Capire la democrazia -
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12.1. Diffusività dei processi democratici.
I processi democratici moderni sono sempre stati legati a nuove
concezioni sulle posizioni delle persone in società. Nelle società del passato
ognuno era come incastrato nella propria società, al modo in cui una parte del
corpo lo è nel corpo a cui appartiene. La maggior parte della gente riusciva a
stento, con il proprio lavoro, a ricavare ciò che occorreva per sopravvivere,
ma c’era anche da contribuire al lusso dei potenti, nelle cui mani era finito
il dominio della società e che rimanevano sostanzialmente inoperosi al di fuori
dei traffici per mantenere il proprio potere. Le Chiese cristiane a lungo sacralizzarono questo assetto di potere, vale a dire che lo
presentarono, nelle loro teologie, come voluto dal Cielo e quindi immutabile.
Chi si ribellava al dominio dei potenti in società era come se si ribellasse
anche al Cielo. Dal Seicento, a seguito di mutamenti sociali che diedero
maggiore rilievo all’operosità umana,
in Europa si iniziò a pensarla diversamente: il lavoro della persona come fonte della sua dignità sociale. Le
dinamiche sociali di potere avevano già cominciato a scorrere, questa ideologia
sorreggeva il cambiamento: i processi democratici moderni nacquero da questo profondo
mutamento di mentalità, che complessivamente cominciò ad essere definito con il
termine di liberalismo. La Chiesa
cattolica vi si oppose strenuamente, come se si trattasse di un’eresia
religiosa: in particolare, nel 1864 il papa Giovanni Battista Mastai Ferretti,
regnante come Pio 9°, deliberò, con l’enciclica Con quanta cura [Con
quanta cura e pastorale vigilanza i Romani Pontefici
Predecessori Nostri, eseguendo l’ufficio loro affidato dallo stesso Cristo
Signore nella persona del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, e
l’incarico di pascere gli agnelli e le pecore, non abbiano mai tralasciato di
nutrire diligentemente tutto il gregge del Signore con le parole della fede, di
educarlo con la salutare dottrina e di rimuoverlo dai pascoli velenosi] un catalogo
[Sillabo] delle principali idee
del liberalismo che venivano condannate, tra le quali la libertà di pensiero e
di coscienza. Nel 1901, il papa Vincenzo Gioacchino Pecci, con l’enciclica Le gravi discussioni [Le
gravi discussioni su questioni
economiche che per lo stesso tempo hanno turbato la pace di diversi paesi del
mondo] scomunicò l’idea, che tra i giovani del
laicato cattolico aveva cominciato a circolare, della possibilità di una democrazia cristiana, di un modo di
essere democratici secondo i valori cristiani. Conseguentemente il Papato pose
fine d’autorità all’esperienza laicale organizzata in Italia nell’Opera dei
Congressi e deliberò l’istituzione di organizzazioni di Azione Cattolica, per influire nella politica di allora, essenzialmente
a sostegno delle rivendicazioni politiche e territoriali del Papato, spodestato
nel 1870 del suo piccolo regno nell’Italia centrale con capitale Roma. L’Azione
Cattolica però divenne altro e fu uno dei principali agenti sociali di
inculturazione dell’ideologia democratica tra i cattolici italiani, in
particolare per il lavoro dei suoi rami intellettuali, a partire da quello del
sociologo ed economista Giuseppe Toniolo, dal 2012 riconosciuto come beato dalla nostra Chiesa.
In
sostanza: la democrazia non è solo un
modo di vivere e organizzare la politica, ma corrisponde ad un modo di pensare
la persona umana caratterizzato essenzialmente da libertà legate all’operosità.
La teologia cattolica ha avuto e ha ancora un rapporto molto travagliato con le
questioni di libertà, essenzialmente
perché è controllata ancora da oligarchie autocratiche ricevute dall’antichità.
Lega quindi libertà ed egoismo
e quindi condanna l’una con l’altro. E riconosce la virtù nel rinunciare alla propria libertà in
ossequio al valore dell’obbedienza intesa essenzialmente come sottomissione. Questo modo di pensare è
sicuramente in rotta di collisione con i principi democratici, che propongono
un’ideologia diametralmente opposta. Il problema è capire se quello della sottomissione è anche un valore evangelico e su questo c’è
molto da discutere, anche senza essere professionisti della teologia. Questo
per il blando anarchismo che, a leggere i Vangeli, caratterizzò il circolo che
prese ad aggregarsi intorno al Maestro durante la sua vita terrena. Ma
certamente in quel contesto non sono ancora individuabili i principi fondanti
delle idee del liberalismo e della democrazia che da essa derivò: esse
cominciarono a diffondersi solo molti secoli dopo, seguendo l’evoluzione sociale.
E, in particolare, la concezione che riconosce la dignità sociale del lavoro e
quindi della persona che lavora. E questo anche se i primi seguaci del Maestro
non appartenevano al ceto dominante, ma a quello degli operosi, artigiani,
pescatori, piccoli commercianti, e il Maestro non manifestò abitudini e
atteggiamenti caratteristici dei potenti di allora. Stando alle narrazioni
evangeliche egli era figlio di un artigiano e, come ho ricordato all’inizio,
nelle società antiche si era come incastrati nel proprio ruolo sociale. Però Il
Maestro ad un certo punto, ad un’età avanzata secondo la stratificazione
sociale dell’epoca, certamente si liberò dalla propria posizione sociale,
divenendo un rabbì itinerante, appunto un maestro religioso, entrando in vivace dialettica con i poteri
politici e religiosi della sua terra, ma anche con i costumi sociali della sua
gente. Era cresciuto in Galilea, in una società caratterizzata da forte
commistione etnica e religiosa, la Galilea
delle genti come viene indicata nelle Scritture (nel libro di Isaia - Is
8,23-9,3 e nel Vangelo di Matteo -Mt 4,12- 23), un ambiente sociale che, per
quel suo mescolarsi di genti, era in fase di scorrimento sociale. Anche
l’insegnamento evangelico, come i principi democratici, si fonda però su
un’idea di persona umana diversa da quella prevalente nella società in cui
iniziò ad essere diffuso. In particolare quanto alla dignità
accentuata della persona umana nella
sua particolare relazione con il suo Creatore e Salvatore. Questo, della dignità della persona umana, è l’aspetto che collega
la buona novella ai principi democratici e determina una loro accentuata diffusività. I seguaci del Maestro
furono missionari per suo ordine specifico. Il nuovo modo di
vivere secondo il Vangelo era destinato a tutti i popoli della terra, non solo
agli israeliti del Primo secolo. La democrazia contemporanea ha avuto una
evoluzione simile, soprattutto quando iniziò ad essere maggiormente pervasa di
grandi valori umanitari, molti dei quali di chiara origine evangelica. Inizialmente piuttosto legata a precisi
sistemi sociali confinati in genere in contesti nazionali, come nell’esperienza
democratica inglese, la democrazia se ne
emancipò rapidamente nella sua diffusione nell’Europa continentale, e, a
partire da essa, inizialmente nelle colonie fondate dagli europei in America e
poi, nella decolonizzazione manifestatasi nel secolo scorso, anche in quelle in
Africa e Asia. E, insomma, c’è una evangelizzazione religiosa, ma ce n’è una
anche democratica, e la seconda ha finito per influire sulla prima dove essa si
era affermata mediante la violenza dei colonizzatori europei, ma anche
nella stessa Europa: oggi
l’evangelizzazione ha inglobato molti principi democratici e, innanzi tutto, quello
del rispetto della persona umana nell’adesione ai principi e valori di fede,
ripudiando la violenza, anche efferata, del passato. Da ciò deriva che la formazione alla
democrazia è necessariamente implicata
in quella religiosa, anche se, di solito, non si fa, salvo che, in genere come
autoformazione, nei rami intellettuali dall’associazionismo religioso laicale.
Questo perché i nostri preti, i principali maestri di fede del popolo, in
genere non sono formati alla democrazia. In Italia, per chi ha consapevolezza
della sua storia recente, ciò può sorprendere, tenendo conto del rilevantissimo
ruolo che, nell’acculturazione dei cattolici alla democrazia e nella
costruzione della nostra nuova democrazia, ebbero grandi preti, come don Romolo
Murri, don Luigi Sturzo, don Giovanni Battista Montini, don Primo Mazzolari, don Giuseppe Dossetti. A
Montini viene riconosciuto un ruolo determinante nell’elaborazione dei
radiomessaggi pontifici che, tra il 1939 e
il 1945, costituirono la base ideologica di una nuova azione politica
democratico cristiana per superare il fascismo mussoliniano. La nostra nuova
Repubblica democratica ne è in gran parte il frutto.
12.2. Le difficoltà dei
processi democratici negli ambienti di fede.
La
principale difficoltà nell’inculturare processi democratici negli ambienti
religiosi è che non è possibile, come pretende la gerarchia, tenere distinti,
in questo, Chiesa e società civile. Una
volta che si è deciso di seguire l’idea che non debbano esserci poteri senza
limiti, essa fatalmente si diffonde,
perché è legata alla dignità della persona, e non è possibile pensare che una
persona sia degna in società e umiliata in religione. Il
laico di fede, cittadino di una Repubblica democratica, entrando negli spazi
religiosi si dovrebbe fare gregge in
tutto. Se si tratta di ricevere insegnamenti religiosi, in qualche modo questo
è accettabile, perché ciò che si riceve è la Parola di Dio, di fronte alla quale tutti si è come davanti al Pastore buono. Ma in altre faccende è
diverso, ad esempio nel decidere l’organizzazione delle varie attività della
parrocchia e sull’utilizzo degli spazi comuni, come anche della manutenzione e
gestione dei beni parrocchiali. Noi laici siamo abituati a lasciar fare tutto
ai preti, ma, a ben vedere, questo non è imposto dal loro ruolo religioso: si tratta
di spazi e compiti che ben si attaglierebbero a processi democratici. Ma
certamente in genere non si è preparati a farlo e, forse, spesso si preferisce
di esserne esonerati. In questo modo, però quelle funzioni, senza controlli
diffusi o verifica, diventano di fatto autocratiche, facendo riferimento solo a
se stesse. E la burocrazia ecclesiastica non appare in grado di esercitare una
reale vigilanza. In passato, ad esempio, la nostra parrocchia aveva una fornita
biblioteca, e ora non più. Il nuovo parroco, all’inizio della sua gestione
nell’ottobre del 2015 non l’ha più trovata e non se ne è saputo nulla. Processi
democratici avrebbero consentito a tutti di rendersi conto delle ragioni che ne
hanno imposto la dismissione. In passato indubbiamente la parrocchia ha avuto
problemi economici, mancavano i fondi per la manutenzione e per lo stesso
funzionamento degli impianti essenziali, come quelli di riscaldamento. Ma la
gestione di quei problemi era ed è
rimasta ignota all’assemblea dei fedeli, nonostante sia stato istituito un
Consiglio per gli affari economici.
Una biblioteca parrocchiale è uno strumento
importantissimo per la formazione: la sua dismissione dovrebbe senza dubbio
essere resa nota ai fedeli e anche,
sulla base di regole convenzionali approvate mediante processi democratici,
essere per lo meno sottoposta al potere
di veto di un organo rappresentativo della base.
E se poi, incardinati processi democratici,
le decisioni collettive scadessero nei costumi condominiali e il patrimonio
finisse nelle mani di gruppi di influenza spregiudicati, che, insediati con
procedure democratiche, manovrassero nel proprio esclusivo interesse? E’ un
pericolo che c’è, indubbiamente, ma contro il quale sono pensabili rimedi, che
consistono essenzialmente nel bilanciamento di ogni potere. Nessun centro di
potere, anche legittimato democraticamente, dovrebbe avere la facoltà di
disporre a suo arbitrio, senza il concorso di un altro centro di potere con
diversa legittimazione. E’ proprio in questo modo che si cerca di contrastare
l’arbitrio degli spregiudicati nelle democrazie avanzate contemporanee. Ma la
contromisura più efficace è la formazione di mentalità democratiche attraverso
la formazione e, in particolare, l’autoformazione, che è in gran parte quella che
si fa agendo, imparando
dall’esperienza.
L’amministrazione di una biblioteca
parrocchiale, con le correlate attività formative, potrebbe essere il campo per
sperimentare un’organizzazione democratica dell’esercizio del potere. Un tirocinio di democrazia funziona, infatti, se non è pura
simulazione o il semplice discutere di democrazia, ma è lavoro capace di decidere
realmente e di attuare in vista di un fine. Il campo limitato di competenza
contiene i danni da eventuali abusi. Ma un’ulteriore limitazione dovrebbe
consistere nella durata limitata degli incarichi.
La prima fase di un processo democratico
consiste nella costituzione dei un’assemblea deliberativa diretta. Il
successivo è la deliberazione delle regole di procedura decisionale da parte di quell’assemblea e dei
fini che si vogliono raggiungere in un determinato arco temporale.
Successivamente si chiede la presentazione di candidature per i vari incarichi
specifici che riguardino la presidenza dell’assemblea e le attività esecutive,
quindi la fissazione di scopi concreti dell’azione in un certo periodo di
tempo, e si procede alle nomine. Tra le regole di procedura devono
prevedersi a scadenze ravvicinate
riunioni plenarie e per commissioni di settore dell’assemblea, in cui innescare
il dialogo democratico e farne tirocinio. Infine, per mettere alla prova la
capacità diffusiva dell’organizzazione così creata, l’assemblea dovrebbe
deliberare un programma di formazione ed autoformazione rivolto anche
all’esterno, cercando di coinvolgere altri. Nel dibattito democratico si vedrà che il
tempo è poco per ascoltare tutti, ma senza farlo è la dignità democratica di
ciascuno che ne risente. Il rimedi, anche in questo caso ci sono. Innanzi tutto
la presidenza deve richiedere di rimanere in tema. Poi vanno fissati tempi
molto brevi per intervenire in assemblea, salvo la possibilità di depositare
sintesi scritte (di lunghezza limitata). Inoltre andrebbe istituito un fondo del tempo: ognuno, prima di
intervenire, dovrebbe dichiarare il tempo che ritiene di poter dedicare all’attuazione del programma deliberato in assemblea. Il suo
tempo minimo per intervenire dovrebbe essere aumentato proporzionalmente a
quella disponibilità di tempo data per la fase attuativa. In genere, nelle
realtà di prossimità è proprio il tempo delle persone l’elemento più raro: in
genere si pensa di poter dire la propria quasi su ogni tema, ma quanto a darsi
da fare secondo quanto concordato, questa è cosa ben diversa. Comunque, si
vedrà che il tempo per parlare in assemblea rimarrà poco, rispetto a ciò che si
conta di dover dire. Sta alla presidenza l’abilità di riassumere le varie
posizioni, di evidenziare i legami con quelle simili, e di condensare le
molteplici proposte in un documento che ne contenga non più di tre
complessivamente, in una formulazione organica che rifletta i vari orientamenti
che sono prevalsi.
In un’organizzazione parrocchiale dovrebbe
inoltre prevedersi formalmente che ogni attività collettiva organizzata
democraticamente si svolga secondo
intese tra le assemblee deliberative e il collegio dei presbiteri (non del solo
parroco) e che, in caso di mancato raggiungimento di queste intese, certe
deliberazioni dell’assemblea di maggior rilevanza, ad esempio quelle che
comportino esborsi o alienazione di beni, o contrastino con altre attività
programmate, possano essere sospese per
un certo tempo dal veto dei presbiteri e rimesse all’apprezzamento del
Consiglio pastorale parrocchiale. Infatti l’esercizio della democrazia va conciliato
con l’ordinamento burocratico degli
uffici ecclesiastici, che è quello che è. Oltre alla pratica della democrazie è
necessario attuare il principio sinodale,
per cui, accade ciò che accada, ci
si impegna a procedere sempre uniti.
Su piccola scala, una organizzazione di
autoformazione per l’orientamento democratico, per discutere delle questioni
sociali alla luce degli orientamenti religiosi e raggiungere una migliore
consapevolezza, potrebbe essere affidata a processi democratici, per iniziare a
fare tirocinio personale di democrazia e vedere di che si è capaci. Da essa
potrebbero poi scaturire proposte per la prosecuzione e l’ampliamento dei
quell’attività.
Nella pratica di un processo democratico ci
si scontra sempre con le soggettività personali dei partecipanti, che possono
tendere al conflitto, alla polemica o all’ostruzione. Persuadere e trovare
l’unità attraverso il dialogo è appunto quel tirocinio democratico di cui in
genere, un po’ dappertutto, si è poco pratici, perché spesso per i più
l’esercizio della democrazia si riduce ad andare al seggio il giorno delle
votazioni e vedere ciò che esce fuori. Può non essere facile. E, allora, di
fronte alle difficoltà può avvenire che si rimpianga l’autocrazia, quella che
tacita mediante un potere superiore esentato dal rendiconto ed esclude chi non
si tace. E non basta che solo un certo numero dei partecipanti ad un processo
democratico ne sia convinto, ma occorre che in una collettività si maturi una conquista
culturale diffusa della democrazia. Purtroppo nei nostri ambienti religiosi in
genere non vi è una tradizione democratica e anche nella società intorno non
è diverso, perché i partiti italiani contemporanei hanno smesso di fare
formazione e di creare spazi di tirocinio. Si fa, al più, addestramento, e allora non si formano personalità democratiche, ma
degli staff, dei corpi di addetti che
fanno ciò che si dice loro per raggiungere scopi che essi non hanno deliberato
o contribuito a deliberare, al modo degli staff
delle imprese della pubblicità
commerciale.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.