Ripubblico il post che segue, con la proposta di farne il tema della prima riunione on line del nostro gruppo parrocchiale di AC, aperta anche ai non iscritti, in particolare quanto alla concezione di popolo che si manifesta nell'enciclica Laudato si' (2015). Quell'idea, che come guida all'azione collettiva ha la natura propriamente di ideologia politica, è stata oggetto di una dura critica in un libro di un professore dell'università Alma Mater di Bologna, Loris Zanatta, dal titolo Il populismo gesuita - Peron, Fidel, Bergoglio, pubblicato quest'anno da Laterza. Il problema, per Zanatta, non è tanto il proposito di migliorare le condizioni della gente, il popolo, ma nel non dare sufficiente credito alla democrazia come strumento per ottenere quel risultato. Questo deriva dall'esperienza politica dell'America Latina, radicalmente diversa da quella dell'Europa occidentale degli ultimi settant'anni.
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La politica
nell’enciclica Laudato si’ (di papa Francesco, 24-5-15)
In
una campagna politica da noi molti si appellano ai sentimenti religiosi della
gente. Questo perché le comunità di fede sono numerose in Italia e hanno un
consistente peso politico. Ma i richiami che si fanno alla religione spesso
sono superficiali e poco informati. Non di rado segnalano una
strumentalizzazione della religione, come quando si fa appello alla fede per
respingere, emarginare, escludere. La religione viene strumentalizzata quando
se ne respingono i valori e si vuole solo stringere con essa patti di potere,
per la sua forza di coesione e di influenza che le deriva dalla disciplina che
riesce a imporre ai suoi fedeli.
Le nostre collettività hanno sempre espresso sia una
dottrina sia un pensiero sociali e politici. Il pensiero sociale è quello che
riguarda lo stato della società, com’è, dove va, i suoi problemi. Quello
politico è una parte di quello sociale e riguarda le indicazioni per il governo
della società, che in democrazia compete a tutti, nel senso che tutti vi
possono partecipare e tutti devono sentirsene responsabili proprio per questa
possibilità di partecipazione. La dottrina è quella parte del pensiero che
obbliga un fedele in quanto insegnamento di un’autorità religiosa riconosciuta e
per il suo stretto collegamento con i principi della fede. Quanto alla nostra
confessione possiamo riconoscere una dottrina sociale, ma, attualmente,
non una dottrina politica. In passato vi furono
anche dottrine politiche, ad esempio nella sconfessione dell’idea
di una democrazia cristiana, all’inizio del Novecento, o
quella del comunismo ateistico (quello che vede nella
religione solo un imbroglio per tenere sottomessi i più poveri e gli
sfruttati), nel 1949. Questo significa che ai tempi nostri in politica viene in
rilievo la responsabilità religiosa, etica, sociale e politica del credente in
decisione che riguardano la sua coscienza e che la Chiesa, in particolare i
suoi capi, si astiene dal governo diretto della società. Questo non significa
che non cerchi di influirvi in vari modi, ed anzi rivendica a sé questa facoltà
a titolo di libertà religiosa.
Indubbiamente la dottrina sociale, un corpo ormai molto esteso,
costituisce un buon strumento di orientamento per la vita del credente. Essa
contiene sempre più un esteso pensiero politico, vale a dire valutazioni sul
governo della società proposte alla coscienza del credente la cui forza non
deriva tanto dall’autorità che le emano ma dalle argomentazioni che le
sorreggono.
Ho cercato
di estrarre dall’enciclica Laudato si’, diffusa il 24 maggio 2015 da papa Francesco il
pensiero politico in essa contenuto. Esso
è colto, informato, frutto di un lavoro collettivo ad alto livello,
eticamente orientato e in ciò garantito dalla firma del Papa, che vi ha svolto
essenzialmente il ruolo di supervisore, anche se la sua mano in taluni passi si
avverte più chiaramente.
Che dire
di un politico che si appelli alle nostre collettività religiose, faccia
riferimenti religiosi, e poi ignori o addirittura contrasti apertamente quel
pensiero politico? Ma che dire di un fedele che si conduca nello stesso modo?
In
politica ci si divide tra credenti tra le varie soluzioni possibili e anche
nell’individuazione dei problemi sociali e delle priorità politiche. Ma viviamo
tutti sulla stessa Terra, nello stesso mondo sociale: questo comporta che un
terreno di riflessione comune dovrebbe potersi trovare. E condividere la stessa
fede non avrà proprio nessuna influenza nel decidere?
Il
pensiero specificamente politico che troviamo nell’enciclica Laudato si’ può aiutarci nel dialogo e
nelle scelte. Innanzi tutto per individuare i temi più rilevanti della
politica. La politica che non ne faccia menzione vale poco e, quindi, serve a
poco. Spesso è pura propaganda, a volte
fa propaganda dirigendosi alla pancia e non al cervello e al cuore.
La
politica crea l’ambiente in cui si vive la fede. Non siamo monaci che vivono
separati. Una politica che, ad esempio, causi il degrado del lavoro o non lo
combatta danneggerà la famiglia e quindi la vita di fede. Nella dottrina
sociale, però, si è raggiunta sempre più chiara consapevolezza che una cattiva
politica, generando un cattivo sviluppo, è in grado di porre in pericolo la
sopravvivenza dell’intera umanità. Si è ragionato a ragionarci sopra partendo
dalla possibilità di un nuovo conflitto mondiale con l’impiego di armi nucleari
e, più recentemente, si è proseguito constatando che, a prescindere da guerre
di quel tipo, è l’economia che, sfruttando incautamente e spregiudicatamente le
risorse del pianeta, quelle ambientali e quelle umane, mette a rischio
l’umanità e quindi anche la vita religiosa, insieme alla vita in genere.
Propongo
di seguito la sintesi del pensiero politico che ho individuato nell’enciclica Laudato si’. A parte le parti tra
parentesi quadre, che indicano miei elementi di raccordo, si tratta solo delle
parole scritte in quel documento. Pur essendo solo un sintesi di temi
particolari, rimane un documento lungo e complesso, che richiede un certo
impegno nella lettura e nella comprensione. Vale la pena di affrontarlo, come
tirocinio alla cittadinanza.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente
papa - Roma, Monte Sacro, Valli
1. Più di cinquant’anni fa, mentre il mondo
vacillava sull’orlo di una crisi nucleare, il santo Papa Giovanni XXIII scrisse un’Enciclica con
la quale non si limitò solamente a respingere la guerra, bensì volle
trasmettere una proposta di pace. Diresse il suo messaggio Pacem in terris a tutto il “mondo
cattolico”, ma aggiungeva “e a tutti gli uomini di buona volontà”. Adesso, di
fronte al deterioramento globale dell’ambiente, voglio rivolgermi a ogni
persona che abita questo pianeta. Nella mia Esortazione Evangelii gaudium, ho scritto ai membri
della Chiesa per mobilitare un processo di riforma missionaria ancora da
compiere. In questa Enciclica, mi propongo specialmente di entrare in dialogo
con tutti riguardo alla nostra casa comune.
Il
mio predecessore Benedetto XVI ha rinnovato l’invito a «eliminare
le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale e correggere i
modelli di crescita che sembrano incapaci di garantire il rispetto
dell’ambiente» Ha ricordato che il mondo non può essere analizzato solo
isolando uno dei suoi aspetti, perché «il libro della natura è uno e indivisibile»
e include l’ambiente, la vita, la sessualità, la famiglia, le relazioni
sociali, e altri aspetti. Di conseguenza, «il degrado della natura è
strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana».
Questi contributi dei Papi
raccolgono la riflessione di innumerevoli scienziati, filosofi, teologi e
organizzazioni sociali che hanno arricchito il pensiero della Chiesa su tali
questioni.
La sfida urgente di proteggere
la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia
umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo
che le cose possono cambiare.
Rivolgo un invito urgente a
rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta.
Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale
che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti.
2. La continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del
pianeta si unisce oggi all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro, in quella
che in spagnolo alcuni chiamano “rapidación” (rapidizzazione). Benché il
cambiamento faccia parte della dinamica dei sistemi complessi, la velocità che
le azioni umane gli impongono oggi contrasta con la naturale lentezza
dell’evoluzione biologica. A ciò si aggiunge il problema che gli obiettivi di
questo cambiamento veloce e costante non necessariamente sono orientati al bene
comune e a uno sviluppo umano, sostenibile e integrale.
Il clima è un bene comune, di
tutti e per tutti. Esso, a livello globale, è un sistema complesso in relazione
con molte condizioni essenziali per la vita umana. Esiste un consenso
scientifico molto consistente che indica che siamo in presenza di un
preoccupante riscaldamento del sistema climatico.
I cambiamenti climatici
sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali,
economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali
sfide attuali per l’umanità.
Molti di coloro che
detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi
soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di
ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici. Ma molti sintomi
indicano che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con
gli attuali modelli di produzione e di consumo.
L’acqua potabile e pulita
rappresenta una questione di primaria importanza, perché è indispensabile per
la vita umana e per sostenere gli ecosistemi terrestri e acquatici.
Mentre la
qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza
la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta
alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è
un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la
sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli
altri diritti umani.
Anche le risorse della terra vengono depredate
a causa di modi di intendere l’economia e l’attività commerciale e produttiva
troppo legati al risultato immediato. La perdita di foreste e boschi implica
allo stesso tempo la perdita di specie che potrebbero costituire nel futuro
risorse estremamente importanti, non solo per l’alimentazione, ma anche per la
cura di malattie e per molteplici servizi. Le diverse specie contengono geni
che possono essere risorse-chiave per rispondere in futuro a qualche necessità
umana o per risolvere qualche problema ambientale.
[N]on basta pensare alle diverse specie
solo come eventuali “risorse” sfruttabili, dimenticando che hanno un valore in
sé stesse.
[O]sservando il mondo notiamo che [il]
livello di intervento umano, spesso al servizio della finanza e del consumismo,
in realtà fa sì che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella, sempre
più limitata e grigia, mentre contemporaneamente lo sviluppo della tecnologia e
delle offerte di consumo continua ad avanzare senza limiti. In questo modo,
sembra che ci illudiamo di poter sostituire una bellezza irripetibile e non
recuperabile con un’altra creata da noi.
La cura degli ecosistemi richiede uno sguardo
che vada aldilà dell’immediato, perché quando si cerca solo un profitto
economico rapido e facile, a nessuno interessa veramente la loro preservazione.
Ma il costo dei danni provocati dall’incuria egoistica è di gran lunga più
elevato del beneficio economico che si può ottenere. Nel caso della perdita o
del serio danneggiamento di alcune specie, stiamo parlando di valori che
eccedono qualunque calcolo.
E’ necessario investire molto di più nella
ricerca, per comprendere meglio il comportamento degli ecosistemi e analizzare
adeguatamente le diverse variabili di impatto di qualsiasi modifica importante
dell’ambiente. Poiché tutte le creature sono connesse tra loro, di ognuna
dev’essere riconosciuto il valore con affetto e ammirazione, e tutti noi esseri
creati abbiamo bisogno gli uni degli altri.
3. Oggi riscontriamo, per esempio,
In alcuni luoghi, rurali e urbani, la privatizzazione degli spazi
ha reso difficile l’accesso dei cittadini a zone di particolare bellezza;
altrove si sono creati quartieri residenziali “ecologici” solo a disposizione
di pochi, dove si fa in modo di evitare che altri entrino a disturbare una
tranquillità artificiale. Spesso si trova una città bella e piena di spazi verdi
ben curati in alcune aree “sicure”, ma non altrettanto in zone meno visibili,
dove vivono gli scartati della società.
Tra le componenti sociali del
cambiamento globale si includono gli effetti occupazionali di alcune
innovazioni tecnologiche, l’esclusione sociale, la disuguaglianza nella
disponibilità e nel consumo dell’energia e di altri servizi, la frammentazione
sociale, l’aumento della violenza e il sorgere di nuove forme di aggressività
sociale, il narcotraffico e il consumo crescente di droghe fra i più giovani,
la perdita di identità. Sono segni, tra gli altri, che mostrano come la
crescita degli ultimi due secoli non ha significato in tutti i suoi aspetti un
vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita. Alcuni di
questi segni sono allo stesso tempo sintomi di un vero degrado sociale, di una
silenziosa rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale.
A questo si aggiungono le dinamiche dei media
e del mondo digitale, che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo
sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di
amare con generosità. I grandi sapienti del passato, in questo contesto,
correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore
dispersivo dell’informazione. Questo ci richiede uno sforzo affinché tali mezzi
si traducano in un nuovo sviluppo culturale dell’umanità e non in un
deterioramento della sua ricchezza più profonda. La vera sapienza, frutto della
riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si
acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e
confondere, in una specie di inquinamento mentale. Nello stesso tempo, le
relazioni reali con gli altri, con tutte le sfide che implicano, tendono ad essere
sostituite da un tipo di comunicazione mediata da internet. Ciò permette di
selezionare o eliminare le relazioni secondo il nostro arbitrio, e così si
genera spesso un nuovo tipo di emozioni artificiali, che hanno a che vedere più
con dispositivi e schermi che con le persone e la natura.
4. L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non
potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo
attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale. Di
fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in
modo speciale i più deboli del pianeta: «Tanto l’esperienza comune della vita
ordinaria quanto la ricerca scientifica dimostrano che gli effetti più gravi di
tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera». Per
esempio, l’esaurimento delle riserve ittiche penalizza specialmente coloro che
vivono della pesca artigianale e non hanno come sostituirla, l’inquinamento
dell’acqua colpisce in particolare i più poveri che non hanno la possibilità di
comprare acqua imbottigliata, e l’innalzamento del livello del mare colpisce
principalmente le popolazioni costiere impoverite che non ha dove trasferirsi.
L’impatto degli squilibri attuali si manifesta anche nella morte prematura di
molti poveri, nei conflitti generati dalla mancanza di risorse e in tanti altri
problemi che non trovano spazio sufficiente nelle agende del mondo.
49. Vorrei osservare che spesso non si ha chiara consapevolezza
dei problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi. Essi sono la maggior
parte del pianeta, miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti
politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi
si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per
obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno
collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono
frequentemente all’ultimo posto. Questo si deve in parte al fatto che tanti
professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione e centri di potere sono
ubicati lontani da loro, in aree urbane isolate, senza contatto diretto con i
loro problemi. Vivono e riflettono a partire dalla comodità di uno sviluppo e
di una qualità di vita che non sono alla portata della maggior parte della
popolazione mondiale. Questa mancanza di contatto fisico e di incontro, a volte
favorita dalla frammentazione delle nostre città, aiuta a cauterizzare la
coscienza e a ignorare parte della realtà in analisi parziali. Ciò a volte convive
con un discorso “verde”. Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere
che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale,
che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per
ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.
Invece di risolvere i problemi dei poveri e
pensare a un mondo diverso, alcuni si limitano a proporre una riduzione della
natalità. Non mancano pressioni internazionali sui Paesi in via di sviluppo che
condizionano gli aiuti economici a determinate politiche di “salute
riproduttiva”. Però, «se è vero che l’ineguale distribuzione della popolazione
e delle risorse disponibili crea ostacoli allo sviluppo e ad un uso sostenibile
dell’ambiente, va riconosciuto che la crescita demografica è pienamente
compatibile con uno sviluppo integrale e solidale». Incolpare l’incremento
demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per
non affrontare i problemi. Si pretende così di legittimare l’attuale modello
distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una
proporzione che sarebbe impossibile generalizzare, perché il pianeta non
potrebbe nemmeno contenere i rifiuti di un simile consumo. Inoltre, sappiamo
che si spreca approssimativamente un terzo degli alimenti che si producono, e
«il cibo che si butta via è come se lo si rubasse dalla mensa del povero».
Ad ogni modo, è certo che bisogna prestare attenzione allo squilibrio
nella distribuzione della popolazione sul territorio, sia a livello nazionale
sia a livello globale, perché l’aumento del consumo porterebbe a situazioni
regionali complesse, per le combinazioni di problemi legati all’inquinamento
ambientale, ai trasporti, allo smaltimento dei rifiuti, alla perdita di
risorse, alla qualità della vita.
L’inequità non colpisce solo gli
individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni
internazionali. C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord
e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico,
come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente
da alcuni Paesi. Le esportazioni di alcune materie prime per soddisfare i
mercati nel Nord industrializzato hanno prodotto danni locali, come
l’inquinamento da mercurio nelle miniere d’oro o da diossido di zolfo in quelle
di rame. In modo particolare c’è da calcolare l’uso dello spazio ambientale di
tutto il pianeta per depositare rifiuti gassosi che sono andati accumulandosi
durante due secoli e hanno generato una situazione che ora colpisce tutti i
Paesi del mondo. Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi
ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in
Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti
disastrosi sul rendimento delle coltivazioni. A questo si uniscono i danni
causati dall’esportazione verso i Paesi in via di sviluppo di rifiuti solidi e
liquidi tossici e dall’attività inquinante di imprese che fanno nei Paesi meno
sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale:
«Constatiamo che spesso le imprese che operano così sono multinazionali, che
fanno qui quello che non è loro permesso nei Paesi sviluppati o del cosiddetto
primo mondo. Generalmente, quando cessano le loro attività e si ritirano,
lasciano grandi danni umani e ambientali, come la disoccupazione, villaggi
senza vita, esaurimento di alcune riserve naturali, deforestazione,
impoverimento dell’agricoltura e dell’allevamento locale, crateri, colline devastate,
fiumi inquinati e qualche opera sociale che non si può più sostenere».
Il debito estero dei Paesi poveri si è
trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il
debito ecologico. In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano
le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo
dei Paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro. La terra dei
poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma l’accesso alla proprietà dei beni e
delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è loro vietato da un
sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso. E’
necessario che i Paesi sviluppati contribuiscano a risolvere questo debito
limitando in modo importante il consumo di energia non rinnovabile, e
apportando risorse ai Paesi più bisognosi per promuovere politiche e programmi
di sviluppo sostenibile. Le regioni e i Paesi più poveri hanno meno possibilità
di adottare nuovi modelli di riduzione dell’impatto ambientale, perché non
hanno la preparazione per sviluppare i processi necessari e non possono
coprirne i costi. Perciò, bisogna conservare chiara la coscienza che nel
cambiamento climatico ci sono responsabilità diversificate e,
come hanno detto i Vescovi degli Stati Uniti, è opportuno puntare «specialmente
sulle necessità dei poveri, deboli e vulnerabili, in un dibattito spesso
dominato dagli interessi più potenti». Bisogna rafforzare la
consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e
barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso
non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza.
Queste situazioni provocano i gemiti
di sorella terra, che si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo, con un
lamento che reclama da noi un’altra rotta. Mai abbiamo maltrattato e offeso la
nostra casa comune come negli ultimi due secoli. Siamo invece chiamati a
diventare gli strumenti di Dio Padre perché il nostro pianeta sia quello che
Egli ha sognato nel crearlo e risponda al suo progetto di pace, bellezza e
pienezza. Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per
affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che
indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni
attuali includendo tutti, senza compromettere le generazioni future. Si rende
indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e
assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere
derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la
politica ma anche la libertà e la giustizia.
Degna di nota è la debolezza della reazione
politica internazionale. La sottomissione della politica alla tecnologia e alla
finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono
troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a
prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non vedere colpiti
i suoi progetti. In questa linea il Documento di Aparecida chiede
che «negli interventi sulle risorse naturali non prevalgano gli interessi di
gruppi economici che distruggono irrazionalmente le fonti di vita».
L’alleanza tra economia e tecnologia finisce per lasciare fuori tutto ciò
che non fa parte dei loro interessi immediati. Così ci si potrebbe aspettare
solamente alcuni proclami superficiali, azioni filantropiche isolate, e anche
sforzi per mostrare sensibilità verso l’ambiente, mentre in realtà qualunque
tentativo delle organizzazioni sociali di modificare le cose sarà visto come un
disturbo provocato da sognatori romantici o come un ostacolo da eludere.
A poco a poco alcuni Paesi possono
mostrare progressi importanti, lo sviluppo di controlli più efficienti e una
lotta più sincera contro la corruzione. E’ cresciuta la sensibilità ecologica
delle popolazioni, anche se non basta per modificare le abitudini nocive di
consumo, che non sembrano recedere, bensì estendersi e svilupparsi. E’ quello
che succede, per fare solo un semplice esempio, con il crescente aumento
dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria: i mercati, cercando un
profitto immediato, stimolano ancora di più la domanda. Se qualcuno osservasse
dall’esterno la società planetaria, si stupirebbe di fronte a un simile
comportamento che a volte sembra suicida.
Nel frattempo i poteri economici continuano a
giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e
una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e
gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il
degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi. Molti
diranno che non sono consapevoli di compiere azioni immorali, perché la
distrazione costante ci toglie il coraggio di accorgerci della realtà di un
mondo limitato e finito. Per questo oggi «qualunque cosa che sia fragile, come
l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato,
trasformati in regola assoluta».
E’ prevedibile che, di fronte
all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per
nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni. La guerra causa sempre
gravi danni all’ambiente e alla ricchezza culturale dei popoli, e i rischi
diventano enormi quando si pensa alle armi nucleari e a quelle biologiche.
Infatti «nonostante che accordi internazionali proibiscano la guerra chimica,
batteriologica e biologica, sta di fatto che nei laboratori continua la ricerca
per lo sviluppo di nuove armi offensive, capaci di alterare gli equilibri
naturali». Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e
risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere
collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni
politici spesso non hanno ampiezza di vedute. Perché si vuole mantenere oggi un
potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era
urgente e necessario farlo?
In alcuni Paesi ci sono esempi positivi
di risultati nel migliorare l’ambiente, come il risanamento di alcuni fiumi che
sono stati inquinati per tanti decenni, il recupero di boschi autoctoni, o
l’abbellimento di paesaggi con opere di risanamento ambientale, o progetti
edilizi di grande valore estetico, progressi nella produzione di energia non
inquinante, nel miglioramento dei trasporti pubblici. Queste azioni non
risolvono i problemi globali, ma confermano che l’essere umano è ancora capace
di intervenire positivamente. Essendo stato creato per amare, in mezzo ai suoi
limiti germogliano inevitabilmente gesti di generosità, solidarietà e cura.
Nello stesso tempo, cresce un’ecologia
superficiale o apparente che consolida un certo intorpidimento e una
spensierata irresponsabilità. Come spesso accade in epoche di profonde crisi,
che richiedono decisioni coraggiose, siamo tentati di pensare che quanto sta
succedendo non è certo. Se guardiamo in modo superficiale, al di là di alcuni
segni visibili di inquinamento e di degrado, sembra che le cose non siano tanto
gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni
attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di
vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia
per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando
per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla
fosse.
5. Su molte questioni concrete la Chiesa non ha
motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e
promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati, rispettando le diversità di
opinione. Basta però guardare la realtà con sincerità per vedere che c’è un
grande deterioramento della nostra casa comune. La speranza ci invita a
riconoscere che c’è sempre una via di uscita, che possiamo sempre cambiare
rotta, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi. Tuttavia,
sembra di riscontrare sintomi di un punto di rottura, a causa della grande
velocità dei cambiamenti e del degrado, che si manifestano tanto in catastrofi
naturali regionali quanto in crisi sociali o anche finanziarie, dato che i
problemi del mondo non si possono analizzare né spiegare in modo isolato. Ci
sono regioni che sono già particolarmente a rischio e, aldilà di qualunque previsione
catastrofica, è certo che l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi
punti di vista, perché abbiamo smesso di pensare ai fini dell’agire umano: «Se
lo sguardo percorre le regioni del nostro pianeta, ci si accorge subito che
l’umanità ha deluso l’attesa divina».
[…Q]uesta Enciclica si apre a un dialogo con
tutti per cercare insieme cammini di liberazione, voglio mostrare fin
dall’inizio come le convinzioni di fede offrano ai cristiani, e in parte anche
ad altri credenti, motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei
fratelli e sorelle più fragili. Se il solo fatto di essere umani muove le
persone a prendersi cura dell’ambiente del quale sono parte, «i cristiani, in
particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri
nei confronti della natura e del Creatore sono parte della loro fede»
6. Insistere nel dire che l’essere umano è immagine di Dio non dovrebbe
farci dimenticare che ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua.
Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto
smisurato per noi. Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio. La storia
della propria amicizia con Dio si sviluppa sempre in uno spazio geografico che
diventa un segno molto personale, e ognuno di noi conserva nella memoria luoghi
il cui ricordo gli fa tanto bene.
Quando ci si rende conto
del riflesso di Dio in tutto ciò che esiste, il cuore sperimenta il desiderio
di adorare il Signore per tutte le sue creature e insieme ad esse, come appare
nel bellissimo cantico di san Francesco d’Assisi:
«Laudato sie, mi’ Signore,
cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte»
Le creature di questo
mondo non possono essere considerate un bene senza proprietario: «Sono tue,
Signore, amante della vita» (Sap 11,26). Questo induce alla
convinzione che, essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri
dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia
universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole
e umile. Voglio ricordare che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che
ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno,
e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione».
Questo non significa
equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore
peculiare che implica allo stesso tempo una tremenda responsabilità. E nemmeno
comporta una divinizzazione della terra, che ci priverebbe della chiamata a
collaborare con essa e a proteggere la sua fragilità. Queste concezioni
finirebbero per creare nuovi squilibri nel tentativo di fuggire dalla realtà
che ci interpella. Si avverte a volte l’ossessione di negare alla persona
umana qualsiasi preminenza, e si porta avanti una lotta per le altre specie che
non mettiamo in atto per difendere la pari dignità tra gli esseri umani.
Certamente ci deve preoccupare che gli altri esseri viventi non siano trattati
in modo irresponsabile, ma ci dovrebbero indignare soprattutto le enormi
disuguaglianze che esistono tra di noi, perché continuiamo a tollerare che
alcuni si considerino più degni di altri. Non ci accorgiamo più che alcuni si
trascinano in una miseria degradante, senza reali possibilità di miglioramento,
mentre altri non sanno nemmeno che farsene di ciò che possiedono, ostentano con
vanità una pretesa superiorità e lasciano dietro di sé un livello di spreco
tale che sarebbe impossibile generalizzarlo senza distruggere il pianeta.
Continuiamo nei fatti ad ammettere che alcuni si sentano più umani di altri,
come se fossero nati con maggiori diritti.
Non può essere
autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se
nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione
per gli esseri umani. È evidente l’incoerenza di chi lotta contro il traffico
di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto indifferente davanti
alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri, o è determinato a
distruggere un altro essere umano che non gli è gradito. Ciò mette a rischio il
senso della lotta per l’ambiente. Non è un caso che, nel cantico in cui loda
Dio per le creature, san Francesco aggiunga: «Laudato si’, mi’ Signore, per
quelli ke perdonano per lo tuo amore». Tutto è collegato. Per questo si richiede
una preoccupazione per l’ambiente unita al sincero amore per gli esseri umani e
un costante impegno riguardo ai problemi della società.
D’altra parte, quando
il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è
escluso da tale fraternità. Di conseguenza, è vero anche che l’indifferenza o
la crudeltà verso le altre creature di questo mondo finiscono sempre per
trasferirsi in qualche modo al trattamento che riserviamo agli altri esseri
umani. Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un
animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone. Ogni
maltrattamento verso qualsiasi creatura «è contrario alla dignità
umana». Non possiamo considerarci persone che amano veramente se
escludiamo dai nostri interessi una parte della realtà: «Pace, giustizia e
salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si
potranno separare in modo da essere trattate singolarmente, a pena di ricadere
nuovamente nel riduzionismo». Tutto è in relazione, e tutti noi esseri
umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio,
legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce
anche tra noi, con tenero affetto, al fratello sole, alla sorella luna, al fratello
fiume e alla madre terra.
7. Oggi, credenti e non credenti sono d’accordo sul fatto che la
terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a
beneficio di tutti. Per i credenti questo diventa una questione di fedeltà al
Creatore, perché Dio ha creato il mondo per tutti. Di conseguenza, ogni
approccio ecologico deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei
diritti fondamentali dei più svantaggiati. Il principio della subordinazione
della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il
diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro” del comportamento sociale,
e il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale».
La tradizione cristiana non ha mai
riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e
ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà
privata.
L’ambiente è un bene
collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne
possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo
facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli
altri. Per questo i Vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa
significa il comandamento “non uccidere” quando «un venti per cento della
popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni
povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere».
A nulla ci servirà descrivere i
sintomi, se non riconosciamo la radice umana della crisi ecologica. Vi è un
modo di comprendere la vita e l’azione umana che è deviato e che contraddice la
realtà fino al punto di rovinarla. Perché non possiamo fermarci a riflettere su
questo? Propongo pertanto di concentrarci sul paradigma tecnocratico dominante
e sul posto che vi occupano l’essere umano e la sua azione nel mondo.
[…N]on possiamo ignorare che
l’energia nucleare, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro
stesso DNA e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo
potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il
potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del
genere umano e del mondo intero.
[Si] tende
a credere che «ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso,
accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale, di
pienezza di valori», come se la realtà, il bene e la verità
sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia.
Il fatto è che «l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza»,
perché l’immensa crescita
tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per
quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza. Ogni epoca tende a
sviluppare una scarsa autocoscienza dei propri limiti. Per tale motivo è
possibile che oggi l’umanità non avverta la serietà delle sfide che le si
presentano, e «la possibilità dell’uomo di usare male della sua potenza è in
continuo aumento» quando «non esistono norme di libertà, ma solo pretese
necessità di utilità e di sicurezza». L’essere umano non è pienamente autonomo. La sua
libertà si ammala quando si consegna alle forze cieche dell’inconscio, dei
bisogni immediati, dell’egoismo, della violenza brutale. In tal senso, è nudo
ed esposto di fronte al suo stesso potere che continua a crescere, senza avere
gli strumenti per controllarlo. Può disporre di meccanismi superficiali, ma
possiamo affermare che gli mancano un’etica adeguatamente solida, una cultura e
una spiritualità che realmente gli diano un limite e lo contengano entro un
lucido dominio di sé.
8. […O]ra
ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso
l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà
stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato
di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti. Da qui si
passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto
entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò
suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che
conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso
presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi
utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti
negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti».
[…L]a tecnica ha una tendenza a
far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica, e «l’uomo che ne è il
protagonista sa che, in ultima analisi, non si tratta né di utilità, né di
benessere, ma di dominio; dominio nel senso estremo della parola».
Per questo «cerca di afferrare
gli elementi della natura ed insieme quelli dell’esistenza umana». Si riducono così la capacità di
decisione, la libertà più autentica e lo spazio per la creatività alternativa
degli individui.
Il paradigma tecnocratico
tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica.
L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza
prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La
finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi
finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento
ambientale. In alcuni circoli si sostiene che l’economia attuale e la
tecnologia risolveranno tutti i problemi ambientali, allo stesso modo in cui si
afferma, con un linguaggio non accademico, che i problemi della fame e della
miseria nel mondo si risolveranno semplicemente con la crescita del mercato.
Non è una questione di teorie economiche, che forse nessuno oggi osa difendere,
bensì del loro insediamento nello sviluppo fattuale dell’economia. Coloro che
non lo affermano con le parole lo sostengono con i fatti, quando non sembrano
preoccuparsi per un giusto livello della produzione, una migliore distribuzione
della ricchezza, una cura responsabile dell’ambiente o i diritti delle
generazioni future. Con il loro comportamento affermano che l’obiettivo della
massimizzazione dei profitti è sufficiente. Il mercato da solo però non
garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale. Nel
frattempo, abbiamo una «sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che
contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria
disumanizzante», mentre non si mettono a punto con sufficiente celerità
istituzioni economiche e programmi sociali che permettano ai più poveri di
accedere in modo regolare alle risorse di base. Non ci si rende conto a
sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che
hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale
della crescita tecnologica ed economica.
La specializzazione propria della
tecnologia implica una notevole difficoltà ad avere uno sguardo d’insieme. La
frammentazione del sapere assolve la propria funzione nel momento di ottenere
applicazioni concrete, ma spesso conduce a perdere il senso della totalità,
delle relazioni che esistono tra le cose, dell’orizzonte ampio, senso che
diventa irrilevante. Questo stesso fatto impedisce di individuare vie adeguate
per risolvere i problemi più complessi del mondo attuale, soprattutto quelli
dell’ambiente e dei poveri, che non si possono affrontare a partire da un solo
punto di vista o da un solo tipo di interessi. Una scienza che pretenda di
offrire soluzioni alle grandi questioni, dovrebbe necessariamente tener conto
di tutto ciò che la conoscenza ha prodotto nelle altre aree del sapere,
comprese la filosofia e l’etica sociale. Ma questo è un modo di agire difficile
da portare avanti oggi. Perciò non si possono nemmeno riconoscere dei veri
orizzonti etici di riferimento.
La cultura ecologica non si può
ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si
presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve
naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero,
una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che
diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma
tecnocratico.
Ciò che sta accadendo ci pone di fronte
all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. La scienza e
la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di
un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari
modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile
rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli
sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i
grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane.
9. La mancanza di preoccupazione per misurare i danni alla natura e
l’impatto ambientale delle decisioni, è solo il riflesso evidente di un
disinteresse a riconoscere il messaggio che la natura porta inscritto nelle sue
stesse strutture. Quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di
un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità – per fare solo
alcuni esempi –, difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura
stessa. Tutto è connesso. Se l’essere umano si dichiara autonomo dalla realtà e
si costituisce dominatore assoluto, la stessa base della sua esistenza si
sgretola, perché «Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio
nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col
provocare la ribellione della natura».
Questa situazione ci conduce ad una
schizofrenia permanente, che va dall’esaltazione tecnocratica che non riconosce
agli altri esseri un valore proprio, fino alla reazione di negare ogni
peculiare valore all’essere umano. Ma non si può prescindere dall’umanità. Non
ci sarà una nuova relazione con la natura senza un essere umano nuovo. Non c’è
ecologia senza un’adeguata antropologia. Quando la persona umana viene
considerata solo un essere in più tra gli altri, che deriva da un gioco del
caso o da un determinismo fisico, «si corre il rischio che si affievolisca
nelle persone la coscienza della responsabilità». Un antropocentrismo
deviato non deve necessariamente cedere il passo a un “biocentrismo”, perché
ciò implicherebbe introdurre un nuovo squilibrio, che non solo non risolverà i
problemi, bensì ne aggiungerà altri. Non si può esigere da parte dell’essere
umano un impegno verso il mondo, se non si riconoscono e non si valorizzano al
tempo stesso le sue peculiari capacità di conoscenza, volontà, libertà e
responsabilità.
La critica all’antropocentrismo deviato
non dovrebbe nemmeno collocare in secondo piano il valore delle relazioni tra
le persone. Se la crisi ecologica è un emergere o una manifestazione esterna
della crisi etica, culturale e spirituale della modernità, non possiamo
illuderci di risanare la nostra relazione con la natura e l’ambiente senza
risanare tutte le relazioni umane fondamentali. Quando il pensiero cristiano
rivendica per l’essere umano un peculiare valore al di sopra delle altre
creature, dà spazio alla valorizzazione di ogni persona umana, e così stimola
il riconoscimento dell’altro.
Un
antropocentrismo deviato dà luogo a uno stile di vita deviato.
La cultura del relativismo è la stessa
patologia che spinge una persona ad approfittare di un’altra e a trattarla come
un mero oggetto, obbligandola a lavori forzati, o riducendola in schiavitù a
causa di un debito. È la stessa logica che porta a sfruttare sessualmente i
bambini, o ad abbandonare gli anziani che non servono ai propri interessi. È
anche la logica interna di chi afferma: “lasciamo che le forze invisibili del
mercato regolino l’economia, perché i loro effetti sulla società e sulla natura
sono danni inevitabili”. Se non ci sono verità oggettive né principi stabili,
al di fuori della soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle necessità
immediate, che limiti possono avere la tratta degli esseri umani, la
criminalità organizzata, il narcotraffico, il commercio di diamanti
insanguinati e di pelli di animali in via di estinzione? Non è la stessa logica
relativista quella che giustifica l’acquisto di organi dei poveri allo scopo di
venderli o di utilizzarli per la sperimentazione, o lo scarto di bambini perché
non rispondono al desiderio dei loro genitori? E’ la stessa logica “usa e
getta” che produce tanti rifiuti solo per il desiderio disordinato di consumare
più di quello di cui realmente si ha bisogno. E allora non possiamo pensare che
i programmi politici o la forza della legge basteranno ad evitare i
comportamenti che colpiscono l’ambiente, perché quando è la cultura che si
corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o principi
universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni
arbitrarie e come ostacoli da evitare.
In
qualunque impostazione di ecologia integrale, che non escluda l’essere umano, è
indispensabile integrare il valore del lavoro, tanto sapientemente sviluppato
da san Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Laborem exercens. Ricordiamo che, secondo il racconto biblico della creazione, Dio pose
l’essere umano nel giardino appena creato (cfr Gen 2,15) non
solo per prendersi cura dell’esistente (custodire), ma per lavorarvi affinché
producesse frutti (coltivare). Così gli operai e gli artigiani «assicurano la
creazione eterna» (Sir38,34). In realtà, l’intervento umano che
favorisce il prudente sviluppo del creato è il modo più adeguato di prendersene
cura, perché implica il porsi come strumento di Dio per aiutare a far emergere
le potenzialità che Egli stesso ha inscritto nelle cose: «Il Signore ha creato
medicamenti dalla terra, l’uomo assennato non li disprezza» (Sir 38,4).
Siamo chiamati al lavoro fin dalla nostra
creazione. Non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il
progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il
lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di
maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale. In questo senso,
aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per
fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di
consentire loro una vita degna mediante il lavoro. Tuttavia l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di
progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione
della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È
un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro sé
stesso. La riduzione dei posti di lavoro «ha anche un impatto negativo sul
piano economico, attraverso la progressiva erosione del “capitale sociale”,
ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto
delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile». In definitiva «i costi
umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche
comportano sempre anche costi umani». Rinunciare ad investire sulle
persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la
società.
Perché continui ad essere possibile offrire
occupazione, è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la
diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale. Le autorità hanno il diritto e la responsabilità di
adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla
diversificazione della produzione. Perché vi sia una libertà economica della
quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre
limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. La
semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali
impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso
al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica.
L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione orientata a produrre
ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo
per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se
comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo
servizio al bene comune.
10. Dal momento che tutto è intimamente
relazionato e che gli attuali problemi richiedono uno sguardo che tenga conto
di tutti gli aspetti della crisi mondiale, propongo di soffermarci adesso a
riflettere sui diversi elementi di una ecologia integrale, che
comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali. L’ecologia studia le
relazioni tra gli organismi viventi e l’ambiente in cui si sviluppano. Essa
esige anche di fermarsi a pensare e a discutere sulle condizioni di vita e di
sopravvivenza di una società, con l’onestà di mettere in dubbio modelli di
sviluppo, produzione e consumo. Non è superfluo insistere ulteriormente sul
fatto che tutto è connesso. Quando parliamo di “ambiente” facciamo
riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la
società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come
qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo
inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati. Le ragioni per le
quali un luogo viene inquinato richiedono un’analisi del funzionamento della
società, della sua economia, del suo comportamento, dei suoi modi di
comprendere la realtà. Data l’ampiezza dei cambiamenti, non è più possibile
trovare una risposta specifica e indipendente per ogni singola parte del
problema.
Se tutto è in relazione, anche lo stato di
salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e
per la qualità della vita umana: «Ogni lesione della solidarietà e
dell’amicizia civica provoca danni ambientali».
In tal senso, l’ecologia sociale è
necessariamente istituzionale e raggiunge progressivamente le diverse
dimensioni che vanno dal gruppo sociale primario, la famiglia, fino alla vita
internazionale, passando per la comunità locale e la Nazione. All’interno di
ciascun livello sociale e tra di essi, si sviluppano le istituzioni che
regolano le relazioni umane. Tutto ciò che le danneggia comporta effetti
nocivi, come la perdita della libertà, l’ingiustizia e la violenza. Diversi
Paesi sono governati da un sistema istituzionale precario, a costo delle
sofferenze della popolazione e a beneficio di coloro che lucrano su questo
stato di cose. Tanto all’interno dell’amministrazione dello Stato, quanto nelle
diverse espressioni della società civile, o nelle relazioni degli abitanti tra
loro, si registrano con eccessiva frequenza comportamenti illegali. Le leggi
possono essere redatte in forma corretta, ma spesso rimangono come lettera
morta.
Per poter parlare di autentico sviluppo,
occorrerà verificare che si produca un miglioramento integrale nella qualità
della vita umana, e questo implica analizzare lo spazio in cui si svolge
l’esistenza delle persone. Gli ambienti in cui viviamo influiscono sul nostro
modo di vedere la vita, di sentire e di agire. Al tempo stesso, nella nostra
stanza, nella nostra casa, nel nostro luogo di lavoro e nel nostro quartiere
facciamo uso dell’ambiente per esprimere la nostra identità. Ci sforziamo di
adattarci all’ambiente, e quando esso è disordinato, caotico o saturo di
inquinamento visivo e acustico, l’eccesso di stimoli mette alla prova i nostri
tentativi di sviluppare un’identità integrata e felice.
E’
necessario curare gli spazi pubblici, i quadri prospettici e i punti di riferimento
urbani che accrescono il nostro senso di appartenenza, la nostra sensazione di
radicamento, il nostro “sentirci a casa” all’interno della città che ci
contiene e ci unisce. È importante che le diverse parti di una città siano ben
integrate e che gli abitanti possano avere una visione d’insieme invece di
rinchiudersi in un quartiere, rinunciando a vivere la città intera come uno
spazio proprio condiviso con gli altri. Ogni intervento nel paesaggio urbano o
rurale dovrebbe considerare come i diversi elementi del luogo formino un tutto
che è percepito dagli abitanti come un quadro coerente con la sua ricchezza di
significati. In tal modo gli altri cessano di essere estranei e li si può
percepire come parte di un “noi” che costruiamo insieme. Per questa stessa
ragione, sia nell’ambiente urbano sia in quello rurale, è opportuno preservare
alcuni spazi nei quali si evitino interventi umani che li modifichino
continuamente.
La mancanza di alloggi è grave in molte
parti del mondo, tanto nelle zone rurali quanto nelle grandi città, anche
perché i bilanci statali di solito coprono solo una piccola parte della
domanda. Non soltanto i poveri, ma una gran parte della società incontra serie
difficoltà ad avere una casa propria. La proprietà della casa ha molta importanza
per la dignità delle persone e per lo sviluppo delle famiglie. Si tratta di una
questione centrale dell’ecologia umana. Se in un determinato luogo si sono già
sviluppati agglomerati caotici di case precarie, si tratta anzitutto di
urbanizzare tali quartieri, non di sradicarne ed espellerne gli abitanti.
Quando i poveri vivono in sobborghi inquinati o in agglomerati pericolosi, «nel
caso si debba procedere al loro trasferimento e per non aggiungere sofferenza a
sofferenza, è necessario fornire un’adeguata e previa informazione, offrire
alternative di alloggi dignitosi e coinvolgere direttamente gli interessati».
Nello stesso tempo, la creatività dovrebbe portare ad integrare i quartieri
disagiati all’interno di una città accogliente. «Come sono belle le città che
superano la sfiducia malsana e integrano i differenti e che fanno di tale
integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche
nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in
relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!».
La qualità della vita nelle città è
legata in larga parte ai trasporti, che sono spesso causa di grandi sofferenze
per gli abitanti. Nelle città circolano molte automobili utilizzate da una o
due persone, per cui il traffico diventa intenso, si alza il livello
d’inquinamento, si consumano enormi quantità di energia non rinnovabile e
diventa necessaria la costruzione di più strade e parcheggi, che danneggiano il
tessuto urbano. Molti specialisti concordano sulla necessità di dare priorità
al trasporto pubblico. Tuttavia alcune misure necessarie difficilmente saranno
accettate in modo pacifico dalla società senza un miglioramento sostanziale di
tale trasporto, che in molte città comporta un trattamento indegno delle
persone a causa dell’affollamento, della scomodità o della scarsa frequenza dei
servizi e dell’insicurezza.
Il riconoscimento della peculiare dignità
dell’essere umano molte volte contrasta con la vita caotica che devono condurre
le persone nelle nostre città. Questo però non dovrebbe far dimenticare lo
stato di abbandono e trascuratezza che soffrono anche alcuni abitanti delle
zone rurali, dove non arrivano i servizi essenziali e ci sono lavoratori
ridotti in condizione di schiavitù, senza diritti né aspettative di una vita
più dignitosa.
11. L’ecologia
integrale è inseparabile dalla nozione di bene comune, un principio che svolge
un ruolo centrale e unificante nell’etica sociale. E’ «l’insieme di quelle
condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli
membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente».
Il bene comune presuppone il rispetto
della persona umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili
ordinati al suo sviluppo integrale. Esige anche i dispositivi di benessere e
sicurezza sociale e lo sviluppo dei diversi gruppi intermedi, applicando il
principio di sussidiarietà. Tra questi risalta specialmente la famiglia, come
cellula primaria della società. Infine, il bene comune richiede la pace
sociale, vale a dire la stabilità e la sicurezza di un determinato ordine, che
non si realizza senza un’attenzione particolare alla giustizia distributiva, la
cui violazione genera sempre violenza. Tutta la società – e in essa specialmente
lo Stato – ha l’obbligo di difendere e promuovere il bene comune.
Nelle condizioni attuali della società
mondiale, dove si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le
persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il
principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e
ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione
preferenziale per i più poveri. Questa opzione richiede di trarre le
conseguenze della destinazione comune dei beni della terra, ma, come ho cercato
di mostrare nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium,
esige di contemplare prima di tutto l’immensa dignità del povero alla
luce delle più profonde convinzioni di fede. Basta osservare la realtà per
comprendere che oggi questa opzione è un’esigenza etica fondamentale per
l’effettiva realizzazione del bene comune.
Le crisi
economiche internazionali hanno mostrato con crudezza gli effetti nocivi che
porta con sé il disconoscimento di un destino comune, dal quale non possono
essere esclusi coloro che verranno dopo di noi. Ormai non si può parlare di
sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni. Quando pensiamo
alla situazione in cui si lascia il pianeta alle future generazioni, entriamo
in un’altra logica, quella del dono gratuito che riceviamo e comunichiamo. Se
la terra ci è donata, non possiamo più pensare soltanto a partire da un
criterio utilitarista di efficienza e produttività per il profitto individuale.
Non stiamo parlando di un atteggiamento opzionale, bensì di una questione
essenziale di giustizia, dal momento che la terra che abbiamo ricevuto appartiene
anche a coloro che verranno. Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro
che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda non
riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione
in maniera parziale. Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo
lasciare ci riferiamo soprattutto al suo orientamento generale, al suo senso,
ai suoi valori. Se non pulsa in esse questa domanda di fondo, non credo che le
nostre preoccupazioni ecologiche possano ottenere effetti importanti. Le
previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e
ironia. Potremmo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti e
sporcizia. Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha
superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita
attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di
fatto sta già avvenendo periodicamente in diverse regioni. L’attenuazione degli
effetti dell’attuale squilibrio dipende da ciò che facciamo ora, soprattutto se
pensiamo alla responsabilità che ci attribuiranno coloro che dovranno
sopportare le peggiori conseguenze.
La
difficoltà a prendere sul serio questa sfida è legata ad un deterioramento
etico e culturale, che accompagna quello ecologico. L’uomo e la donna del mondo
postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente
individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con
la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami
familiari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro. Molte volte si è
di fronte ad un consumo eccessivo e miope dei genitori che danneggia i figli,
che trovano sempre più difficoltà ad acquistare una casa propria e a fondare
una famiglia. Inoltre, questa incapacità di pensare seriamente alle future
generazioni è legata alla nostra incapacità di ampliare l’orizzonte delle
nostre preoccupazioni e pensare a quanti rimangono esclusi dallo sviluppo.
12. Dalla metà del secolo scorso, superando
molte difficoltà, si è andata affermando la tendenza a concepire il pianeta
come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune. Un mondo
interdipendente non significa unicamente capire che le conseguenze dannose
degli stili di vita, di produzione e di consumo colpiscono tutti, bensì,
principalmente, fare in modo che le soluzioni siano proposte a partire da una
prospettiva globale e non solo in difesa degli interessi di alcuni Paesi.
L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un
progetto comune. Ma lo stesso ingegno utilizzato per un enorme sviluppo
tecnologico, non riesce a trovare forme efficaci di gestione internazionale in
ordine a risolvere le gravi difficoltà ambientali e sociali.
Per i Paesi poveri le priorità
devono essere lo sradicamento della miseria e lo sviluppo sociale dei loro
abitanti; al tempo stesso devono prendere in esame il livello scandaloso di
consumo di alcuni settori privilegiati della loro popolazione e contrastare
meglio la corruzione. Certo, devono anche sviluppare forme meno inquinanti di
produzione di energia, ma per questo hanno bisogno di contare sull’aiuto dei
Paesi che sono cresciuti molto a spese dell’inquinamento attuale del pianeta.
Urgono accordi internazionali che
si realizzino, considerata la scarsa capacità delle istanze locali di
intervenire in modo efficace. Le relazioni tra Stati devono salvaguardare la
sovranità di ciascuno, ma anche stabilire percorsi concordati per evitare
catastrofi locali che finirebbero per danneggiare tutti. Occorrono quadri
regolatori globali che impongano obblighi e che impediscano azioni
inaccettabili, come il fatto che imprese o Paesi potenti scarichino su altri
Paesi rifiuti e industrie altamente inquinanti.
Il XXI secolo, mentre mantiene una governance
[=struttura dei poteri pubblici nei loro reciproci rapporti e bilanciamento]
propria di epoche passate, assiste ad una perdita di potere degli Stati
nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri
transnazionali, tende a predominare sulla politica. In questo contesto, diventa
indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed
efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale
mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare.
Come ha affermato Benedetto XVI nella linea già sviluppata dalla dottrina
sociale della Chiesa, «per il governo dell’economia mondiale; per risanare le
economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e
conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale,
la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell’ambiente
e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità
politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore,
[san] Giovanni XXIII». In tale prospettiva, la diplomazia acquista un’importanza
inedita, in ordine a promuovere strategie internazionali per prevenire i
problemi più gravi che finiscono per colpire tutti.
n solo ci sono vincitori e
vinti tra i Paesi, ma anche all’interno dei Paesi poveri, in cui si devono
identificare diverse responsabilità. Perciò, le questioni relative all’ambiente
e allo sviluppo economico non si possono più impostare solo a partire dalle
differenze tra i Paesi, ma chiedono di porre attenzione alle politiche
nazionali e locali.
Dinanzi alla possibilità di un utilizzo
irresponsabile delle capacità umane, sono funzioni improrogabili di ogni Stato
quelle di pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare all’interno del
proprio territorio. La società, in che modo ordina e custodisce il proprio
divenire in un contesto di costanti innovazioni tecnologiche? Un fattore che
agisce come moderatore effettivo è il diritto, che stabilisce le regole per le
condotte consentite alla luce del bene comune. I limiti che deve imporre una
società sana, matura e sovrana sono attinenti a previsione e precauzione,
regolamenti adeguati, vigilanza sull’applicazione delle norme, contrasto della
corruzione, azioni di controllo operativo sull’emergere di effetti non
desiderati dei processi produttivi, e intervento opportuno di fronte a rischi
indeterminati o potenziali. Esiste una crescente giurisprudenza orientata a
ridurre gli effetti inquinanti delle attività imprenditoriali. Ma la struttura
politica e istituzionale non esiste solo per evitare le cattive pratiche, bensì
per incoraggiare le buone pratiche, per stimolare la creatività che cerca nuove
strade, per facilitare iniziative personali e collettive.
Il dramma di una politica focalizzata
sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende
necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali,
i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che
possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti
esteri. La miope costruzione del potere frena l’inserimento dell’agenda
ambientale lungimirante all’interno dell’agenda pubblica dei governi. Si
dimentica così che «il tempo è superiore allo spazio», che siamo sempre più
fecondi quando ci preoccupiamo di generare processi, piuttosto che di dominare
spazi di potere. La grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili,
si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo
termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un
progetto di Nazione.
Non si può pensare a ricette
uniformi, perché vi sono problemi e limiti specifici di ogni Paese e regione. È
vero anche che il realismo politico può richiedere misure e tecnologie di
transizione, sempre che siano accompagnate dal disegno e dall’accettazione di
impegni graduali vincolanti. Allo stesso tempo, però, in ambito nazionale e
locale c’è sempre molto da fare, ad esempio promuovere forme di risparmio
energetico. Ciò implica favorire modalità di produzione industriale con massima
efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, togliendo dal mercato
i prodotti poco efficaci dal punto di vista energetico o più inquinanti.
Possiamo anche menzionare una buona gestione dei trasporti o tecniche di
costruzione e di ristrutturazione di edifici che ne riducano il consumo
energetico e il livello di inquinamento. D’altra parte, l’azione politica
locale può orientarsi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia
dei rifiuti e del riciclaggio, alla protezione di determinate specie e alla
programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture.
È possibile favorire il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante
investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato
locale o nazionale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche
agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di
organizzazione comunitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e
preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può
fare!
È indispensabile la continuità, giacché non
si possono modificare le politiche relative ai cambiamenti climatici e alla
protezione dell’ambiente ogni volta che cambia un governo. I risultati
richiedono molto tempo e comportano costi immediati con effetti che non
potranno essere esibiti nel periodo di vita di un governo. Per questo, senza la
pressione della popolazione e delle istituzioni, ci saranno sempre resistenze
ad intervenire, ancor più quando ci siano urgenze da risolvere. Che un politico
assuma queste responsabilità con i costi che implicano, non risponde alla
logica efficientista e “immediatista” dell’economia e della politica attuali,
ma se avrà il coraggio di farlo, potrà nuovamente riconoscere la dignità che
Dio gli ha dato come persona e lascerà, dopo il suo passaggio in questa storia,
una testimonianza di generosa responsabilità. Occorre dare maggior spazio a una
sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di
buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.
Tuttavia, bisogna aggiungere che i migliori dispositivi finiscono per
soccombere quando mancano le grandi mete, i valori, una comprensione umanistica
e ricca di significato, capaci di conferire ad ogni società un orientamento
nobile e generoso.
La previsione dell’impatto ambientale delle
iniziative imprenditoriali e dei progetti richiede processi politici
trasparenti e sottoposti al dialogo, mentre la corruzione che nasconde il vero
impatto ambientale di un progetto in cambio di favori spesso porta ad accordi
ambigui che sfuggono al dovere di informare ed a un dibattito approfondito.
Uno studio di impatto ambientale non dovrebbe
essere successivo all’elaborazione di un progetto produttivo o di qualsiasi
politica, piano o programma. Va inserito fin dall’inizio e dev’essere elaborato
in modo interdisciplinare, trasparente e indipendente da ogni pressione
economica o politica. Dev’essere connesso con l’analisi delle condizioni di
lavoro e dei possibili effetti sulla salute fisica e mentale delle persone,
sull’economia locale, sulla sicurezza.
In ogni discussione riguardante
un’iniziativa imprenditoriale si dovrebbe porre una serie di domande, per poter
discernere se porterà ad un vero sviluppo integrale: Per quale scopo? Per quale
motivo? Dove? Quando? In che modo? A chi è diretto? Quali sono i rischi? A
quale costo? Chi paga le spese e come lo farà? In questo esame ci sono
questioni che devono avere la priorità. Per esempio, sappiamo che l’acqua è una
risorsa scarsa e indispensabile, inoltre è un diritto fondamentale che condiziona
l’esercizio di altri diritti umani. Questo è indubitabile e supera ogni analisi
di impatto ambientale di una regione.
13. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non
deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia.
Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la
politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della
vita, specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche,
facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere
e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che
non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e
apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per
sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova
regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza
virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri
obsoleti che continuano a governare il mondo. La produzione non è sempre
razionale, e spesso è legata a variabili economiche che attribuiscono ai
prodotti un valore che non corrisponde al loro valore reale. Questo determina
molte volte una sovrapproduzione di alcune merci, con un impatto ambientale non
necessario, che al tempo stesso danneggia molte economie regionali. La
bolla finanziaria di solito è anche una bolla produttiva. In definitiva, ciò
che non si affronta con decisione è il problema dell’economia reale, la quale
rende possibile che si diversifichi e si migliori la produzione, che le imprese
funzionino adeguatamente, che le piccole e medie imprese si sviluppino e creino
occupazione, e così via.
In questo contesto bisogna sempre ricordare che «la
protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo
finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi
del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente». Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica del
mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita
dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico aspettarsi che chi è
ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti
ambientali che lascerà alle prossime generazioni? All’interno dello schema
della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di
degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che
possono essere gravemente alterati dall’intervento umano. Inoltre, quando si
parla di biodiversità, al massimo la si pensa come una riserva di risorse
economiche che potrebbe essere sfruttata, ma non si considerano seriamente il
valore reale delle cose, il loro significato per le persone e le culture, gli
interessi e le necessità dei poveri.
Quando si pongono tali questioni, alcuni
reagiscono accusando gli altri di pretendere di fermare irrazionalmente il
progresso e lo sviluppo umano. Ma dobbiamo convincerci che rallentare un
determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità
di progresso e di sviluppo. Gli sforzi per un uso sostenibile delle risorse
naturali non sono una spesa inutile, bensì un investimento che potrà offrire
altri benefici economici a medio termine. Se non abbiamo ristrettezze di
vedute, possiamo scoprire che la diversificazione di una produzione più
innovativa e con minore impatto ambientale, può essere molto redditizia. Si
tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di
fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di
incanalare tale energia in modo nuovo.
Per esempio, un percorso di sviluppo
produttivo più creativo e meglio orientato potrebbe correggere la disparità tra
l’eccessivo investimento tecnologico per il consumo e quello scarso per
risolvere i problemi urgenti dell’umanità; potrebbe generare forme intelligenti
e redditizie di riutilizzo, di recupero funzionale e di riciclo; potrebbe
migliorare l’efficienza energetica delle città; e così via. La diversificazione
produttiva offre larghissime possibilità all’intelligenza umana per creare e
innovare, mentre protegge l’ambiente e crea più opportunità di lavoro. Questa
sarebbe una creatività capace di far fiorire nuovamente la nobiltà dell’essere
umano, perché è più dignitoso usare l’intelligenza, con audacia e
responsabilità, per trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo, nel quadro
di una concezione più ampia della qualità della vita. Viceversa, è meno
dignitoso e creativo e più superficiale insistere nel creare forme di
saccheggio della natura solo per offrire nuove possibilità di consumo e di
rendita immediata.
In ogni modo, se in alcuni casi lo sviluppo
sostenibile comporterà nuove modalità per crescere, in altri casi, di fronte
alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti decenni,
occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti
ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi. Sappiamo che è
insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre
più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria
dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in
alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano
in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario che le società
tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti
caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e
migliorando le condizioni del suo uso».
Affinché sorgano nuovi modelli di
progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo globale»,
la qual cosa implica riflettere responsabilmente «sul senso dell’economia
e sulla sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e distorsioni». Non
basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita
finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema
le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si
tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che
non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non
può considerarsi progresso. D’altra parte, molte volte la qualità reale della
vita delle persone diminuisce – per il deteriorarsi dell’ambiente, la bassa
qualità dei prodotti alimentari o l’esaurimento di alcune risorse – nel
contesto di una crescita dell’economia. In questo quadro, il discorso della
crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione
che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della
finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle
imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine.
195. Il principio della massimizzazione del profitto, che tende
ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale
dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese
delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta
aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica
desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o aumentare
l’inquinamento. Vale a dire che le imprese ottengono profitti calcolando e
pagando una parte infima dei costi. Si potrebbe considerare etico solo un
comportamento in cui «i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle
risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano
pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni
o dalle generazioni future». La razionalità strumentale, che apporta solo
un’analisi statica della realtà in funzione delle necessità del momento, è
presente sia quando ad assegnare le risorse è il mercato, sia quando lo fa uno
Stato pianificatore.
Qual è il posto della politica? Ricordiamo il
principio di sussidiarietà, che conferisce libertà per lo sviluppo delle
capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige più
responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere. È vero
che oggi alcuni settori economici esercitano più potere degli Stati stessi. Ma
non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di
propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi
attuale. La logica che non lascia spazio a una sincera preoccupazione per
l’ambiente è la stessa in cui non trova spazio la preoccupazione per integrare
i più fragili, perché «nel vigente modello “di successo” e “privatistico”, non
sembra abbia senso investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o
i meno dotati possano farsi strada nella vita».
Abbiamo bisogno di una politica che
pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale,
includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Molte
volte la stessa politica è responsabile del proprio discredito, a causa della
corruzione e della mancanza di buone politiche pubbliche. Se lo Stato non
adempie il proprio ruolo in una regione, alcuni gruppi economici possono
apparire come benefattori e detenere il potere reale, sentendosi autorizzati a
non osservare certe norme, fino a dar luogo a diverse forme di criminalità
organizzata, tratta delle persone, narcotraffico e violenza molto difficili da
sradicare. Se la politica non è capace di rompere una logica perversa, e
inoltre resta inglobata in discorsi inconsistenti, continueremo a non
affrontare i grandi problemi dell’umanità. Una strategia di cambiamento reale
esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire
considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la
logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere
capace di assumere questa sfida.
La politica e l’economia tendono a
incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado
ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e
trovino forme di interazione orientate al bene comune. Mentre gli uni si
affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal
conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o accordi
ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e
avere cura dei più deboli. Anche qui vale il principio che «l’unità è superiore
al conflitto».
Un cambiamento negli
stili di vita potrebbe arrivare ad esercitare una sana pressione su coloro che
detengono il potere politico, economico e sociale. È ciò che accade quando i
movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi
prodotti e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle
imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di
produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i profitti
delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo ci
ricorda la responsabilità sociale dei consumatori.
La
coscienza della gravità della crisi culturale ed ecologica deve tradursi in
nuove abitudini. Molti sanno che il progresso attuale e il semplice accumulo di
oggetti o piaceri non bastano per dare senso e gioia al cuore umano, ma non si
sentono capaci di rinunciare a quanto il mercato offre loro. Nei Paesi che
dovrebbero produrre i maggiori cambiamenti di abitudini di consumo, i giovani
hanno una nuova sensibilità ecologica e uno spirito generoso, e alcuni di loro
lottano in modo ammirevole per la difesa dell’ambiente, ma sono cresciuti in un
contesto di altissimo consumo e di benessere che rende difficile la maturazione
di altre abitudini. Per questo ci troviamo davanti ad una sfida educativa. i.
L’esistenza di leggi e norme non è sufficiente a lungo termine per limitare i
cattivi comportamenti, anche quando esista un valido controllo. Affinché la
norma giuridica produca effetti rilevanti e duraturi è necessario che la
maggior parte dei membri della società l’abbia accettata a partire da
motivazioni adeguate, e reagisca secondo una trasformazione
personale. Tali azioni diffondono un bene nella società che sempre produce
frutti al di là di quanto si possa constatare, perché provocano in seno a
questa terra un bene che tende sempre a diffondersi, a volte invisibilmente.
Inoltre, l’esercizio di questi comportamenti ci restituisce il senso della
nostra dignità, ci conduce ad una maggiore profondità esistenziale, ci permette
di sperimentare che vale la pena passare per questo mondo. Alla politica e alle
varie associazioni compete uno sforzo di formazione delle coscienze. Compete
anche alla Chiesa. Tutte le comunità cristiane hanno un ruolo importante da
compiere in questa educazione.
14. […N]on basta che ognuno sia
migliore per risolvere una situazione tanto complessa come quella che affronta
il mondo attuale. I singoli individui possono perdere la capacità e la libertà
di vincere la logica della ragione strumentale e finiscono per soccombere a un
consumismo senza etica e senza senso sociale e ambientale. Ai problemi sociali
si risponde con reti comunitarie, non con la mera somma di beni individuali:
«Le esigenze di quest’opera saranno così immense che le possibilità delle
iniziative individuali e la cooperazione dei singoli, individualisticamente
formati, non saranno in grado di rispondervi. Sarà necessaria una unione di
forze e una unità di contribuzioni». La conversione ecologica che si
richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una
conversione comunitaria.
La cura per
la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e
di comunione. Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro Padre comune e
che questo ci rende fratelli. L’amore fraterno può solo essere gratuito, non
può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un anticipo per
quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici. Questa
stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi,
benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di
una fraternità universale.
Occorre sentire nuovamente che abbiamo
bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e
verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo
siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà,
della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa
allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento
della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i
propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e
impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.
L’esempio di santa Teresa di Lisieux ci
invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità
di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini
pace e amicizia. Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti
quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento,
dell’egoismo. Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il
mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma.
L’amore, pieno di piccoli gesti di cura
reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che
cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per
il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le
relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali,
economici, politici». Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale
di una «civiltà dell’amore». L’amore sociale è la chiave di un autentico
sviluppo: «Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre
rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello, politico, economico,
culturale - facendone la norma costante e suprema dell’agire». In questo
quadro, insieme all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci
spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado
ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni
tutta la società. Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a intervenire
insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare che ciò fa
parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in tal modo
matura e si santifica.
Non tutti sono chiamati a lavorare in maniera
diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una innumerevole
varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo
l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico
(un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una piazza),
per proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti.
Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto
sociale locale. Così una comunità si libera dall’indifferenza consumistica.
Questo vuol dire anche coltivare un’identità comune, una storia che si conserva
e si trasmette. In tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della
vita dei più poveri, con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo
consapevolezza di abitare una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni
comunitarie, quando esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in
intense esperienze spirituali.
15. Dopo questa
prolungata riflessione, gioiosa e drammatica insieme, propongo due preghiere,
una che possiamo condividere tutti quanti crediamo in un Dio creatore
onnipotente, e un’altra affinché noi cristiani sappiamo assumere gli impegni
verso il creato che il Vangelo di Gesù ci propone.
Preghiera per la nostra terra
Dio Onnipotente,
che sei presente in tutto l’universo
e nella più piccola delle tue creature,
Tu che circondi con la tua tenerezza
tutto quanto esiste,
riversa in noi la forza del tuo amore
affinché ci prendiamo cura
della vita e della bellezza.
Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e sorelle
senza nuocere a nessuno.
O Dio dei poveri,
aiutaci a riscattare gli abbandonati
e i dimenticati di questa terra
che tanto valgono ai tuoi occhi.
Risana la nostra vita,
affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo,
affinché seminiamo bellezza
e non inquinamento e distruzione.
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.
Preghiera cristiana con il creato
Ti lodiamo, Padre, con tutte le tue creature,
che sono uscite dalla tua mano potente.
Sono tue, e sono colme della tua presenza
e della tua tenerezza.
Laudato si’!
Figlio di Dio, Gesù,
da te sono state create tutte le cose.
Hai preso forma nel seno materno di Maria,
ti sei fatto parte di questa terra,
e hai guardato questo mondo con occhi umani.
Oggi sei vivo in ogni creatura
con la tua gloria di risorto.
Laudato si’!
Spirito Santo, che con la tua luce
orienti questo mondo verso l’amore del Padre
e accompagni il gemito della creazione,
tu pure vivi nei nostri cuori
per spingerci al bene.
Laudato si’!
Signore Dio, Uno e Trino,
comunità stupenda di amore infinito,
insegnaci a contemplarti
nella bellezza dell’universo,
dove tutto ci parla di te.
Risveglia la nostra lode e la nostra gratitudine
per ogni essere che hai creato.
Donaci la grazia di sentirci intimamente uniti
con tutto ciò che esiste.
Dio d’amore, mostraci il nostro posto in questo mondo
come strumenti del tuo affetto
per tutti gli esseri di questa terra,
perché nemmeno uno di essi è dimenticato da te.
Illumina i padroni del potere e del denaro
perché non cadano nel peccato dell’indifferenza,
amino il bene comune, promuovano i deboli,
e abbiano cura di questo mondo che abitiamo.
I poveri e la terra stanno gridando:
Signore, prendi noi col tuo potere e la tua luce,
per proteggere ogni vita,
per preparare un futuro migliore,
affinché venga il tuo Regno
di giustizia, di pace, di amore e di bellezza.
Laudato si’!
Amen.