Il problema
comunitario
1. Quand’è
che per la prima volta si avvicina consapevolmente la Chiesa? Da bambini, al
catechismo per la prima Comunione. Io vi partecipai dal tempo in cui facevo le
scuole elementari, come accade anche oggi. A quell’epoca si era in una fase
cruciale di un processo storico di riforma della nostra Chiesa, quella che si è
prodotta durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Fui un bambino che fece
tempo ad assistere a messe celebrate in latino. La prima messa in italiano fu
celebrata il 7 marzo 1965 ed io facevo la terza elementare (andai in prima a
cinque anni). Andavo già al primo
catechismo, che frequentai proprio nella nostra parrocchia. Se ben ricordo feci
Prima Comunione e Cresima, a qualche giorno di distanza come si usava allora,
l’anno dopo.
Il parroco era
all’epoca don Vincenzo Pezzella, e lo era stato dalla fondazione della nostra
parrocchia, nel 1956 (la mia famiglia venne nel quartiere nel 1958, proveniente
da Bologna). Lo rimase poi fino al 1983, quando fu trasferito nella parrocchia
di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, la grande basilica a piazza Esedra.
Fu sostituito da don Carlo Quieti il quale, formatosi nelle comunità del
Cammino Neocatecumenale, lo introdusse da noi, fino ad aggregare dieci
comunità. Nell’ottobre 2015 venne tra noi l’attuale parroco, don Remo
Chiavarini, con un incarico molto preciso del vescovo, quello di indurre una
rigenerazione della nostra parrocchia e di migliorare le relazioni vive con la
gente del quartiere. Per questo lavoro gli vennero assegnati nove anni, dei
quali cinque sono ormai passati: scadranno nel 2024. Non si è ritenuto di
ripetere l’esperienza degli incarichi precedenti, durati rispettivamente
ventisette e trentadue anni.
Alle scuole
elementari veniva un sacerdote della parrocchia a farci religione. Il nostro maestro, che si era formato alla fede durante
il fascismo mussoliniano (1922-1945), una volta che quel prete se n’era andato
ci diceva di dimenticare quello che ci aveva detto e di ascoltare solo ciò che
ci diceva lui. Poi mi sono reso conto che quel sacerdote ci parlava della
Chiesa secondo le nuove concezioni che si andavano manifestando durante il
Concilio.
Fui tra i bambini
che ricevettero dalla madre la carezza
del Papa, come aveva invitato a fare il papa Giovanni 23° durante quello
che fu chiamato “Il discorso alla Luna”,
tenuto la sera dell’11 ottobre 1962 a Roma, in occasione dell’apertura del
Concilio. Quello fu mio primo contatto con la nostra Chiesa,
quella carezza materna me la fece realmente madre
e maestra, il titolo della grande
enciclica sociale di quel Papa, che era stata diffusa l’anno
precedente. Questo volto della Chiesa era molto diverso da come me lo
presentava il mio maestro delle elementari, per il quale la Chiesa era parte
essenziale di un sistema gerarchico di governo dell’Italia, per dare a noi
futuri soldati la forza morale di immolarci in guerra per fare grande e potente
la nazione.
Ricordo che una volta il prete che ci
faceva religione ci chiese che cosa era
la Chiesa per noi. Questa domanda ci fu ripetuta anche al catechismo.
Naturalmente rispondemmo che era dove andavamo a messa. Noi, ci rispose, eravamo noi. Ne fui molto meravigliato e
rimasi anche un po’ incredulo, anche per quello che ci diceva il maestro sulle
lezioni di religione di quel sacerdote, quindi chiesi a mia madre, e scoprì che
era proprio come ci aveva detto l’insegnante di religione. Ma anche così, ci
misi poi molto a capire che significava quell’essere Chiesa. Fino a quel momento la Chiesa mi era sembrata più che
altro un supporto all’autorità dei miei genitori, per cui, se le disobbedivo,
sarei stato punito da Dio oltre che da loro. E questa idea mi rimase piuttosto
radicata, come anche nei miei compagni di classe e di catechismo, tanto che,
quando iniziammo a confessarci, cercavamo di capire dove si era peccato e più che altro ci accusavamo di disobbedienza
ai genitori. Non riuscivamo a concepire che fosse peccato, ad esempio,
picchiare e umiliare i nostri coetanei, rendere loro la vita impossibile, farci
reciprocamente del male, cercare di umiliare e sottomettere gli altri, mettere
in ridicolo quelli che erano più lenti e impacciati a difendersi, cosa che
rientrava nelle nostre prassi quotidiane, ma in cui non vedevamo proprio nulla
di male, e non ce lo vedevano neanche i grandi, che ne parlavano come di bambinate. Ma a catechismo non era diverso. L’assimilazione di quel
diverso essere Chiesa di cui si era
parlato al Concilio fu lunga e piuttosto travagliata. Tra noi bambini, come
anche per i grandi.
E insomma, quella
Chiesa come carezza di Dio, che mi si
era sorprendentemente manifestata nella mia prima fanciullezza, non la trovai
poi spesso, crescendo.
Da genitore volli
marcatamente distaccarmi dall’idea di Chiesa come supporto alla mia autorità
familiare, paterna in particolare. Le mie figlie non sono cresciute secondo
quella concezione, non hanno avuto in me un padre
sacrale.
Una volta, il giorno
della Prima Comunione di una delle mie figlie, il parroco don Carlo ci presentò
il programma di preparazione della Cresima, che a quel tempo si faceva durante
le scuole medie, con un specifica preparazione. Voleva affidare i nostri figli
a famiglie di catechisti, secondo l’uso Neo Catecumenale, per metterli in riga, qualcosa di simile
disse. Il concetto era quello. Io, che all’epoca non ero molto interessato alla
parrocchia se non per il catechismo frequentato dalle mie figlie, insorsi e gli
dissi che mia figlia aveva già una
famiglia e che, per me, la religione non doveva servire a metterla in riga. Poi mia moglie mi
diede di gomito per dirmi di piantarla, di non sciupare la festa, e così feci,
ma quella era, ed è ancora, la mia opinione.
Ecco, la Chiesa come
strumento di governo, per mettere in riga
la gente era stata quella pensata e
vissuta più o meno fino al Concilio, l’altra, quella della carezza di Dio e dell’essere tutti Chiesa era quella del
Concilio. Era centrata sull’idea di comunità:
questa fu l’idea centrale del trentennio di rinnovamento della catechesi iniziato con
il cosiddetto Documento di base “Il
rinnovamento della catechesi”, diffuso il 2 febbraio 1970 dalla Commissione
episcopale per la dottrina della fede e la catechesi.
Vi leggiamo:
«Il principio fondamentale che ispira il DB e ne costituisce l’“anima” è
la fedeltà al Concilio, “catechismo dei tempi moderni”. Dal Concilio derivano
le scelte che il Documento sviluppa nei suoi 10 capitoli. Sono scelte che,
formulate con rigore dottrinale e aperte alle istanze della comunità ecclesiale
e della realtà socio-culturale, mirano alla integrazione tra la fede e la vita
e caratterizzano l’azione catechistica della nostra Chiesa:
- la catechesi promuove itinerari per una crescita
permanente del cristiano, dall’infanzia all’età adulta, avendo come fine
l’acquisizione di una mentalità di fede;
- la catechesi è radicata nella parola di Dio, nella
Tradizione e il Magistero della Chiesa; è incentrata sul mistero di Cristo, che
apre al mistero di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, al mistero della Chiesa
e dell’uomo redento;
- la comunità di fede, di culto e di carità è soggetto e
ambiente vitale della catechesi;
- la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo, in un unico
atteggiamento d’amore, è legge fondamentale del metodo catechistico;
- la Chiesa affida la catechesi a catechisti da essa
stessa “mandati ”, formati come maestri, educatori e testimoni della verità e
capaci di trasmetterla integralmente e fedelmente all’uomo del nostro tempo.
Queste scelte per la spinta pastorale che imprimono, vengono a giusto titolo
considerate il fondamento del progetto
catechistico italiano.»
All’inizio del 1979
aderii alla FUCI - Federazione
Universitaria Cattolica Italiana e
l’assistente ecclesiastico, che era un professore di antropologia teologica
dell’Università Lateranense che fu poi anche arcivescovo, ci fece adottare il Catechismo per i giovani che proprio
quell’anno era stato diffuso per la consultazione e la sperimentazione dalla Conferenza episcopale italiana. Gli
attuali catechismi della CEI furono diffusi tra il 1991 e il 1997.
In mezzo a questo lungo lavoro di
rielaborazione della catechesi secondo l’idea di Chiesa - comunità si situa le deliberazione nel 1992, da parte del
papa Giovanni Paolo 2°, del Catechismo
della Chiesa cattolica, revisionato nel 1997. Questo documento, nonostante
il nome, non è solo uno strumento per la formazione alla fede, ma
è stato deliberato come legge della Chiesa, con l’autorità del Papa e ha
voluto mettere ordine negli sviluppi di quel rinnovamento di cui dicevo.
E’ stato dato dall’alto, dal vertice gerarchico, mentre i
documenti prodotti nel corso del rinnovamento italiano della catechesi volevano
imparare dall’esperienza pratica. In
qualche modo è stato concepito con l’idea di mettere in riga, non la gente comune, i non specialisti, per i
quali è una vera enciclopedia dei nodi principali delle nostre concezioni di
fede, pur mancando quasi del tutto di uno spessore storico, quindi di raccontare realisticamente la storia della
Chiesa per dare la consapevolezza di corpo sociali in evoluzione nel tempo, ma
gli specialisti della riflessione teologica, i quali, infatti, nei loro testi
scientifici hanno iniziato a citarlo come fanno con altri documenti normativi
della nostra Chiesa, ad esempio con le encicliche papali. Chi se ne discosta,
infatti, può essere sanzionato con provvedimenti dell’autorità ecclesiastica. A
un teologo può essere revocata la qualifica di teologo cattolico. In questo suo intento di mettere in riga è espressione di una concezione di Chiesa
precedente al Concilio Vaticano 2°.
2. Quando parliamo di comunità di fede,
affrontiamo un tema che è ancora piuttosto controverso e, soprattutto, non ha veramente trovato applicazioni pratiche nello spirito dei principi dell’ultimo Concilio.
Infatti tra il proclamare che la Chiesa è
comunità e farne realmente un corpo
sociale con caratteristiche comunitarie c’è molto lavoro da fare e molte
resistenze da superare. Ma, del resto, come deve essere organizzata una
comunità e il suo modo di vivere come tale? Nella nostra Chiesa in questo ci si
imbatte nei problemi suscitati dall’esistenza di una ipertrofica struttura di
governo, per di più organizzata al modo del feudalesimo medievale,
essenzialmente intorno a centri di potere monarchici strutturati in una
gerarchia che, al vertice, ha il Papato, con il Papa e le varie autorità
collaterali che l’affiancano nelle funzioni di vertice. Un sistema di autorità
che ha connotati sacrali, vale a dire santo,
nel senso di presidiato da sanzioni soprannaturali in caso di violazioni. In
questa struttura, dal punto di vista burocratico, la parrocchia appare come
un’istituzione di governo su una certa porzione del territorio, affidata al
potere delegato di un funzionario che è il suo parroco. In questo l’ideologia comunitaria del Concilio Vaticano 2° ha poco inciso. I
connotati sacrali della parrocchia si sono via via piuttosto attenuati, per cui
essa ha credito tra la gente del quartiere più che alro perché rende una serie di servizi, che sono in primo luogo quello
liturgico, per celebrare degnamente gli eventi fondamentali delle persone e
delle loro famiglie, in secondo luogo quello formativo, per l'educazione morale dei giovani, quel metterli in riga di cui dicevo, e per molti di loro è quella è la sola
formazione etica che riceveranno nella loro vita, ma anche la direzione spirituale degli adulti e degli
anziani, nei frangenti più difficili, in cui si impongono scelte di vita
importanti, e, infine, quelli di assistenza sociale di varia natura, sia
morale, per sostenere psicologicamente le persone nei momenti critici, che
materiale, e questo del resto secondo consuetudini che risalgono alle comunità
delle origini. Quindi poi, la comunità
parrocchiale assume più che altro
l’aspetto di una comunità di utenti,
che fruiscono di quei servizi, tra i quali vi è anche la
disponibilità di locali per varie esigenze sociali, un gruppo di spiritualità
come un’assemblea di condominio. E, sotto questo aspetto, la relazione con la
parrocchia è un po’ come quella di chi prende
in affitto un locale, rispetto a chi
lo concede in locazione.
In realtà, quando nel rinnovamento della catechesi, si pensò a una comunità,
si progettava qualcosa di altro.
Il problema era che, nell’affermarsi di
processi democratici a livello della gente, del resto anche secondo la
formazione che veniva acquisita in Azione Cattolica, il principale agente
italiano di inculturazione popolare della democrazia, il potere sacrale della
gerarchia ecclesiastica si era indebolito, per cui le persone avevano iniziato
a dimostrarsene piuttosto insofferenti. Secondo questa mentalità, le persone
non volevano limitarsi ad ubbidire ai pastori,
con costumi da gregge, ma volevano
anche ben capire, questo secondo i
costumi democratici, secondo i quali nessun potere può pretendere obbedienza
senza rendere ragione e, quindi, argomentare. Altrimenti ne va della dignità delle persone chiamate semplicemente a
obbedire.
Ora, negli anni ’70 nella gerarchia ecclesiastica si confidava ancora che,
come già si era ritenuto nell’Ottocento ai tempi del durissimo contrasto con il
liberalismo democratico del nuovo Regno d’Italia, lo stato nazionale che aveva posto fine con la
violenza militare allo Stato pontificio, il piccolo regno del Papato
nell’Italia centrale (domani si celebra la ricorrenza della conquista di Roma
da parte delle truppe italiane), nel popolo
italiano fosse viva una cultura,
fatta di antiche consuetudini e credenze recepite per via di tradizione
familiare, diciamo di madri in figli, che comprendevano anche la sottomissione alla religione tradizionale, con la sua
suggestiva mitologia, con le sue belle liturgie, ma anche con il suo ordine gerarchico sacrale, che inglobava anche costumi
familiari e personali, diciamo un’etica
sociale e individuale. Dunque si pensò di presidiare l’ordine ecclesiale minacciato
dai processi democratici costruendo comunità vive basate su quei valori popolari
che si ritenevano un po’ come innati tra la gente, e solo superficialmente
offuscati dalla mentalità democratica. Insomma, dove prima la pressione
per mantenere in riga la gente
derivava da un timore sacrale, ora,
nel declino del sacro, quella pressione doveva essere esercitata dalle
comunità. La gente doveva vedere come era bello stare insieme secondo le
indicazioni della dottrina religiosa, che non venivamo messe in questione se
non marginalmente, in una sorta di aggiornamento non in una vera e propria riforma.
Infatti, a ben leggere sia il Documento di base, sia gli altri
documenti che ciclicamente intervennero sulla materia del rinnovamento della catechesi (i più significativi possono essere
scaricati da
http://www.educat.it/elenco_documenti.jsp
non vi è alcun cenno
alla possibilità di intervenire con processi democratici nella vita delle
comunità attive da cui ci si attendeva un ruolo fondamentale nella formazione
alla fede delle persone. Si sarebbe dovuti stare
insieme al modo delle greggi intorno
ai pastori, secondo la bella immagine evangelica, e così, dimostrando come era
bello stare insieme in quel modo, premere
sulle persone perché si adeguassero
a quei costumi prendendo esempio dagli
altri, al modo in cui, fino ad una
certa età, accade ai figli con i genitori e, in genere, gli anziani della
famiglia. In sostanza il modello di società che si aveva in mente di realizzare
era strutturato su una sorta di gerarchia
familiare, dove prima si trattava di radunarsi sottomessi a una gerarchia sacrale. Sempre di un problema di governo si trattava e
sempre secondo una gerarchia lo si voleva risolvere. Pensando che, in
qualche modo, l’ordine gerarchico familiare avesse una sua sacralità per così dire naturale, dove quello ecclesiastico ne
aveva una propriamente soprannaturale. Nei confronti di comunità di questo tipo
si stava sostanzialmente nel ruolo di figli
e, come si sa, una persona, rispetto ai propri genitori, rimane figlia per sempre e nonostante tutto. Ebbene, questo disegno è fallito, nonostante la
sua affascinante cornice teologica, perché, in particolare, l’idea di padre e di madre
ha correlati nella mitologia sacrale, e quindi ci si può ricamare molto sopra.
E’ fallito perché implica, come l’ordine sacrale,
una sottomissione che (ancora) ripugna alla mentalità degli
europei del nostro tempo, e anche agli italiani.
Del resto il principale problema di sempre
dei giovani è quello di affrancarsi
dall’autorità genitoriale, e più tardi, crescendo, recuperare nei confronti dei
genitori un affetto che ha più connotati amicali che altro. Questo spiega la
scarsa attrattiva che esercita quel tipo di comunità
educante sui giovani, ma anche sugli
adulti i quali, conquistata l’emancipazione, non sopportano di essere
nuovamente ridotti in una condizione di minorità.
Ma non si deve obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini, come è scritto?
[dagli Atti degli apostoli, capitolo 5, versetti 26-32]
26. Il comandante delle
guardie partì subito con i suoi uomini per arrestare di nuovo gli apostoli, ma
senza violenza, perché temevano di essere presi a sassate dalla gente.
27. Li portarono via e li
fecero comparire davanti al tribunale. Il sommo sacerdote cominciò ad
accusarli: 28. «Noi vi
avevamo severamente proibito di insegnare nel nome di quell’uomo, e voi invece
avete diffuso il vostro insegnamento per tutta Gerusalemme. Per di più, volete
far cadere su di noi la responsabilità della sua morte». 29. Ma Pietro e gli apostoli
risposero: «Si deve ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. 30. Ora, il Dio dei nostri padri ha
fatto risorgere Gesù, quello che voi avete fatto morire inchiodandolo a una
croce. 31. Dio lo ha
innalzato accanto a sé, come nostro capo e Salvatore per offrire al popolo
d’Israele l’occasione di cambiare vita e di ricevere il perdono dei
peccati. 32. «Noi siamo
testimoni di questi fatti: noi e lo *Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli
che gli ubbidiscono».
Certo è proprio così, ma quell’episodio biblico mette in luce, narrando di un episodio di anarchia per
così dire apostolica verso le
autorità religiose israelitiche di quel tempo antico motivata dal dovere
supremo di obbedienza a Dio, che bisogna distinguere quell’obbedienza da
quella pretesa dalle autorità gerarchiche costituite da esseri umani per il
governo delle società. Le democrazie contemporanee, così ricche di valori
umanitari anche con derivazione religiosa, nel loro ripudio di ogni autorità
che pretenda obbedienza assoluta, illimitate e indiscutibile, quindi sottratta
all’argomentare critico, sono fondate su quel medesimo principio.
Il problema della nostra
parrocchia, a cui si volle tentare di porre rimedio dall’ottobre 2015, è stato
costituito dal duro e incontrovertibile fallimento del tentativo di trasformare quasi per intero la nostra
parrocchia in una comunità familiare
educante del tipo che ho descritto,
lasciando spazio alle esperienze sociali del passato solo come contorno dedicato ad esigenze particolari o come luoghi
per irriducibili. Dove altrove questo fallimento si è manifestato in modi meno
eclatanti, perché si era mantenuto un certo pluralismo, da noi è stato diverso
perché di quel pluralismo si è stati molto insofferenti, con il risultato del
distacco della gente del quartiere dalla parrocchia. Ma il nuovo corso, finora,
non è riuscito a sanare veramente la situazione, anche se, certamente, quel
distacco si è molto attenuato, e ciò senza abolire nulla, ma cercando di non
seguire un certo estremismo del passato. Questo perché non ha seguito la via
della formazione di mentalità democratiche. Del resto si tratta di un lavoro
per i quali i preti da moltissimo tempo non sono più preparati. Lo ripeto
spesso: questo stupisce dato il ruolo fondamentale che alcuni grandi preti
hanno avuto nella costruzione della nostra democrazia. Ma, bisogna dire, essi completavano come
autodidatti la loro formazione alla politica democratica: ora come alla loro
epoca non la ricevevano nelle scuole ecclesiastiche. Solo dal 1991, con
l’enciclica Il Centenario, del papa
Giovanni Paolo 2°, è stata riconosciuto la dignità della democrazia, ma solo nella società civile. Uno dovrebbe
agire con spirito libero democratico nella società civile e da persona sottomessa nella Chiesa. Difficile da sopportare. Dunque
si fa così: si cerca di agire da democratici nella società civile e si esercita
molta ipocrisia nella Chiesa, per evitare l’emarginazione o, per chi ha fatto
della religione una professione, anche peggio. Ma si soffre, certo. Oppure,
imparata la sottomissione nella vita di Chiesa, la si cerca anche nella società
civile dove si cerca una sorta di arcivescovo
laico, un uomo forte, al quale obbedire con spirito filiale, nella prospettiva poi,
della ricompensa con il vitello grasso della parabola del padre misericordioso.
La proposta dell’Azione Cattolica, palestra di democrazia, è radicalmente
diversa e non ci sono molte altre organizzazioni ecclesiali che la presentano.
Ecco che noi, con le difficoltà che abbiamo, ci troviamo ad avere e sapere ciò
che può servire a liberarci dalle difficoltà cui, come parrocchia, ci troviamo.
Abbiamo una mentalità democratica.
Non ci sono arcivescovi laici in Azione Cattolica, la carica la si lascia a
chi compete, né personalità carismatiche,
che una volta al vertice si circondano di autorità sacrale e sostituirle viene
presentato come un dramma.
Ma come potrebbe essere organizzata,
secondo principi democratici, una comunità
parrocchiale? Come fare i conti con il potere giudico monarchico che
compete al parroco e che riguarda anche l’amministrazione di risorse e beni
che, a confronto con quelle di una famiglia comune, appaiono ingenti? Come
prevenire che la parrocchia, nello svilupparsi sfavorevole di processi
democratici, come può effettivamente accadere ma che è accaduto anche al di fuori di essi, cada in
mani indegne? Come prevenire quella che
i teorici della democrazia chiamano la
tirannia della maggioranza?
Ecco, questo dovrebbe essere al
centro del dibattito e dei tirocini pratici che dovrebbero partire da un gruppo
parrocchiale di Azione Cattolica come il nostro.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro,
Valli