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Manuale operativo di sinodalità
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L’organizzazione
1.
Sinodalità è una forma
organizzativa. Significa dar modo a tutte le persone di una comunità di fede di
partecipare alle decisioni, prendendosi anche la responsabilità di attuarle,
dividendosi i compiti. La spiritualità è implicata perché lo scopo di questo
processo è la diffusione e la pratica del vangelo, che è nient’altro che fare
agàpe: «Il mio comandamento è questo: amatevi
gli uni gli altri come io ho amato voi.» - Αὕτη ἐστὶν ἡ ἐντολὴ ἡ ἐμὴ ἵνα ἀγαπᾶτε
ἀλλήλους καθὼς ἠγάπησα ὑμᾶς· - translitterato: àute estìm e emè ina agapate
allèlus kathòs egàpesa umàs [Gv 15,12]. Riguarda quindi moventi, metodo e obiettivi. Però, di per
sé sola non garantisce il risultato: questo emerge dall’esperienza. In
particolare, non basta chiarire un certo quadro teologico: al contrario, in
genere è proprio questo che viene ritenuto sufficiente quando si parla di
sinodalità nella quale si voglia coinvolgere le persone laiche. Se si vuole
effettivamente allargare la partecipazione alle decisioni che riguardano tutti,
è evidente che si tratta la sinodalità è un’esperienza di libertà; nella
visione clericale della cosa, la si intende invece come legata alla
sottomissione gerarchica, per cui si sarebbe sinodali solo nella misura in cui
si accetta un quadro ideologico proposto dall’alto e si assente a decisioni che
sono già state prese prima di cominciare la sinodalità. Solo in questo modo,
infatti, si realizzerebbe ciò che viene indicato come comunione e, che, così posto, non è nient’altro che totalitarismo.
La questione centrale della sinodalità è il superamento del
totalitarismo clericale. In realtà le persone che non hanno scelto di
incatenarsi ad una gerarchia l’hanno già fatto, almeno nelle società
occidentali, ma ciò non viene loro riconosciuto e, anzi, veniva loro
addirittura rimproverato come indisciplina e superbia. Quindi per loro
significa conquistare l’istituzionalizzazione di una condizione che di fatto già
c’è. Per clero e religiosi si è ancora agli inizi e non sarà facile continuare, perché sono
soggetti ad una asfissiante polizia ideologica; differenziarsene può costare molto
caro a loro, che della religione hanno fatto sostanzialmente una professione.
Può significare perdere tutto: lavoro e dignità.
La gerarchia totalitaria è una forma organizzativa
obsoleta nel mondo di oggi, in particolare perché la civiltà contemporanea riesce a funzionare
solo mantenendosi pluralistica. Questo significa anche abbandonare l’idea, che
risale all’antichità, che la pace e la prosperità delle nazioni possa essere
assicurata solo istituendo un’autorità superiore a tutte, dotata della forza
per far rispettare le sue decisioni. Dall’Undicesimo secolo il Papato romano ha
sognato di essere un’autorità del genere. Nell’era dei totalitarismi, dal secolo
scorso, si è fatto totalitario e ancora non è completamente uscito da questa
fase. Una spiritualità che corrisponde a questo totalitarismo è quella secondo
la quale ci si impegna a rinunciare alla propria libertà come esercizio di virtù religiosa. Sinodalità
è invece accettare responsabilmente il dovere di essere liberi. Non
sempre se ne ha consapevolezza, né viene predicato così, ma il vangelo è via di liberazione, perché rende
liberi. Anche la sinodalità, come forma di agàpe, libera. La
liberazione consegue all’agàpe, intesa come benevolenza solidale e
misericordiosa reciproca, non alla rinuncia di sé nella sottomissione
gerarchica. Quest’ultima è costume da servi, e noi non dobbiamo esserlo, anche
se il vangelo ci spinge a metterci al
servizio gli uni degli altri.
2. Una
sinodalità che non si traduce in una struttura organizzativa di partecipazione
non è veramente tale. Secondo questo criterio risulta chiaro che le indicazioni
metodologiche che, in materia di fase dell’ascolto sinodale, sono state
date dalla Conferenza episcopale italiane e dalla nostra Diocesi non
realizzano alcuna sinodalità, perché non prevedono un’organizzazione
sinodale né un dialogo sinodale. Tutto viene diretto da equipe e referenti, come se si trattasse di fare catechismo. La
gente è invitata a parlare ma non sembra che interessi veramente ciò che dirà.
In questo primo
anno di cammino sinodale vogliamo tutti ricollocarci sotto il primato della
Parola di Dio: per questo viene proposto alle comunità cristiane un cammino
sulle Beatitudini, collegate alla narrazione di un incontro di Gesù con un
personaggio evangelico.
Questo itinerario spirituale di otto incontri
(uno per beatitudine) è il “luogo” in cui avviene anche la consultazione
sinodale: lì si affrontano l’interrogativo fondamentale e le domande che lo
articolano, suddivise in dieci temi. Perché le Beatitudini? [Dalle indicazioni
operative della Diocesi di Roma per
il cammino sinodale di ascolto del Popolo di Dio]
Già: perché proprio le Beatitudini? Perché
poi seguirà una predicazione, che è il terreno abituale del clero, in cui le
persone di fede si limitano ad ascoltare e a meditare in cuor loro.
Ecco come in Diocesi pensano a quell’attività:
- Lettura delle domande della scheda biblica
e tempo di silenzio per riflettere;
- primo momento di condivisione: ognuno racconta
agli altri in un massimo di tre minuti la propria riflessione; il moderatore controlla
che tutti ascoltino senza commentare;
- tempo di silenzio
- secondo momento di condivisione di ciò che
ci ha colpito negli interventi degli altri
- terzo momento: cosa lo Spirito Santo ci sta
suggerendo? Quali passi fare nella direzione di una maggiore sinodalità? .
Utilizzando tutte le otto schede (una per Beatitudine)
si affrontano le domande fondamentali previste dal vademecum per la
consultazione sinodale, ma riviste e riadattate nel contesto della scheda
biblica. In fondo al sussidio si troveranno comunque le domande complete, così
come formulate nel questionario del vademecum della segreteria del Sinodo dei
Vescovi.
Bisogna essere chiari: questo non è
nemmeno l’inizio di una qualche sinodalità. Tutto il tempo a disposizione,
così prezioso, verrà sprecato nella solita vaga spiritualità che lascerà tutto
com’è. Non si partecipa agli incontri di ascolto sinodale per crescere interiormente ciascuno per sé, ma
per cominciare a essere Chiesa sinodale e quindi crescere collettivamente. Però gli
incontri vanno preparati bene, perché i più neanche immaginano che cosa
significhi Chiesa sinodale. Vano cercare indicazioni operative nella Bibbia, perché la
sinodalità è cosa che è stata vissuta dopo la formazione di quegli scritti, quando ci si
cominciò a organizzare in comunità stabili. Va anche detto che la sinodalità
come oggi viene proposta è qualcosa di veramente nuovo, perché storicamente
essa aveva riguardato solo capi religiosi e civili e intellettuali. Tuttavia
ciò che indichiamo come Parola ne è sicuramente il fondamento perché la
sinodalità è espressione del vangelo e serve per diffonderne la conoscenza e la
pratica. Scordiamoci tuttavia di poter trovare nella Parola il preciso statuto operativo della sinodalità:
questo è ancora da costruire ed è responsabilità nostra.
3. L’esperienza della sinodalità deve necessariamente fare riferimento ad una
collettività specifica, composta in un certo modo, con una sua storia, con i
suoi problemi.
La nostra è la
parrocchia di San Clemente Papa, a Roma.
In essa dal 1983
al 2015, come credo di aver capito, si tentò
un esperimento sociale per trasformarla progressivamente in una federazione di
comunità molto coese, legate al loro interno da vincoli di solidarietà molto
intensi e da un programma di crescita interiore strutturato per gradi, da una
spiritualità per le persone laiche centrata sulla famiglia patriarcale e molto
prolifica, e caratterizzate, in tutto, da un ordinamento marcatamente gerarchico,
condizione dell’accettazione nei gruppi, il tutto, infine, per difendere l’esperienza
religiosa da contaminazioni della società intorno ed espanderla mediante
aggregazione delle singole persone come per forza di gravità verso le comunità.
L’architettura della nuova chiesa parrocchiale venne decisa, senza alcun
coinvolgimento dei fedeli del quartiere, in modo da essere funzionale a quel
progetto. Questo esperimento non ha avuto successo e si sono avuti segni
evidenti di un allontanamento di molta gente del quartiere, insofferente verso
questo nuovo corso. In particolare non ci portavano più i bambini e i ragazzi
per la formazione religiosa di base.
Si è assistito
ad un progressivo depotenziamento del Consiglio pastorale parrocchiale che
è proseguito anche dopo che, dall’ottobre del 2015, si è cambiato metodo, con
un certo successo nel radicamento nel quartiere che si è ricostituito. Per ciò
che so da anni il Consiglio non si riunisce più, benché sia istituzione obbligatoria
secondo le disposizioni della Diocesi. La causa di ciò è principalmente la
sfiducia verso il dialogo come via per la costruzione comunitaria.
Tutto questo
rende assai problematica la sinodalità nella nostra parrocchia, perché non ci si
è più abituati.
Rimediare a
questa situazione non sarà facile, ma senz’altro non può limitarsi alla
somministrazione di pistolotti alle singole persone di fede per vedere che
effetti fanno in loro. Non è questo che,
nella sinodalità che ci viene proposta, si vorrebbe ascoltare.
Il principale
problema della parrocchia è quello di sanare la frattura verticale e durissima
tra modi concepiti come alternativi di vivere la fede, al modo di religioni
diverse. E ad essa che va ricondotto il fallimento del Consiglio pastorale
parrocchiale come strumento di agàpe. Più che di sinodalità bisognerebbe forse
parlare di ecumenismo.
La base di una
effettiva sinodalità è la presenza di moti collettivi per vivere la fede partecipando e in modo dialogico, anche al di là dell’essere platea nelle
celebrazioni liturgiche. Se l’orizzonte della propria fede rimane la propria
interiorità e il piccolo gruppo nel quale essa viene espressa, senza apertura
più vasta, la sinodalità è semplicemente impossibile. A differenza di ciò che
constatai negli anni Settanta quei moti spontanei nella gente di fede non si manifestano
più. Ci si è abituati a farsi trascinare e, se lo si è dove non si vuole, ad
allontanarsi. Del resto in passato a chi dissentiva mi sembrò che venisse indicata
la porta. Molti, in particolare i più giovani la varcarono in uscita.
Pertanto il
primo passo verso la sinodalità è acquisire familiarità reciproca più ampia all’interno
della parrocchia, quindi frequentarsi al di là delle cerchie solite. C’è ancora
qualcosa che condividiamo al di là dell’incerta memoria del catechismo ricevuto
per la Prima Comunione? Quindi: incontrarsi. Ma non per condividere il
solito pippone spiritualistico, ma per ragionare insieme sul da farsi.
In particolare: che cosa ciascuna persona sarebbe disposta a fare con gli altri e per gli altri? E ciò
mantenendosi realistici, perché, specialmente nella fascia 25-65, il tempo è in
gran parte preso dal lavoro e dalla famiglia. Consideriamo i principali servizi
della parrocchia, che sono attività per gli altri: come potremmo collaborarvi? Se una
persona collabora, deve però anche avervi voce. Quindi sorge la questione di
come farlo. Allo stato le strutture di reale partecipazione sono praticamente
inesistenti, perché decidono tutto i preti (e in gran parte fanno). In realtà,
stando al diritto canonico vigente, quindi senza doversi inventare nulla, a
tutti gli adulti sono aperte tutte le attività specificamente ecclesiali, al di
fuori di due sole: la celebrazione della messa e la confessione. In realtà la
gran parte dei fedeli non fa nulla per la parrocchia se non presenziare da platea alle messe. Alcune persone vengono
coinvolte nel catechismo. Del resto i più nemmeno avrebbero la preparazione
minima per fare altro, perché non si sono mai fatti né formazione né tirocinio
in questo campo. Ma, volendo, si potrebbe rimediare molto presto.
Si dovrebbe cominciare
con l’organizzare formazione e tirocinio, partendo da ciò che c’è, quindi
costituendo piccoli gruppi che si assumano poi il compito di estendere la loro
esperienza non per aggregazione ma per imitazione.
Sarebbe una
buona idea rivitalizzare il Consiglio pastorale parrocchiale, facendo il
punto su chi ha diritto a parteciparvi, inserendovi nuovi membri tratti da
quella prime esperienze di embrionale sinodalità e cercando di organizzare l’elezione
di altri membri nel corso di assemblee sinodali. E’ in quella sede che dovrebbe
cominciare la reale partecipazione alle fasi decisionali. Bisognerebbe informarne tutti i fedeli con regolarità.
Oggi non si sa nulla su chi e come decide.
4. Oggi si terrà la seconda riunione in parrocchia come Assemblea sinodale,
nel quadro dell’ascolto del Popolo di Dio, tutti noi. La volta scorsa
eravamo una quarantina, un evidente insuccesso, se consideriamo che possono
stimarsi in un migliaio i praticanti. Non vi è stata, che io sappia, alcuna specifica
preparazione, tutto è lasciato un po’ al caso, l’altra volta ci si è lasciati
senza scambiarsi dati di contatto pe ritrovarsi, dunque si seguirà la scheda della Diocesi che
prevede la Beatitudine del beati quelli che sono nel pianto, perché
saranno consolati
(Mt 5,4). Si suggerisce di agganciarvi la meditazione sull’apparizione di Gesà
a Maria Maddalena, al sepolcro (Gv 20,11-18).
Tutto
questo in riferimento alla tappa del cammino sinodale dedicata all’Ascoltare:
L’ascolto è il primo passo, ma richiede di avere mente e cuore aperti,
senza pregiudizi. Verso chi la nostra Chiesa particolare è “in debito di
ascolto”? Come vengono ascoltati i Laici, in particolare giovani e donne? Come
integriamo il contributo di Consacrate e Consacrati? Che spazio ha
la voce delle minoranze, degli scartati e degli esclusi? Riusciamo a
identificare pregiudizi e stereotipi che ostacolano il nostro ascolto? Come
ascoltiamo il contesto sociale e culturale in cui viviamo?
Il raccordo,
in realtà piuttosto precario, con quelle domande è costruito in questo modo:
3. Domande per la
consultazione sinodale
(Le
domande qui riportate fanno riferimento al secondo nucleo tematico del
questionario del vademecum, quello dal titolo: “ascoltare”)
Maria di Magdala piange sulla tomba di Gesù,
presa dalla disperazione perché non le rimane neppure il cadavere da venerare.
Il dolore la rende incapace di riconoscere la presenza del Risorto e di
ricordare la promessa fatta da Gesù. Anche noi rischiamo di diventare una
Chiesa che si piange addosso, ripiegata su se stessa, incapace di ascoltare la
chiamata del Signore:
- Chi cerchiamo? Se cerchiamo il Signore, siamo
consapevoli che Egli ci parla attraverso ogni essere umano? O ci lasciamo
prendere dai pregiudizi (l’altro è “solo” il giardiniere)?
- Il nostro è un ascolto a “tutto campo”? Dei
fratelli e delle sorelle della comunità cristiana, di tutti gli esseri umani,
delle minoranze, degli attuali contesti sociali e culturali… O c’è qualcuno che
non vogliamo incontrare?
- Siamo consapevoli che spesso il Signore ci
parla attraverso coloro che piangono e che ci risvegliano dal sonno dei nostri
sterili lamenti?
Viene proposta come Preghiera conclusiva un brano biblico tratto
dal libro di Isaia (Is 49,13-18)
13
Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra,
gridate
di gioia, o monti,
perché il Signore consola il suo popolo
e
ha misericordia dei suoi poveri.
14
Sion ha detto:
«Il
Signore mi ha abbandonato,
il
Signore mi ha dimenticato».
15
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così
da non commuoversi
per
il figlio delle sue viscere?
Anche
se costoro si dimenticassero,
io
invece non ti dimenticherò mai.
16
Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato, le tue mura sono sempre
davanti a me.
17
I tuoi figli accorrono, i tuoi distruttori e i tuoi devastatori si allontanano
da te.
18
Alza gli occhi intorno e guarda:
tutti
costoro si radunano, vengono a te.
«Com'è
vero che io vivo – oracolo del Signore –,
ti
vestirai di tutti loro come di ornamento,
te ne ornerai come una sposa».
In realtà, se fosse
consentito di essere veramente sinodali, a queste domande:
Verso chi la nostra Chiesa particolare è “in
debito di ascolto”? Come vengono ascoltati i Laici, in particolare giovani e
donne?
Si dovrebbe francamente
rispondere che le persone laiche, vale a dire la quasi totalità della Chiesa, non
vengono mai veramente ascoltate, non contano nulla, se ne
diffida, le si vuole silenziose nella condizione di mera platea liturgica o, al
di fuori di questa, come folla plaudente ai gerarchi e, soprattutto, clero e
religiosi vogliono che si continui così. Solo il Papa sembra pensarla
diversamente.
Da qui,
poi, si potrebbe partire per cambiare, non ai vertici, dove la via è sbarrata da
un’efferata teologia totalitaria e da una corrispondente prassi canonica, ma,
appunto, in una realtà di parrocchia come la nostra, cominciando ad organizzarsi
diversamente facendo forza sugli spazi di autonomia, pur limitati, riconosciuti
al Consiglio pastorale parrocchiale.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa –
Roma, Monte Sacro, Valli