6. Democrazia: cominciare dal piccolo e dal basso
Di solito a scuola si studiano le istituzioni democratiche e le regole democratiche. Si accenna alla
storia della nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza politica
popolare, vale a dire di massa, a un potere autocratico, quello del fascismo
mussoliniano, che aveva sottomesso le genti d’Italia. Si aggiunge che il
risultato fu quello di una Liberazione politica
e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà,
dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle
istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra, che per gli italiani, a
differenza degli stati che la combattevano contro gli stati del fascismo
europeo, fu anche propriamente di Liberazione
politica. Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da
Regno che si era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in
quanto condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un
voto popolare ad un referendum a cui parteciparono per la prima volta nella
storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non fu solo
di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità. Dalla fiducia nelle virtù
della guerra, propagandata dal fascismo mussoliniano, all’anelito verso la pace
determinato dalle gravi sofferenze belliche che avevano riguardato anche la
popolazione civile, finita sottomessa al nazismo hitleriano, quindi ad un
dispotismo straniero. Questa formazione alla pace, profondamente contrastante
con quella, opposta, insegnata dall’ideologia fascista, si fece in particolare
sull’esortazione del Papato, era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°,
contenuta in una serie di radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore
di encicliche, e che furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione
popolare condotto dal clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali
che coinvolsero in vario modo la gente di fede.
E’ alla formazione di questa mentalità che
dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che dovrebbe farsi ad ogni
livello tra i laici, per renderli capaci di operare in una società democratica
per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della buona novella
cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei laici che
collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove possibile,
e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della convivenza
democratica, quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino con
caratteri autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità
personale. Ciò è largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e,
in particolare, nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si
articolano.
Spesso
l’affanno per i servizi che la parrocchia deve rendere alla comunità,
in particolare quelli liturgici per gli eventi della vita e per il ciclo
liturgico delle messe, come anche le attività di formazione di base e per il
matrimonio, che finiscono per assorbire quasi interamente le energie del clero
parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di gestione del patrimonio
parrocchiale, in particolare di quello immobiliare, porta una certa
burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia un po’ al modo
di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il parroco decide
tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta
la parrocchia come ente ecclesiastico
con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più rimangono consulenti. E le istituzioni minime di
democrazia previste per questa attività di consulenza,
l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio pastorale, il Consiglio
per gli affari economici rimangono talvolta sulla carta, ma comunque contano
poco. Non si sente, ad esempio, l’esigenza di esporre un bilancio patrimoniale ed
economico della gestione parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone,
il suo indebitamento, e quali siano le sue esigenze.
Nell’ultima grande riforma della Chiesa Cattolica, quella attuata con il
Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa - comunità, ma di fatto direi che
siamo appena agli inizi degli sviluppi conciliari per quanto riguarda questo
aspetto. Non c’è da aspettarsi molto dalla gerarchia, perché la legge del
potere sociale è che chi ce l’ha non lo
lascia fino a quando non è costretto a farlo per l’emergere di poteri resistenti
che pretendano condivisione. La riforma
in senso democratico, dunque, può anche essere pensata dall’alto, ma, se non si fa dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o
trapasso nei sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va
dal noto all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno
forza i poteri che si vorrebbe ristrutturare.
Non
basta quindi riconoscere, come ormai generalmente si riconosce, che il sistema
di potere ecclesiastico cattolico è obsoleto, e oltretutto inefficiente e poco
o per nulla trasparente: la critica deve essere accompagnata alla dimostrazione
pratica che forme più democratiche di
conduzione funzionano, e non disperdono il gregge, innanzi tutto
perché c’è una mentalità che, a
prescindere dall’intervento di poteri autocratici, porta a considerare
fondamentale il valore dell’unità. Ma
c’è è tra noi laici? Possiamo dire che, le rare volte che abbiamo voce in
qualche cosa, fosse anche solo l’organizzazione delle iniziative per la festa
del santo patrono della parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto vuol dire avere
particolarmente a cuore l’unità? La
mia esperienza con il laicato non è questa: in realtà spesso le discussioni
generano contrasti che rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di
meglio che cercare di prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del
parroco o addirittura di chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti
ad andarsene. Qualche anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla
Pasqua, che nella nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola
accesi dissidi sul modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa,
organizzò una serie di incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in
frizione. Ciascuno disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva
bisogno di unità, che la via che aveva scelto era la migliore e che quella
della separazione era la sola soluzione che consentisse una
convivenza pacifica. Notai in ogni gruppo di lavoro in cui eravamo stati divisi
la presenza di capi delle comunità: questo evidentemente impediva di andare
avanti nel processo di assimilazione reciproca. In genere i capi di comunità
assumono le consuetudini del clero, si clericalizzano, e quindi tengono molto a
marcare le differenze e consolidare la sottomissione degli altri al propri
potere. La via giusta credo sia, sulla base di quell’esperienza, non quella di
riunirsi per discutere, ma per fare qualcosa insieme, nel contempo
convenendo che, in quel fare, per la durata di quel fare, limitatamente a quel
fare, si è sciolti da altri poteri che non sia quello collettivo dell’assemblea di coloro che si sono riuniti
per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa costituiti per
specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di estensione. Questo che ho
descritto è uno spazio democratico di
base. Il fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione, e quindi
conoscenza. Si diffida di chi non si conosce. E la convivenza democratica si
basa essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella basata sulla comune sottomissione sulla presenza di
un’autorità autocratica comune alla quale tutti si sottomettono.
Ogni
piccolo gruppo parrocchiale, e più in generale ogni piccolo gruppo sociale,
dovrebbe essere trasformato in uno spazio democratico di base per fare
tirocinio di convivenza democratica e per convincersi che la democrazia funziona. Ho letto che questa esperienza
è molto diffusa in una delle culle della democrazia, in Gran Bretagna, dove
ogni esigenza collettiva genera un comitato.
Abbiamo ricevuto la parola comitato dal
latino, lingua in cui si componeva della parole che significavano andare con, espressione corrispondente a
quella sinodo, che ci viene dal greco antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in uno stesso modo (ordine
di idee in cui si dà dell’eretico chi
non la pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel rimanere insieme sulla via nonostante non la si pensi
nello stesso modo. Questo è al centro della convivenza democratica.