Azione Cattolica: fede
religiosa e democrazia
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Parte 7
(dal n.64 al n.71.8)
(le parti precedenti sono
pubblicate nei post successivi, nei post precedenti sono pubblicate quelle successive.
Questo testo è pubblicato in 8 parti)
di
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
edizione ottobre 2020, con nuovi materiali
64
Condominio o repubblica
C’è una bella differenza tra un
condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono decisioni
seguendo il metodo democratico.
In un condominio ci si finisce
perché si compra un appartamento e si diventa proprietari anche di parti
comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci si serve anche di altre
cose, però per queste si è obbligati a
farlo insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio
o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro
bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e,
soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle
decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose e non le vogliono
cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.
Una repubblica nasce quando ci si
sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare una società migliore, in cui
si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia abbandonato alla propria
sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose molto meno. Ci si cerca
perché si vive bene insieme. Al centro di una repubblica ci sono dei valori:
questo significa una certa concezione di società. E poi la fedeltà a quei
valori. Si è disposti a dare molto, anche la vita, per realizzarli. Uno
di essi, molto importante, è l’eguaglianza in dignità, che significa
rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo richiede di essere
sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra. Per
diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la
giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e
innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni,
i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide
che vinca la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad
ognuno dei diritti fondamentali che nessuna maggioranza
può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò
per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni
persona è sacra, nel senso che ha diritti intangibili.
Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un
qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non è
qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come
vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente,
che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per
cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima in
cui non c’era e che avrà un dopo in cui non ci sarà più.
Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si
ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo?
In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe,
che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno
venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che
però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe
anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale. Nessuno
escluso.
Alcuni dicono che bisogna
cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il mondo. E seguono vie di
perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro sforzo di perfezione rimangono
poi soli con sé stessi. Gli esseri umani non sono fatti per
essere così. Questi cammini allora dove portano? Ci si perfeziona,
se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe,
crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà
limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale,
a tutto quello che c’è intorno.
Anche in una parrocchia, come in
ogni specie di società, si fa la scelta di essere condominio o repubblica. Dipende
da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro per
noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la
si condivide al modo dell’ascensore in un condominio,
con l’essere umano si entra in relazione.
La nostra Cena rituale, con le
povere cose che condividiamo, alle quali però diamo un valore infinito
perché ci mettono in relazione benevolente e universale, non è
forse la celebrazione dell’agàpe religiosa? Farne una realtà condominiale sembra
impossibile, eppure è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente
per il fastidio che certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare
una realtà universale, in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno
sia sacro… Ma non è meglio essere in meno a condividere, in
modo che ce ne sia di più per quelli che ci sono? Questa è
fondamentalmente la ragione politica della crisi della nostra nuova Europa
comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto delle cose e
non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione, quella per cui nell’agàpe l’inventario contabile di
ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza
universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne
avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità,
stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La
nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano
da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori
della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per
rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito repubblicano.
Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci
portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata:
ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in
spirito repubblicano e non condominiale.
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65
Fedi omicide
Ci sono nel mondo di
oggi persone che manifestano le loro convinzioni religiose uccidendo e
uccidendosi. Il principale loro bersaglio sono quelli della loro stessa fede: è
tra essi che fanno il maggior numero di morti. L’Europa c’entra perché è la sua
cultura che è criticata: infatti vengono colpiti quelli che vivono all’europea.
Parlando di questioni culturali, bisogna dire
che condividiamo con altre fedi monocratiche un importante patrimonio culturale
e che in quest’ultimo c’è anche l’antico comando di sterminio degli infedeli e
degli apostati, quelli che hanno rinnegato la propria fede di
prima. Leggiamo pagine tremende in merito negli scritti sacri originati
dall’antico ebraismo. Ma anche parti di quelli formatisi nelle nostre prime
collettività di fede sono stati interpretati in quel senso nel corso della
storia.
Di fatto le nazioni che abbracciarono la nostra
religione si resero responsabili di orrende stragi per ragioni religiose, che
nelle Americhe divennero addirittura genocidio. In Europa ebbero motivazioni
religiose i pogrom, le periodiche persecuzioni antiebraiche, attuati
in Polonia e Russia.
Strumentalizzarono la nostra fede i razzismi
nordamericani e sudafricani. L’organizzazione razzista nordamericana Ku-Klux-Klan
celebrava i suoi delitti con croci infuocate.
La particolarità della religiosità omicidiaria
contemporanea è l’autoannientamento degli stessi omicidi, in un quadro di martirio
religioso, di testimonianza di fede nella prospettiva di una ricompensa
soprannaturale, in un aldilà. E’ qualcosa di diverso dal cercare la morte in
battaglia. Infatti, di solito, sono colpiti degli inermi e la morte
dell’omicida non è solo una eventualità, ma una sicurezza, come nel caso di
quelli che si fanno esplodere in ambienti affollati. L’autoannientamento ha
ragioni politiche e serve a potenziare l’effetto terroristico di queste azioni
stragiste, ma anche a ostacolare le indagini, eliminando la possibilità di
dichiarazioni dei colpevoli.
La fede, e in particolare una fede basata sulla
cultura biblica, può essere stragista? Poiché di fatto lo è stata, attraverso i
secoli, dobbiamo riconoscere che lo può essere. Perché, in genere, non lo è
più? Perché c’è stata una conquista culturale derivata dai processi democratici
originati in Europa e nel Nord America, per cui si è riusciti a far convivere
pacificamente religioni esclusiviste, le quali quindi in linea di
principio escludono la possibilità di altre fedi. Questi sviluppi hanno
coinvolto entrambe le due maggiori fedi monocratiche del mondo, ma anche, e da
tempi molto più antichi, l’ebraismo. Quest’ultimo, dopo la distruzione della
propria entità politica nel Vicino Oriente e la diffusione in Europa e in altre
parti del mondo, si è trovato a dover convivere con popoli di altri fedi, e ha
sviluppato una corrispondente religiosità.
Quello che emerge dalle stragi di questi anni,
commesse con moventi religiosi, è che con la teologia si può convincere la
gente di tutto, veramente di tutto. E che quindi la teologia ha molte e serie
controindicazioni. Naturalmente serve gente che, per qualche sua ragione, non è
più disposta ad esercitare qullo spirito critico che è la base della convivenza
civile.
In Europa non si uccide più per moventi
religiosi tratti dalla nostra fede, ma ancora si discrimina. Ci si convince, ad
esempio, che la donna è inferiore all’uomo e che ha un destino servile. O che
certe famiglie non sono vere famiglie e non vanno riconosciute come tali.
Bergoglio qualche giorno fa ha detto che dobbiamo chiedere perdono agli
omosessuali, e qualche ragione evidentemente c’è. Si tratta di discriminazioni
su basi teologiche che la teologia non riesce ancora a superare. L’ultima
grande persecuzione motivata da ragioni religiose della nostra fede è stata
quella contro i modernisti, attuata all’inizio del secolo scorso dal papa
Giuseppe Melchiorre Sarto. Fu molto dolorosa. Colpì animi buoni e di grande
valore. Qui la teologia è molto cambiata.
Nel mondo contemporaneo, in cui vive un numero
di gente enormemente superiore che nel passato e in cui ci siamo intensamente
legati gli uni con gli altri nei processi economici, è indispensabile che le
religioni convivano pacificamente. Esse sono necessarie per conservare
l’umanità del nostro vivere, ma a condizione che nessuna pretenda
l’esclusività. Altrimenti diventano disumane e fanno vivere male. Uccidono. La
soluzione è di promuovere di generazione in generazione quel processo culturale
per cui in concreto esse possono convivere. Significa accentuare i processi
democratici, secondo i quali la persona umana ha diritti fondamentali
intangibili, che ruotano intorno al diritto alla vita. E’ l’antico
comandamento Non uccidere! che in democrazia viene preso molto sul
serio, tanto che, ad esempio, nella nostra nuova Europa non c’è più la pena di
morte. E poi costruire e sostenere, nella gente, con un’adeguata
formazione e anche in sede religiosa, la capacità critica, per cui, ad esempio,
si riesca a distinguere in eventi come quelli del Bangladesh i loro veri
moventi, al di là della paccottiglia ideologica religiosa che li riveste. E’
quello che facciamo nella nostra fede accostando il tema storico delle
Crociate.
Gli assassini vogliono farci odiare gli uni gli
altri, è stato osservato da più parti in questi giorni: la giusta reazione
quindi non è quella di odiare, perché sarebbe fare quello che quelli vogliono
da noi, ma di attuare e intensificare forme di convivenza pacifica tra genti di
fedi diverse. Nel mondo di oggi è possibile e in genere accade: gli odiatori
religiosi sono sparute minoranza, ormai, per nostra buona sorte.
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66
Le religioni e il tribunale della coscienza e della ragione
(16 luglio 2016)
Solo da quale decennio la nostra religione ha aderito
alla cultura della pace universale, e ora ci sembra assurdo che potesse essere
altrimenti. Ma non lo è.
Storicamente la nostra religione è stata
mortifera quanto, e, al tempo della sua diffusione mondiale, addirittura molto
più delle altre religioni coeve. Condivide un importante patrimonio culturale
con le altre principali religioni monoteistiche e in esso vi è il germe della
violenza stragista. L’ebraismo della nostra era lo ha superato, al tempo della
sua dispersione tra le genti, e ha costituito un buon esempio di come farlo.
Noi ci abbiamo messo molto più tempo, essenzialmente perché la nostra
fede è diventata e rimasta a lungo strumento di potere, e potere e
violenza sono strettamente legati.
I grandi principi umanitari che costituiscono il
nerbo dell’etica sociale e politica dell’Occidente contemporaneo furono
proclamati, a fine Settecento, nel corso di due rivoluzioni, quella nord americana
e quella francese, che espressero una notevole violenza, in particolare la
seconda. Eppure quei principi condussero alla cultura dei diritti fondamentali
della persona e al rifiuto della violenza pubblica, compresa la pena di morte,
della nostra nuova Europa. Occorse però il bagno di sangue della Seconda guerra
mondiale per produrre questo risultato. Con la laicizzazione delle istituzioni
pubbliche le religioni cessarono, in Occidente, di costituire fattore di ordine
pubblico e furono liberate dalla loro violenza. Nella nostra religione, i
teologi ci spiegarono come fare per vivere la fede in modo molto diverso dal
passato e, innanzi tutto, che si poteva, e anzi si doveva farlo. E’ il processo
che venne denominato purificazione della memoria. E’ pur vero,
però, che, anche ai nostri tempi, dobbiamo riconoscere, come scriveva
Aldo Capitini, che solo ieri eravamo violenti.
Sarebbe bello constatare che il rifiuto della
violenza si sia prodotto storicamente per virtù propria della nostra
religione, ma purtroppo non avvenne così. Gli strumenti della violenza ci
dovettero essere strappati dalle mani, dagli stati liberali, e non di rado ne
esprimiamo anche una certa nostalgia.
Ci stupisce la violenza collettiva a sfondo
religioso espressa nel Vicino Oriente e la pretesa di altre religioni
monoteistiche di monopolizzare le religioni dei popoli, di ridurre tutte le
altre fedi a culti tollerati (nel migliore dei casi) o di
annientarle (nei casi limite): ma questa è stata anche la nostra cultura fino
all’altro ieri e ciò fin dalle origini. Ci vantiamo di essere stati, nei tempi
antichi, distruttori di idoli, ma in realtà questo significa essere stati
persecutori religiosi. La distruzione stragista del soprannaturale altrui fu
eclatante nella colonizzazione europea della Americhe.
La violenza per sottomettere le donna e quella
contro gli omosessuali fanno parte della nostra cultura religiosa, delle nostre
radici bibliche, e infatti ciclicamente si manifestano ancora tra noi.
Chi oggi prenderebbe alla lettera il comando
biblico di sterminare gli infedeli? Eppure a lungo lo si è fatto, ad esempio
nella distruzione delle culture native americane e nelle guerre di religione
europee.
Sulla via del contrasto della violenza bellica
ebbe i suoi guai il nostro Lorenzo Milani, nella sua polemica contro i
cappellani militari italiani che avevano trattato da vili gli obiettori di
coscienza. Si era, appunto, nell’altro ieri della nostra
storia religiosa.
Per gran parte dei due millenni della nostra
storia religiosa si è stati convinti che in guerra un qualche dio fosse con
noi, nel mentre facevamo a pezzi gli altri. Lo stesso che avrebbe dato una
ricompensa eterna, in un qualche suo paradiso, ai morti sul campo di battaglia.
Questo fu appunto lo spirito penitenziale con cui si
affrontarono storicamente le “crociate”.
Si insegna, in religione, che la nostra è un
fede che ci porta oltre la morte: sicuramente la nostra religione è stata
utilizzata per contenere la paura della morte, specialmente in battaglia.
L’etica del milite europeo è stata, molto a lungo, anche religiosa.
Oggi ci definiscono “crociati”, ma è solo perché
non ci conoscono bene. La nostra buona battaglia religiosa non
è più quella della guerra. Abbiamo imparato la lezione di uno come Immanuel
Kant che consigliava la pace perpetua e invitava a vergognarsi
della vittorie belliche. E allora c’è una vecchia religione
che abbiamo abbandonato e una nuova religione alla quale
e nella quale ci siamo aperti. Nella violenza con pretesti religiosi di questi
giorni vediamo allora noi stessi come eravamo solo l’altro
ieri.
Ad un certo punto abbiamo portato la nostra
religione davanti al tribunale della coscienza e della ragione e ci siamo
ritrovati noi stessi sul banco degli imputati: la religione era solo lo
specchio di noi stessi, di come volevamo essere.
In un’umanità di otto miliardi di persone,
strettamente interconnessa, per cui quasi tutti gli oggetti di nostro uso
quotidiano vengono prodotti dall’altra parte del globo, è ancora
ammissibile poter sostenere lo sterminio degli infedeli, e tante altre
cose della vecchia religione? Ad esempio tutto il
sessismo che troviamo nelle nostre scritture, per cui un certo pluralismo in
questo campo provocherebbe l’ira soprannaturale, lo sterminio, la pioggia di
fuoco e simili. Non è, questa concezione, una bruttura solo degli altri,
è anche nostra. E’ solo l’altro ieri che una donna non poteva
entrare in chiesa senza coprirsi il capo.
Questo portare la religione, e noi stessi,
davanti al tribunale della coscienza e della ragione è il secolarismo.
Benedetto secolarismo se ci ha portato la pace, se ha tolto la violenza alle
religioni, quella che di questi tempi ci si scaglia addosso provenendo da un
medioevo che si manifesta in mezzo a noi e dall’altra parte del nostro piccolo
mare! Ricordiamo che anche noi fummo così, solo l’altro ieri.
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67
La
Nazione
Nella
Costituzione vigente si fa riferimento al concetto di nazione in tre punti, e
in due di essi si parla di "Nazione", con l'iniziale maiuscola. È
scritto che i "parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la
"Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della
"Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l' "unità
nazionale" (art.87).
Che cosa è la "Nazione"? La
Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione, perché
esse non possono essere fattori di particolare connotazione della Repubblica:
lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in campo culturale,
si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che significa anche
una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in particolare sotto
il profilo politico, e solidarietà civile.
La storia della nostra costruzione nazionale è stata
particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche resistenze
politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato, nell'Ottocento.
Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu osservato. Da un certo
punto di vista, l'Italia unita, politicamente organizzata intorno alla
monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna con una propria storia
particolare, una propria lingua e una propria cultura. L'Italiano era solo
lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente francese e piemontese.
La gran parte della gente era analfabeta e quindi confinata nelle culture
particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci riferisce alla Nazione,
si intende una realtà che si è venuta costruendo nell'arco di circa un secolo tra
Ottocento e Novecento, in particolare sulla base dell'ideologia politica di
Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che volle vivere insieme, per non
essere "calpesti e derisi", e lo eravamo perché non eravamo popolo,
perché eravamo divisi, proprio come si canta nell'inno nazionale. L'unità
culturale italiana fu conseguita però, veramente, solo nel secondo dopoguerra,
in particolare per le vie dell'istruzione pubblica di massa e di radio e
televisione. È a partire da questa epoca che veramente la Nazione si manifestò.
Ed è significativo l'abbandono dei progetti secessionistici che ebbero corso
negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai popoli ma tra i popoli italiani
ebbero un limitato seguito.
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68
Degrado
della politica ed eclisse del Parlamento
(3-11
agosto 2016)
68.1. Nel
corso dei passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento come
un'istituzione troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel
decidere, troppo costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La
ragione può essere individuata nel degrado della politica che si era
manifestato nel corso del decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente
dalla degenerazione della politica controllata dai partiti, che si presentarono
platealmente, nel corso di inchieste giudiziarie svolte con una certa
sistematicità dal 1992, come minati dalla corruzione. Essi infatti avevano
preso a finanziarsi pretendendo una quota del denaro pubblico erogato per
appalti pubblici da chi aveva assunto gli appalti. E influivano sulla scelta
degli appaltatori, facendo preferire illegalmente quelli che avevano accettato
di versare quel tributo. I partiti avevano preso consapevolezza di questi fatti
molto prima che emergessero in sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta
si iniziò a parlare di " questione morale" e si faceva riferimento
proprio al fatto che i partiti avevano iniziato a controllare a proprio
beneficio, non nell'interesse pubblico, ogni settore della vita nazionale in
cui venivano spese risorse pubbliche.
Ma la corruzione pubblica non fu l'unica ragione
del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione del sistema
sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella contemporanea
metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le istanze critiche
verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più forte partito
comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un potente stimolo,
nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di partiti politici
forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in particolare di
contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza dell'opposizione comunista,
con la sua ideologia fortemente centrata sui temi della giustizia sociale e sulla
riforma dello stato nel senso della piena attuazione dei valori e principi
costituzionali, con la sua critica politica irriducibile, colta, perseverante,
avevano indotto i partiti che ai comunisti si opponevano a tener conto di
coloro che nella società stavano peggio e a una più attenta selezione del ceto
politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli affari di stato. Il partito
originato dalla riforma di quello comunista non ebbe lo stesso effetto, perché
si comincio a pensare che il capitalismo di tipo statunitense e la società da
esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse addirittura di una
" fine della storia". In Italia l'idea di sviluppo sostituì quella di
giustizia sociale, che era stata alla base delle ideologie dei partiti
popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le basi sociali dei
vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo corso tesero a
ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la formazione
politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche formazioni sociali
a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo ideologico della
dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università religiose.
Che c'entrano i partiti con il Parlamento? La
loro occupazione del Parlamento non è all'origine del progressivo minor credito
dell'istituzione tra la gente?
In realtà, nel sistema istituzionale disegnato
nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, approvata
dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori svolti dalla
metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era fondamentale per
realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico in cui le masse
avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il popolo che i costituenti
vollero elevare alla sovranità non era composto da individui atomizzati, ma da
collettività politiche organizzate nei partiti, attraverso i quali i cittadini
avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare la politica nazionale (come è
scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano stati infatti i partiti
politici a organizzare la guerra di Resistenza contro l'ultimo fascismo, dal
settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e ideologiche della politica
democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere la guida dello
stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche le basi
culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e
proposte in seno ai partiti.
Il faticoso processo di elevazione del popolo
alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso nei partiti di
popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di popolo, che si
proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo democratico fu una
conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata dal fatto che la
democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era stata un fatto
elitario, essenzialmente espressione di una borghesia illuminata, in una
situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del 10% della
popolazione.
Il primo grande partito politico di massa
italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza, la Chiesa
cattolica e fu inizialmente
antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia nazionale.
L’accettazione dell’ideologia democratica da parte della Chiesa cattolica,
nella vita civile e, cautamente, anche nelle organizzazioni laicali, maturò tra
il 1941 e il 1991.
68.2. La crisi dei partiti politici italiani ha portato ad un degrado della politica.
L'affermazione della democrazia di popolo fu
storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei partiti di massa
e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi democratici.
Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che determinò
la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al popolo
collegata in maniera vitale.
Il primo partito politico italiano popolare, di
massa, può essere considerato, sotto certi aspetti, la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come
realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti
dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa
particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica ha
cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto precocemente,
fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a cui è
intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente, dal
Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente
politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più
feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento,
agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli
solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per
accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si
strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa configurazione
è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur dopo le molte
riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo (1962-1965). Ha
cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in concomitanza con
la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano e più
precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento, quando la
gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo piccolo
regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri sovrani
europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del laicato di
fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per sostenere
le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle loro mani
la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di movimento di
massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito politico di
massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera dei Congressi,
fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del Regno pontificio,
la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo molti riferimenti
ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a favore delle masse.
L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino Pecci, Leone 13°, diffusa nel 1891, fu il suo manifesto
ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì, dando
loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il via libera
all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione sociale.
Altri partiti di massa furono il Partito
socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia mazziniana,
fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse il divieto
per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale nell'attività
parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don Luigi Sturzo
e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati il Partito
Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati
all'esperienza socialista, in quanto il primo originò per scissione dai
socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi
esponenti del socialismo italiano, il suo "Duce", vale a dire
il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942,
sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani
intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in
particolare nella FUCI (gli universitari cattolici), nel Movimento
Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia
Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali
esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista
fondarono il Movimento Sociale Italiano, partito che ebbe un seguito
popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito
cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi
della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo
storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un
Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale
basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista,
un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il
conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
Ecco dunque descritti i principali attori dei
processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del secolo
scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul
Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni
Novanta.
68.3. La
politica italiana è entrata in crisi negli scorsi anni '70.
Nel secondo dopoguerra si era prodotto in
Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di espansione
economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del lavoro.
Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere sociale a
favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia del
partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale della
Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche
movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le
tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un
improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi
per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni
colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i
partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di
provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine
d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di
società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti
di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro
politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito
Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più
autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece
degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in
termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si
produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una
conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo
bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di
governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che
forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le
comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva
nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso
della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a
costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era
quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di
formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di
consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso
politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato
preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso"
elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza
parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti
i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati
dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita
dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in
un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa
non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione
che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le
realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.
Negli
anni della Repubblica democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici
e politici, il Parlamento, con le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si
attendeva, vale a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva
attuazione della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il
sistema fu "bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i
partiti che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e
capitalista avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i
suoi legami culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano,
per quelli con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo.
Tuttavia il lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere,
traducendole in norme di legge, alcune istanze di giustizia sociale
dell'opposizione comunista e di dare comunque voce a quella "missina"
( come venivano chiamati gli aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo
rispondere alle attese aveva riguardato anche il Senato, che aveva svolto il
ruolo di Camera "alta" che gli era stato proprio di dalla sua
istituzione nel Regno Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora
invecchiata come l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno
quarantenni aveva garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci
si aspetta dagli anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici,
nello scegliere i candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli.
La presenza, come membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e
quella dei cittadini nominati da questi ultimi per avere "illustrato la
Patria" aveva rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi
degli anni '90, il Senato non apparì assolutamente come una istituzione
inutile, come è stata presentata dai fautori della riforma costituzionale
respinta nel 2016 mediante un referendum popolare, anche se i costituzionalisti, fin dai tempi
della Costituente, consigliavano di specializzarne le funzioni in modo che non
fosse un puro e semplice "doppione" della Camera dei deputati. In
effetti il Senato non lo fu mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si
manifestò la politica come ora la viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata
"Seconda Repubblica", che è quella in cui caddero tutte le
preclusioni di un tempo all'accesso al governo di certe forze politiche e, nel
medesimo tempo quella in cui la politica parlamentare, paradossalmente, iniziò ad essere considerata una perdita di
tempo.
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69
La sfida della pace
(21 febbraio 2016)
L’idea di una pacifica convivenza tra i popoli a
livello mondiale è recente e origina nelle culture più fortemente improntate
dalla nostra fede religiosa, dal secondo dopoguerra. Fondamentale fu
l’esperienza storica dei totalitarismi politici e ideologici europei dal primo
dopoguerra, diffusisi in popoli di antica civiltà religiosa. La fede religiosa
non sembrò aver costituito un ostacolo insuperabile alle divisioni e ai
conflitti, anzi il più delle volte vi fu coinvolta. Un esempio spettacolare di
ciò si ebbe durante il regime mussoliniano, in Italia, con il quale la nostra
gerarchia religiosa, ma non tutta la gente di fede, accettò di conciliarsi.
Lo stradone in stile cimiteriale che celebra quell’evento, e che fu realizzato
distruggendo un antico quartiere popolare e deportandone gli abitanti, ne è
ancor oggi l’immagine: la larga via che all’epoca fu aperta portava al regime
mussoliniano e la Conciliazione con il papato fu senz’altro uno dei
maggiori successi politici e ideologici del fascismo italiano. Con il senno del
poi dobbiamo riconoscere che può dirsi l’opposto per il papato, anche se la
sistemazione politica che fu data all’epoca vige tutt’oggi. La nuova via della
pace ha avuto anche il senso di una conversione in
senso religioso.
La novità delle concezioni contemporanee sulla
pace diffuse in Occidente è che esse non prevedono l’assimilazione dei popoli
in un’unica fede o in un’unica ideologia, ma si propongono la convivenza delle
diversità. Questo è stato il punto debole della nostra bimillenaria esperienza
di fede.
Se leggiamo storie delle nostre collettività
religiose risalenti ancora alla metà degli anni Sessanta le troviamo viziate da
un’incredibile faziosità, secondo la sensibilità contemporanea naturalmente.
Quelle cattoliche sono in genere veramente ossessionate dal tentativo,
realisticamente piuttosto difficile, di far risalire l’organizzazione del
papato imperiale del secondo millennio ai primi secoli della
vita delle nostre collettività religiose.
Studiando i libri di storia religiosa si capisce
perché la materia in essi trattata non è utilizzata, in genere, nella
formazione religiosa comune, quella rivolta a tutti e non alla particolare
cerchia degli specialisti o dei preti e religiosi. Innanzi tutto è piena di
polemiche durissime delle quali oggi è arduo capire l’importanza per la vita di
fede. E’ poi esprime una violenza ideologica e verbale, ma anche fisica che è
intollerabile con la mentalità di oggi.
A partire dal Quinto secolo i gerarchi
religiosi latini si separarono da quelli di cultura greca, derivati dalle
nostre più antiche collettività religiose, su questioni attinenti alla persona
del Fondatore che vennero presentate in modi oggi (ma anche all’epoca)
accessibili solo agli specialisti. Che riflesso potevano aver avuto sulla vita
della gente comune? Davvero i popoli che aderirono alle concezioni
ritenute errate dai gerarchi romani erano cattivi? Durante diverbi
tra gerarchi religiosi su quelle questioni, nel 449 a Efeso, una città di
civiltà greca sulle coste mediterranee dell’attuale Turchia, il vescovo di
Costantinopoli Flaviano fu picchiato e morì poco dopo.
Ai tempi nostri l’argomentare dei teologi,
almeno quando si rivolgono alla gente comune, è diverso. Si ragiona
sull’esperienza comune per poi spiegarne il senso religioso. Ha maggiore
importanza l’antropologia, la questione di come viene considerato l’essere
umano nelle sistemazioni ideologiche che vengono proposte. Questo modo di
procedere ha portato a un riavvicinamento con culture religiose della nostra
stessa fede dalle quali ci si era separati. Questo è avvenuto con le
collettività religiose che si sono riorganizzate sulla base dei principi
religiosi proposti da Lutero, Calvino e altri riformatori religiosi del secondo
millennio. Con i greci, i popoli di cultura ellenistica dai quali
ci si è separati molto prima, c’è la difficoltà che le loro antiche
collettività in Oriente sono in gran parte finite sommerse, sovrastate,
dall’altra grande fede monoteistica diffusa in quelle regioni a partire dal
Settimo secolo. Si cerca allora di riconciliarsi con
i loro eredi, con l’ortodossia dell’Europa orientale e si scopre che non
ci dividono da essa questioni di fede veramente fondamentali, ma essenzialmente
l’assetto istituzionale imperiale del papato romano che fu dato nel basso
medioevo. Ma è soprattutto la pacifica coesistenza nelle stesse nostre città
con quelli delle altre confessioni a fare la differenza dal passato. Si scopre
che si può vivere insieme, conoscendosi si finisce per stimarsi, e allora tutti
gli arzigogoli teologici si appianano. In Italia molte chiese ortodosse hanno
sede in chiese concesse dai vescovi cattolici perché non più utilizzate.
Anticamente la gente comune rimaneva a fare da
spettatrice a certi azzuffamenti teologici e gerarchici. Era un po’, ma non
sempre, nello stato di gregge. Nel secondo millennio è stato
diverso. Le spiritualità nuove prorompevano dalla gente comune e i capi
religiosi faticavano a venirne a capo. La scoperta, in Occidente nel
Quattrocento, della stampa tipografica mise la cultura religiosa alla portata
delle masse. Stiamo vivendo una rivoluzione analoga con il WEB, il trattamento
telematico delle informazioni consentito dalla rete internet e dalla sua
interfaccia sugli schermi dei nostri computer, organizzata in modo da essere
accessibile anche ai bimbi più piccoli. Questa possibilità di renderci conto
dei problemi ci responsabilizza molto. Siamo spinti ad uscire dallo stato di
gregge e abbiamo gli strumenti per farlo. In un certo senso la nostra nuova
Europa si fonda su questa nuova realtà. Le divisioni che oggi la minacciano
interpellano i suoi popoli. Essi hanno imparato a convivere e a conoscersi. E’
più difficile rinchiudersi nell’egoismo del passato e fondare partiti del Noi
soli. Anche i capi politici nazionalisti, che spingono per la chiusura
della frontiere, paradossalmente creano internazionali politiche. E’
lo stesso anche per le questioni in materia di fede. Certe forme di
spiritualità non soddisfano più e, soprattutto, non servono più.
Parlare di pace, come oggi la intendiamo, è
facile e anche bello, realizzare la pace è molto più difficile, anche in
religione. La vita nelle parrocchie lo dimostra. A volte la coesistenza tra le
loro componenti è piuttosto precaria. A volte si ricade nei vizi delle origini,
nella brutta abitudine di lanciarsi anatemi, vale a dire scomuniche, senza
avere nemmeno, tra l’altro, il potere giuridico. E questo anche se la gente
della nostra fede, dal secondo dopoguerra, ha mostrato molti modi perfare
pace e l’Europa contemporanea, pur con tutti i suoi attuali problemi,
ne è la dimostrazione.
Joseph Ratzinger qualche anno fa diffuse
un’enciclica la Carità nella Verità (2009) in cui
affrontò sostanzialmente la questione se venga prima la carità,
il fare il bene agli altri, o la verità,
il dire cose coerenti con il patrimonio di fede,
entrando in una inedita polemica con il suo predecessore Giovanni Battista
Montini, il quale nell’enciclica Lo sviluppo dei popoli (1967)
aveva lanciato un forte appello a tutte le persone di buona volontà a fare il
bene, affermando che lo sviluppo è il nuovo nome della pace,
anche in senso religioso.
Certe questioni noi laici di fede possiamo
tranquillamente lasciarle ai teologi di professione, come lo stesso Ratzinger è
stato per gran parte della sua vita.
La mia opinione è che ci si debba
concentrare, noi che non siamo teologi, sulla faccenda del fare
il bene, e innanzi tutto nel volersi bene, nel fare
pace come oggi lo si intende, comprendendo in quell’azione anche
lo sviluppo dei popoli e delle singole persone, per poi
cercare il senso religioso del bene che ci è riuscito di fare, quindi non
ragionando sulle sole intenzioni ma sui risultati ottenuti.
Nella questioni di fede, infatti, è vero che, come si dice, tra
il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
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70
Impegno civile come attività religiosa
(3 gennaio 2015)
Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo
culturale dei nostri tempi, ha affermato in “Tristi tropici”, che in tutta la
storia umana, solo due sono state le strategie impiegate allorché si è dovuto
risolvere il problema diversità altrui: una è stata la strategia
“antropoemica”, l’altra la strategia “antropofagica”.
La prima consisteva nel “vomitare”, nello sputar
fuori gli altri, considerati come esseri incurabilmente estranei e alieni, nel
vietare il contatto fisico, il dialogo, i rapporti sociali e qualsiasi tipo
di«commercium» [=relazione
di mutuo scambio], commensalità o«connubium» (=alleanza
basata su una relazione affettiva profonda).Varianti estreme di questa
strategia “emica” sono oggi, come sempre, l’incarcerazione, la deportazione e
la soppressione fisica. Sue forme aggiornate, “raffinate” (modernizzate) sono
la separazione spaziale, i ghetti urbani, l’accesso selettivo agli spazi.
La seconda strategia consiste in una cosiddetta
“disalienazione” delle sostanze estranee: nell’«ingerire», «divorare» i
corpi e gli spiriti estranei in modo da renderli , attraverso il
metabolismo, identici e non più distinguibili dal corpo che li ingerisce. Tale
strategia assunse una parimenti varia gamma di forme, dal cannibalismo
all’assimilazione forzata: crociate culturali, guerre dichiarate ai costumi,
calendari, culti, dialetti e altri «pregiudizi»
e «superstizioni» locali. Se la prima categoria mirava all’esilio e alla
distruzione degli “altri”, la seconda puntava all’annullamento o distruzione
della loro “diversità”.
[da: Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza,
2011 (opera edita per la prima volta in Gran Bretagna nel 2000]
Sono nato, sono cresciuto e mi sono formato in
un ambiente religioso che dava molto importanza all’impegno civile, inteso come
il partecipare alla collettività politica per costruire la città
dell’uomo(espressione risalente a Giuseppe Lazzati, 1909-1986), vale a dire
una società benevola verso tutti gli esseri umani. In una società pluralistica
come quella in cui siamo immersi l’impegno civile richiede di essere democratico,
vale a dire aperto al dialogo e alla collaborazione con chi su molte cose la
pensa diversamente ma è unito a noi dalla comune umanità.
A volte però,
in religione, si ritiene che il metodo del dialogo sia inutile e anche
controproducente, perché potrebbe portare a contaminazione. Per reagire alla
diversità altrui, vengono impiegate entrambe le tecniche sunteggiate da
Lévi-Strauss: l’esclusione e l’assimilazione.
Da un lato si costruiscono frontiere ideologiche
strettamente presidiate e isolate dal contesto sociale intorno. All’interno,
salvo che nel ruolo di semplice consumatore di servizi
religiosi, è ammesso solo chi accetta la conformità di pensiero, o, almeno, si
impegna a non contestarla, per amore di pace, come si dice. D’altro lato, chi è
ammesso all’interno viene esortato a farsi digerire, assimilare,
divenendo parte di una collettività di uguali,
in cui è abolita ogni diversità (e quindi la necessità di un vero e franco
dialogo), e in cui questa uguaglianza è realizzata mediante la pratica
dell’obbedienza verso dei formatori, in cui ogni
pensiero critico non viene accolto tanto bene.
Si tratta di
ideologia piuttosto lontana da quella indicata come preferibile nei documenti
del Concilio Vaticano 2°.
In realtà
essa, benché la si voglia riferire alle origini, in realtà proiettando non
del tutto a proposito sul passato nostre attuali concezioni, diverge
marcatamente dai costumi delle nostre collettività religiose di tutti i tempi,
in cui l’impegno civile ha avuto una parte fondamentale: altrimenti non
parleremmo oggi di radici religiose dell’Europa. Essa ha infatti
origine storica piuttosto recente e precisamente in epoca fascista. Fu allora
che, a seguito del compromesso raggiunto all’epoca dai nostri capi religiosi
con il regime fascista, la religione si impegnò a non occuparsi
di politica (in realtà, così facendo, dando un formidabile appoggio al
regime fascista), quindi delle cose della città dell’uomo. Era
scritto nel Concordato che fu stipulato nel 1929 e che fu in
parte superato con l’avvento della Costituzione repubblicana entrata in vigore
del 1948 e, definitivamente, con gli Accordi di revisione di quel Concordato,
stipulati nel 1984.
Bisogna che sia più chiaro che,
nonostante tutte le metafore sociali che utilizziamo a fini propedeutici, per
rendere in termini semplici un’idea di cose molto difficili da capire,
noi partecipiamo a una collettività,
ne siamo anche responsabili; possiamo riconoscere anche di essere
generati alla fede in una collettività,
ma assolutamente non da una collettività: infatti,
come è scritto, noi dobbiamo rinascere dall’alto. Quindi poi nessuno può sentirsi obbligato a
farsi digerire o generare o rigenerare da una
certa collettività, per quanto poi possa decidere liberamente di farlo.
Il metodo di assimilare persone
in una collettività di fede che si vieta l’impegno civile, inteso come relazioni
con chi la pensa diversamente, porta alla progressiva emarginazione delle
persone di fede. Alla situazione, per intenderci che si sviluppò nell’Ottocento
nel conflitto tra il nostro nazionalismo e le pretese politiche del Papato ad
un suo regno intorno a Roma. Sentiamo gli altri come estranei e da loro siamo
sentiti estranei. Per farceli amici chiediamo troppo, chiediamo loro di farsi
digerire; loro non ci stanno e noi li vomitiamo.
L’impegno civile nella nostra Repubblica, come è
configurato nella vigente Costituzione, si basa su una concezione personalistica che
è stata ideata in ambito cattolico negli anni ’30, sulla base di un filone di
pensiero che risale al Medioevo e che ha basi scritturistiche. Tale concezione
si basa sul rispetto della dignità della persona umana, sia come
singola sia nelle formazioni sociali a cui partecipa.
Questo significa che non è ammesso che una formazione sociale possa digerire una
persona. Ma, a ben vedere, questo principio digestivo è
estraneo anche all’ideologia insegnata dai nostri capi religiosi. Infatti la
nostra fede si basa su una conversione intesa come processo di
metamorfosi personale e libera. In particolare, nei nostri scritti sacri non ci
viene mai presentato il nostro Maestro impegnato in attività propriamente digestive.
La mia formazione religiosa ha compreso anche
insegnamenti su come partecipare a una collettività di fede da laico. Essa è
stata condotta nello spirito del Concilio Vaticano 2°, i cui principi vennero
entusiasticamente accolti nell’ambiente religioso della mia famiglia. Il laico
deve partecipare a una collettività di fede mantenendo integra la sua dignità
di persona umana e rispettando la dignità personale degli altri fedeli. Si
tratta di cosa di cui occorre fare tirocinio.
L’impegno civile è appunto quel tipo di
relazioni con gli altri che ci permette di collaborare con chi la pensa in modo
diverso da noi per costruire qualcosa di comune, in religione o altrove. Esso,
nella nostra fede, ha avuto sempre una forte valenza religiosa, della
quale non sempre, però, si è mantenuta consapevolezza.
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71
Spunti
per un dialogo politico su democrazia di popolo e fede cristiana.
(29-1-15)
71.1. Note di metodo
Questa conversazione si propone di stimolare un franco
dibattito politico tra persone di fede.
Non proporrò contenuti eruditi. Farò invece
riferimento ad alcune idee chiave tratte dalla storia delle nostre collettività
permeate dal pensiero religioso.
Perché il dialogo sia veramente libero non farò
riferimento esplicito ad alcun documento di autorità religiose, né menzionerò
queste ultime. Presenterò in forma anonima il pensiero sociale che storicamente
espressero. Esso potrà così essere analizzato e criticato senza alcuna
remora.
Inizierò definendo che cosa intendo per
politica.
Proseguirò tratteggiando alcuni tratti
caratteristici di ciò che ho chiamato democrazia di popolo.
Richiamerò la storia del pensiero politico
espresso nella nostra fede religiosa, con particolare riferimento all’Italia.
Infine analizzerò i problemi che oggi in Italia si
presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla democrazia di
popolo.
La mia formazione è giuridica, ma di pratico del
diritto, non di teorico. Ho ricevuto una formazione politica dal lungo contatto
con mio zio Achille, persona di fede, professore di sociologia e politico.
71.2.
La politica
Definisco politica l’attività di governo delle società
umane. Un’attività di questo tipo si riscontra anche in collettività poco
numerose e primitive. E’ stata ritenuta una caratteristica degli esseri umani
come viventi sociali.
Lo studio delle collettività primitive ci può
dare un’idea dello sviluppo delle attività propriamente politiche. Una delle
linee di costituzione di un’autorità politica può individuarsi, nelle
collettività di tipo patriarcale, nell’espansione del potere monocratico di un
maschio dominante su collettività di parenti o servitori. Nella nostra cultura
l’idea di autorità è ancora piuttosto legata a quella di paternità e ciò per un
retaggio storico molto risalente nel tempo e radicato nelle diverse culture che
si sono incontrate, scontrate e ibridate intorno al bacino del Mediterraneo.
Le nostre concezioni sulla politica impiegano
tuttora schemi di pensiero originati nelle filosofie dell’antica Grecia. Solo
dall’Ottocento si è cominciata a impiegare l’analisi sociologica per capire i
problemi politici. Una particolare chiave interpretativa della politica è
stata proposta dal marxismo a partire dalla medesima epoca: essa è particolarmente
caratterizzata dall’analisi storica dell’evoluzione delle società umane.
Sociologia e marxismo convergono nell’individuare all’origine del potere
politico le dinamiche sociali delle popolazioni umane. In quest’ottica tutta la
storia della politica è stata reinterpretata utilizzando le acquisizioni di
queste discipline. Per capire la politica e per prevederne gli sviluppi si
ritiene necessario capire le società in cui essa si manifesta.
71.3. La democrazia di popolo
Definisco democrazia un regime politico in cui
l’autorità è legata in misura più o meno intensa alla volontà collettiva dei
governati, sia nella scelta di chi la esercita sia nei suoi metodi, finalità
generali e obiettivi concreti. Non consiste solo nel metodo maggioritario per
adottare decisioni collettive. Si fonda anche su un sistema ampio di diritti di
libertà, per consentire la partecipazione al dibattito politico e ai processi
decisionali collettivi. In democrazia è essenziale la possibilità di un dialogo
fra soggetti liberi. Anche nel definire concettualmente i caratteri della
democrazia si è soliti fare riferimento a modelli realizzati e teorizzati
nell’antica Grecia. Tuttavia la democrazia come ai tempi nostri la si intende è
un’esperienza sociale che non è mai esistita prima del secondo dopoguerra. E
non è mai stata neppure teorizzata prima degli scorsi anni Venti. Il nostro
mondo è veramente un nuovo mondo. La chiamo democrazia
di popolo per distinguerla dalle precedenti esperienze storiche.
Il suo archetipo è il regime politico emerso a
fine Settecento dalla rivoluzione statunitense, che è stata espressa anche
mediante temi religiosi tratti dalla nostra fede. Quell’esperienza, anche se in
genere non se ne ha consapevolezza, non è stata solo una secessione dal dominio
di una monarchia europea, ma è stata propriamente una rivoluzione. Ha infatti
instaurato un nuovo modello di società, fondato su un’ideologia
egualitaria su basi religiose, secondo la quale tutti gli essere umani sono
stati creati uguali e con diritti inviolabili.
Crediamo in queste verità che sono evidenti di per sé
stesse, che tutti gli uomini sono creati uguali, dotati dal loro Creatore di
certi inalienabili diritti, e tra questi il diritto alla Vita, alla Libertà e
alla ricerca della Felicità. Per assicurare questi diritti sono costituiti
i Governi tra gli uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri dal consenso
dei governati.[Dichiarazione
d’Indipendenza delle Tredici Colonie, costituitesi in Stati
Uniti d’America, 4 luglio 1776].
E’ proprio da questa ideologia, più che da
quella espressa dopo pochi anni dopo dalla Francia rivoluzionaria, che derivano
le democrazie di popolo contemporanee. E ciò innanzi tutto per il fatto che la
democrazia statunitense ha avuto una durata molto più lunga di quella espressa
dalla rivoluzione francese, che fu veramente effimera. Essa ha potuto quindi
costituire un modello duraturo sul quale si sono innestati gli sviluppi
successivi. Poi per il fatto che nel secondo dopoguerra quel modello fu preso
come riferimento per riorganizzare i regimi politici europei. Il più importante
e duraturo contributo della rivoluzione francese alle democrazie di popolo
contemporanee è stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789, la base dello stato di diritto:
ogni autorità è soggetta alla legge e quest’ultima deriva dalla volontà
generale alla quale tutti hanno diritto di concorrere; gli esseri
umani nascono liberi e uguali, dotati di diritti inviolabili.
L’uguaglianza nell’ottica di quelle rivoluzioni è
un’uguaglianza in dignità. Essa è affermata religiosamente, vale a
dire in modo pregiudiziale e assoluto, a prescindere da qualsiasi
riscontro effettivo nella realtà (uso il termine religioso in
questo particolare senso, come lo intendeva il filosofo Aldo Capitini).
L’altro fattore da cui sono scaturite le
democrazie di popolo contemporanee è stato l’apporto del socialismo,
dall’Ottocento. In quest’ottica la politica viene concepita come uno strumento
per rendere effettiva l’uguaglianza in dignità mediante
la giustizia sociale. Tra i diritti inviolabili vengono inclusi anche
alcuni diritti sociali, ad esempio quello alla libertà dal
bisogno, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Nell’insieme costituiscono
presidi della giustizia sociale e si aggiunsero ai diritti di libertà
proclamati nelle rivoluzioni americane e francese del Settecento.
In merito si ricorda come archetipo la
costituzione tedesca di Weimer del 1919, di cui trascrivo una norma
significativa.
Art.151. L’ordinamento della vita economica deve corrispondere
alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti
un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da tutelare la libertà
economica dei singoli.
Altro archetipo è considerato la costituzione
sovietica del 1936 (detta di Stalin), in cui erano previsti il
diritto al lavoro e al riposo, all’assistenza materiale nella vecchiaia e nella
malattia o in caso di inabilità al lavoro, all’istruzione, all’uguaglianza in
dignità, oltre ai diritti di libertà previsti delle costituzioni rivoluzionari
settecentesche che ho sopra ricordato. Trascrivo due articoli
particolarmente significativi.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti
uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale,
culturale e socio-politica. […]
123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS
indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita
economica, statale, culturale e socio-politica, è legge irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti
e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai
cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale
appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o
nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
Dalla storia sappiamo che nell’Unione Sovietica
questi diritti rimasero in gran parte solo nelle costituzioni, non divennero
mai realtà. Quella costituzione tratteggiò un mondo nuovo che rimase però
sempre a livello ideale.
Le previsioni costituzionali relative ai
diritti fondamentali e inviolabili delle costituzioni che ho citato furono
presi come riferimento nel secondo dopoguerra dai saggi della nostra
Costituente, nel 1947, i cui lavori precedettero quelli per la redazione
della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite,
approvata nel 1948. Da quest’ultima scaturì la concezione contemporanea della
democrazia a livello planetario, come regime politico universale destinato a
realizzare una reale eguaglianza in dignità degli esseri umani, a
prescindere dalla loro condizione di cittadinanza politica particoare,
mediante l’effettività dei diritti fondamentali e inviolabili, in particolare
di quelli sociali, a livello universale. Riporto un articolo particolarmente
significativo della Costituzione italiana vigente:
Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso,
di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali.
È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il secondo comma è
stato scritto dal socialista Lelio Basso. L’universalità della concezione
politica sottostante, espressa poi anche nella dichiarazione ONU, risalta dal
fatto che vengono ripudiate le discriminazioni su basi etniche e linguistiche,
rendendo la nuova Repubblica una democrazia non solo per gli
italiani e degli italiani. Considerata l’importanza che ebbero
elementi cattolico-democratici nella redazione dei principi fondamentali di
quella Costituzione, la possiamo considerare anche come espressione di una
teologia politica.
L’ultimo fattore
decisivo per la creazione delle democrazie di popolo è stato il suffragio
universale, che in Italia è stato realizzato solo dal 1946.
Una democrazia di
popolo è un regime con amplissima base popolare e basato su un’idea di
uguaglianza molto legata alla giustizia sociale da realizzare mediante riforme
sociali introdotte con l’autorità delle leggi. L’obiettivo delle democrazie di
popolo è la trasformazione delle società per rimuovere le cause di infelicità e
di discriminazione.
71.4. Il pensiero politico
espresso dalla nostra fede religiosa, con particolare riferimento alla
situazione italiana.
Di solito non si ha
sufficiente consapevolezza che i cristiani molto presto svilupparono un
pensiero politico su basi di fede. In caso contrario l’ideologia politica
basata sulla fede cristiana non avrebbe potuto sostituire, nel giro di quattro
secoli quella basata sull’antica religione politeistica. In particolare non se
fa menzione nella formazione religiosa di primo e secondo livello. Si passa dai
cristiani perseguitati dal potere imperiale romano agli imperatori cristiani.
Un indizio della
precoce partecipazione dei cristiani alla vita politica lo possiamo trovare
nella Lettera a Diogneto, che si fa risalire alla fine del secondo
secolo:
[I cristiani] abitano
ciascuno la propria patria, ma come stranieri residente; a tutto
partecipano attivamente come cittadini, a tutto assistono passivamente come
stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria terra
straniera. [V,5].
Conquistato lo stato
romano, l’ideologia politica dei cristiani fu, in genere, quella di ritenere
che lo stato fosse espressione del popolo cristiano e che il monarca dovesse
svolgere anche compiti di guida religiosa. Il politologo Gianni Baget Bozzo
considerò come archetipo di questa mentalità il pensiero del vescovo, teologo e
storico Eusebio di Cesarea (265-340). La dimostrazione di quanto essa si
fosse radicata è che tutti i concili ecumenici del primo millennio, dal primo
di Nicea (325) al settimo di Costantinopoli (879), furono convocati da
imperatori. L’ideologia del monarca come capo civile e religioso del popolo
cristiano fu fondata sulle narrazioni veterotestamentarie adattate ad una
situazione storica molto diversa e rimase latente in Europa fino all’avvento
della secolarizzazione del potere politico, nell’Ottocento. Sempre su base
veterotestamentaria fu fondata, in Occidente, la parallela ideologia che affermava
una supremazia politica del potere religioso su quello civile. Il popolo
cristiano, in Occidente, finì per avere due padri che
pretendevano di governarlo, ma solo nel secondo millennio si produsse una vera
e propria competizione politica tra di essi. Nel quinto secolo le invasioni dal
Nord Europa provocarono il crollo della nuova civiltà cristiana in Occidente:
un evento che fu vissuto come una catastrofe anche religiosa. La storia che
seguì può anche essere interpretata come un tentativo del potere religioso
occidentale di porvi rimedio. In effetti gli invasori erano già venuti a
contatti con la civiltà imperiale mediterranea e la prendevano come modello di
potere politico. Ciò rese possibile assimilare la loro cultura in quella
politico/religiosa formatasi a partire dal quarto secolo. E produsse l’emergere
del patriarcato romano, uno dei cinque del cristianesimo delle origini
(Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli e Roma), come imperatore
religioso e politico. Il processo iniziò nel settimo secolo, sotto dominio
longobardo: al papato fu assegnato un regno territoriale nell’Italia centrale.
Questo dominio fu confermato in epoca carolingia, nel nono secolo, nella quale
il papato si federò con l’impero dei franchi adottandone la struttura feudale
nella sua organizzazione ed iniziando ad agire come sovrano propriamente
politico. Questa struttura di potere politico, fondata su due padri del
popolo, su due imperatori politico/religiosi, fu
rafforzata dalle necessità di difesa dalle travolgenti invasioni islamiche. In
Oriente rimase invece l’organizzazione politico religiosa del passato
imperniata sull’imperatore, con il patriarca religioso, l’ultimo rimasto in
Oriente, in posizione subordinata. Il consolidamento del potere imperiale del
papato avvenne nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Fu basato su labili
collegamenti neotestamentari, sull’idea di un impero politico-religioso come
espressione della regalità divina, di cui il papato era manifestazione vicaria
(teologia del papato risalente al tredicesimo secolo). Nel Basso Medioevo, dai
costumi delle città medievali occidentali del secondo millennio, si produsse
l’idea che il mantenimento della pace politica e religiosa fosse
fondamentalmente un problema criminale, da affrontare irrogando pene efferate. Pace a
quell’epoca era una delle denominazione del diritto criminale. Da ciò
l’istituzione di polizie politiche di natura politica-religiosa la cui
manifestazione più eclatante fu l’Inquisizione cattolica. Ne può essere
considerata un’estensione la guerra di crociata, in particolare
quella condotta nel tredicesimo secolo contro i dissenzienti religiosi
albigesi. In un’ottica di fede, fino all’inizio dell’Ottocento, la politica
venne vista come un problema di fedeltà ad un capo politico/religioso; in
Occidente anche come quella ad uno o ad entrambi gli imperatori religiosi
emersi dal primo millennio. I fedeli, in genere, o erano sudditi o capi feudali
assoluti. Nel secondo millennio cominciarono a manifestarsi idealità di
giustizia sociale a base popolare ed evangelica: esse dovettero però venire a
patti con i padri politico-religiosi, con le gerarchie
assolutistiche monarchico-feudali civili e/o religiose, entrambe esercitanti
poteri propriamente politici, o vedersi da essi duramente represse come
espressioni criminali. Esperienze di tipo di tipo tendenzialmente democratico
furono organizzate nell’Europa occidentale fin dagli inizi del secondo
millennio da statuti cittadini e intorno alle corti dei sovrani, ma, a parte il
caso dell’importante influsso del calvinismo politico, la prima
espressione di una teologia politica su base democratica, e quello delle
rivoluzioni parlamentari inglesi del Seicento,
prodottesi in collettività di fede affrancate dal centralismo religioso romano,
l’idea di affidare ai popoli la definizione dei valori supremi delle società,
ciò che definiamo giustizia sociale, ebbe difficoltà ad essere
integrata nelle concezioni di fede. Del resto, nelle Scritture quel tipo di
democrazia semplicemente non c’è, per il contesto storico in cui esse si
formarono, e di ciò ha risentito la teologia su di esse costruita. C’è però
un’idea che è risultata al centro delle ideologie democratiche contemporanee:
l’uguaglianza in dignità. La possiamo trovare sintetizzata in questo
passo della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è né schiavo
né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù” (Gal 3,28. Vers.CEI 2008).
I processi storici e
sociali da cui sono emerse le democrazie contemporanee furono avviati,
sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento, anticipati sul
piano ideologico dal pensiero liberale e illuminista. Ma fu l’Ottocento
il secolo del loro crogiolo. In Italia il confronto con le collettività di fede
fu particolarmente drammatico per i prevalere di fortissime tendenze
reazionarie, appoggiate da efficienti organizzazioni di polizia ideologica. In
origine non anti-religiosi, i moti rivoluzionari espressi nel Risorgimento
italiano, divennero anticlericali per le difficoltà incontrate nel processo di
unificazione nazionale ad opera delle organizzazioni clericali. Il motto del
mazzinismo “Dio e popolo” indica che una integrazione tra tendenze democratiche
e fede religiosa era possibile, ma essa fu duramente repressa. La storia delle
collettività di fede italiane dalla metà dell’Ottocento può essere interpretata
come un faticoso processo di integrazione tra idee religiose, idee di giustizia
sociale e idee di democrazia politica, con uno scontro durissimo su base
ideologica tra diverse componenti sociali religiose, che lasciò importanti
tracce, oltre che nella storia nazionale, anche nelle biografie dei più
importanti personaggi di fede di quel periodo, ad esempio in quelle di Romolo
Murri, il fondatore del movimento democratico-cristiano, e di Giuseppe
Toniolo. Fino alla metà degli anni Quaranta prevalsero tendenze reazionarie,
con conseguenze tragiche sul piano politico. Il ritardo dell’integrazione
democratica dei cattolici spianò infatti la strada al fascismo storico. Si riteneva,
da molti, che, al di fuori di un’organizzazione paternalistica, fortemente
accentrata, la fede religiosa si sarebbe corrotta. La democrazia era vista,
secondo un filone dell’antico pensiero greco, come fonte di disordine culturale
e sociale. Il crollo del fascismo storico e il ruolo dei cattolico-democratici
nella lotta antifascista e nell’organizzazione della nuova Repubblica aprirono
un nuovo corso. L’ideologia di fede sottostante era stata lungamente
elaborata in circoli ristretti a partire dal pensiero dei filosofi francesi
Jacques Maritain e Emmanuel Mounier. Il processo ebbe una tappa importante
negli anni Sessanta, ma l’idea che il regime democratico fosse quello
preferibile risale, nella teologia cattolica, addirittura al 1991. E’ una storia
non ancora conclusa, in particolare nell’Italia di oggi, dove l’influenza
clericale in politica è stata fortissima.
71.5. Problemi che oggi in
Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla
democrazia di popolo.
L’idea che in religione
non si debba parlare di politica è un portato del fascismo storico e in
particolare del compromesso, da molti ritenuto disonorevole, concluso tra la
nostra gente di fede e il Mussolini nel 1929. In quel modo il fascismo chiuse
la bocca al cattolicesimo democratico, ma, più in generale, ad ogni forma di
teologia politica.
La scelta
religiosa che fu fatta in alcuni ambienti di fede negli anni scorsi
anni Sessanta, sulla scia dei risultati dell’assemblea di saggi della nostra
confessione religiosa svoltasi all’inizio di quel decennio, fu cosa
profondamente diversa. Liberò la fede dalla politica di partito, aprendola al
pluralismo e proponendosi una formazione e un tirocinio collettivi in merito.
In quell’epoca, infatti, sulla base di un pensiero teologico avviato nel
secondo dopoguerra, i problemi politici vennero concepiti anche come problemi
religiosi, quindi in un’ottica di fede. Fu infatti scritto:
Le gioie e le speranze, le
tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non
trovi eco nel loro cuore. [1965].
E anche:
Noi scongiuriamo per primi
tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non meno che altrove, i
laici devono assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell’ordine
temporale. Se l’ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in
modo autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro,
attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o
direttive, di penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità
di vita. Sono necessari dei cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde:
essi devono impegnarsi risolutamente a infonder loro il soffio dello spirito
evangelico. [1967].
Divenne quindi
centrale e possibile, ma di attuazione piuttosto difficile nelle nostre
collettività di fede, ciò che venne efficacemente sintetizzato, in queste
righe:
“La Chiesa […] con il II Concilio ha mutato
profondamente il suo rapporto con la società e l’umanità. Dalla difesa del
proprio campo di missione spirituale nel temporale (obiettivo della nuova
cristianità elaborato nei confronti dell’età moderna) intende passare
all’apertura evangelizzatrice a tutti gli uomini, al campo della societas
hominum, sul fondamento della sola, comune, natura
umana.
[…]
E’ nella comunità di Chiesa locale che l’unità
nell’essenziale e il pluralismo di partecipazioni politiche e sociale debbano
convivere se non integrarsi nella tensione talora, mai nella dialettica
profana, nella dialogicità spesso, che non esclude, anzi fa crescere la funzione
di guida e di autorità dottrinale e pastorale della gerarchia come la
partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale dei laici, nella
Chiesa e nella
storia. […]
Sotto questo profilo, tutta l’innovazione della
Gaudum et Spes e dell’intero concilio sembra concentrarsi in quel paragrafo 4
della Octogesima Adveniens di Paolo VI che così fatica a trovare (ma il
convegno ecclesiale del novembre ’76 [Evangelizzazione e promozione
umana] ne è un luminoso esempio) applicazione e sviluppi pastorali. […]
La comunità di Chiesa locale, guidata dal Vescovo, [deve essere] assunta anche
come luogo di confronti tra credenti, pure tra credenti con scelte politiche
diverse, per cercare insieme le vie essenziali di impegno di tutta la Chiesa
locale alla necessaria trasformazione della società in cui la comunità di
Chiesa opera, per l’evangelizzazione e la promozione umana”.[Achille
Ardigò, “Toniolo: il primato della riforma sociale. Per ripartire dalla
società civile”, 1978]
In quest’ottica, in religione si
dovrebbe parlare di politica. Una importante manifestazione del
nuovo corso, per la verità rimasta quasi l’unica, fu il convegno
ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, svoltosi a Roma nel
1976. Le difficoltà emerse negli scorsi anni Settanta portarono, dagli anni ’80
al prevalere di orientamenti paternalistici, in quello che, nel campo
fede/democrazia, può essere visto come un lungo inverno, nonostante il
recepimento della democrazia nel pensiero teologico. La pratica, quindi, non fu
all’altezza della teoria. Significativo di questo sviluppo mi pare sia stato
l’appello all’astensionismo dei cattolici in occasione di un referendum su tema
sensibile per la fede, nel 2005. E anche la dura repressione
delle teologie di liberazione di origine latino-americana. Oggi siamo
autorevolmente invitati a far ripartire quel processo di sviluppo democratico
nella pratica delle nostre collettività di fede, ma sembrano mancare risorse
sufficienti a farlo. Secondo il costume dell’ultimo trentennio, si attendono
ancora, paternalisticamente, istruzioni dettagliate dall’alto, invece di
suscitare un movimento in basso. Quest’ultimo dovrebbe avere come protagonisti
i laici di fede, più coinvolti del clero nei processi sociali democratici.
71.6. Da quanto ho esposto, emerge la necessità di fare
tirocinio di democrazia anche nelle nostre collettività di fede, in particolare
nella formazione permanente dei laici di fede, impegnati con primaria
responsabilità nel compito collettivo di infondere valori nella
società civile in cui sono immersi, alla quale partecipano con poteri sovrani.
E’ passato ormai mezzo secolo da quando si
prese consapevolezza di questo, ma ancora quel tipo di tirocinio è piuttosto
ostico negli ambienti religiosi. Lo si vede con sospetto, come fonte di
disordine. Ma è proprio per affrontare in modo ordinato il metodo democratico
che esso occorre.
Storicamente le genti di fede sono state
ammaestrate ad obbedire e, in particolare, ad obbedire tacendo. “Obbedir
tacendo” fu un motto dell’Arma dei Carabinieri ed esso ha un senso preciso
negli ambienti militari: significa abnegazione nello sforzo di contribuire a un
risultato comune che richiede compattezza e coordinazione. Si ricorda che anche
il Garibaldi, rivoluzionario repubblicano risorgimentale, obbedì alle
autorità militari sabaude in diverse occasioni, in particolare con un famoso
telegramma spedito durante la Terza guerra d’indipendenza, la cui immagine ho
incollato qui sopra, e poi al termine della stupefacente conquista delle
regioni del regno borbonico dell’Italia meridionale. Ma la sua obbedienza non
fu solo una questione militare: fu prima di tutto frutto di una valutazione
realistica delle prospettive dell’unificazione nazionale e dello sviluppo di
uno stato degli italiani che sostituisse il precedente pluralismo regionale,
creando innanzi tutto un popolo capace di autogoverno, nelle forme democratiche
all’epoca vigenti e concretamente possibili, alle quali egli stesso
partecipò vivacemente nel dibattito politico.
Democrazia significa autogoverno del popolo:
essa richiede la capacità culturale di elevarsi alla sovranità. Nel momento in
cui si è deciso, anche in religione, tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta
del secolo scorso, che non solo le persone di fede debbano sentire il dovere
religioso di partecipare all’autogoverno della società in cui sono immerse, ma
anche che i regimi democratici sono quelli preferibili per il governo delle
società, è chiaro che, accanto al tradizionale tema della disciplina,
dell’obbedienza, deve farsi strada quello del tirocinio all’autogoverno, ad
essere sovrani nella società e ad esserlo collettivamente, secondo il metodo
democratico incentrato sul dialogo. Non c’è altro modo, infatti, per influire
efficacemente nello sviluppo di società democratiche. In quest’ottica, “la
politica è la più alta forma di carità”, come insegnava il beato Giovanni
Battista Montini. E, non dimentichiamolo, fu san Karol Wojtyla a
insegnarci, con la sua lettera del 1991 in occasione dei cento anni dalla
lettera del suo predecessore che aveva inaugurato il magistero sociale,
che la democrazia è il regime preferibile, anche in un’ottica di fede.
Nella prospettiva democratica, come sosteneva
Lorenzo Milani, l’obbedienza non è più una virtù, se significa sottrarsi
al compito della sovranità collettiva.
La base del tirocinio democratico è la coscienza
storica. Essa mi pare carente nella formazione religiosa di primo e secondo
livello e anche in quella degli adulti e, in particolare, qui da noi. Questo
significa che, poi, il rapporto della nostra gente di fede con la democrazia
sarà piuttosto problematico. In ogni questione si andrà ansiosamente alla
ricerca di una sorta di padre a cui sottomettersi, secondo un
costume bimillenario in religione. Ma la scelta del padre, in mancanza di
sufficiente memoria storica, avverrà con criteri superficiali, sulla base di
apparenze di autorità, di forme luccicanti, di sicumere esibite, di conformismo
collettivo o di puro legalismo.
In religione ci troviamo a dover convivere con
molti padri i quali pretendono obbedienza paternalistica.
La democrazia però consiste in un certo senso proprio nel sindacare questa
autorità paternalistica e, nella mentalità democratica, si vorrebbe riscoprire,
nell’esercizio dell’autorità, il valore di una certa saggezza. I padri ce li
troviamo davanti per ragioni per così dire di natura, saggi
invece si diventa e si deve essere riconosciuti.
71.7.
In
genere nelle nostra collettività di fede non sappiamo parlare efficacemente di
libertà. Mettiamo subito le mani avanti, presentando tutti i guasti che la
libertà produrrebbe. Questo ci impedisce di lasciarci coinvolgere nel pensiero
democratico, che è centrato sull’idea di libertà. Non di rado si finisce per
dire che l’unica vera libertà è nell’obbedienza a ciò che ordinano i nostri
capi religiosi, anche se ciò viene presentato come obbedienza alla volontà
divina. Purtroppo la storia ci insegna che questa soluzione non è stata sempre
soddisfacente. E’ in questo senso che Lorenzo Milani scrisse che l’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.
All’inizio ho incollato un’immagine della Statua
della libertà, a New York. Ho ricordato che sul suo piedistallo sono incisi
gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa
americana Emma Lazarus:
“Datemi chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che si accalcano nell’anelito di
libertà,
i miseri rifiuti della vostre popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli
sventurati,
innalzando la mia luce mostrerò loro la porta d’oro!”.
Questa lirica rende bene, con forte impatto
emotivo, il senso dell’azione di liberazione che è propria della democrazia e
dell’idea democratica di libertà, presenti con molta forza nel pensiero che
ispirò la rivoluzione americana del 1776, con esplicite radici di fede. E
spiega perché, anche da cristiani, noi ci dobbiamo innamorare della libertà.
In democrazia libertà significa libertà
di essere giusti. La giustizia sociale è al centro dell’idea
democratica di libertà. Democrazia significa pensare, tutti insieme, con metodo
basato sul dialogo, un mondo nuovo, in cui essere liberi di essere giusti. E’
questa la politica democratica. Che richiede di elevarsi dalla soggezione
all’ingiustizia alla libertà di essere giusti. Il disegno preciso di questo
mondo nuovo non c'è nelle nostre scritture sacre, che risalgono a tempi
antichi, in cui l'idea di una democrazia di tutti non era
stata ancora prodotta, anche se, in ambiente ellenistico, a cui però l'ebraismo
delle origini cristiane era in genere ostile, la cultura possedeva varie
teorizzazioni sulla democrazia. Nelle scritture sacre possiamo trovare principi
di giustizia sociale e, innanzi tutto, l'idea di pari dignità degli esseri
umani, creati uguali, ma non la democrazia di tutti come
noi oggi la intendiamo. Ciò non significa che democrazia e fede non possano
essere conciliate. La rivoluzione statunitense di fine Settecento dimostra
proprio il contrario.
Libertà di essere giusti. Ma che cos’è questa
giustizia?
Riporto di seguito alcune righe che ci scrissi
anni fa, prendendo spunto da una Giornata della memoria.
“Abbiamo molto sbagliato quando abbiamo fatto una
politica cinica, cattiva, violenta. Questa è la politica dei despoti. Dobbiamo
fare una politica che innanzi tutto rispetti gli infiniti mondi vitali, mio zio
Achille ci scrisse un libro su, che sorreggono la nostra vita. Non escludere
nessuno, non disprezzare nessuno. Ancora con Capitini: interessarsi sommamente
a tutti, sperare che la realtà di tutti arrivi a tutti gli esclusi per
guarirli; scoprire che c'è sempre una non violenza più autentica e che
"ieri eravamo violenti". Capitini definiva questo come lavoro
"religioso" perché ci mette in rapporto con una realtà sommamente
amata e rispettata, una ricerca "sacra" perché comprende chi soffre e
sta peggio di noi. Sulla via della più alta sovranità incontriamo l'esigenza
della più alta giustizia.
Io faccio parte di una genia di malvagi
persecutori. Noi cristiani siamo stati ciechi per millenni. Seguaci di maestri
ebrei, del fariseo Paolo di Tarso, abbiamo perseguitato l'ebraismo, disprezzato
le sue sante tradizioni, i suoi riti, le sue consuetudini; abbiamo infierito in
modo inaudito su quel mondo vitale sul quale nondimeno continuavamo a invocare
benedizioni: "Gerusalemme siano rinforzate le tue porte e i tuoi bastioni,
scorra in te latte e miele, siano salvate le tue madri, crescano forti i tuoi
figli...". Questa la situazione in cui mi sono ritrovato, da cristiano.
Ora che abbiamo finalmente iniziato a convertirci, noi cristiani, ora capiamo l'infinito
amore che c'è dietro ogni gesto religioso dell'ebraismo, dietro ogni sua
tradizione e preghiera, dietro ogni rito, e ci strazia l'orrore di quello che è
stato fatto per tanto tempo. Il passato non può essere cambiato. Ma almeno per
il presente e per il futuro, nei quali si può essere diversi, vorrei mostrare
di aver imparato la lezione che ho ricevuto dalla storia e agire diversamente.
"Teshuvà", pentimento e conversione. E invitare i miei compagni a
fare altrettanto, quando insieme pensiamo a un mondo nuovo.
Prima di compiere qualsiasi violenza, prima di
cancellare sbrigativamente qualcuno dalla storia, prima di disprezzare
qualsiasi consuetudine o idea delle quali magari non capiamo subito il senso,
pensiamo bene se questa sia veramente la giustizia che ci serve per elevare
"tutti" ad essere re. Tutti i giorni mi pare che non manchino
occasioni per esercitare questa "pazienza", che significa apertura a
tutti, aspirazione alla giustizia somma, lì dove misericordia e verità finalmente
si incontrano e si baciano, come è scritto.”
Una persona che rappresenta bene questi ideali
democratici è il pastore battista statunitense nero Martin Luther King
(1929-1968), il più noto esponente del movimento statunitense dei diritti
civili degli anni Sessanta. Egli, seguace dell’ideologia non violenta
teorizzata dall’indiano Ghandi, fu un disobbediente per amore di giustizia:
questa fu la libertà che si prese.
71.8 L’esperienza del costituirsi
di una collettività è vissuta spesso secondo due modalità: quella del ritrovare
un padre e quella del trovare una persona da amare. Nelle nostre scritture
sacre esse sono entrambe presenti, ma di solito la seconda è più difficile da
vivere, e innanzi tutto da accettare, nelle nostre collettività di fede,
secondo i modi religiosi che ci siamo costruiti. Questo accade fondamentalmente
perché la nostra ideologia religiosa è prodotta da un ceto di maschi celibi che
ambiscono al ruolo di padri e tendono a organizzare collettività
paternalistiche.
Nel tirocinio della democrazia occorre
riscoprire e rivivere quell’altra modalità, dell’amore.
L’esperienza dello stato nascente è stata
paragonata all’innamoramento, all’esperienza emotiva dell’innamoramento. E c’è
molta emotività amorevole nell’esperienza della democrazia. Innanzi tutto ci si
innamora dell’anelito di libertà, quindi della libertà, non vivendola più come
peccato e fonte di disobbedienza. In democrazia, libertà significa libertà di
pensare e costruire un mondo nuovo, in cui tutti vengano liberati dal bisogno,
dall’ignoranza, dalla malattia, dalle discriminazioni su basi sociali ed
economiche, dalla solitudine. E di farlo come lavoro collettivo, in cui sono
coinvolte le moltitudini. Democrazia significa anche trovare e, innanzi tutto,
accettare, moltissimi amici. Uscire da una condizione di schiavitù, di
servaggio, esistenziale per entrare in una condizione amicale. “Vi ho
chiamato amici”: riflettere a fondo sul senso di questo detto evangelico
(Gv 15,15) può essere molto utile in un ragionamento sulla democrazia e le sue
finalità. Esso è inserito in un brano che tratta dall’agàpe, la
forma di benevolenza sociale che è caratteristica delle nostre concezioni di
fede e che ha il senso di accogliere gli altri in una piacevole convito. Gli
amici non ce li troviamo imposti per natura, come i fratelli, ma ce li
scegliamo. Le democrazie contemporanee si propongono di realizzare un’amicizia
universale, di scegliersi come amica l'intera
umanità, secondo una particolare concezione di pace che
ha fatto breccia anche nel pensiero religioso, il quale finalmente è
giunto a riconoscervi le radici di fede.