INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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domenica 6 settembre 2020

Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia - Parte 7


Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia

 -

Parte 7

 (dal n.64 al n.71.8)

(le parti precedenti sono pubblicate nei post successivi, nei post  precedenti sono pubblicate quelle successive. Questo testo è pubblicato in 8 parti)

 

di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

edizione ottobre  2020, con nuovi materiali

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Condominio o repubblica

 

C’è una bella differenza tra un condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono decisioni seguendo il metodo democratico.

 In un condominio ci si finisce perché si compra un appartamento e si diventa proprietari anche di parti comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci si serve anche di altre cose, però per queste si è obbligati a farlo  insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e, soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose  e non le vogliono cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.

  Una repubblica nasce quando ci si sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare una società migliore, in cui si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia abbandonato alla propria sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose molto meno. Ci si cerca perché si vive bene insieme. Al centro di una repubblica ci sono dei valori: questo significa una certa concezione di società. E poi la fedeltà a quei valori. Si è disposti a dare molto, anche la vita, per realizzarli. Uno  di essi, molto importante, è l’eguaglianza in dignità, che significa rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo richiede di essere sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra. Per diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni, i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide che vinca  la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad ognuno dei diritti fondamentali  che nessuna maggioranza può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni persona è  sacra, nel senso che ha diritti intangibili. Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non  è qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente, che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima  in cui non c’era e che avrà un dopo  in cui non ci sarà più. Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo? In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe, che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale.  Nessuno escluso.

   Alcuni dicono che bisogna cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il mondo. E seguono vie di perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro sforzo di perfezione  rimangono poi soli con sé stessi. Gli esseri umani non sono  fatti  per essere così. Questi cammini  allora dove portano? Ci si perfeziona, se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe, crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale, a tutto quello che c’è intorno.

  Anche in una parrocchia, come in ogni specie di società, si fa la scelta di essere condominio  o  repubblica. Dipende da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro  per noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la si condivide  al modo dell’ascensore in un condominio, con l’essere umano si entra in relazione.

 La nostra Cena rituale, con le povere cose che condividiamo, alle quali però diamo un valore  infinito perché ci mettono in relazione benevolente e universale, non è forse la celebrazione dell’agàpe religiosa? Farne una realtà condominiale  sembra impossibile, eppure è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente per il fastidio che certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare una realtà universale, in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno sia sacro… Ma non è meglio essere in meno a condividere, in modo che ce ne sia di più per quelli che ci sono? Questa  è fondamentalmente la ragione politica della crisi della nostra nuova Europa comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto delle  cose e non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione, quella per cui nell’agàpe  l’inventario contabile di ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità, stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito  repubblicano. Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata: ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in spirito repubblicano e non condominiale.

 

 

 

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Fedi omicide

 

  Ci sono  nel mondo di oggi persone che manifestano le loro convinzioni religiose uccidendo e uccidendosi. Il principale loro bersaglio sono quelli della loro stessa fede: è tra essi che fanno il maggior numero di morti. L’Europa c’entra perché è la sua cultura che è criticata: infatti vengono colpiti quelli che vivono all’europea.

  Parlando di questioni culturali, bisogna dire che condividiamo con altre fedi monocratiche un importante patrimonio culturale e che in quest’ultimo c’è anche l’antico comando di sterminio degli  infedeli  e degli apostati, quelli che hanno rinnegato la propria fede di prima. Leggiamo pagine tremende in merito negli scritti sacri originati dall’antico ebraismo. Ma anche parti di quelli formatisi nelle nostre prime collettività di fede sono stati interpretati in quel senso nel corso della storia.

 Di fatto le nazioni che abbracciarono la nostra religione si resero responsabili di orrende stragi per ragioni religiose, che nelle Americhe divennero addirittura genocidio. In Europa ebbero motivazioni religiose i pogrom, le periodiche persecuzioni antiebraiche, attuati in Polonia e Russia.

 Strumentalizzarono la nostra fede i razzismi nordamericani e sudafricani. L’organizzazione razzista nordamericana Ku-Klux-Klan celebrava i suoi delitti con croci infuocate.

 La particolarità della religiosità omicidiaria contemporanea è l’autoannientamento degli stessi omicidi, in un quadro di martirio religioso, di testimonianza di fede nella prospettiva di una ricompensa soprannaturale, in un aldilà. E’ qualcosa di diverso dal cercare la morte in battaglia. Infatti, di solito, sono colpiti degli inermi e la morte dell’omicida non è solo una eventualità, ma una sicurezza, come nel caso di quelli che si fanno esplodere in ambienti affollati. L’autoannientamento ha ragioni politiche e serve a potenziare l’effetto terroristico di queste azioni stragiste, ma anche a ostacolare le indagini, eliminando la possibilità di dichiarazioni dei colpevoli.

  La fede, e in particolare una fede basata sulla cultura biblica, può essere stragista? Poiché di fatto lo è stata, attraverso i secoli, dobbiamo riconoscere che lo può essere. Perché, in genere, non lo è più? Perché c’è stata una conquista culturale derivata dai processi democratici originati in Europa e nel Nord America, per cui si è riusciti a far convivere pacificamente religioni esclusiviste, le quali quindi in linea di principio escludono la possibilità di altre fedi. Questi sviluppi hanno coinvolto entrambe le due maggiori fedi monocratiche del mondo, ma anche, e da tempi molto più antichi, l’ebraismo. Quest’ultimo, dopo la distruzione della propria entità politica nel Vicino Oriente e la diffusione in Europa e in altre parti del mondo, si è trovato a dover convivere con popoli di altri fedi, e ha sviluppato una corrispondente religiosità.

  Quello che emerge dalle stragi di questi anni, commesse con moventi religiosi, è che con la teologia si può convincere la gente di tutto, veramente di tutto. E che quindi la teologia ha molte e serie controindicazioni. Naturalmente serve gente che, per qualche sua ragione, non è più disposta ad esercitare qullo spirito critico che è la base della convivenza civile.

  In Europa non si uccide più per moventi religiosi tratti dalla nostra fede, ma ancora si discrimina. Ci si convince, ad esempio, che la donna è inferiore all’uomo e che ha un destino servile. O che certe famiglie non sono vere famiglie e non vanno riconosciute come tali. Bergoglio qualche giorno fa ha detto che dobbiamo chiedere perdono agli omosessuali, e qualche ragione evidentemente c’è. Si tratta di discriminazioni su basi teologiche che la teologia non riesce ancora a superare. L’ultima grande persecuzione motivata da ragioni religiose della nostra fede è stata quella contro i modernisti, attuata all’inizio del secolo scorso dal papa Giuseppe Melchiorre Sarto. Fu molto dolorosa. Colpì animi buoni e di grande valore. Qui la teologia è molto cambiata.

  Nel mondo contemporaneo, in cui vive un numero di gente enormemente superiore che nel passato e in cui ci siamo intensamente legati gli uni con gli altri nei processi economici, è indispensabile che le religioni convivano pacificamente. Esse sono necessarie per conservare l’umanità del nostro vivere, ma a condizione che nessuna pretenda l’esclusività. Altrimenti diventano disumane e fanno vivere male. Uccidono. La soluzione è di promuovere di generazione in generazione quel processo culturale per cui in concreto esse possono convivere. Significa accentuare i processi democratici, secondo i quali la persona umana ha diritti fondamentali intangibili, che ruotano intorno al diritto alla vita. E’ l’antico comandamento Non uccidere! che in democrazia viene preso molto sul serio, tanto che, ad esempio, nella nostra nuova Europa non c’è più la pena di morte.  E poi costruire e sostenere,  nella gente, con un’adeguata formazione e anche in sede religiosa, la capacità critica, per cui, ad esempio, si riesca a distinguere in eventi come quelli del Bangladesh i loro veri moventi, al di là della paccottiglia ideologica religiosa che li riveste. E’ quello che facciamo nella nostra fede accostando il tema storico delle Crociate.

 Gli assassini vogliono farci odiare gli uni gli altri, è stato osservato da più parti in questi giorni: la giusta reazione quindi non è quella di odiare, perché sarebbe fare quello che quelli vogliono da noi, ma di attuare e intensificare forme di convivenza pacifica tra genti di fedi diverse. Nel mondo di oggi è possibile e in genere accade: gli odiatori religiosi sono sparute minoranza, ormai, per nostra buona sorte.

 

 

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Le religioni e il tribunale della coscienza e della ragione

(16 luglio 2016)

 

Solo da quale decennio la nostra religione ha aderito alla cultura della pace universale, e ora ci sembra assurdo che potesse essere altrimenti. Ma non lo è.

 Storicamente la nostra religione è stata mortifera quanto, e, al tempo della sua diffusione mondiale, addirittura molto più delle altre religioni coeve. Condivide un importante patrimonio culturale con le altre principali religioni monoteistiche e in esso vi è il germe della violenza stragista. L’ebraismo della nostra era lo ha superato, al tempo della sua dispersione tra le genti, e ha costituito un buon esempio di come farlo. Noi ci abbiamo messo  molto più tempo, essenzialmente perché la nostra fede è diventata e rimasta a lungo strumento di potere, e potere  e violenza sono strettamente legati.

 I grandi principi umanitari che costituiscono il nerbo dell’etica sociale e politica dell’Occidente contemporaneo furono proclamati, a fine Settecento, nel corso di due rivoluzioni, quella nord americana e quella francese, che espressero una notevole violenza, in particolare la seconda. Eppure quei principi condussero alla cultura dei diritti fondamentali della persona e al rifiuto della violenza pubblica, compresa la pena di morte, della nostra nuova Europa. Occorse però il bagno di sangue della Seconda guerra mondiale per produrre questo risultato. Con la laicizzazione delle istituzioni pubbliche le religioni cessarono, in Occidente, di costituire fattore di ordine pubblico e furono liberate dalla loro violenza. Nella nostra religione, i teologi ci spiegarono come fare per vivere la fede in modo molto diverso dal passato e, innanzi tutto, che si poteva, e anzi si doveva farlo. E’ il processo che venne denominato purificazione della memoria. E’ pur vero, però,  che, anche ai nostri tempi, dobbiamo riconoscere, come scriveva Aldo Capitini, che solo ieri eravamo violenti.

 Sarebbe bello constatare che il rifiuto della violenza si  sia prodotto storicamente per virtù propria della nostra religione, ma purtroppo non avvenne così. Gli strumenti della violenza ci dovettero essere strappati dalle mani, dagli stati liberali, e non di rado ne esprimiamo anche una certa nostalgia.

 Ci stupisce la violenza collettiva a sfondo religioso espressa nel Vicino Oriente e la pretesa di altre religioni monoteistiche di monopolizzare le religioni dei popoli, di ridurre tutte le altre fedi a culti tollerati (nel migliore dei casi) o di annientarle (nei casi limite): ma questa è stata anche la nostra cultura fino all’altro ieri e ciò fin dalle origini. Ci vantiamo di essere stati, nei tempi antichi, distruttori di idoli, ma in realtà questo significa essere stati persecutori religiosi. La distruzione stragista del soprannaturale altrui fu eclatante nella colonizzazione europea della Americhe.

 La violenza per sottomettere le donna e quella contro gli omosessuali fanno parte della nostra cultura religiosa, delle nostre radici bibliche, e infatti ciclicamente si manifestano ancora tra noi.

 Chi oggi prenderebbe alla lettera il comando biblico di sterminare gli infedeli? Eppure a lungo lo si è fatto, ad esempio nella distruzione delle culture native americane e nelle guerre di religione europee.

  Sulla via del contrasto della violenza bellica ebbe i suoi guai il nostro Lorenzo Milani, nella sua polemica contro i cappellani militari italiani che avevano trattato da vili gli obiettori di coscienza. Si era, appunto, nell’altro ieri  della nostra storia religiosa.

 Per gran parte dei due millenni della nostra storia religiosa si è stati convinti che in guerra un qualche dio fosse con noi, nel mentre facevamo a pezzi gli altri. Lo stesso che avrebbe dato una ricompensa eterna, in un qualche suo paradiso, ai morti sul campo di battaglia. Questo fu appunto lo spirito penitenziale con cui si affrontarono storicamente le “crociate”.

 Si insegna, in religione, che la nostra è un fede che ci porta oltre la morte: sicuramente la nostra religione è stata utilizzata per contenere la paura della morte, specialmente in battaglia. L’etica del milite europeo è stata, molto a lungo, anche religiosa.

 Oggi ci definiscono “crociati”, ma è solo perché non ci conoscono bene. La nostra buona battaglia religiosa non è più quella della guerra. Abbiamo imparato la lezione di uno come Immanuel Kant che consigliava la pace perpetua e invitava a vergognarsi della vittorie belliche. E allora c’è una vecchia  religione che abbiamo abbandonato e una nuova  religione alla quale e nella quale ci siamo aperti. Nella violenza con pretesti religiosi di questi giorni vediamo allora noi stessi come eravamo  solo l’altro ieri.

 Ad un certo punto abbiamo portato la nostra religione davanti al tribunale della coscienza e della ragione e ci siamo ritrovati noi stessi sul banco degli imputati: la religione era solo lo specchio di noi stessi, di come volevamo essere.

  In un’umanità di otto miliardi di persone, strettamente interconnessa, per cui quasi tutti gli oggetti di nostro uso quotidiano vengono prodotti dall’altra parte del globo,  è ancora ammissibile poter sostenere  lo sterminio degli infedeli, e tante altre cose della vecchia  religione? Ad esempio tutto il sessismo che troviamo nelle nostre scritture, per cui un certo pluralismo in questo campo provocherebbe l’ira soprannaturale, lo sterminio, la pioggia di fuoco e simili. Non è, questa concezione, una bruttura solo degli altri, è anche nostra. E’ solo l’altro ieri che una donna non poteva entrare in chiesa senza coprirsi il capo.

 Questo portare la religione, e noi stessi, davanti al tribunale della coscienza e della ragione è il secolarismo. Benedetto secolarismo se ci ha portato la pace, se ha tolto la violenza alle religioni, quella che di questi tempi ci si scaglia addosso provenendo da un medioevo che si manifesta in mezzo a noi e dall’altra parte del nostro piccolo mare! Ricordiamo che anche noi fummo così, solo l’altro ieri.

 

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La Nazione

  

  Nella Costituzione vigente si fa riferimento al concetto di nazione in tre punti, e in due di essi si parla di "Nazione", con l'iniziale maiuscola. È scritto che i "parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la "Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della "Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l' "unità nazionale" (art.87).

 Che cosa è la "Nazione"?  La Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione, perché esse non possono essere fattori di particolare connotazione della Repubblica: lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in campo culturale, si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che significa anche una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in particolare sotto il profilo politico, e solidarietà civile.

 La storia della nostra costruzione nazionale è stata particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche resistenze politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato, nell'Ottocento. Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu osservato. Da un certo punto di vista, l'Italia unita, politicamente organizzata intorno alla monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna con una propria storia particolare, una propria lingua e una propria cultura. L'Italiano era solo lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente francese e piemontese. La gran parte della gente era analfabeta e quindi confinata nelle culture particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci riferisce alla Nazione, si intende una realtà che si è venuta costruendo nell'arco di circa un secolo tra Ottocento e Novecento, in particolare sulla base dell'ideologia politica di Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che volle vivere insieme, per non essere "calpesti e derisi", e lo eravamo perché non eravamo popolo, perché eravamo divisi, proprio come si canta nell'inno nazionale. L'unità culturale italiana fu conseguita però, veramente, solo nel secondo dopoguerra, in particolare per le vie dell'istruzione pubblica di massa e di radio e televisione. È a partire da questa epoca che veramente la Nazione si manifestò. Ed è significativo l'abbandono dei progetti secessionistici che ebbero corso negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai popoli ma tra i popoli italiani ebbero un limitato seguito.

 

 

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Degrado della politica ed eclisse del Parlamento

(3-11 agosto 2016)

 

68.1.   Nel corso dei passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento come un'istituzione troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel decidere, troppo costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La ragione può essere individuata nel degrado della politica che si era manifestato nel corso del decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente dalla degenerazione della politica controllata dai partiti, che si presentarono platealmente, nel corso di inchieste giudiziarie svolte con una certa sistematicità dal 1992, come minati dalla corruzione. Essi infatti avevano preso a finanziarsi pretendendo una quota del denaro pubblico erogato per appalti pubblici da chi aveva assunto gli appalti. E influivano sulla scelta degli appaltatori, facendo preferire illegalmente quelli che avevano accettato di versare quel tributo. I partiti avevano preso consapevolezza di questi fatti molto prima che emergessero in sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta si iniziò a parlare di " questione morale" e si faceva riferimento proprio al fatto che i partiti avevano iniziato a controllare a proprio beneficio, non nell'interesse pubblico, ogni settore della vita nazionale in cui venivano spese risorse pubbliche.

 Ma la corruzione pubblica non fu l'unica ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione del sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena attuazione dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica irriducibile, colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti si opponevano a tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una più attenta selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli affari di stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non ebbe lo stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse addirittura di  una " fine della storia". In Italia l'idea di sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo ideologico della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università religiose.

 Che c'entrano i partiti con il Parlamento? La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del progressivo minor credito dell'istituzione tra la gente?

 In realtà, nel sistema istituzionale disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, approvata dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori svolti dalla metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era fondamentale per realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico in cui le masse avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il popolo che i costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da individui atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti, attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare la politica nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano stati infatti i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro l'ultimo fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e ideologiche della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere la guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche le basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e proposte in seno ai partiti.

  Il faticoso processo di elevazione del popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso nei partiti di popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di popolo, che si proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo democratico fu una conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata dal fatto che la democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era stata un fatto elitario, essenzialmente espressione di una borghesia illuminata, in una situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del 10% della popolazione.

 Il primo grande partito politico di massa italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza, la Chiesa cattolica e fu inizialmente  antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia nazionale. L’accettazione dell’ideologia democratica da parte della Chiesa cattolica, nella vita civile e, cautamente, anche nelle organizzazioni laicali, maturò tra il 1941 e il 1991.

68.2. La crisi dei partiti politici italiani ha portato ad un degrado della politica.

  L'affermazione della democrazia di popolo fu storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei partiti di massa e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi democratici. Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che determinò la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al popolo collegata in maniera vitale.

 Il primo partito politico italiano popolare, di massa, può essere considerato, sotto certi aspetti,  la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa particolarmente come fedeli e cittadini italiani.

  Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto precocemente, fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a cui è intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente, dal Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento, agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa configurazione è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur dopo le molte riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo (1962-1965). Ha cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in concomitanza con la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano e più precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento, quando la gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo piccolo regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri sovrani europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del laicato di fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per sostenere le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle loro mani la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di movimento di massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito politico di massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera dei Congressi, fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del Regno pontificio, la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo molti riferimenti ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a favore delle masse. L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino Pecci, Leone 13°,  diffusa nel 1891, fu il suo manifesto ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì, dando loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il via libera all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione sociale.

 Altri partiti di massa furono il Partito socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia mazziniana, fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse il divieto per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale nell'attività parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don Luigi Sturzo e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati il Partito Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati all'esperienza socialista,  in quanto il primo originò per scissione dai socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi esponenti del socialismo  italiano, il suo "Duce", vale a dire il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942, sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in particolare nella FUCI  (gli universitari cattolici), nel Movimento Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista fondarono il Movimento Sociale Italiano,  partito che ebbe un seguito popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista, un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.

 Ecco dunque descritti i principali attori dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del secolo scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni Novanta.

68.3.  La politica italiana è entrata in crisi negli scorsi anni '70. 

 Nel secondo dopoguerra si era prodotto in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di espansione economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del lavoro. Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere sociale a favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia del partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale della Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso" elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti  i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.

  Negli anni della Repubblica democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici e politici, il Parlamento, con le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si attendeva, vale a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva attuazione della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il sistema fu "bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i partiti che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e capitalista avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i suoi legami culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano, per quelli con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo.  Tuttavia il lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere, traducendole in norme di legge, alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione comunista e di dare comunque voce a quella "missina" ( come venivano chiamati gli aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle attese aveva riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera "alta" che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora invecchiata come l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici, nello scegliere i candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini nominati da questi ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il Senato non apparì assolutamente come una istituzione inutile, come è stata presentata dai fautori della riforma costituzionale respinta nel 2016 mediante un referendum popolare,  anche se i costituzionalisti, fin dai tempi della Costituente, consigliavano di specializzarne le funzioni in modo che non fosse un puro e semplice "doppione" della Camera dei deputati. In effetti il Senato non lo fu mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si manifestò la politica come ora la viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata "Seconda Repubblica", che è quella in cui caddero tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al governo di certe forze politiche e, nel medesimo tempo quella in cui la politica parlamentare, paradossalmente,  iniziò ad essere considerata una perdita di tempo.

 

 

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69

La sfida della pace

(21 febbraio 2016)

 

 L’idea di una pacifica convivenza tra i popoli a livello mondiale è recente e origina nelle culture più fortemente improntate dalla nostra fede religiosa, dal secondo dopoguerra. Fondamentale fu l’esperienza storica dei totalitarismi politici e ideologici europei dal primo dopoguerra, diffusisi in popoli di antica civiltà religiosa. La fede religiosa non sembrò aver costituito un ostacolo insuperabile alle divisioni e ai conflitti, anzi il più delle volte vi fu coinvolta. Un esempio spettacolare di ciò si ebbe durante il regime mussoliniano, in Italia, con il quale la nostra gerarchia religiosa, ma non tutta la gente di fede, accettò di conciliarsi. Lo stradone in stile cimiteriale che celebra quell’evento, e che fu realizzato distruggendo un antico quartiere popolare e deportandone gli abitanti, ne è ancor oggi l’immagine: la larga via che all’epoca fu aperta portava al regime mussoliniano e la Conciliazione con il papato fu senz’altro uno dei maggiori successi politici e ideologici del fascismo italiano. Con il senno del poi dobbiamo riconoscere che può dirsi l’opposto per il papato, anche se la sistemazione politica che fu data all’epoca vige tutt’oggi. La nuova via della pace ha avuto anche il senso di una  conversione  in senso religioso.

 La novità delle concezioni contemporanee sulla pace diffuse in Occidente è che esse non prevedono l’assimilazione dei popoli in un’unica fede o in un’unica ideologia, ma si propongono la convivenza delle diversità. Questo è stato il punto debole della nostra bimillenaria esperienza di fede.

  Se leggiamo storie delle nostre collettività religiose risalenti ancora alla metà degli anni Sessanta le troviamo viziate da un’incredibile faziosità, secondo la sensibilità contemporanea naturalmente. Quelle cattoliche sono in genere veramente ossessionate dal tentativo, realisticamente piuttosto difficile, di far risalire l’organizzazione del papato imperiale del secondo millennio ai primi secoli della vita delle nostre collettività religiose.

 Studiando i libri di storia religiosa si capisce perché la materia in essi trattata non è utilizzata, in genere, nella formazione religiosa comune, quella rivolta a tutti e non alla particolare cerchia degli specialisti o dei preti e religiosi. Innanzi tutto è piena di polemiche durissime delle quali oggi è arduo capire l’importanza per la vita di fede. E’ poi esprime una violenza ideologica e verbale, ma anche fisica che è intollerabile con la mentalità di oggi.

  A partire dal Quinto secolo i gerarchi religiosi latini si separarono da quelli di cultura greca, derivati dalle nostre più antiche collettività religiose, su questioni attinenti alla persona del Fondatore che vennero presentate in modi oggi (ma anche all’epoca) accessibili solo agli specialisti. Che riflesso potevano aver avuto sulla vita della gente comune? Davvero  i popoli che aderirono alle concezioni ritenute errate dai gerarchi romani erano cattivi? Durante diverbi tra gerarchi religiosi su quelle questioni, nel 449 a Efeso, una città di civiltà greca sulle coste mediterranee dell’attuale Turchia, il vescovo di Costantinopoli Flaviano fu picchiato e morì poco dopo.

  Ai tempi nostri l’argomentare dei teologi, almeno quando si rivolgono alla gente comune, è diverso. Si ragiona sull’esperienza comune per poi spiegarne il senso religioso. Ha maggiore importanza l’antropologia, la questione di come viene considerato l’essere umano nelle sistemazioni ideologiche che vengono proposte. Questo modo di procedere ha portato a un riavvicinamento con culture religiose della nostra stessa fede dalle quali ci si era separati. Questo è avvenuto con le collettività religiose che si sono riorganizzate sulla base dei principi religiosi proposti da Lutero, Calvino e altri riformatori religiosi del secondo millennio. Con i greci, i popoli di cultura ellenistica dai quali ci si è separati molto prima, c’è la difficoltà che le loro antiche collettività in Oriente sono in gran parte finite sommerse, sovrastate, dall’altra grande fede monoteistica diffusa in quelle regioni a partire dal Settimo secolo. Si cerca allora di  riconciliarsi  con i loro eredi, con l’ortodossia dell’Europa orientale e si scopre che non ci dividono da essa questioni di fede veramente fondamentali, ma essenzialmente l’assetto istituzionale imperiale del papato romano che fu dato nel basso medioevo. Ma è soprattutto la pacifica coesistenza nelle stesse nostre città con quelli delle altre confessioni a fare la differenza dal passato. Si scopre che si può vivere insieme, conoscendosi si finisce per stimarsi, e allora tutti gli arzigogoli teologici si appianano. In Italia molte chiese ortodosse hanno sede in chiese concesse dai vescovi cattolici perché non più utilizzate.

  Anticamente la gente comune rimaneva a fare da spettatrice a certi azzuffamenti teologici e gerarchici. Era un po’, ma non sempre, nello stato di gregge. Nel secondo millennio è stato diverso. Le spiritualità nuove prorompevano dalla gente comune e i capi religiosi faticavano a venirne a capo. La scoperta, in Occidente nel Quattrocento, della stampa tipografica mise la cultura religiosa alla portata delle masse. Stiamo vivendo una rivoluzione analoga con il WEB, il trattamento telematico delle informazioni consentito dalla rete internet e dalla sua interfaccia sugli schermi dei nostri computer, organizzata in modo da essere accessibile anche ai bimbi più piccoli. Questa possibilità di renderci conto dei problemi ci responsabilizza molto. Siamo spinti ad uscire dallo stato di gregge e abbiamo gli strumenti per farlo. In un certo senso la nostra nuova Europa si fonda su questa nuova realtà. Le divisioni che oggi la minacciano interpellano i suoi popoli. Essi hanno imparato a convivere e a conoscersi. E’ più difficile rinchiudersi nell’egoismo del passato e fondare partiti del Noi soli. Anche i capi politici nazionalisti, che spingono per la chiusura della frontiere, paradossalmente creano internazionali politiche.  E’ lo stesso anche per le questioni in materia di fede. Certe forme di spiritualità non soddisfano più e, soprattutto, non servono più.

  Parlare di pace, come oggi la intendiamo, è facile e anche bello, realizzare la pace è molto più difficile, anche in religione. La vita nelle parrocchie lo dimostra. A volte la coesistenza tra le loro componenti è piuttosto precaria. A volte si ricade nei vizi delle origini, nella brutta abitudine di lanciarsi anatemi, vale a dire scomuniche, senza avere nemmeno, tra l’altro, il potere giuridico. E questo anche se la gente della nostra fede, dal secondo dopoguerra, ha mostrato molti modi perfare pace e l’Europa contemporanea, pur con tutti i suoi attuali problemi, ne è la dimostrazione.

  Joseph Ratzinger qualche anno fa diffuse un’enciclica la Carità nella Verità  (2009) in cui affrontò sostanzialmente la questione se venga prima la carità, il  fare  il bene agli altri, o la  verità, il dire  cose coerenti con il patrimonio di fede, entrando in una inedita polemica con il suo predecessore Giovanni Battista Montini, il quale nell’enciclica  Lo sviluppo dei popoli  (1967) aveva lanciato un forte appello a tutte le persone di buona volontà a fare il bene, affermando che  lo sviluppo è il nuovo nome della pace, anche in senso religioso.

 Certe questioni noi laici di fede possiamo tranquillamente lasciarle ai teologi di professione, come lo stesso Ratzinger è stato per gran parte della sua vita.

 La mia opinione  è che ci si debba concentrare, noi che non siamo teologi, sulla faccenda del  fare il bene, e innanzi tutto nel  volersi bene, nel fare pace come oggi lo si intende, comprendendo in quell’azione anche lo sviluppo  dei popoli e delle singole persone, per poi cercare il senso religioso del bene che ci è riuscito di fare, quindi non ragionando sulle sole intenzioni ma sui risultati ottenuti. Nella questioni di fede, infatti,  è vero che, come si dice, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

 

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Impegno civile come attività religiosa

(3 gennaio 2015)

Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo culturale dei nostri tempi, ha affermato in “Tristi tropici”, che in tutta la storia umana, solo due sono state le strategie impiegate allorché si è dovuto risolvere il problema diversità altrui: una è stata la strategia “antropoemica”, l’altra la strategia “antropofagica”.

 La prima consisteva nel “vomitare”, nello sputar fuori gli altri, considerati come esseri incurabilmente estranei e alieni, nel vietare il contatto fisico, il dialogo, i rapporti sociali e qualsiasi tipo di«commercium» [=relazione di mutuo scambio], commensalità  o«connubium» (=alleanza basata su una relazione affettiva profonda).Varianti estreme di questa strategia “emica” sono oggi, come sempre, l’incarcerazione, la deportazione e la soppressione fisica. Sue forme aggiornate, “raffinate” (modernizzate) sono la separazione spaziale, i ghetti urbani, l’accesso selettivo agli spazi.

 La seconda strategia consiste in una cosiddetta “disalienazione” delle sostanze estranee: nell’«ingerire», «divorare» i corpi e gli spiriti estranei  in modo da renderli , attraverso il metabolismo, identici e non più distinguibili dal corpo che li ingerisce. Tale strategia assunse una parimenti varia gamma di forme, dal cannibalismo all’assimilazione forzata: crociate culturali, guerre dichiarate ai costumi, calendari, culti, dialetti e altri «pregiudizi»  e «superstizioni» locali. Se la prima categoria mirava all’esilio e alla distruzione degli “altri”, la seconda puntava all’annullamento o distruzione della loro “diversità”.

 

[da: Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2011 (opera edita per la prima volta in Gran Bretagna nel 2000]

 

  Sono nato, sono cresciuto e mi sono formato in un ambiente religioso che dava molto importanza all’impegno civile, inteso come il partecipare alla collettività politica per costruire la città dell’uomo(espressione risalente a Giuseppe Lazzati, 1909-1986), vale a dire una società benevola verso tutti gli esseri umani. In una società pluralistica come quella in cui siamo immersi l’impegno civile richiede di essere democratico, vale a dire aperto al dialogo e alla collaborazione con chi su molte cose la pensa diversamente ma è unito a noi dalla comune umanità. 

  A volte però, in religione, si ritiene che il metodo del dialogo sia inutile e anche controproducente, perché potrebbe portare a contaminazione. Per reagire alla diversità altrui, vengono impiegate entrambe le tecniche sunteggiate da Lévi-Strauss: l’esclusione e l’assimilazione.

 Da un lato si costruiscono frontiere ideologiche strettamente presidiate e isolate dal contesto sociale intorno. All’interno, salvo che nel ruolo di semplice consumatore  di servizi religiosi, è ammesso solo chi accetta la conformità di pensiero, o, almeno, si impegna a non contestarla, per amore di pace, come si dice. D’altro lato, chi è ammesso all’interno viene esortato a farsi digerireassimilare, divenendo  parte di una collettività di uguali, in cui è abolita ogni diversità (e quindi la necessità di un vero e franco dialogo), e in cui questa uguaglianza è realizzata mediante la pratica  dell’obbedienza  verso dei formatori, in cui ogni pensiero critico non viene accolto tanto bene.

 Si tratta di ideologia piuttosto lontana da quella indicata come preferibile nei documenti del Concilio Vaticano 2°.

  In realtà essa, benché la si voglia riferire alle origini, in realtà proiettando  non del tutto a proposito  sul passato nostre attuali concezioni, diverge marcatamente dai costumi delle nostre collettività religiose di tutti i tempi, in cui l’impegno civile ha avuto una parte fondamentale: altrimenti non parleremmo oggi di radici religiose dell’Europa. Essa ha infatti origine storica piuttosto recente e precisamente in epoca fascista. Fu allora che, a seguito del compromesso raggiunto all’epoca dai nostri capi religiosi con il regime fascista, la religione si impegnò a  non occuparsi di politica (in realtà, così facendo, dando un formidabile appoggio al regime fascista), quindi delle cose della città dell’uomo. Era scritto nel Concordato che fu stipulato nel 1929 e che fu in parte superato con l’avvento della Costituzione repubblicana entrata in vigore del 1948 e, definitivamente, con gli Accordi di revisione di quel Concordato, stipulati nel 1984.

   Bisogna che sia più chiaro che, nonostante tutte le metafore sociali che utilizziamo a fini propedeutici, per rendere in termini semplici un’idea di cose molto difficili da capire, noi partecipiamo a una collettività, ne siamo anche responsabili; possiamo riconoscere anche di essere generati alla fede in una collettività, ma assolutamente non da una collettività: infatti, come è scritto, noi dobbiamo rinascere dall’altoQuindi poi nessuno può sentirsi obbligato a farsi digerire o  generare  o rigenerare da una certa collettività, per quanto poi possa decidere liberamente di farlo.

  Il metodo di assimilare  persone in una collettività di fede che si vieta l’impegno civile, inteso come relazioni con chi la pensa diversamente, porta alla progressiva emarginazione delle persone di fede. Alla situazione, per intenderci che si sviluppò nell’Ottocento nel conflitto tra il nostro nazionalismo e le pretese politiche del Papato ad un suo regno intorno a Roma. Sentiamo gli altri come estranei e da loro siamo sentiti estranei. Per farceli amici chiediamo troppo, chiediamo loro di farsi digerire; loro non ci stanno e noi li vomitiamo.

 L’impegno civile nella nostra Repubblica, come è configurato nella vigente Costituzione,  si basa su una concezione  personalistica che è stata ideata in ambito cattolico negli anni ’30, sulla base di un filone di pensiero che risale al Medioevo e che ha basi scritturistiche. Tale concezione si basa sul rispetto della dignità della persona umana, sia come singola sia nelle formazioni sociali a cui partecipa. Questo significa che non è ammesso che una formazione sociale possa digerire una persona. Ma, a ben vedere, questo principio  digestivo è estraneo anche all’ideologia insegnata dai nostri capi religiosi. Infatti la nostra fede si basa su una conversione intesa come processo di metamorfosi personale e libera. In particolare, nei nostri scritti sacri non ci viene mai presentato il nostro Maestro impegnato in attività propriamente  digestive.

 La mia formazione religiosa ha compreso anche insegnamenti su come partecipare a una collettività di fede da laico. Essa è stata condotta nello spirito del Concilio Vaticano 2°, i cui principi vennero entusiasticamente accolti nell’ambiente religioso della mia famiglia. Il laico deve partecipare a una collettività di fede mantenendo integra la sua dignità di persona umana e rispettando la dignità personale degli altri fedeli. Si tratta di cosa di cui occorre fare tirocinio.

 L’impegno civile è appunto quel tipo di relazioni con gli altri che ci permette di collaborare con chi la pensa in modo diverso da noi per costruire qualcosa di comune, in religione o altrove. Esso, nella nostra  fede, ha avuto sempre una forte valenza religiosa, della quale non sempre, però, si è mantenuta consapevolezza.

 

 

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71

Spunti per un dialogo politico su democrazia di popolo e fede cristiana.

(29-1-15)

 

71.1. Note di metodo

 Questa conversazione si propone di stimolare un franco dibattito politico tra persone di fede.

 Non proporrò contenuti eruditi. Farò invece riferimento ad alcune idee chiave tratte dalla storia delle nostre collettività permeate dal pensiero religioso.

  Perché il dialogo sia veramente libero non farò riferimento esplicito ad alcun documento di autorità religiose, né menzionerò queste ultime. Presenterò in forma anonima il pensiero sociale che storicamente espressero. Esso potrà  così essere analizzato e criticato senza alcuna remora.

 Inizierò definendo che cosa intendo per politica.

 Proseguirò tratteggiando alcuni tratti caratteristici di ciò che ho chiamato democrazia di popolo.

 Richiamerò la storia del pensiero politico espresso nella nostra fede religiosa, con particolare riferimento all’Italia.

 Infine analizzerò i problemi che oggi in Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla democrazia di popolo.

 La mia formazione è giuridica, ma di pratico del diritto, non di teorico. Ho ricevuto una formazione politica dal lungo contatto con mio zio Achille, persona di fede, professore di sociologia e politico.

 71.2. La politica

  Definisco politica l’attività di governo delle società umane. Un’attività di questo tipo si riscontra anche in collettività poco numerose e primitive. E’ stata ritenuta una caratteristica degli esseri umani come viventi sociali.

 Lo studio delle collettività primitive ci può dare un’idea dello sviluppo delle attività propriamente politiche. Una delle linee di costituzione di un’autorità politica può individuarsi, nelle collettività di tipo patriarcale, nell’espansione del potere monocratico di un maschio dominante su collettività di parenti o servitori. Nella nostra cultura l’idea di autorità è ancora piuttosto legata a quella di paternità e ciò per un retaggio storico molto risalente nel tempo e radicato nelle diverse culture che si sono incontrate, scontrate e ibridate intorno al bacino del Mediterraneo.

 Le nostre concezioni sulla politica impiegano tuttora schemi di pensiero originati nelle filosofie dell’antica Grecia. Solo dall’Ottocento si è cominciata a impiegare l’analisi sociologica per capire i problemi politici.  Una particolare chiave interpretativa della politica è stata proposta dal marxismo a partire dalla medesima epoca: essa è particolarmente caratterizzata dall’analisi storica dell’evoluzione delle società umane. Sociologia e marxismo convergono nell’individuare all’origine del potere politico le dinamiche sociali delle popolazioni umane. In quest’ottica tutta la storia della politica è stata reinterpretata utilizzando le acquisizioni di queste discipline. Per capire la politica e per prevederne gli sviluppi si ritiene necessario capire le società in cui essa si manifesta.

71.3. La democrazia di popolo

  Definisco democrazia un regime politico in cui l’autorità è legata in misura più o meno intensa alla volontà collettiva dei governati, sia nella scelta di chi la esercita sia nei suoi metodi, finalità generali e obiettivi concreti. Non consiste solo nel metodo maggioritario per adottare decisioni collettive. Si fonda anche su un sistema ampio di diritti di libertà, per consentire la partecipazione al dibattito politico e ai processi decisionali collettivi. In democrazia è essenziale la possibilità di un dialogo fra soggetti liberi. Anche nel definire concettualmente i caratteri della democrazia si è soliti fare riferimento a modelli realizzati e teorizzati nell’antica Grecia. Tuttavia la democrazia come ai tempi nostri la si intende è un’esperienza sociale che non è mai esistita prima del secondo dopoguerra. E non è mai stata neppure teorizzata prima degli scorsi anni Venti. Il nostro mondo è veramente un nuovo  mondo. La chiamo democrazia di popolo per distinguerla dalle precedenti esperienze storiche.

 Il suo archetipo è il regime politico emerso a fine Settecento dalla rivoluzione statunitense, che è stata espressa anche mediante temi religiosi tratti dalla nostra fede. Quell’esperienza, anche se in genere non se ne ha consapevolezza, non è stata solo una secessione dal dominio di una monarchia europea, ma è stata propriamente una rivoluzione. Ha infatti instaurato un nuovo modello di società, fondato su un’ideologia  egualitaria su basi religiose, secondo la quale tutti gli essere umani sono stati creati uguali e con diritti inviolabili.

Crediamo in queste verità che sono evidenti di per sé stesse, che tutti gli uomini sono creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti, e tra questi il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità. Per assicurare questi diritti sono costituiti i Governi tra gli uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri dal consenso dei governati.[Dichiarazione d’Indipendenza delle Tredici Colonie, costituitesi in Stati Uniti d’America, 4 luglio 1776].

 E’ proprio da questa ideologia, più che da quella espressa dopo pochi anni dopo dalla Francia rivoluzionaria, che derivano le democrazie di popolo contemporanee. E ciò innanzi tutto per il fatto che la democrazia statunitense ha avuto una durata molto più lunga di quella espressa dalla rivoluzione francese, che fu veramente effimera. Essa ha potuto quindi costituire un modello duraturo sul quale si sono innestati gli sviluppi successivi. Poi per il fatto che nel secondo dopoguerra quel modello fu preso come riferimento per riorganizzare i regimi politici europei. Il più importante e duraturo contributo della rivoluzione francese alle democrazie di popolo contemporanee è stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino  del 1789, la base dello stato di diritto: ogni autorità è soggetta alla legge e quest’ultima deriva dalla volontà generale alla quale tutti hanno diritto di concorrere;  gli esseri umani nascono  liberi e uguali, dotati di diritti inviolabili.

 L’uguaglianza nell’ottica di quelle rivoluzioni è un’uguaglianza in dignità. Essa è affermata religiosamente, vale a dire in modo pregiudiziale e assoluto,  a prescindere da qualsiasi riscontro effettivo nella realtà (uso il termine religioso  in questo particolare senso, come lo intendeva il filosofo Aldo Capitini).

 L’altro fattore da cui sono scaturite le democrazie di popolo contemporanee è stato  l’apporto del socialismo, dall’Ottocento. In quest’ottica la politica viene concepita come uno strumento per rendere effettiva  l’uguaglianza in dignità mediante la giustizia sociale. Tra i diritti inviolabili vengono inclusi anche alcuni  diritti sociali, ad esempio quello alla libertà dal bisogno, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Nell’insieme costituiscono presidi della giustizia sociale e si aggiunsero ai diritti di libertà proclamati nelle rivoluzioni americane e francese del Settecento.

 In merito si ricorda come archetipo la costituzione tedesca di Weimer del 1919, di cui trascrivo una norma significativa.

 

Art.151. L’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da tutelare la libertà economica dei singoli.

 

 Altro archetipo è considerato la costituzione sovietica del 1936 (detta di Stalin), in cui erano previsti il diritto al lavoro e al riposo, all’assistenza materiale nella vecchiaia e nella malattia o in caso di inabilità al lavoro, all’istruzione, all’uguaglianza in dignità, oltre ai diritti di libertà previsti delle costituzioni rivoluzionari settecentesche che ho sopra ricordato.  Trascrivo due articoli particolarmente significativi.

 

 122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica. […]

123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge irrevocabile.

Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.

 

 Dalla storia sappiamo che nell’Unione Sovietica questi diritti rimasero in gran parte solo nelle costituzioni, non divennero mai realtà. Quella costituzione tratteggiò un mondo nuovo che rimase però sempre a livello ideale.

  Le previsioni costituzionali relative ai diritti fondamentali e inviolabili delle costituzioni che ho citato furono presi come riferimento nel secondo dopoguerra dai saggi della nostra Costituente, nel 1947, i cui lavori  precedettero quelli per la redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, approvata nel 1948. Da quest’ultima scaturì la concezione contemporanea della democrazia a livello planetario, come regime politico universale destinato a realizzare una reale eguaglianza in dignità degli esseri umani,  a prescindere dalla loro condizione di cittadinanza politica particoare,  mediante l’effettività dei diritti fondamentali e inviolabili, in particolare di quelli sociali, a livello universale. Riporto un articolo particolarmente significativo della Costituzione italiana vigente:

 

Art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 

 Il secondo comma è stato scritto dal socialista Lelio Basso. L’universalità della concezione politica sottostante, espressa poi anche nella dichiarazione ONU, risalta dal fatto che vengono ripudiate le discriminazioni su basi etniche e linguistiche, rendendo la nuova Repubblica una democrazia non solo per  gli italiani e degli italiani. Considerata l’importanza che ebbero elementi cattolico-democratici nella redazione dei principi fondamentali di quella Costituzione, la possiamo considerare anche come espressione di una teologia politica.

 L’ultimo fattore decisivo per la creazione delle democrazie di popolo è stato il suffragio universale, che in Italia è stato realizzato solo dal 1946.

 Una democrazia di popolo è un regime con amplissima base popolare e basato su un’idea di uguaglianza molto legata alla giustizia sociale da realizzare mediante riforme sociali introdotte con l’autorità delle leggi. L’obiettivo delle democrazie di popolo è la trasformazione delle società per rimuovere le cause di infelicità e di discriminazione.

71.4. Il pensiero politico espresso dalla nostra fede religiosa, con particolare riferimento alla situazione italiana.

 Di solito non si ha sufficiente consapevolezza che i cristiani molto presto svilupparono un pensiero politico su basi di fede.  In caso contrario l’ideologia politica basata sulla fede cristiana non avrebbe potuto sostituire, nel giro di quattro secoli quella basata sull’antica religione politeistica. In particolare non se fa menzione nella formazione religiosa di primo e secondo livello. Si passa dai cristiani perseguitati dal potere imperiale romano agli imperatori cristiani.

 Un indizio della precoce partecipazione dei cristiani alla vita politica lo possiamo trovare nella Lettera a Diogneto, che si fa risalire alla fine del secondo secolo:

 

[I cristiani] abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri residente; a tutto partecipano attivamente come cittadini, a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria terra straniera. [V,5].

 

 Conquistato lo stato romano, l’ideologia politica dei cristiani fu, in genere, quella di ritenere che lo stato fosse espressione del popolo cristiano e che il monarca dovesse svolgere anche compiti di guida religiosa. Il politologo Gianni Baget Bozzo considerò come archetipo di questa mentalità il pensiero del vescovo, teologo e storico  Eusebio di Cesarea (265-340). La dimostrazione di quanto essa si fosse radicata è che tutti i concili ecumenici del primo millennio, dal primo di Nicea (325) al settimo di Costantinopoli (879), furono convocati da imperatori. L’ideologia del monarca come capo civile e religioso del popolo cristiano fu fondata sulle narrazioni veterotestamentarie adattate ad una situazione storica molto diversa e rimase latente in Europa fino all’avvento della secolarizzazione del potere politico, nell’Ottocento. Sempre su base veterotestamentaria fu fondata, in Occidente, la parallela ideologia che affermava una supremazia  politica del potere religioso su quello civile. Il popolo cristiano, in Occidente, finì per avere due padri che pretendevano di governarlo, ma solo nel secondo millennio si produsse una vera e propria competizione politica tra di essi. Nel quinto secolo le invasioni dal Nord Europa provocarono il crollo della nuova civiltà cristiana in Occidente: un evento che fu vissuto come una catastrofe anche religiosa. La storia che seguì può anche essere interpretata come un tentativo del potere religioso occidentale di porvi rimedio. In effetti gli invasori erano già venuti a contatti con la civiltà imperiale mediterranea e la prendevano come modello di potere politico. Ciò rese possibile assimilare la loro cultura in quella politico/religiosa formatasi a partire dal quarto secolo. E produsse l’emergere del patriarcato romano, uno dei cinque del cristianesimo delle origini (Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli e Roma), come imperatore religioso e politico. Il processo iniziò nel settimo secolo, sotto dominio longobardo: al papato fu assegnato un regno territoriale nell’Italia centrale. Questo dominio fu confermato in epoca carolingia, nel nono secolo, nella quale il papato si federò con l’impero dei franchi adottandone la struttura feudale nella sua organizzazione ed iniziando ad agire come sovrano propriamente politico. Questa struttura di potere politico, fondata su due padri  del popolo, su due imperatori  politico/religiosi, fu rafforzata dalle necessità di difesa dalle travolgenti invasioni islamiche. In Oriente rimase invece l’organizzazione politico religiosa del passato imperniata sull’imperatore, con il patriarca religioso, l’ultimo rimasto in Oriente, in posizione subordinata. Il consolidamento del potere imperiale del papato avvenne nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Fu basato su labili collegamenti neotestamentari, sull’idea di un impero politico-religioso come espressione della regalità divina, di cui il papato era manifestazione vicaria (teologia del papato risalente al tredicesimo secolo). Nel Basso Medioevo, dai costumi delle città medievali occidentali del secondo millennio, si produsse l’idea che il mantenimento della pace politica e religiosa fosse fondamentalmente un problema criminale, da affrontare irrogando pene efferate. Pace  a quell’epoca era una delle denominazione del diritto criminale. Da ciò l’istituzione di polizie politiche di natura politica-religiosa la cui manifestazione più eclatante fu l’Inquisizione cattolica. Ne può essere considerata un’estensione la guerra di crociata, in particolare quella condotta nel tredicesimo secolo contro i dissenzienti religiosi albigesi. In un’ottica di fede, fino all’inizio dell’Ottocento, la politica venne vista come un problema di fedeltà ad un capo politico/religioso; in Occidente anche come quella ad uno o ad entrambi gli imperatori religiosi emersi dal primo millennio. I fedeli, in genere, o erano sudditi o capi feudali assoluti.  Nel secondo millennio cominciarono a manifestarsi idealità di giustizia sociale a base popolare ed evangelica: esse dovettero però venire a patti con i padri  politico-religiosi, con le gerarchie assolutistiche monarchico-feudali civili e/o religiose, entrambe esercitanti poteri propriamente politici,  o vedersi da essi duramente represse come espressioni criminali. Esperienze di tipo di tipo tendenzialmente democratico furono organizzate nell’Europa occidentale fin dagli inizi del secondo millennio da statuti cittadini e intorno alle corti dei sovrani, ma, a parte il caso dell’importante  influsso del calvinismo politico, la prima espressione di una teologia politica su base democratica, e quello delle rivoluzioni parlamentari  inglesi del Seicento, prodottesi in collettività di fede affrancate dal centralismo religioso romano, l’idea di affidare ai popoli la definizione dei valori supremi delle società, ciò che definiamo giustizia sociale, ebbe difficoltà ad essere integrata nelle concezioni di fede. Del resto, nelle Scritture quel tipo di democrazia semplicemente non c’è, per il contesto storico in cui esse si formarono, e di ciò ha risentito la teologia su di esse costruita. C’è però un’idea che è risultata al centro delle ideologie democratiche contemporanee: l’uguaglianza in dignità.  La possiamo trovare sintetizzata in questo passo della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28. Vers.CEI 2008).

  I processi storici e sociali da cui sono emerse le democrazie contemporanee furono avviati, sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento, anticipati sul piano ideologico dal pensiero liberale  e illuminista. Ma fu l’Ottocento il secolo del loro crogiolo. In Italia il confronto con le collettività di fede fu particolarmente drammatico per i prevalere di fortissime tendenze reazionarie, appoggiate da efficienti organizzazioni di polizia ideologica. In origine non anti-religiosi, i moti rivoluzionari espressi nel Risorgimento italiano, divennero anticlericali per le difficoltà incontrate nel processo di unificazione nazionale ad opera delle organizzazioni clericali. Il motto del mazzinismo “Dio e popolo” indica che una integrazione tra tendenze democratiche e fede religiosa era possibile, ma essa fu duramente repressa. La storia delle collettività di fede italiane dalla metà dell’Ottocento può essere interpretata come un faticoso processo di integrazione tra idee religiose, idee di giustizia sociale e  idee di democrazia politica, con uno scontro durissimo su base ideologica tra diverse componenti sociali religiose, che lasciò importanti tracce, oltre che nella storia nazionale, anche nelle biografie dei più importanti personaggi di fede di quel periodo, ad esempio in quelle di Romolo Murri, il fondatore del movimento democratico-cristiano, e di  Giuseppe Toniolo. Fino alla metà degli anni Quaranta prevalsero tendenze reazionarie, con conseguenze tragiche sul piano politico. Il ritardo dell’integrazione democratica dei cattolici spianò infatti la strada al fascismo storico. Si riteneva, da molti, che, al di fuori di un’organizzazione paternalistica, fortemente accentrata, la fede religiosa si sarebbe corrotta. La democrazia era vista, secondo un filone dell’antico pensiero greco, come fonte di disordine culturale e sociale. Il crollo del fascismo storico e il ruolo dei cattolico-democratici nella lotta antifascista e nell’organizzazione della nuova Repubblica aprirono un nuovo corso.  L’ideologia di fede sottostante era stata lungamente elaborata in circoli ristretti a partire dal pensiero dei filosofi francesi Jacques Maritain e Emmanuel Mounier. Il processo ebbe una tappa importante negli anni Sessanta, ma l’idea che il regime democratico fosse quello preferibile risale, nella teologia cattolica, addirittura al 1991. E’ una storia non ancora conclusa, in particolare nell’Italia di oggi, dove l’influenza clericale in politica è stata fortissima.

71.5. Problemi che oggi in Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla democrazia di popolo.

  L’idea che in religione non si debba parlare di politica è un portato del fascismo storico e in particolare del compromesso, da molti ritenuto disonorevole, concluso tra la nostra gente di fede e il Mussolini nel 1929. In quel modo il fascismo chiuse la bocca al cattolicesimo democratico, ma, più in generale, ad ogni forma di teologia politica.

 La scelta religiosa che fu fatta in alcuni ambienti di fede negli anni scorsi anni Sessanta, sulla scia dei risultati dell’assemblea di saggi della nostra confessione religiosa svoltasi all’inizio di quel decennio, fu cosa profondamente diversa. Liberò la fede dalla politica di partito, aprendola al pluralismo e proponendosi una formazione e un tirocinio collettivi in merito. In quell’epoca, infatti, sulla base di un pensiero teologico avviato nel secondo dopoguerra, i problemi politici vennero concepiti anche come problemi religiosi, quindi in un’ottica di fede.  Fu infatti scritto:

 

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. [1965].

 

E anche:

 

Noi scongiuriamo per primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non meno che altrove, i laici devono assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell’ordine temporale. Se l’ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di vita. Sono necessari dei cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde: essi devono impegnarsi risolutamente a infonder loro il soffio dello spirito evangelico. [1967].

 

 Divenne  quindi centrale e possibile, ma di attuazione piuttosto  difficile nelle nostre collettività di fede, ciò che venne efficacemente sintetizzato, in queste righe:

 

“La Chiesa […] con il II Concilio ha mutato profondamente il suo rapporto con la società e l’umanità. Dalla difesa del proprio campo di missione spirituale nel temporale (obiettivo della nuova cristianità elaborato nei confronti dell’età moderna) intende passare all’apertura evangelizzatrice a tutti gli uomini, al campo della societas hominum, sul fondamento della sola, comune, natura umana.                                                                                […]

E’ nella comunità di Chiesa locale che l’unità nell’essenziale e il pluralismo di partecipazioni politiche e sociale debbano convivere se non integrarsi nella tensione talora, mai nella dialettica profana, nella dialogicità spesso, che non esclude, anzi fa crescere la funzione di guida e di autorità dottrinale e pastorale della gerarchia come la partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale dei laici, nella Chiesa e nella storia.           […]

 Sotto questo profilo, tutta l’innovazione della Gaudum et Spes e dell’intero concilio sembra concentrarsi in quel paragrafo 4 della Octogesima Adveniens di Paolo VI che così fatica a trovare (ma il convegno ecclesiale del novembre ’76 [Evangelizzazione e promozione umana] ne è un luminoso esempio) applicazione e sviluppi pastorali. […] La comunità di Chiesa locale, guidata dal Vescovo, [deve essere] assunta anche come luogo di confronti tra credenti, pure tra credenti con scelte politiche diverse, per cercare insieme le vie essenziali di impegno di tutta la Chiesa locale alla necessaria trasformazione della società in cui la comunità di Chiesa opera, per l’evangelizzazione e la promozione umana”.[Achille Ardigò, “Toniolo: il primato della riforma sociale. Per ripartire dalla società civile”, 1978]

 

 In quest’ottica, in religione si dovrebbe parlare di politica.  Una importante manifestazione del nuovo corso, per la verità rimasta quasi l’unica, fu il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, svoltosi a Roma nel 1976. Le difficoltà emerse negli scorsi anni Settanta portarono, dagli anni ’80 al prevalere di orientamenti paternalistici, in quello che, nel campo fede/democrazia, può essere visto come un lungo inverno, nonostante il recepimento della democrazia nel pensiero teologico. La pratica, quindi, non fu all’altezza della teoria. Significativo di questo sviluppo mi pare sia stato l’appello all’astensionismo dei cattolici in occasione di un referendum su tema sensibile  per la fede, nel 2005. E anche la dura repressione delle teologie di liberazione di origine latino-americana. Oggi siamo autorevolmente invitati a far ripartire quel processo di sviluppo democratico nella pratica delle nostre collettività di fede, ma sembrano mancare risorse sufficienti a farlo. Secondo il costume dell’ultimo trentennio, si attendono ancora, paternalisticamente, istruzioni dettagliate dall’alto, invece di suscitare un movimento in basso. Quest’ultimo dovrebbe avere come protagonisti i laici di fede, più coinvolti del clero nei processi sociali democratici.

71.6.  Da quanto ho esposto, emerge la necessità di fare tirocinio di democrazia anche nelle nostre collettività di fede, in particolare nella formazione permanente dei laici di fede, impegnati con primaria responsabilità nel compito collettivo di infondere valori nella società civile in cui sono immersi, alla quale partecipano con poteri sovrani.

  E’ passato ormai mezzo secolo da quando si prese consapevolezza di questo, ma ancora quel tipo di tirocinio è piuttosto ostico negli ambienti religiosi. Lo si vede con sospetto, come fonte di disordine. Ma è proprio per affrontare in modo ordinato il metodo democratico che esso occorre.

 Storicamente le genti di fede sono state ammaestrate ad obbedire e, in particolare, ad obbedire tacendo. “Obbedir tacendo” fu un motto dell’Arma dei Carabinieri ed esso ha un senso preciso negli ambienti militari: significa abnegazione nello sforzo di contribuire a un risultato comune che richiede compattezza e coordinazione. Si ricorda che anche il Garibaldi, rivoluzionario repubblicano risorgimentale, obbedì alle autorità militari sabaude in diverse occasioni, in particolare con un famoso telegramma spedito durante la Terza guerra d’indipendenza, la cui immagine ho incollato qui sopra, e poi al termine della stupefacente conquista delle regioni del regno borbonico dell’Italia meridionale. Ma la sua obbedienza non fu solo una questione militare: fu prima di tutto frutto di una valutazione realistica delle prospettive dell’unificazione nazionale e dello sviluppo di uno stato degli italiani che sostituisse il precedente pluralismo regionale, creando innanzi tutto un popolo capace di autogoverno, nelle forme democratiche all’epoca vigenti e concretamente possibili, alle quali egli stesso  partecipò vivacemente nel dibattito politico.

 Democrazia significa autogoverno del popolo: essa richiede la capacità culturale di elevarsi alla sovranità. Nel momento in cui si è deciso, anche in religione, tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo scorso, che non solo le persone di fede debbano sentire il dovere religioso di partecipare all’autogoverno della società in cui sono immerse, ma anche che i regimi democratici sono quelli preferibili per il governo delle società, è chiaro che, accanto al tradizionale tema della disciplina, dell’obbedienza, deve farsi strada quello del tirocinio all’autogoverno, ad essere sovrani nella società e ad esserlo collettivamente, secondo il metodo democratico incentrato sul dialogo. Non c’è altro modo, infatti, per influire efficacemente nello sviluppo di società democratiche. In quest’ottica, “la politica è la più alta forma di carità”, come insegnava il beato Giovanni Battista Montini. E,  non dimentichiamolo, fu san Karol Wojtyla  a insegnarci, con la sua lettera del 1991 in occasione dei cento anni dalla lettera del suo predecessore che aveva inaugurato il magistero sociale, che la democrazia è il regime preferibile, anche in un’ottica di fede.

 Nella prospettiva democratica, come sosteneva Lorenzo Milani, l’obbedienza non è più una virtù, se significa sottrarsi al compito della sovranità collettiva.

 La base del tirocinio democratico è la coscienza storica. Essa mi pare carente nella formazione religiosa di primo e secondo livello e anche in quella degli adulti e, in particolare, qui da noi. Questo significa che, poi, il rapporto della nostra gente di fede con la democrazia sarà piuttosto problematico. In ogni questione si andrà ansiosamente alla ricerca di una sorta di padre a cui sottomettersi, secondo un costume bimillenario in religione. Ma la scelta del padre, in mancanza di sufficiente memoria storica, avverrà con criteri superficiali, sulla base di apparenze di autorità, di forme luccicanti, di sicumere esibite, di conformismo collettivo o di puro legalismo.

 In religione ci troviamo a dover convivere con molti padri i quali pretendono obbedienza paternalistica. La democrazia però consiste in un certo senso proprio nel sindacare questa autorità paternalistica e, nella mentalità democratica, si vorrebbe riscoprire, nell’esercizio dell’autorità, il valore di una certa saggezza. I padri ce li troviamo davanti per ragioni per così dire  di natura, saggi invece si diventa e si deve essere riconosciuti.

71.7. In genere nelle nostra collettività di fede non sappiamo parlare efficacemente di libertà. Mettiamo subito le mani avanti, presentando tutti i guasti che la libertà produrrebbe. Questo ci impedisce di lasciarci coinvolgere nel pensiero democratico, che è centrato sull’idea di libertà. Non di rado si finisce per dire che l’unica vera libertà è nell’obbedienza a ciò che ordinano i nostri capi religiosi, anche se ciò viene presentato come obbedienza alla volontà divina. Purtroppo la storia ci insegna che questa soluzione non è stata sempre soddisfacente. E’ in questo senso che Lorenzo Milani scrisse che l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.

   All’inizio ho incollato un’immagine della Statua della libertà, a New York. Ho ricordato che sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus:

“Datemi chi tra voi è esausto e povero,

le vostre masse che si accalcano nell’anelito di libertà,

i  miseri rifiuti della vostre popolose terre.

 Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli sventurati,

innalzando la mia luce mostrerò loro la porta d’oro!”.

  Questa lirica rende bene, con forte impatto emotivo, il senso dell’azione di liberazione che è propria della democrazia e dell’idea democratica di libertà, presenti con molta forza nel pensiero che ispirò la rivoluzione americana del 1776, con esplicite radici di fede. E spiega perché, anche da cristiani, noi ci dobbiamo innamorare della libertà.

  In democrazia libertà significa libertà di essere giusti.  La giustizia sociale è al centro dell’idea democratica di libertà. Democrazia significa pensare, tutti insieme, con metodo basato sul dialogo, un mondo nuovo, in cui essere liberi di essere giusti. E’ questa la politica democratica. Che richiede di elevarsi dalla soggezione all’ingiustizia alla libertà di essere giusti. Il disegno preciso di questo mondo nuovo non c'è nelle nostre scritture sacre, che risalgono a tempi antichi, in cui l'idea di una democrazia di tutti non era stata ancora prodotta, anche se, in ambiente ellenistico, a cui però l'ebraismo delle origini cristiane era in genere ostile, la cultura possedeva varie teorizzazioni sulla democrazia. Nelle scritture sacre possiamo trovare principi di giustizia sociale e, innanzi tutto, l'idea di pari dignità degli esseri umani, creati uguali, ma non la democrazia  di tutti come noi oggi la intendiamo. Ciò non significa che democrazia e fede non possano essere conciliate. La rivoluzione statunitense di fine Settecento dimostra proprio il contrario.

Libertà di essere giusti. Ma che cos’è questa giustizia?

 Riporto di seguito alcune righe che ci scrissi anni fa, prendendo spunto da una Giornata della memoria.

“Abbiamo molto sbagliato quando abbiamo fatto una politica cinica, cattiva, violenta. Questa è la politica dei despoti. Dobbiamo fare una politica che innanzi tutto rispetti gli infiniti mondi vitali, mio zio Achille ci scrisse un libro su, che sorreggono la nostra vita. Non escludere nessuno, non disprezzare nessuno. Ancora con Capitini: interessarsi sommamente a tutti, sperare che la realtà di tutti arrivi a tutti gli esclusi per guarirli; scoprire che c'è sempre una non violenza più autentica e che "ieri eravamo violenti". Capitini definiva questo come lavoro "religioso" perché ci mette in rapporto con una realtà sommamente amata e rispettata, una ricerca "sacra" perché comprende chi soffre e sta peggio di noi. Sulla via della più alta sovranità incontriamo l'esigenza della più alta giustizia.

  Io faccio parte di una genia di malvagi persecutori. Noi cristiani siamo stati ciechi per millenni. Seguaci di maestri ebrei, del fariseo Paolo di Tarso, abbiamo perseguitato l'ebraismo, disprezzato le sue sante tradizioni, i suoi riti, le sue consuetudini; abbiamo infierito in modo inaudito su quel mondo vitale sul quale nondimeno continuavamo a invocare benedizioni: "Gerusalemme siano rinforzate le tue porte e i tuoi bastioni, scorra in te latte e miele, siano salvate le tue madri, crescano forti i tuoi figli...". Questa la situazione in cui mi sono ritrovato, da cristiano. Ora che abbiamo finalmente iniziato a convertirci, noi cristiani, ora capiamo l'infinito amore che c'è dietro ogni gesto religioso dell'ebraismo, dietro ogni sua tradizione e preghiera, dietro ogni rito, e ci strazia l'orrore di quello che è stato fatto per tanto tempo. Il passato non può essere cambiato. Ma almeno per il presente e per il futuro, nei quali si può essere diversi, vorrei mostrare di aver imparato la lezione che ho ricevuto dalla storia e agire diversamente. "Teshuvà", pentimento e conversione. E invitare i miei compagni a fare altrettanto, quando insieme pensiamo a un mondo nuovo.

  Prima di compiere qualsiasi violenza, prima di cancellare sbrigativamente qualcuno dalla storia, prima di disprezzare qualsiasi consuetudine o idea delle quali magari non capiamo subito il senso, pensiamo bene se questa sia veramente la giustizia che ci serve per elevare "tutti" ad essere re. Tutti i giorni mi pare che non manchino occasioni per esercitare questa "pazienza", che significa apertura a tutti, aspirazione alla giustizia somma, lì dove misericordia e verità finalmente si incontrano e si baciano, come è scritto.”

  Una persona che rappresenta bene questi ideali democratici è il pastore battista statunitense nero Martin Luther King (1929-1968), il più noto esponente del movimento statunitense dei diritti civili degli anni Sessanta. Egli, seguace dell’ideologia non violenta teorizzata dall’indiano Ghandi, fu un disobbediente per amore di giustizia: questa fu la libertà che si prese.

71.8 L’esperienza del costituirsi di una collettività è vissuta spesso secondo due modalità: quella del ritrovare un padre e quella del trovare una persona da amare. Nelle nostre scritture sacre esse sono entrambe presenti, ma di solito la seconda è più difficile da vivere, e innanzi tutto da accettare, nelle nostre collettività di fede, secondo i modi religiosi che ci siamo costruiti. Questo accade fondamentalmente perché la nostra ideologia religiosa è prodotta da un ceto di maschi celibi che ambiscono al ruolo di padri e tendono a organizzare collettività paternalistiche.

 Nel tirocinio della democrazia occorre riscoprire  e rivivere quell’altra modalità, dell’amore.

 L’esperienza dello stato nascente è stata paragonata all’innamoramento, all’esperienza emotiva dell’innamoramento. E c’è molta emotività amorevole nell’esperienza della democrazia. Innanzi tutto ci si innamora dell’anelito di libertà, quindi della libertà, non vivendola più come peccato e fonte di disobbedienza. In democrazia, libertà significa libertà di pensare e costruire un mondo nuovo, in cui tutti vengano liberati dal bisogno, dall’ignoranza, dalla malattia, dalle discriminazioni su basi sociali ed economiche, dalla solitudine. E di farlo come lavoro collettivo, in cui sono coinvolte le moltitudini. Democrazia significa anche trovare e, innanzi tutto, accettare, moltissimi amici. Uscire da una condizione di schiavitù, di servaggio, esistenziale per entrare in una condizione amicale. “Vi ho chiamato amici”: riflettere a fondo sul senso di questo detto evangelico (Gv 15,15) può essere molto utile in un ragionamento sulla democrazia e le sue finalità. Esso è inserito in un brano  che tratta dall’agàpe, la forma di benevolenza sociale che è caratteristica delle nostre concezioni di fede e che ha il senso di accogliere gli altri in una piacevole convito. Gli amici non ce li troviamo imposti per natura, come i fratelli, ma ce li scegliamo. Le democrazie contemporanee si propongono di realizzare un’amicizia universale, di scegliersi come amica l'intera umanità, secondo una particolare concezione di pace che ha fatto breccia anche nel pensiero religioso, il quale  finalmente è giunto a riconoscervi le radici di fede.

 In democrazia si sogna innanzi tutto di essere liberi, di avere tanti amici, di farsi tanti amici, di farsi amiche popolazioni di tutta la terra, senza discriminazioni. Un lavoro molto bello e appassionante, di cui ci si può e ci si deve innamorare. In democrazia ci si innamora di questa libertà: le catene che vengono simbolicamente infrante sono quelle della divisione e del pregiudizio verso gli altri.