Come ripartire senza più popolo?
Da ragazzo vissi nell’Italia cattolica, dove era considerato strano chi
si dichiarava non credente. A quell’epoca il problema era quello di darsi da
fare in quel mondo per strapparlo dagli incubi della sua vetusta teologia
totalitaria e dall’assolutismo della gerarchia ecclesiale. Al centro di quei
moti di riforma che agitavano il popolo era la prassi: vivere in modo diverso la propria fede prima ancora
di saperne rendere ragione. Naturalmente questo era innanzi tutto un
lavoro per chi non era imbrigliato nella sudditanza gerarchica, come lo era il
clero, o in un’altra obbedienza istituzionale, come i religiosi, intesi
come monaci e monache, frati e suore. Questo perché la pressione disciplinare
verso questa parte del popolo era molto forte, arrivando a colpire addirittura vescovi
di primo piano, come Giacomo Lercaro, il
quale era addirittura un cardinale. Egli, all’inizio del 1968, fu
sbrigativamente sottratto ai fedeli bolognesi, dai quali era molto amato,
per ragioni politiche, di politica internazionale ed ecclesiale, non
tanto per aver chiesto agli Stati Uniti d’America di interrompere i
bombardamenti a tappeto sul Vietnam del Nord (lo aveva chiesto anche il Papa di
allora, Paolo 6°), ma per aver criticato duramente, su basi evangeliche,
l’atteggiamento politico di neutralità della Chiesa in quella guerra, che la
diplomazia vaticana e lo stesso Papa avevano adottato seguendo una linea
consolidata da decenni.
La fede religiosa a quell’epoca serviva ancora per orientarsi nel mondo e anche chi la
combatteva la prendeva sul serio in questo.
Ai tempi nostri sembra che non sia più così.
Che cosa l’ha sostituita a livello popolare, delle masse? Ecco, mi pare di
poter dire: nulla. Del resto non c’è bisogno di cose simili quando
ciascuno fa per sé, confidando in quel patrimonio di diritti fondamentali
e sociali che si danno ormai per scontati, e che invece tale non dovrebbero
essere considerati, perché sono stati il frutto di un duro impegno collettivo
delle generazioni passate. Nel momento in cui questo rassicurante contestato
istituzionale viene però sbriciolandosi, perché una delle economie più ricche
del mondo mentre rende possibile, praticabile, l’estremo lusso per pochi, non
trova le risorse per garantire una esistenza dignitosa a tutti gli altri e
prova anche ad accreditare l’idea che sia giusto così, perché non si fa
altrimenti, in questa situazione, dico, alle persone non sembra venire in mente
che l’ancestrale rimedio dell’aggregazione tribale, il preteso legame di
sangue, le immaginarie radici, il mito del popolo che salta fuori da una qualche terra.
Tutto vano, perché fantasiosa irrealtà, mentre le cause della crescente
insicurezza, lo insegnò a lungo Zygmunt Bauman, sono sociali, ma di una società
molto complessa, globalizzata, nella quale nessuna entità riesce veramente ad
essere sovrana, ma dalla quale i ceti dominanti riescono comunque a
trarre i loro privilegi, per cui non hanno interesse a costruirne una critica
realistica e, anzi, la scoraggiano in chi invece l’avrebbe, perché ha la
peggio. Tra i ceti dominanti vi è anche la nostra gerarchia ecclesiale che
ancora, a Roma, è arroccata intorno alle basiliche costantiniane che, nel
Quarto secolo, il fatale Quarto secolo, costituirono l’espressione della sua
nuova, magnificente, condizione di potere pubblico, sacralizzata dalla teologia
dogmatica che in quel secolo venne costruita in parallelo. Su questo si è
arenata la riforma deliberata durante il Concilio Vaticano 2°.
Quando entro in parrocchia, l’obiettivo di un modo diverso di vivere la
Chiesa, sinodale come si dice
ora, mi pare ancora realistico, non così quando passeggio nella bella piazza
davanti alla basilica di San Pietro in Vaticano, certamente un posto
suggestivo, specialmente quando suonano le grandi campane delle torri. Da
ragazzo mi piaceva entrare nel grande chiesone, ora no, perché, pur essendo
stata la sede di tante assemblee plenarie ai tempi del Concilio, ed essendo
stata e ancora essendo la sede di tante belle e partecipate liturgie, in realtà
significa, con la sua maestosa imponenza terrestre, la sua gravità, l’impossibilità
di una vera riforma. Ma ci possiamo rassegnare a questo?
Per non scoraggiarsi, allora, la soluzione può essere quella di
concentrarsi su realtà piccole, di prossimità, come la nostra
parrocchia, ma mancano le persone, non si lasciano più coinvolgere. Del resto
troppo a lungo è stato detto loro che, in fondo, era bene fare così. Si è anche
interrotta una continuità generazionale, secondo quanto segnalato dalle
indagini sociologiche.
Ci si lamenta che il problema è nelle persone laiche, in realtà
esso è in primo luogo nella gerarchia, che, anche dopo il Concilio
Vaticano 2° ha continuato ad accentrare ogni potere e ogni iniziativa. Così gli
altri fedeli cristiani ci sono, ma mantengono un atteggiamento passivo.
Dagli anni ’80 una serie di atti del magistero ha progressivamente
annullato quasi ogni riforma indotta dal Concilio e la cosiddetta ecclesiologia
comunionale, che doveva correggere
la pesante gerarcocrazia gerarchicocentrica delle nostre istituzioni religiose
è rimasta più o meno lettera morta.
Facendosi forza su alcune infelici espressioni che rimasero nei
documenti del Concilio per cercare di ottenere un più vasto consenso, le
persone laiche sono stata spinte progressivamente fuori della Chiesa per esercitarvi il loro
apostolato, mentre non era assolutamente questo l’ordine di idee che avevano
mosso la riforma.
Ogni tentativo delle persone laiche di partecipare nella Chiesa è stato diffamato come clericalizzazione
del laico, rafforzando l’idea, esiziale, che la Chiesa, in sé, è cosa da
preti e religiosi. Questo ostacolerà
senza dubbio il processo sinodale che si è voluto indurre nelle nostre Chiese
se non ci si libererà dell’idea che alle persone laiche competa solo il
cosiddetto secolo, vale a dire la società fuori della Chiesa,
mentre, naturalmente, clero e religiosi potrebbero stare da tutte le parti, dentro e fuori, ma
potendo agire da padroni assoluti dentro.
Scrisse Bruno Forte in Laicato e laicità, Marietti 1986, un libro
che ebbi tra le mani da giovane, quando non era ancora iniziato il nostro lungo
inverno ecclesiale:
[...] recuperando il primato dell’ecclesiologia totale, si è riconosciuta
la dignità e l’autonomia propria di ogni battezzato, e quindi la responsabilità
specifica dei laici. Ad essi il Vaticano
2° ha rapportato in modo peculiare la
laicità, sulla scia dei tentativi teologici che avevano voluto indicarne il tal
senso il proprium […] La laicità è pertanto assunta all’interno della
chiesa come una dimensione qualificante
l’intero corpo dei battezzati ad eccezione dei ministri ordinati e dei
religiosi.
Le origini storiche di questo collegamento
della secolarità ai laici si situano nella tarda epoca costantiniana, quando ai
chierici e ai monaci, dediti alle cose spirituali e sempre più avvicinati fra
di loro, vengono contrapposti i laici, compromessi nel secolo. […] Nei primi
secoli dell’esperienza cristiana, però
non era così: la chiesa nella sua totalità veniva vista in rapporto di proposta
e di alternativa al mondo; la distinzione non era tanto avvertita ad intra
fra «spirituali» e cristiani dediti alle cose
temporali, quanto ad extra fra
novità cristiana, comune a tutti i battezzati, e società da evangelizzare.
La riscoperta di questa novità connessa col recupero del primato
dell’ecclesiologia totale porta allora
con sé l’esigenza di superare non solo la divisione della chiesa in due
classi, ma anche la connessione specifica laici-secolarità: se tutti i
battezzati ricevono lo Spirito per donarlo al mondo, tutti sono impegnati sul
fronte dell’ordine temporale per annunciare il vangelo e animare la storia. Non
è possibile caratterizzare il solo laicato
per il rapporto con la laicità:
superando la doppia coppia
comunità-carismi e ministeri, si restituisce non solo il primato all’ontologia
della grazia, ma si vede anche radicata
in essa la missione verso il mondo, e dunque il compito di animazione
evangelica del temporale. […] nessuno è
neutrale di fronte ai rapporti storici
in cui è posto, e la pretesa neutralità può facilmente divenire mascheramento,
volontario o involontario, di ideologie e interessi. Si deve allora pervenire –
nello sviluppo delle premesse poste dal Vaticano 1° - ad una diversa assunzione
della laicità in ecclesiologia, in forza della quale essa, senza essere
rifiutata com’è nell’atteggiamento integrista, non sia neanche legata ad una
sola componente della realtà ecclesiale: è tutta la comunità che deve
confrontarsi con il seculum, lasciandosi segnare da esso nel suo essere
e nel suo agire. La chiesa intera deve essere caratterizzata da un rapporto
positivo con la laicità!
Senza questo presupposto non sarà sicuramente dato un sinodo
nel quale l’intero Popolo di Dio sia messo realmente in condizione di
essere ascoltato, quindi di parlare, uscendo dalla condizione di
semplice platea in cui lo si
vorrebbe confinato, dalla quale si libera uscendo semplicemente dalla chiesa, non lascandosi più
coinvolgere in quella umiliante condizione.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli