Capire la democrazia 8
«L’uomo è un vivente che costruisce e
governa società»: questo è uno degli insegnamenti più noti del filosofo greco Aristotele, vissuto nel Quarto
secolo dell’era antica, quella che contiamo a ritroso partendo dall’anno in cui
convenzionalmente poniamo la nascita di Gesù il Cristo. Una filosofa vissuta
nel secolo scorso, Hannah Arendt, osservò che esso non dice tutto delle
persone umane nelle loro società. Questo perché la società è un modo di
vivere in relazione e, dunque, è propria degli umani nelle loro
relazioni, non dell’uomo in sé. E
costruire e governare società è appunto un modo degli umani di
vivere in relazione tra loro, un modo di convivere. E’ ciò che definiamo politica.
Eppure è anche vero che la società dice molto
di noi, ci determina. Siamo ciò che la società riconosce che siamo. In società riceviamo un nome, ci vengono
riconosciuti dei parenti, quindi linee di discendenza biologica che si
ramificano e creano legami molto forti, ci viene data una lingua, quella che
chiamiamo madre perché non la
impariamo a scuola ma da una delle relazioni umane più forti della nostra vita, ma anche molto altro, ad esempio
i ritmi della vita, il modo di vestire, il modo di atteggiarci quando siamo con
gli altri, crescendo anche un ruolo sociale, che comprende l’esercizio di
poteri e la soggezione a poteri altrui, la nostra posizione nelle dinamiche
sociali di potere. Tanto che ci riesce difficile isolare una persona umana dalla
sua società e che, quando muovendoci passiamo da una società ad un’altra, anche
noi cambiamo: questa è una delle esperienze fondamentali del viaggio. Il monaco
eremita si isola dalla sua società appunto per cambiare, lì dove cerca una
relazione privilegiata con Colui che incessantemente cerca e che nessuno ha
mai visto, è scritto, ma comunque gli è stato rivelato, e dunque
attende di essere cambiato in e da quella relazione.
Nel romanzo Robinson Crusoe, scritto
dall’inglese Daniel Defoe all’inizio del Settecento, ci viene presentata
l’esperienza di un naufrago su un’isola disabitata. Egli, raccogliendo cose
scampate dal naufragio e costruendosi abitudini quotidiane di vita cerca di
mantenersi nella civiltà di origine, ma recupera veramente la sua umanità solo quando
gli giunge un indigeno, che libera da chi lo aveva fatto prigioniero per
ucciderlo e mangiarlo (nella sua società di origine si praticava il
cannibalismo), ed entra in relazione con lui assegnandogli anche un nuovo nome,
Venerdì. Ecco il nucleo fondamentale dalla società, che manifesta
immediatamente la politica perché richiede di essere governata. La
governa Robinson, l’Europeo. Il contatto con il diverso ha stabilito delle
relazioni di potere. Uscendo dalla società dei nativi e stabilendo una nuova
relazione sociale con l’Europeo, e attraverso di lui con la società degli
Europei che Robinson sta cercando di mantenere sull’isola, Venerdì ne
ricava un nuovo nome, ma anche una nuova identità sociale. Ma anche
Robinson, in fondo, ne esce cambiato. E’ un’esperienza comune nei grandi
racconti di viaggio, reali o immaginari: la ritroviamo, ad esempio, nel
racconto di Marco Polo, il veneziano che nel Duecento raggiunse la Cina e vi
visse a lungo, divenendo anche un dignitario della corte dell’imperatore che
all’epoca dominava quella società.
In sostanza: dalla società in cui viviamo
immersi e dalla sua politica, vale a
dire da com’è costruita e governata, ci viene riconosciuta la nostra dignità
sociale, che quindi ne dipende. Ecco perché non è la stessa cosa esservi
solo sottomessi ad una politica, ma anche parteciparvi.
Ma, mi si può obiettare, dal punto di vista
religioso riteniamo che la nostra
dignità di esseri umani preesista alla società e non dipenda veramente
da essa, secondo quanto fu scritto a fine Settecento dai rivoluzionari nordamericani
che proclamarono la loro Dichiarazione di indipendenza dalla monarchia
inglese:
«Noi
teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti
gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi
Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il
perseguimento della Felicità. Che per assicurare questi diritti sono istituiti
tra gli uomini i Governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei
governati. Che quando una qualsiasi Forma di Governo diventa distruttiva di
questi fini, è Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e di istituire un
nuovo Governo, ponendo il suo fondamento su questi principi e organizzando i
suoi poteri in una forma tale che sembri ad esso la più adeguata per garantire
la sua sicurezza e la sua felicità.»
Eppure, se quella nostra dignità non ci viene
riconosciuta socialmente ci
sentiamo infelici. Per questo fu fatta quella rivoluzione: « è
Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e di istituire un nuovo Governo»
Ecco perché nella nostra Costituzione repubblicana, all’art.2, si fa obbligo a tutti, questa è legge
fondamentale della nostra società politica, appunto, di riconoscere quella dignità.
Art. 2 della Costituzione.
La Repubblica riconosce
e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Di solito questa norma viene presentata come diretta
ai pubblici poteri, in primo luogo allo Stato, ma, in realtà, è diretta a tutti
coloro che esercitano una forma di
potere, pubblico o privato, e anche religioso. Perché è in questione la
Repubblica, quindi la convivenza sociale e politica di tutti noi,
che si vuole anche democratica, è scritto nell’art.1 della Costituzione.
Dall’art.1 della
Costituzione.
L'Italia è una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro.
Nessun potere, nemmeno quello che esercitiamo
in famiglia e nelle altre realtà sociali di prossimità, e neanche quello di una
Chiesa, neppure quello di una Chiesa come la nostra che abbia avuta
riconosciuta una sovranità nelle cose sue, può ledere la dignità
della persona umana, che è caratterizzata da quel complesso di diritti
fondamentali che nella nostra Costituzione vengono definiti inviolabili. Questa
dignità è colpita tutte le volte che in società una persona viene costretta
solo a subire il potere altrui,
senza poter in alcun modo interagire, quindi quando si è totalmente in mani altrui.
Quest’idea, alla quale spesso non prestiamo
abbastanza attenzione, è piuttosto ostica nei nostri ambienti religiosi, e in
particolare nella nostra teologia e nella nostra pratica religiosa. Abbiamo, in
particolare, diverse preghiere usate nelle pratiche di pietà dei laici che
evocano una totale sottomissione non solo al Creatore, ma anche alla
Chiesa intesa come realtà sociale, e quindi anche come sistema di potere
costituito nella società religiosa in cui siamo stati accettati. Sono specchio
di una condizione laicale che, con i principi che iniziarono ad essere
accettati nelle leggi ecclesiastiche al tempo del Concilio Vaticano 2°, ormai
oltre cinquant’anni fa, si voleva cambiare, perché non solo umiliante, ma anche
controproducente per ciò che dal laico si pretende in religione quanto ad
azione sociale in un contesto
democratico.
Di fatto, ad esempio, vediamo, che nella vita
parrocchiale i laici contano ancora poco. Sono apprezzati se fanno quello che
gli si dice, ma non li si ritiene, in genere, capaci di collaborare anche con
la propria volontà, in processi
democratici in cui possano realmente influire sulle decisioni collettive. Ecco
perché, in fondo, si ritiene inutile insegnare la democrazia negli ambienti religiosi, come
una volta si riteneva inutile istruire le donne.
Questa mancanza di istruzione democratica, fa
sì che poi la convivenza sociale ne risenta, nelle relazioni interpersonali,
nelle quali non ci si manifesta capaci di risolvere i contrasti, venendo
subito alle mani, metaforicamente e non,
ma anche in altri aspetti della vita religiosa, nella quale ci si sente
poco considerati, posti nella condizione, diciamo, di gregge, e alla
quale quindi ci si disaffeziona, non solo perché umiliante, ma anche perché
inutile per interagire collettivamente in società. Se possibile, infatti, si
cerca di evitare le situazioni umilianti, e una di quelle più umilianti è
l’essere costretti a fare cose inutili. In religione, invece, spesso
l’umiliarsi è presentato come una virtù, ma una cosa è farlo verso il Creatore,
altra è farla verso qualsiasi autorità umana, anche sacralizzata.
Da dove cominciare a provare se ci si può
organizzare in modo diverso? Direi di farlo passo dopo passo, senza
fretta od ambizioni eccessive, a cominciare dai piccoli gruppi e dalle piccole
cose, per prendere confidenza con un metodo, quello democratico, con questa
forma di convivenza sociale, verso le quali
ancora il clero, e il potere religioso è formalmente quasi tutto nelle
sue mani, è piuttosto diffidente. Poi si può provare ad estendere questa
esperienza fin dove possibile, fin dove si arriva allo scheletro autocratico
del diritto canonico, e lì il processo sarà molto più lungo e complicato ma in
definitiva riguarda meno la nostra vita quotidiana, fino ad esempio a tentare
ciò che si è fatto altrove, vale a dire un Sinodo parrocchiale nel quale non ci si limiti a stare
a rimorchio del clero, ma si sia creativi.
Mario Ardigò – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli