una
forma di convivenza, c’è molto spazio per l’ingegno e la creatività personali.
Essa è stata anche interpretata in istituzioni, in organismi sociali costruiti
per durare e quindi più rigidi, ma le istituzioni democratiche non coprono
l’intero campo della democrazia come convivenza. E, per quanto molto
dettagliate, le regole delle istituzioni democratiche non riescono mai a
disciplinare ogni aspetta della convivenza democratica nelle istituzioni.
Infine c’è la grande area sociale non ancora democratizzata o non
completamente democratizzata. Come si disse per la nonviolenza, anche
per la democrazia ogni giorno può portare progressi per l’azione dei
democratici, per cui si può concludere che «ieri eravamo meno
democratici». Se scopo della democrazia come oggi la si intende è anche
quella di aumentare la felicità e il benessere sociali, questo significa che la
democrazia è una forza sociale di progresso. La mentalità
democratica, come anche la nostra mentalità religiosa, comporta un certo grado
di insoddisfazione nei confronti di ciò che è stato
realizzato: una società democratica è necessariamente dinamica.
L’anno
scorso ho scritto:
«"Chi
è il più grande tra voi diventi come il più giovane e chi governa come colui
che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è
forse colui che sta a tavola? Eppure io sto tra voi come colui che
serve" (dal Vangelo secondo Luca, capitolo,22, versetti 26 e 27 -
traduzione in italiano CEI 2008. CEI 1974, dove CEI 2008 ha "il
più giovane" traduce con "il più piccolo" -
il testo in greco antico ha "neòteros":
letteralmente "il più nuovo").
Credo che
storicamente nessuna autorità, civile o religiosa, anche se ispirata ai
principi di fede, sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica il comando
evangelico che ho sopra citato. E questo anche nel caso di vere rivoluzioni,
vale a dire di un completo rovesciamento di un ordinamento politico, con
instaurazione di un nuovo ordine politico retto da regole opposte rispetto alle
precedenti.
Rivoluzione è
un termine che il pensiero politico ha tratto dall'astronomia, dove significa
il moto di un corpo intorno ad un altro corpo, che si considera come centro.
Una rivoluzione è compiuta, dal punto di vista politico, quando viene istituito
un nuovo ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai potenti di stare come
colui che serve, vale a dire di agire di conseguenza,
significa introdurre un principio di insoddisfazione permanente davanti a
qualsiasi potere, quindi anche a quello che si presenti come rivoluzionario.
Questa appunto l'origine dei gravi problemi politici che le nostre prime
comunità di fede ebbero nei primi quattro secoli dell'era corrente e, in
seguito, degli analoghi problemi che travagliarono i nostri riformatori che
intesero promuovere un ritorno alla fedeltà a quel comando evangelico.»
Il sistema
democratico è anche, quindi, una convivenza sociale in cui è ammessa la libera
critica di ogni potere, pubblico o privato, rispetto al quale si conviene che
ciascuno abbia libertà di coscienza, e dunque di pensiero,
e di manifestazione del pensiero, nella parola, negli scritti,
nelle arti e in ogni altro modo in cui questa libertà possa essere esercitata.
Questo significa che è aliena alla convivenza democratica la pretesa e la
pratica della sottomissione. Una persone che vive
democraticamente non si sottomette mai. La sua osservanza alle regole stabilite
democraticamente, all’esito di una procedura regolare che abbia consentito
anche la presa di coscienza e il dialogo su di esse, non è
sottomissione, ma adesione ad un metodo e accettazione delle decisioni
pubbliche che produce. Rimane però sempre spazio per la resistenza,
che in democrazia è un diritto e un dovere, quando un potere collettivo, anche
con metodi corretti dal punto di vista delle procedure, leda una posizione
umana che si ritenga incoercibile e non vulnerabile, un diritto umano
inviolabile in quanto connesso con la dignità della persona umana.
Certamente questo pone sempre la convivenza sociale democratica in una
situazione di fisiologica instabilità, nella quale ogni potere deve sapersi
conquistare e saper mantenere innanzi tutto con la persuasione la propria
legittimazione sociale e politica, a prescindere da quella giuridica, e in cui
il corpo sociale organizzato per convivere democraticamente mantiene un
permanente stato di tensione dialettica verso qualsiasi potere. In particolare
la delega per la rappresentanza politica non consiste, in democrazia, in
una investitura, come le incoronazioni dei
monarchi, data la quale quel potere non potrebbe più essere messo in questione
per tutta la sua durata istituzionale. E’ proprio quella fisiologica
instabilità che consenta al sistema di convivenza democratica di adattarsi ai
mutamenti sociali e di resistere ad ogni potere che
tenda ad espandersi arbitrariamente. E, va detto, la legge sociale del potere
pubblico è che esso tende ad espandersi fino a che incontri una resistenza
valida.
La gran
parte delle relazioni sociali più significative della nostra vita si svolgono
in spazi non o poco istituzionalizzati. La famiglia, un’associazione ricreativa
o sportiva, hanno quel carattere. Vi sono però spazi sociali quotidiani
piuttosto istituzionalizzati nei quali tuttavia vi è molto spazio per
configurare liberamente una convivenza sociale, ad esempio nella scuola e nella
parrocchia. Gli ambienti di lavoro sono spesso poco o per nulla democratizzati,
specialmente quando l’organizzazione del lavoro è fatta da un datore di lavoro
proprietario. Sui luoghi di lavoro la democratizzazione è rappresentata
dall’azione sindacale che è in tensione dialettica con i potere del soggetto
proprietario dell’impresa. La democratizzazione delle organizzazioni del
lavoro è una grande sfida e ha un significato altamente politico
dove mette in questione la concezione della proprietà. I processi
politici di democratizzazione delle società europee, dal Settecento, ebbero
nella proprietà quale frutto del lavoro e
quindi espressione della dignità sociale personali un
punto di forza, e questo in particolare verso quei poteri politici connessi
alla proprietà terriera tramandata di generazione in generazione in dinastie di
nobili, accreditate da un potere supremo anch’esso dinastico e sacralizzato. Ma
nel progresso delle concezioni democratiche sta venendo meno l’assolutizzazione
della proprietà, espressione, proprio in quell’assolutizzazione, di un potere
con caratteri di arbitrarietà sociale, a favore di una diversa concezione, che
troviamo scritta nella nostra Costituzione repubblicana, che ne richiede
una funzione sociale, vale a dire una finalizzazione anche al
benessere e alla felicità collettivi.
Ciò
detto, il primo passo per un tirocinio democratico non è studiare un complesso
di regole, come viene in genere proposto agli studenti
nell’insegnamento di educazione civica e allora si prende in mano la
Costituzione, di creare forme di convivenza democratica
nella propria quotidianità o di modificare in senso
democratico quelle alle quali si partecipa nella propria quotidianità. Il primo
campo di applicazione è il piccolo gruppo di prossimità,
ad esempio la classe scolastica, o un gruppo parrocchiale, come è il nostro
dell’AC parrocchiale.
Si
riscontrerà che elevare un gruppo alla democrazia richiede uno
sforzo, una fatica, per la necessità di vincere resistenze determinate da
abitudini consolidate, in particolare da stati di sottomissione nei
quali alcuni si trovano rispetto ad altri. Ho notato che non di rado nei gruppi
religiosi i capi tendono a debordare nel loro potere, che assume carattere
autocratico e addirittura sacralizzato. Data questa condizione, i capi così
impostisi hanno poi in genere la scomunica facile, come i bellicosi primi
vescovi delle nostre comunità religiose, anche se si tratta di un
potere arbitrario, perché nella nostra Chiesa l’allontanamento del fedele è
disciplinato rigidamente da una normativa penale, analoga a quella degli stati,
è riservato a casi gravissimi, e nessuno può arrogarselo. Una delle
prime manifestazione democratiche è dunque quella chi resiste a
quella pretesa di allontanamento arbitrario, ad opera di colui che, avendo
conseguito una qualche posizione di potere ed avendola estesa di fatto a danno
altrui, indica sbrigativamente la porta al dissenziente. Se in passato si
avesse avuto più coraggio in questa azione di resistenza attiva, ci saremmo
potuti risparmiare molti problemi e, innanzi tutto, una certa disaffezione da
parte delle persone più giovani alla vita religiosa. La democrazia non è fatta
certamente per persone remissive verso le posizioni di potere, per persone con
la tendenza ad essere docili, richiede coraggio, e
innanzi tutto quello di rimanere ad occupare gli spazi sociali contro ogni
potere pubblico o privato che pretenda di escludere e, lì, di prendere la
parola.
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73.6. Democrazia come convivenza che libera da sottomissioni umilianti.
Di solito a scuola si studiano le istituzioni democratiche e le regole democratiche. Si accenna alla
storia della nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza politica
popolare, vale a dire di massa, a un potere autocratico, quello del fascismo
mussoliniano, che aveva sottomesso le genti d’Italia. Si aggiunge che il
risultato fu quello di una Liberazione politica
e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà,
dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle
istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra, che per gli italiani, a
differenza degli stati che la combattevano contro gli stati del fascismo
europeo, fu anche propriamente di Liberazione
politica. Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da
Regno che si era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in
quanto condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un
voto popolare ad un referendum a cui parteciparono per la prima volta nella
storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non fu solo
di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità. Dalla fiducia nelle virtù
della guerra, propagandata dal fascismo mussoliniano, all’anelito verso la pace
determinato dalle gravi sofferenze belliche che avevano riguardato anche la
popolazione civile, finita sottomessa al nazismo hitleriano, quindi ad un
dispotismo straniero. Questa formazione alla pace, profondamente contrastante
con quella, opposta, insegnata dall’ideologia fascista, si fece in particolare
sull’esortazione del Papato, era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°,
contenuta in una serie di radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore
di encicliche, e che furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione
popolare condotto dal clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali
che coinvolsero in vario modo la gente di fede.
E’ alla formazione di questa mentalità che
dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che dovrebbe farsi ad ogni
livello tra i laici, per renderli capaci di operare in una società democratica
per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della buona novella
cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei laici che
collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove possibile,
e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della convivenza
democratica, quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino con
caratteri autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità
personale. Ciò è largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e,
in particolare, nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si
articolano.
Spesso
l’affanno per i servizi che la parrocchia deve rendere alla comunità,
in particolare quelli liturgici per gli eventi della vita e per il ciclo
liturgico delle messe, come anche le attività di formazione di base e per il
matrimonio, che finiscono per assorbire quasi interamente le energie del clero
parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di gestione del patrimonio
parrocchiale, in particolare di quello immobiliare, porta una certa
burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia un po’ al modo
di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il parroco decide
tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta
la parrocchia come ente ecclesiastico
con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più rimangono consulenti. E le istituzioni minime di
democrazia previste per questa attività di consulenza,
l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio pastorale, il Consiglio
per gli affari economici rimangono talvolta sulla carta, ma comunque contano
poco. Non si sente, ad esempio, l’esigenza di esporre un bilancio patrimoniale ed
economico della gestione parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone,
il suo indebitamento, e quali siano le sue esigenze.
Nell’ultima grande riforma della Chiesa Cattolica, quella attuata con il
Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa - comunità, ma di fatto direi che
siamo appena agli inizi degli sviluppi conciliari per quanto riguarda questo
aspetto. Non c’è da aspettarsi molto dalla gerarchia, perché la legge del
potere sociale è che chi ce l’ha non lo
lascia fino a quando non è costretto a farlo per l’emergere di poteri resistenti
che pretendano condivisione. La riforma
in senso democratico, dunque, può anche essere pensata dall’alto, ma, se non si fa dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o
trapasso nei sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va
dal noto all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno
forza i poteri che si vorrebbe ristrutturare.
Non
basta quindi riconoscere, come ormai generalmente si riconosce, che il sistema
di potere ecclesiastico cattolico è obsoleto, e oltretutto inefficiente e poco
o per nulla trasparente: la critica deve essere accompagnata alla dimostrazione
pratica che forme più democratiche di
conduzione funzionano, e non disperdono il gregge, innanzi tutto
perché c’è una mentalità che, a
prescindere dall’intervento di poteri autocratici, porta a considerare
fondamentale il valore dell’unità. Ma
c’è tra noi laici? Possiamo dire che, le rare volte che abbiamo voce in
qualche cosa, fosse anche solo l’organizzazione delle iniziative per la festa
del santo patrono della parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto vuol dire avere
particolarmente a cuore l’unità? La
mia esperienza con il laicato non è questa: in realtà spesso le discussioni
generano contrasti che rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di
meglio che cercare di prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del
parroco o addirittura di chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti
ad andarsene. Qualche anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla
Pasqua, che nella nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola
accesi dissidi sul modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa,
organizzò una serie di incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in
frizione. Ciascuno disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva
bisogno di unità, che la via che aveva scelto era la migliore e che quella
della separazione era la sola soluzione che consentisse una
convivenza pacifica. Notai in ogni gruppo di lavoro in cui eravamo stati divisi
la presenza di capi delle comunità: questo evidentemente impediva di andare
avanti nel processo di assimilazione reciproca. In genere i capi di comunità
assumono le consuetudini del clero, si clericalizzano, e quindi tengono molto a
marcare le differenze e consolidare la sottomissione degli altri al propri
potere. La via giusta credo sia, sulla base di quell’esperienza, non quella di
riunirsi per discutere, ma per fare qualcosa insieme, nel contempo
convenendo che, in quel fare, per la durata di quel fare, limitatamente a quel
fare, si è sciolti da altri poteri che non sia quello collettivo dell’assemblea di coloro che si sono riuniti
per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa costituiti per
specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di estensione. Questo che ho
descritto è uno spazio democratico di
base. Il fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione, e quindi
conoscenza. Si diffida di chi non si conosce. E la convivenza democratica si
basa essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella basata sulla comune sottomissione sulla presenza di
un’autorità autocratica comune alla quale tutti si sottomettono.
Ogni
piccolo gruppo parrocchiale, e più in generale ogni piccolo gruppo sociale,
dovrebbe essere trasformato in uno spazio democratico di base per fare
tirocinio di convivenza democratica e per convincersi che la democrazia funziona. Ho letto che questa esperienza
è molto diffusa in una delle culle della democrazia, in Gran Bretagna, dove
ogni esigenza collettiva genera un comitato.
Abbiamo ricevuto la parola comitato dal
latino, lingua in cui si componeva della parole che significavano andare con, espressione corrispondente a
quella sinodo, che ci viene dal greco antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in uno stesso modo (ordine
di idee in cui si dà dell’eretico chi
non la pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel rimanere insieme sulla via nonostante non la si pensi
nello stesso modo. Questo è al centro della convivenza democratica.
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73.7. Democrazia: cominciare dal piccolo e dal
basso
Di solito a scuola si studiano le istituzioni democratiche e le regole democratiche. Si accenna alla
storia della nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza politica
popolare, vale a dire di massa, a un potere autocratico, quello del fascismo
mussoliniano, che aveva sottomesso le genti d’Italia. Si aggiunge che il
risultato fu quello di una Liberazione politica
e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà,
dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle
istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra, che per gli italiani, a
differenza degli stati che la combattevano contro gli stati del fascismo
europeo, fu anche propriamente di Liberazione
politica. Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da
Regno che si era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in
quanto condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un
voto popolare ad un referendum a cui parteciparono per la prima volta nella
storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non fu solo
di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità. Dalla fiducia nelle virtù
della guerra, propagandata dal fascismo mussoliniano, all’anelito verso la pace
determinato dalle gravi sofferenze belliche che avevano riguardato anche la
popolazione civile, finita sottomessa al nazismo hitleriano, quindi ad un
dispotismo straniero. Questa formazione alla pace, profondamente contrastante
con quella, opposta, insegnata dall’ideologia fascista, si fece in particolare
sull’esortazione del Papato, era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°,
contenuta in una serie di radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore
di encicliche, e che furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione
popolare condotto dal clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali che
coinvolsero in vario modo la gente di fede.
E’ alla formazione di questa mentalità che
dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che dovrebbe farsi ad ogni
livello tra i laici, per renderli capaci di operare in una società democratica
per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della buona novella
cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei laici che
collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove possibile,
e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della convivenza
democratica, quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino con
caratteri autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità
personale. Ciò è largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e,
in particolare, nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si
articolano.
Spesso
l’affanno per i servizi che la parrocchia deve rendere alla comunità,
in particolare quelli liturgici per gli eventi della vita e per il ciclo
liturgico delle messe, come anche le attività di formazione di base e per il
matrimonio, che finiscono per assorbire quasi interamente le energie del clero
parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di gestione del patrimonio
parrocchiale, in particolare di quello immobiliare, porta una certa
burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia un po’ al modo
di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il parroco decide
tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta
la parrocchia come ente ecclesiastico
con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più rimangono consulenti. E le istituzioni minime di
democrazia previste per questa attività di consulenza,
l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio pastorale, il Consiglio
per gli affari economici rimangono talvolta sulla carta, ma comunque contano
poco. Non si sente, ad esempio, l’esigenza di esporre un bilancio patrimoniale ed
economico della gestione parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone,
il suo indebitamento, e quali siano le sue esigenze.
Nell’ultima grande riforma della Chiesa Cattolica, quella attuata con il
Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa - comunità, ma di fatto direi che
siamo appena agli inizi degli sviluppi conciliari per quanto riguarda questo
aspetto. Non c’è da aspettarsi molto dalla gerarchia, perché la legge del
potere sociale è che chi ce l’ha non lo
lascia fino a quando non è costretto a farlo per l’emergere di poteri resistenti
che pretendano condivisione. La riforma
in senso democratico, dunque, può anche essere pensata dall’alto, ma, se non si fa dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o
trapasso nei sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va
dal noto all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno
forza i poteri che si vorrebbe ristrutturare.
Non
basta quindi riconoscere, come ormai generalmente si riconosce, che il sistema
di potere ecclesiastico cattolico è obsoleto, e oltretutto inefficiente e poco
o per nulla trasparente: la critica deve essere accompagnata alla dimostrazione
pratica che forme più democratiche di
conduzione funzionano, e non disperdono il gregge, innanzi tutto
perché c’è una mentalità che, a
prescindere dall’intervento di poteri autocratici, porta a considerare
fondamentale il valore dell’unità. Ma
c’è tra noi laici? Possiamo dire che, le rare volte che abbiamo voce in qualche
cosa, fosse anche solo l’organizzazione delle iniziative per la festa del santo
patrono della parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto vuol dire avere
particolarmente a cuore l’unità? La
mia esperienza con il laicato non è questa: in realtà spesso le discussioni
generano contrasti che rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di
meglio che cercare di prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del
parroco o addirittura di chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti
ad andarsene. Qualche anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla
Pasqua, che nella nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola
accesi dissidi sul modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa,
organizzò una serie di incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in
frizione. Ciascuno disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva
bisogno di unità, che la via che aveva scelto era la migliore e che quella
della separazione era la sola soluzione che consentisse una
convivenza pacifica. Notai in ogni gruppo di lavoro in cui eravamo stati divisi
la presenza di capi delle comunità: questo evidentemente impediva di andare
avanti nel processo di assimilazione reciproca. In genere i capi di comunità
assumono le consuetudini del clero, si clericalizzano, e quindi tengono molto a
marcare le differenze e consolidare la sottomissione degli altri al proprio
potere. La via giusta credo sia, sulla base di quell’esperienza, non quella di
riunirsi per discutere, ma per fare qualcosa insieme, nel contempo
convenendo che, in quel fare, per la durata di quel fare, limitatamente a quel
fare, si è sciolti da altri poteri che non sia quello collettivo dell’assemblea di coloro che si sono riuniti
per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa costituiti per
specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di estensione. Questo che ho
descritto è uno spazio democratico di
base. Il fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione, e quindi
conoscenza. Si diffida di chi non si conosce. E la convivenza democratica si
basa essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella basata sulla comune sottomissione sulla presenza di
un’autorità autocratica comune alla quale tutti si sottomettono.
Ogni
piccolo gruppo parrocchiale, e più in generale ogni piccolo gruppo sociale,
dovrebbe essere trasformato in uno spazio democratico di base per fare
tirocinio di convivenza democratica e per convincersi che la democrazia funziona. Ho letto che questa esperienza
è molto diffusa in una delle culle della democrazia, in Gran Bretagna, dove
ogni esigenza collettiva genera un comitato.
Abbiamo ricevuto la parola comitato dal
latino, lingua in cui si componeva della parole che significavano andare con, espressione corrispondente a
quella sinodo, che ci viene dal greco antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in uno stesso modo (ordine
di idee in cui si dà dell’eretico chi
non la pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel rimanere insieme sulla via nonostante non la si pensi
nello stesso modo. Questo è al centro della convivenza democratica.
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74
In sintesi
(11-9-17)
Nei paragrafi
qui sopra c’è materiale utile per rendere un’idea su che cos’è e cosa fa
l’Azione Cattolica. E’ solo una piccola parte di ciò che si è scritto su questo
tema.
Vorrei ora
fornirne una sintesi della storia da cui nacque l’Azione Cattolica,
sufficientemente estesa per venire incontro a chi ha deciso di accostarsi
questa esperienza associativa, o a chi sente il bisogno di approfondire le
ragioni per proseguirla.
Cominciamo con il dire questo: l’Azione
Cattolica non è assimilabile ad alcuna delle altre aggregazioni ecclesiali
correnti in Italia. Questo significa anche che fa un lavoro che nessun altro
fa. Ma che dovrebbe fare?
Per capirlo occorre avere consapevolezza della
sua storia.
Tutto iniziò a metà Ottocento, quando il Papato
sentì la necessità di chiamare a raccolta il popolo a difesa della sua
missione. I moti nazionalistici italiani minacciavano il suo piccolo stato
nell’Italia centrale, con capitale Roma. Si voleva che fosse la capitale del
nuovo stato unitario e indipendente che si andava costituendo in quegli anni,
con sommosse popolari e guerre, sia tra stati e che tra milizie popolari
e stati. Il Papato riteneva di avere bisogno di quel suo stato per essere
indipendente dalla politica degli stati del mondo intorno ed essere libero di
svolgere la sua missione universale.
I moti nazionalistici italiani erano suscitati
da movimenti con ideologia liberale e democratica. Erano tali, in particolare,
i gruppi che si ispiravano al pensiero di Giuseppe Mazzini (1805-1872). Essi
non miravano solo all’unità nazionale e all’indipendenza, ma anche alla riforma
sociale, in particolare all’affermazione di regimi democratici, da
conseguire con il coinvolgimento del popolo non più solo come concessione delle
dinastie sovrane, che all’epoca, dopo la caduta del regime di Napoleone
Bonaparte nel 1815, dominavano nuovamente l’Europa. Il nazionalismo italiano di
quell’epoca non era anti-cristiano: il motto di Mazzini era “Dio e popolo”.
Divenne anticlericale per il rifiuto del Papato di consentire l’unità nazionale
con capitale a Roma.
Perché i nazionalisti ritenevano indispensabile
Roma? Per il suo significato simbolico, derivante dalla sua storia antica, per
la civiltà unificante che dalla sua cultura era scaturita. Si pensava che così
si sarebbe potuta consolidare meglio un’unità politica ottenuta militarmente
tra popoli da molti secoli divisi, combattendo e sopprimendo i vari stati che
all’unificazione si opponevano. Il Papato non credeva nel liberalismo: pensava
che avrebbe condotto il popolo lontano dalla fede. Non credeva nella
democrazia, che non concepiva come un sistema di valori, ma come politica
basata sulla forza del numero, non su quella della ragione. Intendeva il
liberalismo come dissoluzione dei valori e la democrazia come disordine tra il
popolo che avrebbe finito per darsi nelle mani di demagoghi, di agitatori
sociali senza valore e insofferenti dei veri valori (in linea con il giudizio
che della democrazia avevano dato grandi filosofi greci dell’antichità). E
soprattutto, come detto, riteneva l’indipendenza politica del Papato, da
attuare con il possesso di un vero e proprio regno territoriale, come
indispensabile per sottrarsi all’arbitrio e alla volontà di potenza degli
altri capi di stato, quindi a tutela della sua missione universale. Nei secoli
precedenti il Papato, per garantire la sua indipendenza, si era appoggiato alle
dinastie sovrane europee. Da metà Ottocento ebbe sempre più difficoltà a farlo.
I nazionalisti italiani chiamavano a raccolta i popoli dell’Italia di allora, e
così, ad un certo punto, lo fece anch’esso. Come i nazionalisti parlavano
di riforma sociale, di cambiare in
meglio la società civile, anche il Papato elaborò un suo progetto di riforma
sociale, sulla base delle esperienze di solidarietà sociale che a
quell’epoca, in tutta Europa e anche in Italia, si andavano costituendo a
sostegno della parte meno ricca della società. Questo programma fu espresso
solennemente in un’enciclica, un atto con forza di legge per la Chiesa
cattolica, la prima di quelle dell’età moderna con oggetto la riforma della
società, che il papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13° (Papa
dal 1873 al 1903), diffuse nel 1891 con il nome di Rerum Novarum - Le
novità, dalle sue prime parole. Fu il primo documento di una
lunga serie che, nel complesso, si indica con il nome di dottrina
sociale. A quell’epoca il regno pontificio era stato soppresso,
all’esito di una breve guerra nel 1870. Ma il Papato lo rivoleva indietro. Su
questo era intransigente. Spingeva su questa posizione intransigente anche
il popolo che aveva chiamato a difesa delle sue ragioni. Ora ci sembra strano,
ma, a quei tempi, le formazioni cattoliche subivano il rigore delle misure di
polizia contro la sovversione politica. Il prete giornalista Davide Albertario,
direttore del quotidiano milanese L’osservatore cattolico, fu
arrestato nel 1898 e condannato a tre anni di reclusione, per aver criticato
aspramente la sanguinosa repressione, da parte del generale Fiorenzo Bava
Beccaris, dei moti popolari di quell'anno, motivati dalle difficoltà di vita
della gente meno ricca e, in particolare, dall'aumento del prezzo del pane. La
figura di Albertario sintetizza bene le posizioni politiche dell’intransigentismo
cattolico di allora: opposizione dura al nuovo Regno d’Italia
motivata con esigenze di riforma sociale nell'interesse
anzitutto del popolo.
E’ molto importante capire questo: mentre gli
altri sovrani degli stati che nella prima metà dell’Ottocento dominavano
l’Italia opponevano alle pretese di unificazione nazionale la legittimità storica
e giuridica del loro dominio politico, in sostanza l’assetto politico che, dopo
la caduta dell’imperatore francese Napoleone Bonaparte, era stata data
all’Europa nel Congresso di Vienna (tenutosi a Vienna tra il 1814 e il 1815)
dalle potenze vincitrici, il Papato volle giustificare davanti ai popoli le
proprie pretese di un regno in Italia innanzi tutto sia con esigenze di
tutela dell’indipendenza della sua missione universale, ma anche con la critica
della nuova civiltà che i nazionalisti liberali e democratici volevano attuare
in Italia e la necessità di indipendenza politica per contrastarla, questa
seconda esigenza come parte della prima, della sua missione
civilizzatrice. Sostenne che questa nuova civiltà non era per il bene del
popolo, che avrebbe richiesto altri provvedimenti. Questa esigenza di riforma
sociale, nel periodo dell’intransigentismo, durato fino al 1909,
quando il Papato consentì ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni
politiche nazionali (era stato loro vietato dal 1864 con una serie di
provvedimenti dell’autorità religiosa che vanno sotto il nome di non
expedit - non conviene[partecipare alle elezioni), era in fondo strumentale
alle pretese del Papato riguardanti la restaurazione del suo regno con capitale
a Roma, ma successivamente, in particolare in prospettiva delle elezioni
politiche del 1913, le prime a suffragio universale maschile (prima vi erano
state limitazioni relative al reddito e all'istruzione) e, ancor più durante la
Prima Guerra Mondiale (1914-1918), divenne assolutamente prioritaria, finendo
addirittura per essere inquadrata dal Papato nel dovere religioso di carità,
a cominciare da un discorso tenuto agli universitari della FUCI - gli
universitari cattolici - il 18 dicembre 1927 dal papa Achille Ratti,
regnante in religione come Pio 11°, di cui trascrivo il brano fondamentale per
il tema che sto trattando:
I giovani talora si chiedono se,
cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il
loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della
buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e
al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico
bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività
sociali. E così facendo essi comprenderanno e compieranno uno dei più grandi
doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si
può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della
politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo
riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si
potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore. È
con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la
politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal
rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di
un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur
mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.
Atteggiamento questo tanto più raccomandabile a giovani universitari che devono
consacrarsi alla propria preparazione, senza la quale la loro futura attività
non può essere né illuminata, né benefica. Come nel loro presente periodo essi
attendono allo studio delle future professioni e non le esercitano, così anche
per ciò che riguarda il viver sociale; essi devono ora attenersi al loro
programma di preparazione, perché, quando prenderanno il loro posto nella
società, possano poi dare a questa anche il contributo della buona, cristiana
politica.
E’ per
compiere questo lavoro di carità sociale che il papa
Giuseppe Sarto, regnante come Pio 10° dal 1903 al 1914, decise, nel 1905
con l’enciclica Fermo proposito - Il fermo
proposito [“che fin dai primordi del Nostro Pontificato abbiamo
concepito, di voler consacrare tutte le forze che la benignità del Signore si
degna concederCi alla restaurazione di ogni cosa in Cristo”], di ridisegnare
l’azione sociale dei cattolici con una nuova organizzazione, che è poi, in
sostanza, la nostra Azione Cattolica, formalmente costituita l’anno seguente
con l’approvazione dei suoi statuti. Essa sostituì una precedente organizzazione
con scopi simili che i laici cattolici avevano costituito di propria iniziativa
nel 1874 e che venne sciolta dal Papato nel 1904, a seguito di dissidi
insanabili tra la componente intransigente e quella democratica,
la quale intendeva iniziare a partecipare alla politica nazionale democratica
del Regno con un proprio progetto politico di democrazia ispirata ai valori di
fede, una democrazia cristiana, come la definivano.
Carità è la
parola italiana con la quale, insieme al termine “amore”, si traduce quella del
greco antico agàpe, che richiama l’idea di un lieto convito
in cui ce n’è per tutti. Agàpe ha un significato
teologico molto importante, su base evangelica. Collegare l’azione sociale all’agàpe significò
farne un valore di grande rilievo e, in particolare, riempirla di tanti
valori religiosi. E’ appunto questo che hanno fatto i laici cattolici di Azione
Cattolica nell’accostare i problemi della democrazia. La democrazia, come
oggi la si intende, e non la si è sempre intesa in questo modo, è frutto anche
del loro lavoro e comprende molti più valori che alle origini e, ad esempio
quello della pace, che non è sempre stata un valore democratico. Le
democrazie, storicamente, non sono state sempre pacifiche. Oggi si dà per
scontato che lo siano. E’ una conquista cultura che è stata mediata nelle
culture contemporanee anche con la collaborazione dei laici di Azione
Cattolica.
Man mano che la
democrazia si riempiva di valori, in particolare di quelli che rientrano nel
concetto di giustizia sociale e di tutela della persona
umana, cominciarono a cadere le riserve che storicamente il Papato aveva
avuto verso quel regime politico. Si è imparò molto dall’esperienza, in
particolare da quella dei totalitarismi europei del secolo scorso. Il lavoro
culturale del pensiero sociale cristiano, e in particolare cattolico,
precedette le modifiche della dottrina, dell’insegnamento impartito con
autorità dal magistero, innanzi tutto dal Papa. Anche in seguito fu così. La
prima grande svolta verso una democrazia piena di valori umanitari si ebbe con
una serie di importantissimi radiomessaggi natalizi, rilevanti quanto
un’enciclica sociale, diffusi dal papa Eugenio Pacelli, Pio 12°,
regnante dal 1939 al 1958, durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il
1941 e il 1944.
In Italia laici di fede
in gran parte provenienti dall'Azione Cattolica si riunirono nel 1943 nella
foresteria di Camaldoli dei monaci camaldolesi, in provincia di Arezzo,
sull’Appennino Tosco - Romagnolo, per scrivere un progetto di nuova costituzione,
denominato Codice di Camaldoli. Tra il 1946 e il 1947
laici dell'Azione Cattolica furono tra i protagonisti della
scrittura della nuova Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio
1948, che disegnava una democrazia di popolo piena di valori, tra i quali
quello della pace. Leggiamo infatti nell’art.11:
L'Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli
altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L’idea della democrazia
come strumento per l’affermazione dei valori, in primo luogo quella della
persona, ebbe sempre più credito nella dottrina sociale, il complesso delle
pronunce del magistero per organizzare la società secondo i valori indicati
dalla fede, attraverso le norme contenute nei documenti del Concilio Vaticano
2° (1962-1965) e molti altri documenti del Papato, fino ad arrivare, a cento
anni dalla prima enciclica sociale, all’enciclica Centesimus
annus - Il centenario, diffusa nel 1991 dal papa Karol Wojtyla,
regnante come Giovanni Paolo 2°, in cui troviamo l’affermazione del valore di
una democrazia piena di valori:
45. La cultura e la prassi del totalitarismo
comportano anche la negazione della Chiesa. Lo Stato, oppure il partito, che
ritiene di poter realizzare nella storia il bene assoluto e si erge al di sopra
di tutti i valori, non può tollerare che sia affermato un criterio
oggettivo del bene e del male oltre la volontà dei governanti, il quale,
in determinate circostanze, può servire a giudicare il loro comportamento. Ciò
spiega perché il totalitarismo cerca di distruggere la Chiesa o, almeno, di
assoggettarla, facendola strumento del proprio apparato ideologico.92
Lo Stato totalitario, inoltre, tende ad assorbire in
se stesso la Nazione, la società, la famiglia, le comunità religiose e le
stesse persone. Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona,
che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cf At 5,29), la
famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le Nazioni, realtà tutte che
godono di una propria sfera di autonomia e di sovranità.
46. La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in
quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e
garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri
governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno.93 Essa,
pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali
per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato.
[…]
un'autentica democrazia è possibile
solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona
umana.
[…]
Una democrazia senza valori si
converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la
storia.
[…]
47. Dopo il crollo del totalitarismo comunista e di
molti altri regimi totalitari e «di sicurezza nazionale», si assiste oggi al
prevalere, non senza contrasti, dell'ideale democratico, unitamente ad una viva
attenzione e preoccupazione per i diritti umani. Ma proprio per questo è
necessario che i popoli che stanno riformando i loro ordinamenti diano alla
democrazia un autentico e solido fondamento mediante l'esplicito riconoscimento
di questi diritti. Tra i principali sono da ricordare: il diritto alla
vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il cuore della
madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e
in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; il
diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e
nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al lavoro per
valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento proprio e
dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una famiglia ed a accogliere
e educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità. Fonte e
sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa
come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla
trascendente dignità della propria persona.
Anche nei Paesi dove vigono forme di governo
democratico non sempre questi diritti sono del tutto rispettati.
[…]
La Chiesa rispetta la legittima autonomia
dell'ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l'una
o l'altra soluzione istituzionale o costituzionale. Il contributo, che essa
offre a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della persona, la
quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo incarnato.
Nel 1969 l’Azione Cattolica, con il suo nuovo
statuto elaborato sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet
(1926-1980), fece dell’attuazione dei principi deliberati dai saggi del
Concilio Vaticano 2° uno dei suoi principali campi di azione sociale e si
propose come palestra di democrazia per l’attuazione sociale dei
valori nel quadro di una democrazia piena di valori, per riempire sempre meglio
la democrazia di valori e per salvaguardare il valore di quel tipo di
democrazia.
Fin dal suo sorgere, perché negarlo?, l’Azione
Cattolica ebbe struttura organizzativa simile a quella di un partito politico.
Del resto essa, storicamente, difese, più o meno al modo di un partito,
posizioni politiche del Papato, in primo luogo, alle origini, quelle relative alla
questione di Roma, la questione romana, la quale fu chiusa,
in modo che molti criticarono nel mondo cattolico, con i Patti
Lateranensi, conclusi nel 1929 con il Regno d’Italia rappresentato in
quella occasione del Capo del governo di allora Benito Mussolini, fondatore e
capo del fascismo. L’Azione Cattolica, ad esempio, ogni anno distribuisce
delle tessere. Oggi non sempre i partiti lo fanno. Ha
un’organizzazione democratica, e non tutti i partiti politici l’hanno avuta e
l’hanno. In Azione Cattolica si tengono elezioni per nominare le cariche
associative. Si deliberano documenti in varie assemblee, come si fa nei
parlamenti. E diversi laici di Azione Cattolica hanno rivestito importanti
cariche istituzionali in Italia. Ricordo per tutti il Presidente della
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (1918-2012), che tenne sempre al bavero il
distintivo dell’Azione Cattolica. Che cosa differenzia, però, l’Azione
Cattolica da un partito?
L’obiettivo dell’Azione Cattolica è molto più
vasto di quello di un partito, che serve per concorrere all’esercizio
dell’autorità pubblica, nello Stato, nelle Regioni, nei Comuni e via dicendo.
Lo scopo dell’Azione Cattolica è quello stesso della dottrina sociale:
la riforma sociale dell'intera società secondo
valori, per riempire la società e la democrazia di valori. L’Azione
Cattolica è pensiero, innanzi tutto formazione, e, appunto,
azione, che significa azione sociale, in ogni ambito in cui la
persona è inserita, a partire dalla famiglia e fin da molto piccoli.
Per trasformare secondo valori ogni società, lì dove le persone si
organizzano, e allora c'è chi comanda e chi segue, e quindi anche la
possibilità di agire per il bene comune, la felicità di tutti, o
approfittandosi a danno degli altri, facendoli soffrire. Famiglia,
scuola, lavoro, economia, politica istituzionale, solidarietà, arte, sport,
cultura… sono tutti campi di azione sociale di un
laico di Azione Cattolica per l’affermazione dei valori, per organizzare tutte
le società in cui è inserito, collaborando con tutti democraticamente, secondo
i valori. Ora il compito che ci è assegnato è molto più vasto di un tempo, non
riguarda più la sola Italia o l’Europa, ma il mondo intero: è questa la
prospettiva dell’enciclica Laudato si’, diffusa
nel 2015 dal papa Jorge Mario Bergoglio, regnante come Francesco dal 2013.
Non è un lavoro che si può affrontare da soli. Serve essere in tanti per
fare azione sociale, e innanzi tutto per capire realisticamente
il proprio tempo. Ma occorre essere in tanti per persuadere tanta altra gente
dei valori che occorre realizzare e, innanzi tutto, per mediare i
valori di fede in modo che possano essere condivisi da quante più persone
possibile. Bisogna prepararsi bene e fare tirocinio di
azione, come in tutte le attività umane. L’azione sociale si impara, non è
innata: anche a questo serve l’Azione Cattolica. Ma poi c’è da agire insieme,
ciascuno secondo quello che sa fare. Io, ad esempio, agisco anche
scrivendo cose come questa che state leggendo. Confrontandosi però con gli altri,
perché da soli spesso si smarrisce la strada. E’ come quando si va in montagna
in cordata, ciascuno legato ad altri:
se si cade, gli altri fanno sicurezza. I più esperti indicano
agli altri come fare per non rischiare. Spesso sanno come fare perché hanno
sbagliato e si sono corretti. La saggezza dei più anziani non di rado si
basa proprio su questo. Così progredisce l’umanità. Senza questa azione collettiva
i valori e la democrazia come valore sono a rischio. Di certi valori ci si deve
persuadere di generazione in generazione, a cominciare dai più giovani, per
parlar loro dei grandi valori e iniziarli al tirocinio
dell'azione sociale ad essi ispirata.
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FINE