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Manuale
di sinodalità
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Animazione,
coordinamento, presidenza
L’animatore
è un tecnico che lavora su un gruppo
per fargli conseguire un risultato collettivo. Presuppone che il gruppo sia
composto da persone che non abbiano ancora fatto società, quindi con relazione
interpersonali deboli o frammentate. L’animatore arriva nel gruppo provenendo dall’esterno e ha
ricevuto una specifica formazione, l’animazione essendo, appunto, una tecnica
sociale.
Il coordinatore è chi, arrivando in un gruppo che è una società agli inizi e
che quindi non si è dato ancora una propria sufficiente organizzazione sebbene
abbia individuato propri scopi, dando e togliendo la parola, assegnando compiti
e redigendo programmi di attività e resoconti, indirizza il gruppo verso quegli
scopi.
Il presidente di un gruppo scaturisce dall’interno del gruppo stesso, svolge compiti
di animazione e coordinamento, ma, in più, è responsabile
verso il gruppo, al quale deve rendere
conto della propria mansione e dal
quale può essere sostituito. La mansione di presidenza, a differenza di
quelle di semplice animazione e di coordinamento, è subordinata
al consenso del gruppo e, per
questo, deve essere assoggettate a periodiche verifiche: quindi è a termine.
La costituzione di un ufficio di presidenza connota il gruppo in termini democratici. L’esigenza
di porre limiti all’ufficio di
presidenza richieda la delibera di un regolamento per il funzionamento dell’organizzazione del
gruppo.
Un quarto modo di direzione di un gruppo è quello del gerarca. Il
termine richiama subito lo scherzoso appellativo dato ai funzionari dirigenti
del Partito nazionale fascista, durante il fascismo mussoliniano. Tuttavia esso
è proprio della terminologia delle chiese cristiane più antiche, ai cui vertici
vi sono organizzazioni di gerarchi. Gerarca è colui il cui potere
sociale è sacralizzato, vale a dire è ritenuto intangibile per volontà del Cielo. La gerarchia è il complesso dell’organizzazione dei gerarchi,
ordinata in modo piramidale. La sua teoria, come oggi viene espressa nella
nostra Chiesa, risale al Trecento ed è
stata sviluppata in modo molto esteso nel Cinquecento, epoca dal quale la
Chiesa cattolica iniziò a darsi un’organizzazione che emulava quella degli
stati coevi. Gli storici della Chiesa ricordano che, in quei termini, era sconosciuta
nel Nuovo Testamento e ai Padri della Chiesa, ma anche, ad esempio, a un
teologo universitario come Tommaso D’Aquino. Rappresenta un’integrazione tra la
nuova teologia riguardante il Papato riformato a partire dal Papa Gregorio 7°, regnante
dal 1073 al 1085 e le scienze universitarie giuridiche. Nell’ordinamento gerarchico
della Chiesa cattolica, ogni potere sacro compete solo al clero e ai
religiosi, il potere è ordinato per gradi, con al vertice il Papa, e agli altri
fedeli cristiani compete solo di seguire docilmente i gerarchi sovraordinati. Il
Concilio Vaticano 2° volle scardinare questa organizzazione sostituendo la piramide
con l’immagine del Popolo di Dio.
Il clero non sta sopra ma in mezzo. Il logo del Sinodo dei vescovi
2021-2023 rappresenta proprio questa concezione. Essa tuttavia non si è ancora
affermata nella prassi ecclesiale, dove tutto è rimasto più o meno come prima
del Concilio. Questo è uno dei principali problemi che la sinodalità
come ci viene proposta vuole risolvere. E’ anche uno dei motivi di frattura tra
Chiesa e società: essa sta portando alla fine della Chiesa.
Un prete, per formazione e cultura, è portato
per istinto, diciamo, ad assumere la direzione gerarchica dei gruppi che gli sono affidati. Dopo il
Concilio, in vari movimenti che sono sorti sfruttando le possibilità di auto-organizzazione
aperti dai documenti conciliari, si è sviluppato anche un para-clero,
costituito da persone laiche che egemonizzano gerarchicamente gli aderenti a quei
gruppi. Ciò ha aggravato il problema gerarchico.
Un gruppo parrocchiale di Azione Cattolica è l’esempio
pratico di un ordinamento basato su una presidenza. Il prete vi è assistente
ecclesiastico, non gerarca. L’Azione Cattolica, però, ha una lunga
storia, che ha originato ordinamenti e, da ultimo, un ordinamento prevalentemente
democratico, dal 1968. Nel 1906 venne costituita, però, come organizzazione a
fini sociali, sindacali e politici ad egemonizzazione gerarchica. Nel 1941 le
fu commissionata dal Papa Pio 12° la costruzione di una democrazia
post-fascista in Italia e questo l’aprì alla pratica della democrazia. Dal 1968,
con lo statuto deliberato quell’anno e approvato dai vescovi italiani, definì
se stessa esperienza popolare e democratica.
La sinodalità che ci viene proposta, che esige
partecipazione anche nelle fasi
decisionali, richiede di uscire dalla coercizione gerarchica dei gruppi, per elevarsi
alla dirigenza come presidenza e, quindi, anche alla democrazia interna.
Al di fuori dell’Azione Cattolica se ne ha scarsissima pratica, come dimostra l’annichilimento
del nostro Consiglio pastorale parrocchiale, organo partecipativo previsto dal
diritto canonico che nella nostra parrocchia, che io sappia, da anni non si
riunisce. Si vive, in genere, la propria spiritualità individualmente, o al più
in famiglia, o in gruppo ma sotto egemonia gerarchica.
I preti, in particolare, mostrano scarsissima
familiarità con la sinodalità e diffidano dei processi democratici, dei quali
sono portati a vedere più che altro le degenerazioni (sottovalutando quelle, gravissime,
del sistema gerarchico). Stupisce, naturalmente, in Italia, dove i preti sono
stati così importanti nell’affermazione della democrazia, tanto che il partito
che fu egemone nel post-fascismo e fino al crollo dei comunismo nell’Europa
orientale trova origine in una formazione, il Partito popolare, fondata e diretta
proprio da un prete, don Luigi Sturzo, sulla base di ideologia di democrazia cristiana risalente ad un altro
prete, don Romolo Murri. E’ un disastro prodotto durante il lungo inverno
ecclesiale originato nella seconda
metà degli anni ’80, epoca dalla quale anche la nostra parrocchia cambiò radicalmente
volto.
In questa situazione occorrerà passare
gradualmente, ma con decisione e più rapidamente possibile, dall’animazione al coordinamento per arrivare alla fase
della presidenza, inducendo autonomia nei gruppi che fanno pratica di sinodalità.
E’ molto importante tener conto di questo: il
processo sinodale che è stato
avviato non è concepito come straordinario, un volta tanto, ma come
esperienza di vita ordinaria della Chiesa. La sinodalità si impara
facendone pratica, in un lavoro di apprendistato e la sua esperienza
matura si può fare solo in un regime di presidenza, vale a dire quando un
gruppo ha maturato una sufficiente autonomia ed è diventato capaci di darsi
norme di procedura e scopi.
Un gruppo sinodale, quello in cui si fa
pratica di sinodalità, non deve, pertanto, né essere troppo piccolo, tale da
non richiedere un vero e proprio ordinamento, perché vi prevalgono le relazioni
interpersonali, né troppo grande, diciamo in una condizione in cui non ci si
riesca più a chiamare per nome, per evitare che la conseguente
spersonalizzazione deprima la partecipazione. Non è quindi condivisibile il
suggerimento contenuto nelle Indicazioni di metodo per il cammino sinodale delle Chiese italiana di organizzare gruppi
sinodali di non più di una decina di
persone. Essi finirebbero per finire nelle mani degli animatori e non
sentiranno il bisogno di suscitare una presidenza.
Eleggere una ufficio di presidenza, meglio
sarebbe un ufficio collegiale con partecipazione paritaria di uomini e donne, e sottoporlo a
verifica a scadenza sono le prime importanti decisioni che devono connotare un
gruppo sinodale, elevandolo da funzioni puramente consultive verso una
gerarchia. Tali decisioni devono essere prese a maggioranza, secondo il
regolamento del gruppo (che può prevedere maggioranza qualificate, superiori
alla metà più uno dei voti), e, sempre, all’esito di una discussione.
Occorre infatti suscitare un reale consenso, non conquistare un voto:
questa è una caratteristica che si ritiene propria della sinodalità, ma che, a
ben vedere, riguarda anche la democrazia che non sia degenerata in pura
demagogia (ne scrissero i primi teorici della democrazia nella Grecia antica).
Al centro della sinodalità, spiegano gli
esperti, vi è la missione. Quest’ultima non consiste nel mantenere in
vita una gerarchia nei secoli,
anche se è così che sembra intenderla l’orientamento geracologico (l’espressione
è del grande teologo Yves Congar – 1904/1995 -, uno dei maestri del Concilio
Vaticano 2°).
La missione è l’attuazione del vangelo nella
società, non solo la sua predicazione. In essa tutti sono coinvolti, sia i
chierici che gli altri fedeli cristiani. Naturalmente il primo campo di
missione è la stessa Chiesa, che deve essere costantemente riformata secondo il
vangelo. La sinodalità come oggi ci viene proposta – e ci viene proposta in
modo radicalmente da come fu animata dai gerarchi in passato - è la via per farlo. Tuttavia lavorare sulla
Chiesa non basta: la missione non è quella di far confluire tutto e tutti nella
Chiesa, il totalitarismo ecclesiale, ma quello, secondo l’espressione
del Concilio Vaticano 2° di ordinare le società secondo Dio (Costituzione
Luce per le genti - Lumen gentium,
n.31). Il Concilio ne trattò parlando dei laici, ma, naturalmente, non si volle
escluderne i chierici e religiosi, che di questo lavoro avevano un’antica
tradizione, risalente almeno al Terzo secolo, quando si dovette far fronte a
durissime persecuzioni sistematiche da parte delle autorità civili.
Nella missione la Chiesa è in ritardo di due
secoli, sosteneva una grande anima come Carlo Maria Martini. Nel campo dei
valori, le persone laiche di fede se la stanno faticosamente trascinando
dietro, ma il loro magistero – si tratta infatti propriamente di questo –
è in genere misconosciuto e diffamato.
La difficoltà di cambiare è evidente anche
nella nostra parrocchia.
I preti dovrebbero accettare che la
sinodalità comporta anche il lasciare spazio agli altri fedeli: non tutto può
essere controllato da loro, e, se lo è, allora non si fa veramente sinodalità.
Bisogna creare nuove istituzioni di sinodalità, a partire da gruppi sinodali
che si muovano verso l’elevazione all’ordinamento basato sulla presidenza.
Occorre, naturalmente, che il tirocinio di
sinodalità avvenga in regime di libertà di espressione, in mancanza della quale
si ricade nel degrado gerarchico. Non basta tuttavia che essere tollerati, ma
che si tenga realmente conto di ciò che viene detto, in particolare quando
raggiunge un ampio consenso.
Da parte di noi fedeli occorre meno passività,
quella passività alla quale, comunque, si
è stati costretti dalle pretese gerarchiche. Se vogliamo salvare
la Chiesa non ci possiamo contentare
di venire a messa la domenica, e basta. E’ vero, ci è stato detto che
questo è ciò che conta più di tutto, ma, in realtà non era solo alla liturgia
che si voleva far riferimento, ma
alla vita intera come eucaristia, e su questo non mi dilungo perché
non voglio minimamente assomigliare al para-clero. Leggete, studiate,
informatevi. Cercate di ascoltare con più attenzione i pastori. Siamo troppo
distratti. Ne predicano continuamente.
Lo dico francamente: alle ultime riunioni del
nostro gruppo c’era troppa poca gente. Così non va bene. Così si chiude,
siatene consapevoli. E addio alla missione, allora.
Ciascuno non si chieda che cosa fa per lui il
gruppo, ma che cosa lui ha fatto per il gruppo e per la parrocchia, a parte
fare da platea, e in ciò parafraso un
detto contenuto in un celebre discorso del presidente statunitense John Fitzgerald
Kennedy, cattolico anche lui. Se si va sempre a ricasco dei preti, di para-preti,
di animatori e coordinatori inviati dall’esterno, si va poco avanti, si è massa
passiva, gregge in senso
pecorile, non cristiano. Si è gregge cristiano quando si alla sequela del Signore, il Buon Pastore, che ci vuole attivi: infatti ci ha mandati al
mondo.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli