Materiali per un tirocinio alla
democrazia (2016-2017)
proposti Mario Ardigò
- Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
Ripubblico, raccolte in un unico documento, le
riflessioni di politica svolte sul blog <acvivearomavalli.blogspot.it>
dal settembre 2016 all'agosto 2017. Possono essere utili come materiale per un
tirocinio alla democrazia. E' possibile farne il copia/incolla in formato
word e, in questo modo, trasferirle molto rapidamente con i vari dispositivi
telematici oggi in uso. In gran parte si tratta di sintesi di pensieri altrui,
filtrati attraverso la mia esperienza di vita. Vi invito a vagliare
criticamente, in particolare alla luce del magistero se siete persone di fede,
ciò che ho scritto. Ciò che vi propongo può essere preso come base per una
discussione, ragionando di democrazia, ma ha necessità di essere sviluppato e
ampliato e, dove occorre, corretto. Autorizzo il libero utilizzo del materiale
offerto, esonerando dal menzionarne l'autore. Mi sono limitato infatti a
restituire ciò che ho ricevuto: ho fatto solo da tramite.
Avverto che la mia posizione politica,
non partitica, sulla questione democratica emerge chiaramente negli scritti che
propongo. Il mio primo riferimento è stato sempre l'ambiente dossettiano
bolognese, ma sono anche un ragazzo degli anni '70, formatosi nella FUCI di
allora. Ho accostato anche il pensiero politico di altre fonti.
Ho cercato di utilizzare il metodo del
dialogo e della mediazione culturale che mi è stato insegnato in religione e di
incoraggiare a impiegarlo nelle riflessioni politiche. Ho voluto stimolare una
discussione critica, non polemizzare. Ho cercato di comprendere il punto di
vista altrui, anche quando divergeva molto dal mio.
Da ultimo: il mio lavoro non riflette
il pensiero dei sacerdoti della parrocchia San Clemente papa, né quello
dell'Azione Cattolica. Scrivo da associato all'Azione Cattolica, ma sotto la
mia esclusiva responsabilità personale.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.
Indice sommario:
0.Introduzione
1.Prepararsi per un grande
destino
2.Prendersi
cura della casa comune
3.
Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna
autorità pubblica o privata sulla base di valori condivisi
4. Illusione
dell’«uomo forte»
5. Capire la
politica
6. Nuovo inizio o prosecuzione della
costruzione della casa comune?
7. Persecuzioni e persecutori
8.Laudato
si’: pensare la globalizzazione in una visione di fede
9. Inequità
planetaria e lotta religiosa contro un modello di sviluppo
10. Cammini di
liberazione
11. Critica sociale, fede
religiosa e azione sociale: sviluppi nella dottrina sociale
12. Nuova santità
13. La politica come campo d’azione della fede
14. Europeismo
15. Nazionalizzazione degli stati
16.
Noi e i problemi europei
17. Un mandarino per Teo
18. In una fase di transizione
19. L’evoluzione della storia animata da formazioni sociali
20.
Francesco e il trumpismo
21. Critica e autocritica sociale, dialogo
22. Una nazione senza frontiere non è una nazione?
23. Il risorgente
nazionalismo mette in pericolo il mondo
24. La grande storia ci si sta per rovesciare addosso
25. Religione tanto più coinvolgente quanto più
inutile?
26. Noi, la pace e la religione
27. Antipapa?
28. Il neo-nazionalismo: un problema di corruzione
spirituale della società
29. Economia e comunione
30. Pace, perdono e indole personale
31. Un mondo sta finendo
32. Impegno
religioso e impegno politico: la particolarità italiana
33. Consapevolezza storica e partecipazione
responsabile
34.
Nuove modernità
35. Crisi della parrocchia e crisi della politica
36.
La religione come problema sociale
37. Prepararsi a lavorare in società
38. I guai politici delle religioni tradizionali
39.
Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica
40. La radice politica dei problemi religiosi
41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno
42. L’immaginazione al
potere?
43. Scuola popolare di pensiero sociale
44. Ribelli
45. Il Cielo in una stanza
46. La
“Politica” con la maiuscola
47. La questione democratica
48. Informazioni sulla
democrazia.
49.
Pensare il popolo
50.
Costruire il popolo
51. Processi democratici nella costruzione di un
popolo: la festa
52. Un
lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà
53. Imparare la democrazia
54. Democrazia
e virtù
55. La salvezza dell’umanità come problema
religioso e politico
56. Educare alla
democrazia globale
57. Il contributo della religione ad una nuova
democrazia globale
58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare
i mondi vitali
59. Festa della Repubblica
60. Il lavoro dell’istituzione
61. Politica e conflitti sociali
62. La giustizia come
metro dei sistemi sociali
63.
Non rassegnarsi
64.
Dignità
65.Non siamo formiche
66. Magistero costituzionale
67. Religione e democrazia da poco sono tra loro
contemporanee
68. Dialogo come metodo e mentalità
69. Interpretare il mondo contemporaneo
70. Giustizia sociale come conversione.
Papa Francesco: lottare nei luoghi dei “diritti
del non ancora”. Note sul
discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017
71. Le
culture, veri miracoli dell’umanità
72.Partire da lontano per
capire i vicini
73. Come si è popolo in religione?
74. Popolo sognato
75.
Grandi orizzonti
76. Noi e il mondo
77. Che portiamo al mondo?
78. Costruire democraticamente le basi della convivenza in religione
79.
Sperimentare nuove forme di democrazia
80.
Capire la democrazia
81. Comprendere gli esseri umani
82. Fare politica in
spirito di carità
83. Noi popolo
84. Serve un governo del
popolo?
85. Diventare popolo?
86. La società costruita
87. Pensare come
popolo
88. La felicità di
tutti
89. La politica e i
valori
90. Cambiare le
persone al comando o le politiche?
91. Partecipare al
governo democratico
92. Vivere la politica
democratica
93. Fare la propria
parte
94. La dottrina
sociale: una grande opportunità
95. Prepararsi alla
cittadinanza
96. Fare politica
97. Informarsi, conoscere, capire
98. Usare
l'intelligenza
99. Uguali in dignità
100. Veramente uguali
101. Populismo
**************************************
0.Introduzione
La formazione della persona di fede dovrebbe
comprendere anche un tirocinio alla
democrazia, come parte del tirocinio alla carità in senso religioso. Non mi
riferisco ad un insegnamento di tipo dogmatico, quindi dei principi generali
che Papa e vescovi ci invitano a seguire in quel campo. Essi, nel loro
complesso, costituiscono un corpo molto esteso e sistematico, vale a dire
ordinato per certi fini, che viene chiamato “dottrina sociale”. Intendo invece
una pratica di democrazia a partire
dalle realtà sociali più vicine alle persone, per arrivare e quelle che più
vaste, a livello nazionale e
internazionale. Di solito ci si trova immersi in vari tipi di società, le prime
delle quali sono quelle dei giochi infantili e delle scuole primarie. E’
proprio da questo livello che occorre cominciare a imparare a praticare la
democrazia e, più in generale, a fare politica.
E’ un lavoro educativo che però, in genere, nella formazione di primo e secondo
livello, diciamo per intenderci per la preparazione alla Prima Comunione e alla
Cresima, non si fa. E più avanti, quando si fa, la si fa appunto come
insegnamento dogmatico, di norme generali da imparare e mettere in pratica. Ma
per imparare certi principi di azione sociale occorre convincersene e per
metterli in pratica, nel dettaglio delle nostre vite, occorre farne tirocinio,
come per ogni sapienza che si apprende.
Come organizzare un tirocinio alla politica
democratica in una parrocchia? La parrocchia è un’istituzione politica, nel
senso che raggruppa una società che richiede di essere governata. Per farlo
democraticamente, occorre fare pratica di partecipazione.
Fin dove si può farlo? Non è il parroco che decide tutto? Effettivamente il
parroco in genere ha l’ultima parola. Questo dipende dai diversi aspetti della
parrocchia, che è una società di tipo comunitario, in cui quindi conta molto la
partecipazione, ma anche un’istituzione amministrativa che si occupa, ad
esempio, di un patrimonio immobiliare e di compiti specificamente notarili,
nell’esercizio dei quali il sacerdote può anche assumere la veste di pubblico
ufficiale, in particolare nella celebrazione dei matrimoni detti concordatari perché hanno anche effetti
civili. Ad ogni funzione sono collegate specifiche responsabilità. Per le norme vigenti del diritto canonico e del
diritto statale alcune responsabilità sono proprie del parroco e dei sacerdoti
che con lui collaborano. Ma vi sono spazi di partecipazione democratica molto
ampi, alcuni previsti espressamente dalle norme del diritto canonico, vale a
dire da quello della Chiesa, ma altri che possono essere liberamente
strutturati da una comunità che voglia
farlo impegnandosi.
La partecipazione democratica è strettamente
legata all’impegno, nel senso che non
si partecipa veramente se non impegnandosi, facendosi carico e assumendosi
responsabilità. Ci si assume una responsabilità quando si accetta di rendere conto alla comunità di ciò che si è fatto e di come
lo si è fatto. Democrazia e impegno sono così strettamente connessi perché la
democrazia non è solo un metodo di voto per adottare delibere collettive, con
maggioranze più o meno ampie, ma anzitutto un sistema di valori. Questi ultimi, in democrazia, sono tutti
orientati verso la giustizia. Dall’economista bolognese
Stefano Zamagni, prendo la definizione di giustizia secondo tre aspetti:
-giustizia commutativa: negli scambi
contrattare un prezzo equo; non approfittare a danno degli altri di condizioni
di mercato loro eccessivamente sfavorevoli;
-giustizia distributiva: nella società
fare in modo che a nessuno manchi l’essenziale;
-giustizia partecipativa: ognuno faccia
il suo dovere in società; nessuno si
chiami fuori; ognuno si metta in gioco nell’interesse collettivo.
E’ chiaro che la democrazia non è faccenda
che si può risolvere con un clic.
Ma da dove cominciare per un tirocinio alla
democrazia? Direi che occorre organizzare degli incontri nei quali:
-
ragionare di democrazia;
-individuare
gli spazi di democrazia che ci sono nelle società in cui ci si è trovati
inseriti;
-progettare
forme di partecipazione democratica;
-realizzare
forme di partecipazione democratica, programmando verifiche periodiche.
Il materiale che segue serve appunto per
ragionare di democrazia. Non è un manuale. Non è dogmatica di dottrina sociale.
Si tratta di una raccolta di miei riflessioni, già pubblicate nel blog acvivearomavalli.blogspot.it , nelle
quali confluiscono un po’ di mia vita vissuta, un po’ di riferimenti storici,
e, in mezzo, riferimenti ai principi. I riferimenti storici di solito mancano
nelle lezioni sulla dottrina sociale. Questo perché ci si sente a disagio
nell’ammettere che in essa c’è stato uno sviluppo storico, che, quindi, è
cambiata nel tempo, in seguito alle esperienze concrete di partecipazione
sociale. Il cambiamento più rilevante ha riguardato proprio la democrazia, che
molto lentamente è stata individuata come il regime politico più degno per le
persone umane, in particolare in un processo che si è sviluppato prima alla
base e poi nel magistero, quanto a quest’ultimo tra il 1941 e il 1991.
Ognuna delle riflessioni che seguono può
essere lo spunto per iniziare a ragionare di democrazia, in uno degli incontri
di cui dicevo. Va però considerata una proposta aperta, innanzi tutto per vagliarne i fondamenti, l’attualità,
l’accettabilità sotto vari profili e quindi anche per contestarla, qualora
occorra. E’ solo così che si migliora,: individuando con l’aiuto degli altri
gli errori e imparando a non ripeterli.
Per ragionare di democrazia è indispensabile
avere sotto mano il libro di testo di storia dell’ultimo anno delle scuole
medie frequentate, inferiori o superiori. A chi non l’avesse più, consiglio l’ultima
edizione del volume 3 del corso di storia Nuovi
Profili Storici di A.Giardina, G.
Sabbatucci, V. Vidotto, editori Laterza, €40,90.
Tutti i documenti della dottrina sociale sono
pubblicati sul sito <www.vatican.va>. Per ricercarli velocemente si può
impostare una ricerca sul motore di ricerca Google,
inserendo il nome del documento che
si ricerca (di solito in latino, ad esempio pacem
in terris) e la parola vatican).
1.Prepararsi per un grande destino
Aldo Moro (1916-1978.
Esponente dell’Azione Cattolica, professore di diritto, politico, membro
dell’Assemblea Costituente, a lungo parlamentare, ministro e presidente del
Consiglio dei ministri, assassinato dai banditi delle brigate rosse nel 1978)
scrisse nel 1943, per i suoi studenti dell’Università di Bari:
“Probabilmente,
malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori,
non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra
contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà
mantenuta, Ciò vuol dire che gli uomini dovranno sempre restare di fronte al
diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il
dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo
dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo
spesso più angusta di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare
legittimamente sperare.
Il dolore
dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la
cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. E’ un dolore che
non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano
capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della
natura dissolvano quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo
non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della
giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino.
[in: Aldo Moro, Lo
Stato - Il Diritto, Cacucci Editore, 2006, €15,00, un testo che, a parte
alcuni capitoli di impostazione filosofica, è prettamente centrato sulla
dottrina giuridica in materia di diritto pubblico e, in questo, non è
aggiornato ai nostri tempi].
Leggendo
l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, ritrovo lo stesso
impegno verso un grande destino di cui scriveva Moro nel 1943.
Ci sono degli ideali e delle prospettive di azione collettive. Si lavora nel
mondo, si cerca di determinarne l’evoluzione storica, non si è indifferenti al
dolore degli altri e la forza della fede riesce talvolta a dissolvere l’ansia,
a ridarci la pace, a lenire l’insoddisfazione: perché lo vediamo bene che il
dolore umano non sarà mai pienamente confortato. Di quella pace, che significa
giustizia, rendere a ciascuno il suo, al Cielo e agli esseri umani, avremo
sempre fame e sete: è il nostro destino. Ma pensiamo ancora che sia un grande destino?
Uno può
pensare a un proprio futuro felice. Ma tutto passa e
anche noi. Se si ragiona così, la vita è fatta di brevi felicità e di molto
dolore. E il dolore va preso sul serio, questo posso testimoniarlo, perché non
c’è un limite alla capacità di soffrire, ed è la morte. Dicono che ci viene
assegnato solo il dolore che possiamo sopportare, ma io questo non l’ho potuto
constatare. Così, il destino personale è quello che è. E’ solo quando pensiamo
a un destino collettivo, ad esempio che riguarda la nostra discendenza,
che allora esso può essere grande. Questa contemplazione di un
destino grande dà poi una felicità più duratura. “Occorre
rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo
noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che
verrà dopo di noi. E’ dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il
significato del nostro passaggio su questa terra”[Laudato si’,
n.159]. E’ per partecipare a questo lavoro collettivo, convinti di quel grande destino,
che ci si riunisce, si dialoga, si lavora insieme, anche in una collettività
come quella parrocchiale. E’ anche una via verso la vera felicità. Ed è una via
con un significato religioso, come ci ha spiegato il nostro vescovo nel
documento che ho citato. E’ una via che ci viene indicata, specialmente a noi
laici di fede, ma che qualche volta siamo esitanti a iniziare a percorrere.
Trascuriamo di parlarne nella formazione alla fede e, allora, guardate un
po’!, sembra quasi che nemmeno si sappia più di che parlare. E non ne parliamo
neppure ai nostri giovani. Noi adulti siamo un po’ sfiduciati, come scriveva
Moro: “in una posizione di più o meno acuto pessimismo”.Ecco che allora
il nostro catechismo talvolta appare un po’ troppo miserello per chi sta
aprendosi alla società, per parteciparvi attivamente, e non è più soddisfatto
dai discorsi per bambini.
Ma soprattutto,
per il lavoro che c’è da fare non basta il catechismo! E infatti di quella
specie di rivoluzione culturale invocata nella Laudato
si’non mi sembra rimanga traccia nei discorsi che facciamo ai giovani. E
forse ci siamo già dimenticati di quel documento, che è qualcosa di più delle
ricorrenti produzioni clericali del passato, che una persona non faceva nemmeno
tempo a leggere, non dico a studiare e a capire, che già ne arrivava
un’altra. O, quello che è ancora peggio, cerchiamo di pasticciarne
versioni riduttive, in modo che, in definitiva, confermi le nostre opinioni di
sempre. E’ quello che talvolta facciamo anche con le Scritture. Le apriamo a
caso, e, guarda un po’!, ci troviamo sempre confermato il nostro pensiero. La
scorsa domenica, alla Messa delle nove, il celebrante ha accennato a
Scritture esigenti, che mettono in crisi. E’
bello avere fra le mani le Scritture, ma siamo consapevoli di ciò che veramente
sono e dicono? Non sono il Libro delle Giovani Marmotte.
Ne parlò, in
un’omelia dell’8 giugno 2014, il vescovo di Palestrina, Domenico Sigalini:
«Non è scritto per
nessun cristiano il Libro delle Giovani Marmotte. Non so se avete
letto Paperino. Quando mancava Paperino, non sapevano
che fare quelle oche lì; allora c'era un libro nel quale andavano a leggersi
come fare un uovo fritto, lo prendi così, lo spacchi cosà, come fanno i vostri
mariti quando non ci siete voi a casa. Telefonano "Come faccio a
fare questo?", eh? Il Libro delle Giovani Marmotte,
dove c'è scritto tutto quello che devi fare quando manca il capo. Non abbiamo
ilLibro delle Giovani Marmotte perché manca Gesù, dove c'è scritto
tutto, già definito, tutto quello che si deve fare. Quante volte voi mamme e
papà avete dovuto tribolare per decidere cosa fare nella vostra famiglia, pur
essendo cristiani, pur sapendo il Vangelo, pur sapendo tutti i Comandamenti!
Perché la nostra vita non è mai all'altezza del Vangelo, se non c'è lo Spirito
Santo che ci illumina. "Prendi questa decisione!", "Prendi
quest'altra". Siamo sempre aperti, non abbiate in tasca nessuno la verità!
La verità è sempre Gesù ed è lo Spirito Santo, che ci aiuta ad essere più
docili. C'è solo lo Spirito Santo. La nostra docilità e la nostra umanità,
affidata tutta a Dio e soltanto a Dio.»
Quanti saggi si
sono amorevolmente dedicati a cercare di comprendere tutti i sensi delle
Scritture! Una letteratura sterminata e ancora inesauribile. Perché, come si
dice, sono Parola viva. Ed ecco che invece talvolta pretendiamo che
ci si appaghi di certi nostri predicozzi incolti, e addirittura ci inquietiamo
quando gli altri obiettano insoddisfatti.
E che succede
se noi teniamo la Parola viva in cassaforte senza farla
scendere veramente nel nostro mondo? E’ parola reclusa, prigioniera tra le
nostre mani. E, invece, che potenza esprime quando c’è chi se ne fa veramente
mediatore, con l’antica sapienza che ci è stata tramandata e con l’umiltà
devota di chi ne riconosce la santità e la rispetta! Come quando il celebrante,
nella Messa delle nove di domenica scorsa ha iniziato ad introdurci al
senso di questo versetto della lettera ai Galati “28 Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più
uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (Gal 3,27-29). "Altro
che bomba atomica!", ha concluso: ed è così! Vedete che cosa
abbiamo tra le mani!
Dobbiamo
fare reagire il nostro mondo con la nostra fede: occorre che portiamo il nostro
mondo nelle cose della fede. E’ il metodo seguito nella Laudato si’.
C’è tutto un mondo in quel documento, alla lettera. C’è un’ecologia, un
discorso sull’ambiente, che va molto oltre la natura, ma
comprende anche le società umane. Di tutto dovremmo prenderci
cura religiosamente. Ma come farlo se nessuno ce lo insegna, in
religione? E, in particolare, non ce lo insegna quando siamo più disposti ad
apprendere, nel corso dell’adolescenza. E' cosa che va molto oltre il
catechismo come lo si intende in genere, ma che riguarda anche il catechismo.
Ma che non molti catechisti mi pare sanno trattare. Dopo la Laudato si’ tutti
quelli che si occupano di formazione religiosa degli adolescenti e dei giovani
dovrebbero fare un esame di coscienza e dirsi se sono in grado o non sono in
grado di fare quel lavoro che ci si attende anche da loro. E se riconoscessero
di non essere in grado, con quale presunzione poi potrebbero voler
monopolizzare il lavoro di formazione dei più giovani riducendolo a catechismo
immiserito? Lascino spazio ad altre forze, in attesa di prepararsi
adeguatamente. E, soprattutto, lascino spazio ai sacerdoti, si facciano guidare
da loro.
I
più giovani sono più generosi di noi adulti. E’ perché sono aperti al nuovo. E
lo sono perché devono farsi largo, progettare un futuro in cui ci sia posto
anche per loro e per quelli che amano. Non hanno tempo da perdere: lo sanno per
istinto naturale! Se noi riduciamo tutto a catechesi miserelle, senza mettere
in campo quel grande destino di cui parlano Moro e Bergoglio,
poi li perdiamo. Che se ne fanno di una religione così? E io non posso
rimproverarli. Farei anch’io come loro.
Di solito sono restio a citare discorsi di papi. Siamo stati sommersi dal
profluvio esorbitante della loro produzione letteraria. Quasi non abbiamo avuto
il tempo di occuparci d’altro (anche se spesso lo abbiamo fatto
distrattamente). Ma, per dare un’idea di quel grandedestino che ho
evocato, concludo trascrivendo di seguito l’omelia pronunciata da papa
Francesco a Lampedusa, dopo fatti tragici, l’8 luglio 2013. L’ho trovata
citata nell’ultimo libro di Zygmunt Bauman che è stato pubblicato in
italiano: Stranieri alle porte (anche in formato e-book - ve
lo consiglio).
«
“Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di
speranza sono state una via di morte”. Così il titolo nei giornali. Quando
alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è
ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che
porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a
compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze
perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore. Prima però
vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi,
abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di
sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio
verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio
di solidarietà. Grazie!
Grazie
anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto e il suo
lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco, signora
Giusy Nicolini. Grazie tante per quello che lei ha fatto e fa. Un pensiero lo
rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno oggi, alla sera, iniziando il
digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi
è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie.
Questa
mattina alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre
alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a
riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti. «Adamo, dove sei?»:
è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei,
Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella
creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere
Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione
con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che
disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino,
dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio,
anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta
a versare il sangue del fratello. Queste due domande di Dio risuonano anche
oggi, con tutta la loro forza; tanti di noi, mi includo anch’io, siamo
disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non
custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di
custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le
dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è
tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è
una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di
noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili
per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e
per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che
cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano
solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi,
abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente
uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei
trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le
quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E
alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è
tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura
spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della
città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno
in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del
re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna,
Signore». Tutti e nessuno. Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il
responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi
rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma
Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a
me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il
senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita
del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola
del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada,
forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito
nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del
benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida
degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono
nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza
verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo
mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione
dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci
riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.
Ritorna
la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci
rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove
sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della
storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo,
anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha
pianto per questo fatto e per fatti come questo?», chi ha pianto per la morte
di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla
barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che
desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che
ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione
dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere. Nel Vangelo abbiamo
ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli…
perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio
benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi…
Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro
cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza,
di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che
nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a
drammi come questo. «Chi ha pianto?», chi ha pianto oggi nel mondo?.
Signore
in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per
l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo, Padre, perdono per
chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia
del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello
mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono
Signore; Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?»,
«Dov’è il sangue di tuo fratello?».
2.Prendersi
cura della casa comune
L’enciclica Laudato
si’, dell’anno scorso, ha come sottotitolo: “sulla cura
della casa comune”. Si tratta di un testo che non ha precedenti nella
dottrina sociale. Questo risulta in modo evidente in particolare dalle note di
citazione, che fanno pochi riferimenti a precedenti documenti analoghi. Vi sono
invece molte citazioni di documenti di conferenze episcopali. Vi sono citazioni
di documenti dei papi regnanti dagli anni ‘70, ma con molti testi diversi
dalle encicliche, contenuti in discorsi e messaggi. Di documenti conciliari vi
sono tre citazioni e riferimenti tratti tutti dalla Costituzione La
gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (nota 50, sull’autonomia
delle realtà terrene; nota 100, sull’uomo quale autore, centro e fine di tutta
la vita economico-sociale; nota 122, sul concetto di bene comune come l’insieme
delle condizioni delle vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai
singoli di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più
speditamente). Ma è la prospettiva che viene proposta che è molto diversa da
quella dei precedenti insegnamenti della dottrina sociale e anche dalla
teologia francescana, a cui pure si fa riferimento come principio ispiratore.
Non basta rispettare e contemplare la natura, e riconoscervi l’opera del
Creatore: occorre averne cura. Non si tratta solo di soggiogare e sfruttare senza
inaridire le risorse, lasciando ciò che serve alle generazioni successive:
occorre anche mantenere, e ove occorre ristabilire, l’armonia del creato, di
cui gli stessi esseri umani sono parte. Occorre un’azione comune, collettiva,
che non è più riferita, come nei precedenti documenti che trattavano il tema,
solo ai governanti, ma a tutti. Questo richiede una conversione su
larga scala, la giustizia sociale tra le generazioni, un nuovo spirito civico e
nuove politiche. E’ in questione uno stile di vita. Ma anche il sistema
economico che regge le società contemporanee. Si parla di ecologia,
parola che significa studio dell’ambiente, ma l’ambiente a
cui si fa riferimento non è solo quello naturale, ma in primo luogo quello
sociale. Perché sono gli esseri umani ad essere chiamati a prendersi
cura della creazione. Si è chiamati ad una rivoluzione
culturale:
114. Ciò
che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa
rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono
implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e
possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare
all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per
guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e
sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da
una sfrenatezza megalomane.
Passare da una civiltà della crescita illimitata e dello spreco ad una della
sobrietà e della cura dell’ambiente richiede un lavoro specificamente politico,
che nella Laudato si’ è specificamente indicato come
compito di tutti.
178.
Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche
da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine.
Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a
irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo
o mettere a rischio investimenti esteri. 179. […
] Poiché il
diritto, a volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si
richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La
società, attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve
obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi.
Se i cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e
municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali. 181.
[…] Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le
istituzioni e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e
inerzie viziose.
Una politica in
cui il popolo abbia parte è una politica democratica. E’ la prima volta
che in un’enciclica vi è un così forte appello al popolo per una politica
democratica. In passato appelli del genere erano rivolti ai governanti.
Si tratta di un portato della difficile accettazione dei processi democratici
da parte della dottrina sociale, che si è avuta compiutamente piuttosto
recentemente, solo con l’enciclica Il centenario, del 1991, di
Karol Wojtyla. Questo documento fu pubblicato in un anno in cui tutto iniziò a
cambiare molto velocemente in Europa: fu l’anno della dissoluzione del
comunismo sovietico in Russia. In Europa il processo politico era iniziato nel
1989. Si trattò di sviluppi che in Occidente non si erano previsti e che,
quindi, sorpresero non poco. Si produsse, nell’Europa Orientale dominata
dal comunismo sovietico, una rivoluzione di sistema. Molto più, quindi, di una
rivoluzione politica, che comporta un cambio di chi comanda in politica. A
quell'epoca si volle fondare, progettare e stabilire un nuovo sistema sociale,
economico e politico insieme. E allora il Wojtyla condusse i fedeli verso la
democrazia, verso quale, fino ad allora, vi erano state sempre molte riserve, e
ancora per certi versi vi sono, tanto che essa viene poco praticata
nell’organizzazione religiosa e viene riservata a quella civile.
Wojtyla fu tra i
pochi, e il solo tra i grandi della Terra, a prevedere il cambiamento dei
sistemi politici integrati dell’Europa orientale, che tenevano sostanzialmente
prigioniere le Chiese di quelle regioni, e in particolare la Chiesa polacca
nella quale egli si era formato. Egli intuiva la fragilità di quei governi
nazionali. Ma, con il senno del poi, possiamo riconoscere che non aveva
veramente capito i moventi della rivoluzione in corso. Egli si illudeva che
fossero spirituali, che i popoli dell’Europa orientale volessero rientrare
nuovamente nel consesso delle genti della fede che era alle radici della
cultura civica europea.
Furono strani
moti rivoluzionari, quelli che cambiarono l’Europa in quegli anni. Ci fu poca
violenza. Non ci fu una classe contro l’altra. Non insorsero i ceti più poveri.
Si osservò che le piazze si riempirono di giovani e di professionisti, di gente
dei ceti più elevati della società. I governi, dinanzi a quelle piazze, e a
volte solo addirittura alla minaccia di raduni di piazza, mollarono tutto, come
convinti della propria inesistenza, come fu scritto. E’ stato osservato
(Zygmunt Bauman) che fu l’anelito al consumismo, alla libertà di creare e di
soddisfare sempre nuovi bisogni, che motivò gran parte delle folle che
manifestarono in piazza. Nella Germania orientale, dove, nel novembre 1989 si
produsse l’evento che viene denominato Crollo del muro di Berlino,
e che, in realtà, non comportò alcun crollo, ma solo l’apertura, su
ordine del Governo della Repubblica Democratica Tedesca, della frontiera che
all’epoca divideva in due la città di Berlino, non furono assaltati i palazzi
della politica, ma la gente si accalcò alla frontiera per andare in Occidente,
vedere che c’era, fare acquisti, incontrare parenti che da decenni non vedeva,
però poi facendo ritorno a casa attraverso la medesima frontiera.
Nei sistemi
economici e politici comunisti era vietato non lavorare e tutti avevano una
casa. Tutti potevano studiare e curarsi gratuitamente. Tutti avevano a basso
costo di che vivere. C’era tempo libero e venivano organizzati gratuitamente
svaghi e vacanze. Ma lo stato pretendeva di controllare i bisogni della
gente, di decidere quali erano meritevoli di soddisfazione e quali no. E
non riusciva neppure a soddisfare tutti i bisogni che riconosceva come degni.
Per cui nei negozi di stato c’era poca roba e, quando c’era, occorreva spesso
fare lunghe file per acquistarla. C’era il costume di comprare, ai bassi costi
che venivano praticati dallo stato, anche cose che non servivano al momento, ad
esempio scarpe di una taglia diversa da quella propria, per farne poi baratto.
Tutti i maggiori sforzi dello stato venivano dedicati all’industria pesante,
non a quella che produceva beni di consumo, per sorreggere i bisogni
dell’apparato militare. Infatti i governi di quel mondo vivevano in un perenne
clima di assedio, come agli esordi della rivoluzione bolscevica (quella che poi
produsse lo stato sovietico russo), nel 1917. E nell’industria si aveva di mira
innanzi tutto lo sviluppo sempre più rapido e imponente, non la sostenibilità
ambientale. Fu il desiderio di più beni di consumo la molla principale che
indusse le stesse classi dirigenti dei sistemi comunisti dell’Europa orientale
a cambiare politica, producendo una rivoluzione di sistema. A tutto ciò gli strati
meno ricchi, meno colti e più anziani delle popolazioni, infatti anche in
quelle società l’egualitarismo non era completo, rimasero sostanzialmente
estranei. Furono i più giovani e i ceti colti il motore di quelle
rivoluzioni.
Un indizio
significativo della dinamica che ho descritto può essere visto in un fatto di
cronaca avvenuto proprio a Roma. Nel 1991, venne in visita di stato in
Italia il nuovo presidente della Russia, Boris Eltsin. Sua moglie, mentre il
marito si intratteneva in colloqui politici, fu portata in visita per la città
e, in particolare, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, che è in una zona
della città non particolarmente elegante, si tratta infatti di un quartiere
popolare come il nostro, anche se situato in centro. Uscendo dalla Basilica, la
signora Eltsin vide lì di fronte un supermercato popolare, che ancora c’è,
volle entrare, lo girò tutto e fece anche acquisti, sotto lo sguardo sbalordito
delle commesse. Ne fu entusiasta. Fu criticato e preso in giro questo suo
ingenuo entusiasmo per un supermercato popolare. Fu osservato che non aveva
mostrato lo stesso entusiasmo durante la visita allo storico chiesone. Era
questo profluvio di merce che c’era nei supermercati occidentali il sogno degli
europei orientali.
[Cronaca dell'evento all'indirizzo WEB:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/04/25/quella-prima-volta-di-eltsin-in-italia.html ]
Ora tutta
l’Europa sta di fronte alla sostenibilità del suo modello di sviluppo
consumistico, quello che è stato uno dei moventi più importanti delle
rivoluzioni nell’Europa orientale. Non ce n’è per tutti. L’induzione di sempre
nuovi bisogni genera spreco di risorse. Per cui mentre c’è chi non ha di che
vivere, ci sono quelli che consumano molto di più di ciò che ragionevolmente
sarebbe loro sufficiente per stare molto bene. Tutto è concentrato nella
soddisfazione dei bisogni individuali di chi è riuscito a integrarsi nel
sistema economico, mentre per i bisogni sociali, ad esempio per i servizi
pubblici e per le pensioni sembra che, nelle nostre società straricche
dell’Occidente, manchino sempre le risorse. Il sistema economico non è stabile,
perché, per sostenersi, ha necessità di crescere sempre.
Ma può crescere solo soddisfacendo i bisogni dei sempre meno che hanno di che
pagare certi prezzi. Così, sembra che più aumenta la capacità di soddisfare
bisogni più diminuisca il numero di chi può pagare e, dunque, più sia in
pericolo la crescita costante. Il lavoro diventa
precario perché la sua stabilità è uno di quei costi per i quali non si trovano
mai le risorse. Divenendo precario viene retribuito meno, e quindi diminuisce
la capacità di spesa delle masse. Quindi diminuiscono i consumi e la gente si
indebita per consumare. E’ stato osservato che il debito privato impone un
pesante servaggio alle persone, così come l’entità del debito pubblico ,ora che
la si vuole tenere sotto controllo, limita la spesa sociale con decremento del
benessere collettivo. E’ un modello di sviluppo squilibrato e fondamentalmente
irrazionale, tanto che riesce difficile anche ad istituzioni sovranazionali
come l’Unione Europea tenerlo sotto controllo. Nelle crisi, poi, ognuno pensa
che la soluzione sia di liberarsi dall’onere della solidarietà verso gli altri.
Ci si rinchiude nuovamente nei confini nazionali, e, all’interno di essi,
dentro quelli regionali o comunali, e infine nel proprio privato. Ognuno
vuole tenersi il suo. Spendere ciò che produce. Il grido che sorge dalle masse
è, in fondo: “Meno tasse!”. Chi oggi si adatterebbe ad uno stile di
vita più sobrio? Chi rinuncerebbe al miraggio della crescita costante?
Scrive Bergoglio
nella Laudato si’:
222. La
spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità
della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di
gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante
accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e
anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il
costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di
apprezzare ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti
serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre
molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La
spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di
godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a
gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita
senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo.
Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione
di piaceri.
Vedete come
ragionando sulla Laudato si’ ci si è messa di
mezzo tanta storia recente? E come sono venuti in primo piano argomenti
politici? Siamo invitati a costruire un nuovo modello di sviluppo, a realizzare
nell’Europa finalmente (ma per quanto ancora?) unita un nuovo modello di
civiltà, una rivoluzione sistemica analoga a quelle che cambiarono il nostro
continente a cavallo tra gli anni ’80 e ’90.
E' perché lo
vuole, lo ordina, un papa?
Le encicliche
sociali sono state sempre un lavoro collettivo, anche se poi è il sovrano
religioso che le firma. Ci sono sempre stati molti redattori. Per la Laudato
si’, per ciò che si è saputo, non è andata proprio così. C’è
effettivamente proprio il pensiero, e addirittura il lessico, del Papa. Ma le
idee che Bergoglio propone non sono in gran parte sue originali, bensì sono
state sviluppate in tutto il mondo da un movimento politico - religioso molto
vasto, come dimostrano le tante citazioni da testi di Conferenze episcopali.
C’è insomma, un popolo che reclama un nuovo modello di sviluppo. Noi, da che
parte stiamo?
Si tratta,
come è chiaro, di un lavoro che coinvolge innanzi tutto la sfera di
azione dei laici di fede. La cura della casa comune compete
in primo luogo a loro.
Ecco dunque
l’esigenza di una specifica formazione, che va molto oltre quella catechistica
e che deve essere potenziata in particolare a partire da quella post
Cresima. C’è necessità di studiare e di fare esperienze. Di incontrare
gente, anche al di fuori dell’Italia. Conoscere per progettare il cambiamento.
Di imparare a praticare il metodo democratico nella discussione e nelle
decisioni. Perché bisogna decidersi in masse e solo la democrazia consente di
farlo. Un’organizzazione che bisognerebbe creare anche a livello parrocchiale:
è da qui che la gente di fede deve essere educata ad andare oltre, in
particolare a ragionare su scala europea e mondiale. A essere consapevole della
prospettiva storica dei problemi.
Nella nostra
parrocchia siamo ancora ai primi passi e la dispersione della biblioteca
parrocchiale non aiuta.
3.
Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna
autorità pubblica o privata sulla base di valori condivisi
Se consideriamo la storia recente
dell’umanità, possiamo constatare facilmente che qualsiasi sistema di potere
che abbia voluto correggere la società introducendo limiti basati sull’idea di
giustizia sociale, quindi di valori e diritti fondamentali delle persone
incomprimibili dai sovrani e dall’economia, ha dovuto far ricorso a livelli
vari di violenza politica, per costringere la gente ad adattarsi ai nuovi comandi.
Anche la dottrina sociale della nostra fede non ha fatto eccezione. I livelli
più intensi di violenza politica a fini di giustizia sociale furono senz’altro
espressi dal comunismo sovietico. Ma anche la legislazione sociale democratica
è stata presidiata sia dal potere giudiziario che da quello amministrativo,
anche con misure coercitive. La legge, anche in un regime democratico
sociale, è tale se ci sono autorità che riescono a farla rispettare.
Se noi guardiamo all’esperienza
politica sovietica, ci rendiamo conto che la rivoluzione che essa espresse fu
violenta all’origine, e quindi fu
attuata anche mediante la soppressione e
incarceramento di avversari ideologici, comprese persone che appartenevano ad
diversi filoni del socialismo rivoluzionario, ma che la violenza politica, con
assassinii su larga scala intesi addirittura come decimazioni di
etnie che si ritenevano resistere al potere centrale organizzato dal partito
comunista sovietico, si intensificò nel corso del dominio assoluto espresso da
Giuseppe Stalin, nativo della Georgia, dal 1924
al 1953. Questi assassini politici sono apprezzabili addirittura nelle indagini
demografiche perché portarono a un decremento della popolazione inspiegabile
con altre cause (ad esempio epidemie, guerre ecc.). Fin dall’inizio della
rivoluzione sovietica fu organizzato un sistema di deportazione e di lavoro
forzato dei condannati politici in appositi campi, chiamati Gulag.
Esso rimase in vigore fino al 1987, venendo soppresso durante il dominio
politico di Mikhail Gorbaciov, dal 1985 al 1991, durante il quale il sistema
politico sovietico si dissolse a seguito di processi democratici inaspettati in
Occidente. Durante il dominio politico degli ucraini Nikita Krusciov, dal 1955
al 1964, e Leonida Breznev, molto più lungo, dal 1964 al 1982, lo
sterminio sistematico di coloro che venivano individuati come nemici politici
cessò, ma non cessò la persecuzione politica, amministrativa e giudiziaria,
punendo i dissidenti anche con l’esilio in Occidente e la
revoca della cittadinanza.
Della violenza politica sovietica
fecero le spese molti gruppi sociali, considerati nemici politici, e anche
esponenti di alto livello dello stesso partito comunista. In particolare furono
colpite le Chiese cristiane e i loro fedeli. La manifestazione della fede
cristiana spesso portava all’emarginazione sociale e politica. Nell’Unione
sovietica e in altre nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio la
religione non era proibita, ma veniva promossa una propaganda di ateismo: le
religioni e il clero venivano considerati infatti come strumenti di oppressione
della classe operaia e di quella contadina.
Con tutto ciò l’Unione Sovietica e le
nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio ebbero Costituzioni molto
avanzate, con affermazione di diritti sociali che nel resto d’Europa
cominciarono ad essere proclamati, in genere, dopo la Seconda guerra mondiale
(se si eccettua la costituzione della repubblica tedesca detta di Weimar,
corrente tra il 1919 e il 1933).
Ecco, ad esempio il catalogo dei diritti
fondamentali contenuto nella Costituzione sovietica del 1936, fatta
approvare da Stalin, quando l’Italia era ancora sotto il dominio del fascismo
mussoliniano:
118. I cittadini dell’URSS hanno diritto al
lavoro, cioè diritto di ricevere un lavoro garantito e retribuito secondo la
quantità e la qualità [delle loro prestazioni].
Il diritto al lavoro è assicurato
dall’organizzazione socialista dell’economia nazionale,
dall’aumento incessante delle forze produttive
della società sovietica, dall’eliminazione della possibilità di crisi
economiche e dalla liquidazione della disoccupazione.
119. I cittadini dell’URSS hanno diritto al
riposo.
Il diritto al riposo è assicurato dalla
riduzione della giornata lavorativa fino a 7 ore per l’immensa maggioranza
degli operai, dall’istituzione di congedi annuali per gli operai e gli
impiegati con mantenimento del salario, e dalla predisposizione di un’ampia
rete di sanatori, case di riposo e club, posta al servizio dei lavoratori.
120. I cittadini dell’URSS hanno diritto
all’assistenza materiale durante la vecchiaia, nonché in caso di malattia e di
perdita della capacità lavorativa.
Questo diritto è assicurato dall’ampio
sviluppo dell’assicurazione sociale degli operai e degli impiegati a carico dello
Stato, dall’assistenza medica gratuita ai lavoratori, e dall’ampia rete di
stazioni di cura messa a disposizione dei lavoratori.
121. I cittadini dell’URSS hanno diritto alla
istruzione. Questo diritto è assicurato dall’istruzione elementare, generale ed
obbligatoria, dal carattere gratuito dell’istruzione, compresa
l’istruzione superiore, da un sistema di borse di studio statali per l’immensa
maggioranza degli studenti delle scuole superiori, dall’insegnamento scolastico
nella lingua materna e dall’organizzazione dell’insegnamento professionale,
tecnico e agronomico gratuito per i lavoratori nelle officine, nei
sovchoz, nelle stazioni di macchine e trattori e nei kolchoz.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS
diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica,
statale, culturale e socio-politica.
La possibilità di esercitare questi diritti è
assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto dell’uomo al
lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale e
all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre
e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla donna, con
mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità, di nidi e di
giardini d’infanzia.
123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini
dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi
della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge
irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei
diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o
indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale
appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o
nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
124. Allo scopo di assicurare ai cittadini la
libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e la scuola
dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di
propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.
125. In conformità con gli interessi dei
lavoratori e allo scopo di consolidare il regime socialista, ai cittadini
dell’URSS è garantita dalla legge:
a) la libertà di parola;
b) la libertà di stampa;
c) la libertà di riunione e di comizi;
d) la libertà di cortei e manifestazioni
di strada.
Questi diritti dei cittadini sono assicurati
mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni le
tipografie, le scorte di carta, gli edifici sociali, le strade, i mezzi di comunicazione
e le altre condizioni materiali necessarie per il loro esercizio.
126. In conformità con gli interessi dei
lavoratori e allo scopo di sviluppare l’autonomia organizzativa e l’attività
politica delle masse popolari, è assicurato ai cittadini dell’URSS il diritto
di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, consorzi cooperativi,
organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa,
associazioni culturali, tecniche e scientifiche, mentre i cittadini più attivi
e più coscienti provenienti dalle file della classe operaia e da altri strati
di lavoratori si riuniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, che è
il reparto d’avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento
e lo sviluppo del regime socialista, e che rappresenta il nucleo direttivo di
tutte le organizzazioni dei lavoratori, sia sociali che statali.
127. Ai cittadini dell’URSS è assicurata
l’inviolabilità della persona. Nessuno può essere sottoposto ad arresto se non
in base a sentenza(postanovlenie) di un tribunale o con la conferma del
procuratore.
128. L’inviolabilità del domicilio dei
cittadini e il segreto della corrispondenza epistolare sono tutelati dalla
legge.
129. L’URSS accorda il diritto di asilo ai
cittadini stranieri perseguitati per avere difeso gli interessi dei lavoratori,
o per la loro attività scientifica, o per avere partecipato a lotte di
liberazione nazionale.
130. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto ad
osservare la Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche,
ad eseguire le leggi, ad osservare la disciplina del lavoro, a comportarsi con
onestà nei confronti del dovere sociale e a rispettare le regole della
convivenza socialista.
131. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto a
salvaguardare e a consolidare la proprietà sociale socialista, come base sacra
e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza e della potenza della
patria, fonte di vita agiata e civile per tutti i lavoratori.
Coloro che attentano alla proprietà sociale,
socialista, sono nemici del popolo.
E’ chiaro che, tuttavia, la gran parte
dei diritti di incolumità sociale e libertà rimasero solo proclamazioni formali
nei sistemi sovietici e in quelli che ad essi si ispiravano, perché nei fatti
veniva repressi e negati. Nell’Europa occidentale cominciarono ad essere
proclamati e attuati nel secondo dopoguerra, dopo la caduta dei regimi
nazifascisti. Un esempio di ciò è stata storicamente la Repubblica
italiana.
In particolare, nei sistemi sovietici e
di ispirazione sovietica, non era ammessa l’iniziativa economica privata, se
non su minima scala. I regimi comunisti si proponevano di selezionare i bisogni
degni di essere soddisfatti e di soddisfarli con una propria organizzazione
produttiva. In realtà non si riuscì mai a conseguire questo scopo e la vita
nelle nazioni governate da regimi comunisti appariva significativamente più
misera di quella delle popolazioni degli stati Occidentali. Anche l’arte e la
scienza ne risentirono. Il penetrante controllo politico ne limitò l’efficacia
e l’originalità.
L’attuazione dei diritti sociali
fondamentali nell’Europa Occidentale si sviluppò con procedure democratiche dal
secondo dopoguerra, dalla metà degli anni ‘40. Questo consentì di ottenere
risultati importanti con il minor grado di coercizione possibile. Infatti in
democrazia si fa conto sull'adesione volontaria alle decisioni collettive, a
prescindere da sanzioni. La nuova Europa dei nostri tempi, che affratella anche
nazioni che si liberarono dai regimi comunisti a cavallo tra gli anni ’80 e
’90, segue ancora questo metodo. La democrazia comporta che non possano
esistere poteri pubblici o privati illimitati: ogni potere deve averne un altro
che lo limiti e lo controlli. Il problema dei nostri tempi è l’eclissi dei
diritti sociali sotto l’aggressione dei sistemi di potere privati globalizzati,
in grado di condizionare interi stati. Gli stati e le istituzioni
sovranazionali, come l’Unione Europea, non si trovano a dover combattere poteri
che loro esplicitamente si oppongano, ma si trovano a dover soggiacere ad
un sistema economico e sociale al quali essi stessi partecipano, trovandone
risorse per i programmi pubblici. I problemi economici appaiono quindi come
provocati da una sorta di fenomeni naturali, come i terremoti, contro i quali
c’è poco da fare, in particolare per indirizzare a fini sociali, come la nostra
Costituzione ancora prevede, l’iniziativa economica privata, che è libera, ma
anch’essa, in quanto potere privato, ha dei limiti, in particolare nella
sicurezza, libertà e dignità umana e nei programmi e controlli pubblici perché
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (così è
scritto nell’art.41 della Costituzione). Possiamo dire che questi obiettivi
siano raggiunti, oggi, in Italia?
Mantenere una via democratica
all’affermazione dei diritti fondamentali sociali nelle società avanzate
Occidentali contemporanee è il grande problema dei nostri tempi.
La dottrina sociale è piena di
proclamazione di grandi diritti sociali, come gli articoli della costituzione
sovietica che ho sopra trascritto, ma renderli vivi tra la gente richiede che
ci si addestri nel metodo democratico, perché è esso che fa funzionare i poteri
pubblici nell’Europa di oggi: non c’è da attendersi da nessun uomo
forte che produca il risultato a cui si mira. I governi, anzi,
appaiono deboli di fronte alle temperie economiche globali che minacciano i
diritti fondamentali della gente. Ecco dunque che devono essere incalzati dalla
gente, appunto con metodo democratico.
E’ quanto siamo invitati a fare
nella Laudato si’:
178. Il dramma di una politica focalizzata sui
risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende
necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi
elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con
misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio
investimenti esteri.
179. [… ] Poiché il diritto, a volte, si
dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una
decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società,
attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare
i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i
cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale
- neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali.
181. […] Occorre dare maggior spazio a una
sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche,
che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.
Ecco perché la formazione e soprattutto il tirocinio alla
democrazia dovrebbe rientrare in quella alla vita di fede, in particolare per
il laico.
4. Illusione
dell’«uomo forte»
C’è sempre, nell’esperienza sociale, la
tentazione di affidare la realizzazione del bene comune all’azione di un “uomo
forte”. C’è in politica, come in religione e in tutti gli altri campi
della vita umana in cui certi risultati possono ottenersi solo con un lavoro
collettivo.
Che cos’è il bene comune? Se ne sono
date molte definizioni. Si parte sempre, però, dall’idea che gli esseri umani
per essere felici dipendono dagli altri. La loro felicità dipende dall’ambiente
in cui sono inseriti. E non basta l’appagamento dei bisogni: è esperienza
comune che anche i ricchi soffrono. Tanto più che nell’era contemporanea
l’economia delle società più ricche sembra dipendere dalla creazione incessante
di nuovi bisogni e, quindi, su un costante loro inappagamento. E infatti nelle
straricche società occidentali l’esperienza della gioia, del sentimento di appagamento
interiore, è rara. Si può concludere che viviamo in un ambiente sociale che non
favorisce la felicità, che è difficile da raggiungere nonostante ognuno nella
propria vita si sforzi di farlo. Bisognerebbe introdurre delle modifiche, ma
trattandosi lavorare su una società, c'è da fare un lavoro collettivo. Ci
siamo però disabituati a svolgerlo: esso è propriamente la politica.
Ognuno tende a fare per sé, a sviluppare una propria idea di società che gli
consentirebbe di essere felice. Così ci sono moltissime idee di società felici,
ma poi la società corre come abbandonata a sé stessa, perché non ci si riesce a
mettere d’accordo su come modificarla. Bisognerebbe infatti tener conto anche
delle aspirazioni alla felicità altrui. Ma c’è sempre il sospetto che
ciascuno voglia fare solo gli affari propri. E spesso esso risulta fondato.
Così manca la fiducia nel prossimo e quindi la possibilità di svolgere un
lavoro comune. E’ difficile fare unità dalla molteplicità delle nostre vite. E’
in questo momento che sorge la tentazione dell’ “uomo forte”: una persona a cui
affidare tutte le nostre speranze e che, con autorità non più contestabile,
ponga fine alle discordie e decida una linea. Trattandosi di una persona sola,
sia pure con molta autorità, pensiamo che sia più facile liberarsene, quando
non ci andrà più bene. Nell’immaginazione comune i molti prevalgono sui
singoli. Temiamo di più i molti, per di più anarchici, senza una forza che li
tenga a bada e ci protegga da loro, che la singola autorità personalizzata.
Questo però è un grave errore. Prendendo consapevolezza della storia
dell’umanità possiamo facilmente convincerci che nulla è più stabile, nelle
società umane, dei poteri molto personalizzati, come erano quelli dei monarchi
assoluti che dominarono l’Europa fino al faticoso emergere delle democrazie,
dalla fine del Settecento. O come furono i despoti sovietici che ho ricordato
in un post di due giorni fa: Giuseppe Stalin,
Nikita Krusciov, che pure dichiarò di voler liberare la politica da quello che chiamò
il culto della personalità, Leonida Breznev (del fondatore del
comunismo sovietico,Lenin, non possiamo dire se sarebbe divenuto un
despota, perché regnò solo per sette anni, mentre l’ultimo capo dell’Unione
Sovietica, Mikhail Gorbaciov non volle più essere un despota, ma, a quel punto,
il sistema sovietico si dissolse). O, in Italia, il capo del Governo in epoca
fascista, Benito Mussolini, che chiamammo Duce, il condottiero di
un’intera nazione, un padre della patria, in tutti i
sensi il modello a cui noi italiani pensiamo subito quando parliamo di
“uomo forte”. Egli ebbe nelle sue mani l’Italia per un ventennio. E anche
in religione, nella nostra fede, noi facciamo molto conto su “uomini forti”: le
nostre collettività religiose sono infatti organizzati, almeno formalmente,
sotto il potere assoluto di un’unica persona, la cui autorità è stata
storicamente costruita come quella di un imperatore religioso: questo sistema
di governo dura ormai da mille anni.
Nei giorni passati si è evocata,
a proposito dei possibili effetti della riforma costituzionale che tra poco
sarà oggetto di un referendum, l’esperienza politica dispotica del capo di
stato Augusto Pinochet, che dominò il suo popolo dal 1973 al 1990. Ma il
paragone con l’esperienza cilena è improprio ed esagerato, se riferito
all’attuale situazione politica italiana, che si muove ancora saldamente entro
procedure democratiche. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’90, di fronte
all’apparente disgregazione e dispersione della politica nazionale, si seguì la
via di personalizzare molto il confronto politico,
creando quelli che vengono definiti partiti personali, quelli che
fanno riferimento ad un preciso capo politico, del quale spesso viene inserito
in nome nel simbolo di partito. I maggiori partiti politici nazionali sono
attualmente organizzati come partiti personali. Se si pensa a quelle formazioni
non viene in mente un preciso programma politico, ma la persona del capo di
riferimento. E’ questo il metodo migliore per capire se un partito è o non è personale.
I capi dei partiti personali reclamano poi mano libera,
e chiedono la fiducia in questo la fiducia di chi li vota. Così spesso i
cittadini elettori sono posti nelle condizioni di coloro che firmano cambiali
completamente in bianco.
Tutti i capi dei partiti personali parlano
di riforme. Quali saranno precisamente? Non lo dicono. Ci
assicurano che ci cambieranno la vita in meglio. Ma come facciamo a valutarne
l’affidabilità senza che ci vengano esposte nel dettaglio? Quando però viene
fatto, emergono tanti problemi e soprattutto ciascuno capisce che, quando ci
viene detto che le riforme sono necessarie ma dolorose,
non è solo agli altri che recheranno dolore. Rimanendo sul vago
questo problema viene superato. Ognuno pensa al bene comune che
ha in mente, e non viene contraddetto dagli aspiranti riformatori, i
quali spesso sono in buona fede perché neppure loro hanno in testa un preciso
progetto di riforme, e può prevedere che il dolore sarà
solo a carico di altri.
E’ stato osservato che la recente
riforma costituzionale riduce di molto il peso del Senato nelle decisioni che
il Parlamento deve prendere inseduta comune, vale a dire riunendo
deputati e senatori e facendoli votare. E questo perché il Senato passa da
trecentoquindici membri, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della
Repubblica) e quelli di nomina presidenziale (per aver “illustrato” la Patria),
a cento membri, compresi nomina presidenziale, oltre ai senatori a vita (gli ex
presidenti della Repubblica). Tenendo conto che il sistema elettorale per la
Camera di deputati assegna al partito che riesca a conseguire
il 40% dei voti validi degli elettori o riesca a vincere il ballottaggio tra
i due più forti partiti di minoranza una solida maggioranza assoluta, e tenuto
conto dell’analogo effetto che viene prodotto dai sistemi elettorali regionali
e comunali e dunque sulla composizione dei consigli regionali (che, secondo la
riforma costituzionale, nomineranno i senatori) e sulla scelta dei sindaci (tra
i quali verranno scelti alcuni senatori), possiamo prevedere che probabilmente,
quando il Parlamento deciderà in seduta comune, il partito che esprime il
Governo avrà la possibilità di far approvare le sue scelte. Il Parlamento,
secondo la riforma costituzionale, nominerò in seduta comune il
Presidente della Repubblica e un terzo (otto membri) dei componenti del
Consiglio superiore della magistratura. Poiché può prevedersi che, nell’attuale
scenario politico, i partiti che avranno la possibilità di vincere le
elezioni politiche saranno partiti personali, ecco che si può
temere che il capo del partito personale vincitore
avrà la possibilità di far approvare le sue scelte personali in
materia. Dunque che la più importante istituzione di garanzia costituzionale,
la Presidenza della Repubblica, finisca ad essere assegnato a persona di
fiducia del capo del partitopersonale. E che l’influenza del medesimo
capo politico sulla magistratura, dalla quale dipende l’attuazione dei diritti
dei cittadini, in modo che non rimangano solo sulla carta come begli enunciati
formali, aumenti di molto rispetto alla situazione attuale, incidendo
sull’indipendenza dei giudicanti dal potere di governo. Anche sotto questo
profilo la riforma costituzionale va verso un maggior poterepersonale di
governo. Del resto è proprio questa la soluzione che i capi politici
contemporanei propongo in Italia: un potere personale, di un uomo forte
(i capi personali dei maggiori partiti politici sono
attualmente uomini), per superare lo stallo che in politica è determinato che
non ci si riesce a mettere d’accordo, quindi dal fatto che, in definitiva, la
gente non sa più fare politica. Infatti la politica non è fatta
solo di chiacchiere, in cui ognuno dice la propria e
rimane della propria opinione, che risulta poi incomponibile con quella degli
altri, ma si costruisce sul dialogo, che significa tener
conto anche delle ragioni degli altri e proporsi di arrivare ad un’intesa.
Dal dialogo poi scaturiscono decisioni condivise.
Un’ultima considerazione: gli uomini
forti degradano rapidamente. Un potere senza sufficienti e
autorevoli contrappesi, innanzi tutto nella politica democratica espressa dalla
base dei cittadini, tende all’abuso e all’eccesso. Per ricordare l’esempio
sovietico, viene riferito che Leonida Breznev, il quale dominò un immenso
impero socialista per circa un ventennio, sviluppò una
passione personale per le automobili più costose prodotte in Occidente, che
amava guidare personalmente: ne aveva una vasta collezione e, personalmente,
non vi trovava alcuna contraddizione con gli ideali socialisti proclamati. E’
questa una dinamica che si riscontra, in genere, nella gran parte degli uomini
forti, papi compresi (se si eccettua quelli, molto più sobri in questo,
degli ultimi due secoli). L’orgoglio di uomo forte grida
veramente sfacciato, ad esempio, dal frontone del grande chiesone
vaticano. Leggere per credere. Dice sostanzialmente: "L'ho
fatto io!".
5. Capire la
politica
In Italia le masse delle persone di fede sono
state protagoniste della politica dalla fine del Settecento e, sotto certi
aspetti, lo sono ancora. La differenza rispetto al passato è che lo sono in
modo molto meno consapevole e convinto. Del resto è un problema che riguarda
più in generale la democrazia italiana, come anche quella europea. Ognuno è
spinto nel proprio privato e i capi politici pensano di poter influire sulla
gente, raccogliendone il consenso, non innescando processi collettivi, ma
raggiungendo le persone, ad una ad una, in quei piccoli mondi separati in cui
si sono recluse. Questo impedisce di ragionare insieme sulle cause sociali dei
problemi della gente. Si tratta di un atteggiamento deresponsabilizzante, sia
per i capi politici sia per le masse. E' l'antipolitica, il contrario della
politica: politica è ragionare e programmare insieme agli altri, consapevoli di
vivere in quella che è stata definita recentemente, con un bella immagine, la
"casa comune". Le soluzioni proposte dalla politica ne risentono. Si
cerca di venire in contro al privato della gente, senza tener conto della
coerenza dell’insieme, in particolare della sostenibilità economica delle
misure progettate. Si cerca di sollecitare dai cittadini atteggiamenti
fideistici, insomma l’accettazione di cambiali sociali in bianco. Si propone
come positivo il cambiamento per il cambiamento, come se la direzione del
cambiamento non fosse importante, soprattutto quando si tratta di riformare le
fondamenta dello stato. Si propone una riduzione della classe politica che, a
ben vedere, comporta anche un suo degrado, meno autonomia di giudizio, meno
collegamenti con i cittadini elettori. Si tace che si cerca di ottenere la
coerenza dell’azione di governo sostituendo una classe politica pluralista,
rappresentativa delle varie componenti della società, con una di stretta osservanza
partitica, scelta da capi autoreferenziali. E i maggiori partiti nazionali sono
oggi partiti personali, vale a dire centrati sulla figura di
un capo carismatico, e i loro capi non sono parlamentari. In un certo senso
quello che negli anni ’70 fu una anomali limitata, una politica extraparlamentare,
oggi è diventata la normalità. L’eclisse del Parlamento, che molti
studiosi segnalano, è la manifestazione
di una grave crisi della politica nazionale, la presa d’atto che non sembra non
essere più possibile fondare una nuova
politica democratica, che coinvolga nuovamente la partecipazione informata,
consapevole, responsabile delle masse.
Capire la politica richiede uno
sforzo e, innanzi tutto, la volontà di essere parte dei processi democratici.
Una vita di fede persa dietro fantasie neobibliche e spiritualismi vari,
centrata su neocomunità fortezza timorose di tutto ciò che si muove intorno a
loro nella società e pronte a vedervi l’azione del demonio, non è l’ambiente
giusto. Non basta l’invito autorevole a informarsi personalmente. Come
e dove farlo? Bisogna creare le occasioni sociali per approfondire questioni
che sono tanto rilevanti anche per la vita di fede. Se non se ne è capaci anche
la fede può essere facilmente strumentalizzata al servizio della politica
egemone. Si vorrebbe, secondo la fede, aiutare gli altri e invece si finisce
per respingerli, convinti del proprio buon diritto di farlo per salvare una
qualche propria identità. E sempre risorge la malattia clericale, che si
sviluppa nel clerico-moderatismo, che storicamente è stato, in Italia,
l’ambiente favorevole per ogni tendenza politica reazionaria e dello stesso
fascismo storico. Così il cambiamento per il cambiamento rischia di riproporre
un tremendo passato, che appare nuovo solo perché si è persa
la memoria storica.
6. Nuovo inizio o prosecuzione della
costruzione della casa comune?
Ci sono scadenze, come quella dell’annuale
consegna delle tessere di Azione Cattolica, che sembrano segnare un nuovo
inizio nella vita di un gruppo, come anche, su scala via via più grande, di
un’associazione, di una Chiesa, di una nazione, di un’era storica.
Ci fu, tra il 1962 e il 1965, il Concilio
ecumenico Vaticano 2°, qui a Roma, e presto ci si divise tra coloro che
sottolineavano le novità, che vi furono
e furono molte, e gli elementi di continuità con le idee e il lavoro del
passato. Questo dibattito finì presto per degenerare in polemica, spingendo e
persone a schierarsi. Sembrò allora che le novità avessero prodotto un
pericoloso disordine e i fautori della continuità
si assunsero il ruolo di difensori di un ordine bimillenario minacciato. Questo
sviluppo interferì pesantemente con quel rinnovamento, spesso indicato con il
termine attenuato di aggiornamento, che era stato al centro dei
lavori di quel concilio. A rinnovarsi doveva
essere la Chiesa, in un modo nuovo di confrontarsi con il mondo intorno a lei.
Si passava dalla polemica ideologica, che aveva caratterizzato l’impostazione
dal Settecento in avanti, in particolare nel duro contrasto con i processi
democratici e con il socialismo, alla condivisione di gioie, speranze,
tristezze e angosce dell’umanità contemporanea: una reale e intima solidarietà
con il genere umano e la sua storia (questo l’inizio di uno dei più importanti
documenti dell’ultimo concilio, la costituzione pastorale La gioia e la speranza, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo). Una delle più importanti caratteristiche del
movimento che il Concilio Vaticano 2° volle imprimere al lavoro della Chiesa
nella società fu il pressante appello alla collaborazione dei laici, vale a
dire dei fedeli che non sono diaconi, preti e vescovi, né sono inseriti in un
ordine religioso (frati e suore, monaci e monache). L’Azione Cattolica
italiana, dalla fine degli anni ’60, con la riforma attuata sotto la presidenza
di Vittorio Bachelet (dal 1964 al 1973), ha fatto della formazione dei laici
per questo impegno il suo campo principale di attività, accanto agli altri che
storicamente le erano stati propri, vale a dire l’impegno civile per la promozione
dei valori di fede nella società e il sostegno alla vita di fede.
In Italia si esce da un lungo confronto sui
temi politici della riforma delle istituzioni fondamentali dello stato.
Accostando gli insegnamenti contenuti nell’enciclica Laudato si’, di papa
Francesco, diffusa lo scorso anno, se ne poteva comprendere il valore anche
religioso: si trattava infatti di occuparsi della casa comune, che è l’ambiente naturale, urbanistico, sociale,
civile e politico che rende possibile ai nostri giorni la vita di un’umanità
mai così numerosa. Si è capito subìto bene che non si trattava di decidersi per
il Sì o per il No sulla base di impressioni emotive e superficiali, così come
accade in genere in certi concorsi artistici, come il Festival di Sanremo. E’ stato necessario approfondire, informarsi personalmente, cercare un
aiuto dove non si arrivava con le proprie forze, e dialogare confrontando le
rispettive opinioni. La decisione aveva un valore religioso, riguardando
questioni di sopravvivenza di una vasta collettività, ma la cultura religiosa non bastava per affrontarla. E’ stato
necessario formarsi prima di decidere.
A questo lavoro serve appunto l’adesione ad un gruppo di Azione Cattolica.
Nell’organizzazione dell’Azione Cattolica, che, strutturata come federazione di
gruppi parrocchiali e diocesani, ha dimensioni nazionali e internazionali, c’è
quello che serve per svolgerlo. Ad esempio, lo scorso anno si è ideato un ciclo
per la formazione alla politica dei più giovani, a livello parrocchiale, diocesano
e nazionale, a cominciare dai piccolissimi.
Si è insegnato a gestire un Comune, facendone fare tirocinio. Ne potete trovare
l’esposizione alla pagina WEB
<http://acr.azionecattolica.it/noi-la-parola>.
Penso che le persone del nostro quartiere si siano
rese conto della necessità di questa specifica formazione, che è, in
particolare, auto-formazione,
attraverso il dialogo. Ma
probabilmente molti non sanno che ciò di cui hanno bisogno c’è già ed è appunto
l’Azione Cattolica. Penso che la gente abbia un’idea un po’ vaga di ciò che è
l’Azione Cattolica. Probabilmente fanno fatica a distinguerla da altre
associazioni e movimenti che animano la vita di fede in Italia. Riprendendo una
metafora dell’antico filosofo greco Platone (vissuto tra il quinto e il quarto
secolo dell’era antica) riproposta dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky
nel corso del dibattito sui temi del recente referendum costituzionale, le
comunità possono essere organizzate intorno a pastori e a tessitori. Nelle prime si segue un pastore, un cammino da lui organizzato. Nelle seconde si creano
rapporti civili e poi, sulla loro base,
si costruisce la casa comune, una città. All’Azione Cattolica si attaglia meglio l’esempio del costruire una realtà civica. Si costruisce
secondo un progetto ed esso è frutto del pensiero di chi partecipa
al lavoro. Si lavora democraticamente, l’unico metodo per consentire a tutti di
partecipare. Il lavoro in AC è quindi anche tirocinio alla democrazia. Al centro di questo impegno c’è il prendersi cura dell’ambiente naturale,
urbanistico, sociale, civile e politico.
Esso è impregnato di valori di fede, come un biscotto inzuppato nel vino
(riprendo questa immagine da una poesia udita in gioventù, ma di cui non ho mai
saputo l’autore), appunto per quella condivisione di gioie, speranze, tristezze
e angosce dell’umanità contemporanea che caratterizza la vita di fede secondo
la visione dei saggi dell’ultimo Concilio.
E costruendo,
innanzitutto progettando, ci si rende facilmente conto che non si riparte mai veramente da
capo, che ogni nuovo inizio è in realtà una prosecuzione di un lavoro
comune. Questo è talvolta tanto difficile da accettare negli ambienti di
fede. Ma è la base perché il lavoro di costruttori sia valido: consente infatti
di imparare dagli errori del passato. A volte invece sembra che tutto ciò che
c’è stato tra i primi tempi, tra i tempi apostolici, dal primo secolo della
nostra era, e i nostri tempi sia senza valore, che si possa disinvoltamente ripartire per nuovi cammini disinteressandosi
a tutto ciò che c’è stato prima. Così poi si finisce per ripetere all’infinito
gli stessi sbagli del passato, ad esempio le stesse intolleranti divisioni e
incomprensioni, la stessa presunzione di bastare a sé stessi. In Azione
Cattolica non facciamo così: ad esempio quest’anno facciamo memoria della lunga
storia associativa che dura da 150 anni, in un percorso non lineare, ma con
molte svolte, non di rado drammatiche, dure, specialmente a cavallo tra
Ottocento e Novecento, attraverso le
quali però complessivamente si è cresciuti, costruendo
realtà nuove.
7. Persecuzioni e persecutori
La persecuzione religiosa è strettamente
legata alla negazione della libertà religiosa. Quest’ultima si può presentare
in un quadro sociale e politico che tollera
scelte religiose diverse da quelle
della maggioranza della popolazione o da quelle fatte dallo stato o in quadro
legislativo che riconosce il diritto a scegliere e a praticare in privato e in
pubblico una determinata religione. Storicamente, nelle società europee o
comunque di cultura europea si è passati dalla tolleranza all’affermazione del diritto alla libertà religiosa.
Attualmente la comunità mondiale degli stati riunita nell’Organizzazione delle
Nazioni Unite riconosce la libertà religiosa come diritto umano fondamentale.
Si legge infatti nell’art.18 della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite:
“Ogni
individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione;
tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la
libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in
privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle
pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.”
L’anno precedente, l’Assemblea Costituente
della Repubblica italiana aveva approvato nella Costituzione entrata in vigore
il 1 gennaio 1948 l’art.19 che dispone: “Tutti
hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi
forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato
o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
Norme analoghe si trovano nella Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
del 1950 e nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, che dal 2009 ha la
stessa forza normativa dei trattati istitutivi dell’Unione Europea.
Il diritto di libertà religiosa comporta il principio della laicità delle istituzioni pubbliche, che
comporta il divieto di discriminazione su base religiosa e il divieto di
imposizione normativa della pratica di una determinata religione, quindi il
divieto di stabilire una religione di stato.
All’inizio della loro storia le nostre prime comunità religiose, formate
di collettività poco numerose sparse per tutto l’impero mediterraneo ai margini
del quale la nostra fede era nata, subirono forme di persecuzione propriamente
religiosa da parte dell’ebraismo loro contemporaneo, nella fase di distacco
della nostra fede da esso. Successivamente subirono forme di persecuzione da
parte delle autorità pubbliche dell’impero romano, le quali inizialmente si
muovevano essenzialmente su denuncia di privati: questo dimostra una certa frizione
tra le nostre prime collettività religiose e le società in cui erano immerse.
Successivamente le autorità pubbliche dell’impero romano promossero cicli di
repressione, essenzialmente per motivi politici, anche se gli storici
riconoscono che il numero delle persone colpite è ampiamente sovrastimato dalla
tradizione religiosa. A seguito di un processo storico che è ancora piuttosto
oscuro, ad un certo punto la nostra fede nel Quarto secolo si affermò come
ideologia politica dell’antico impero romano e gli altri culti religiosi
vennero vietati. A quel punto i cristiani divennero persecutori dell’ebraismo,
dei preesistenti culti pagani e anche delle correnti religiose basate su
teologie non ammesse dallo stato. La teologia divenne un affare di stato e tutti
i Concili ecumenici del primo millennio furono convocati e, in genere, anche
presieduti dagli imperatori romani. Nel secondo millennio venne istituito un
sistema poliziesco giudiziario diretto dai papi romani per la repressione delle
correnti religiose ritenute erronee. Esso venne progressivamente smantellato
solo a partire dal Settecento, con l’affermazione in Europa del principio della
laicità dello stato. Non è disponibile una contabilità precisa degli
imprigionati, torturati e uccisi da quel sistema repressivo: i clericali
tendono a ridurne il numero, gli anticlericali a sovrastimarlo. Molti
riformatori religiosi furono da esso inquisiti, così come diverse forme di
spiritualità popolare. Ne furono vittime, ad esempio, la mistica Giovanna
d’Arco (giustiziata, arsa viva, nel 1431
e proclamata santa nel 1920), il monaco e riformatore religioso Girolamo
Savonarola (giustiziato arso vivo, nel 1498) e il filosofo Giordano Bruno
(giustiziato, arso vivo in piazza Campo de’ Fiori a Roma, nel 1600).
Nel 1864 il Sillabo, un
documento in cui il papa Mastai Ferretti, regnante con il nome di Pio 9°,
elencò le affermazioni erronee correnti nella società contemporanea, era
condannata l’idea di libertà religiosa. Da allora, in un processo durato circa
un secolo, si produsse un mutamento nella dottrina ufficiale, essenzialmente
per l’azione delle correnti cattolico-democratiche. Infine, nel corso del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), il 7-12-1965 venne approvata la Dichiarazione
Della dignità umana che riconobbe,
anche nella dottrina della nostra fede la libertà religiosa, in quanto
espressione della dignità umana:
Oggetto e fondamento della libertà religiosa
2.
Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla
libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani
devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di
gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa
nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro
debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in
forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà
religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale
l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo
diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e
sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società.
A
motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone,
dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale
responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a
cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure
tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro
vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non
sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non
godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell'immunità dalla
coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su
una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui
il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano
l'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio,
qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere
impedito.
Questo
principio si affermò piuttosto faticosamente nelle nostre collettività di fede,
in cui ancora permangono manifestazioni delle antiche concezioni.
Durante la solenne liturgia della Giornata
del perdono, il 12-12-2000, durante il Grande
Giubileo dell’Anno 2000, il papa Karol Wojtyla, regnante come Giovanni
Paolo 2°, ci guidò a fare memoria delle persecuzioni dei quali i cristiani
erano stati responsabili, a pentircene, e a fare solenne proposito di non
ripeterle:
“II. CONFESSIONE DELLE
COLPE NEL SERVIZIO DELLA VERITÀ
Un Rappresentante della
Curia Romana:
Preghiamo perché
ciascuno di noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Preghiera in
silenzio.
II Santo Padre:
Signore, Dio di tutti
gli uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
Viene accesa una lampada
davanti al Crocifisso.”
La decisione del Wojtyla venne aspramente criticata negli ambienti
religiosi, anche se aveva avuto l’adesione della Commissione Teologica
Internazionale. Tuttora non è condivisa da molti della nostra fede. Si
sostiene che non possiamo pentirci per ciò che si è fatto nel passato da parte
di altri. E che, nel valutare la vita di questi ultimi, occorre tener conto del
contesto sociale, culturale e storico in cui operavano. In realtà Wojtyla volle guidarci in quello
che definì purificazione della memoria, che significa fare memoria
veritiera dei fatti del passato per
distaccarci dal male che in essi vi è, anche se compiuti da persone della
nostra fede: perché il passato cattivo non sia di esempio per il futuro.
Fino agli anni ’80, in Italia, ma anche in Europa, il problema della
libertà religiosa e della laicità dello stato consisteva essenzialmente nel non
discriminare chi apparteneva ad una confessione religiosa della nostra fede
diversa da quella maggioritaria in una certa nazione e chi faceva la scelta di
non seguire alcuna fede religiosa. Dagli
anni ’90, con le correnti migratorie da varie parti del mondo, e anche da popoli
in erano maggioritarie fedi non cristiane, in particolare l’Islam, l’Induismo e
il Buddismo, si produsse un contesto multi-etnico che fu anche multi-religioso
che mise a dura prova il principio fondamentale della laicità dei pubblici
poteri. Si sostenne che la religione maggioritaria avesse diritto di
manifestarsi in forme più intense delle altre religioni negli spazi
pubblici, benché, con l’Accordo di
revisione del Concordato lateranense del 1984, Repubblica Italiana e Santa Sede
avessero convenuto che non fosse più in vigore il principio della religione
cattolica come unica religione dello
stato, proclamato dallo Statuto
Albertino, la costituzione del Regno d’Italia che ebbe vigore dal 1848 al
1946:
Art. 1. -
La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato.
Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.
Manifestazioni
di queste pretese si sono avute nella questione dell’esposizione del Crocifisso
negli uffici pubblici, in particolare nelle aule scolastiche e nelle aule
giudiziarie, nella questione dell’allestimento di presepi negli edifici
pubblici, in particolare nelle scuole pubbliche, nella questione delle visite
pastorali dei vescovi negli uffici pubblici, in particolare nelle scuole pubbliche.
Spesso si respingono le critiche di lesione del principio della laicità
delle istituzioni pubbliche osservando che si potranno cambiare certe
consuetudini quando anche nelle nazioni in cui sono maggioritarie religioni che
da noi sono ancora minoranza si farà lo stesso. Ma le norme che sanciscono il
diritto di libertà religiosa e il principio di laicità delle istituzioni
pubbliche non prevedono la condizione di reciprocità, in quanto sono relative a
diritti fondamentali degli esseri umani.
Manifestazioni di intolleranza religiosa sono
frequenti anche nelle nostre collettività di fede, quando si pretende che una
certa via, un certo metodo, un certo cammino, siano gli unici che possono
essere seguiti, a pena di esclusione. In questo campo compete all’autorità
religiosa di correggere certe impostazioni, rendendole conformi alla dottrina
corrente. Ma questo servirà a poco se l’idea di libertà religiosa non
corrisponderà ad una conquista cultura delle persone della nostra fede,
seguendo il percorso di purificazione
della memoria indicato dal Wojtyla.
Viene prima la carità o la verità? Papa Ratzinger vi ha dedicato una enciclica, la Carità nella Verità, del 2009, che in
certe parti appare in dialettica con la precedente enciclica Lo sviluppo dei popoli, del papa
Montini, del 1967. La carità, intesa
come agàpe, benevolenza universale per cui si
vuole far partecipare tutti ad un lieto convito, è criterio per distinguere ciò che è verità? La questione appare
ancora aperta. Alcuni infatti sostengono che per esigenze di carità si sta
modificando la dottrina tradizionale. Altri replicano che secondo carità quella
dottrina tradizionale viene meglio intesa.
Al di fuori del contesto europeo e delle nazioni di cultura europea le
persone della nostra fede subiscono persecuzioni, a volte per motivi
essenzialmente politici, ma spesso anche per motivi propriamente religiosi.
Infatti in molte parti del mondo, anche in nazione che formalmente accettano i
principi umanitari proclamati dalle Nazioni Unite, la libertà religiosa è molto
limitata e a volta si limita a una tolleranza religiosa. Ciò accade in molte nazioni a
maggioranza islamica, specialmente in quelle che non riconoscono il principio
della laicità delle istituzioni pubbliche. La situazione si è molto aggravata
con l’affermazione politica del fondamentalismo islamico globalizzato, un
movimento rivoluzionario politico a sfondo religioso. Si teme che
l’immigrazione dalle nazioni a maggioranza islamica porti prima o poi a
limitazioni nella libertà religiosa della nostra fede. In realtà l’Islam
diffuso in Europa e nelle nazioni di cultura europea, in particolare in
America, sta assimilando i nostri principi umanitari, anche se il mutamento
culturale, intendendo la cultura come il complesso dei costumi, linguaggi, miti,
relazioni sociali di un popolo, sarà molto più lento e faticoso. In particolare
il fattore principale di progresso in quel campo religioso appare quello
dell’affermazione dei diritti delle donne: purtroppo in materia stiamo vivendo
una fase storica in cui nella nostra fede alcune correnti spirituali riprendono
a criticarla, facendosi portatrici di ideologie maschiliste e paternaliste.
Come fare per sostenere le persone della nostra fede nella repressione
che è in atto in altre nazioni, con altre religioni maggioritarie? La via
principale è quella delle istituzioni internazionali. C’è poi quella del
diritto di asilo, a cui hanno diritto, secondo il nostro ordinamento, tutti i
perseguitati. E, infine, quello del sostegno al lavoro culturale che in quelle
nazioni si sta svolgendo per modificare la situazione: lo si fa mandando
personale religioso, volontari, aiuti materiali. Ma il dialogo interreligioso
qui da noi in Europa, già molto intenso,
sarà fondamentale per creare le condizioni culturali per nuove forme di
coesistenza anche in quelle nazioni.
8.Laudato
si’: pensare la globalizzazione in una visione di fede
Se la religione ha tante controindicazioni,
come dimostra la lunga e tragica storia della nostra confessione, perché non
farla finita?
Storicamente lo si è tentato nei vari regimi
comunisti che hanno avuto corso nel mondo, a partire dalla rivoluzione
sovietica del 1917. Le religioni propagandavano falsi miti per mantenere la
sottomissione della masse lavoratrici a oligarchie dominanti? Vietiamole o,
almeno, contrastiamole impendendone la propaganda, controllandone i ministri,
opponendo loro un ateismo militante! Tutto questo non ha funzionato, le
religioni sono sopravvissute anche in quei regimi. Fondamentalmente perché
rispondono a una necessità dello spirito umano. Inoltre, nell’esperienza
storica, si è capito che le religioni possono essere riformate e che, anzi, ne
è necessaria una riforma costante, un aggiornamento. In particolare questo può
dirsi della nostra religione, che è fondata sull’idea di un far nuove tutte le cose, di un
mondo di prima che è destinato a cedere il passo a un mondo
nuovo.
Molte grandi anime sono state e sono religiose, vivono quindi una vita di
fede seguendo certe modalità espressive del proprio tempo. Infatti una
religione, ma ance la fede che ne è all’origine, non si inventa. Quindi si deve
sempre fare i conti con la storia, che è fatta di bene e di male, perché è
animata da esseri umani e negli esseri umani c’è il bene e c’è il male. Ogni
vita umana dalla sua notte va verso la luce, scrisse il poeta francese Victor
Hugo (1802-1885). E spesso la vita di fede
è descritta come un andare verso la luce. Anzi nelle nostre Scritture si
legge che l’Onnipotente stesso è luce. Da adolescente, quando ebbi problemi con
la fede che mi era stata insegnata da piccolo, un sacerdote amico di famiglia
mi scrisse che sperava che un giorno mi sarei aperto alla luce.
Nella vita umana c’è più di quello che
appare. La realtà sociale, economica, politica, l’urbanistica: tutto questo non
esaurisce l’esperienza umana. Si studiano le biografie dei grandi e si scopre
che in genere anche loro ne erano
convinti. E non è vero che la fede
religiosa sia per gli incolti, perché essa ha espresso ed esprime un grande
pensiero. La nostra fede evoca l’unità del genere umano. La si intuisce, ma le
vie per realizzarla sono tante: come raggiungere l’unità percorrendole? Non
sarebbe meglio progettare un’unica via? Questa è stata la tentazione di sempre
nelle religioni. Finora tutti i programmi religiosi totalitari non hanno
funzionato. Se però ci si incontra e ci si parla cercando di realizzare
l’agàpe, il benevolo convito che non esclude nessuno, spesso ci si intende e,
pur nella diversità delle esperienze, si possono condividere certe finalità di
bene.
Chi ha vissuto la fede religiosa e poi l’ha
abbandonata in genere, prima o poi, al di là di certe baldanzose proclamazioni,
vive questa esperienza come un senso di vuoto e di mancanza. Recuperare una
fede perduta da tempo può essere difficile, a volte non c’è più abbastanza vita
per farlo. Ma è anche più difficile per chi la fede non l’ha mai vissuta e,
avvicinandola da fuori, se ne sente attratto. La fede non è solo emotività
superficiale, comporta una sapienza che si apprende. Altrimenti rimane solo a
livello spettacolare, come quando si va a teatro o al cinema e si provano delle
emozioni. La nostra Chiesa dovrebbe appunto servire a condurre le persone verso
la fede. Lo si fa costruendo relazioni che si vorrebbero progressivamente
estese a tutto il genere umano, che non comprende solo i viventi di oggi ma
anche quelli a venire e anche la storia di coloro che li hanno preceduti. La
fede è portata ai popoli, con la loro storia
e il loro futuro. Non è medicina dell’anima ad uso individuale: assunta
così non funziona più. Dà sempre una prospettiva che supera la vita personale.
Ti trae dall’angoletto della società in cui sei in qualche modo incastrato e ti
proietta verso la grande storia dell’umanità. Questo è vero anche per
l’esperienza delle famiglie, che alcuni vorrebbero limitata a mamma, papà e
figli. L’esperienza della famiglia è sempre sociale: del resto come pensare un
avvenire ai propri figli senza interpretare il futuro della società in cui si è
immersi? Ed in effetti storicamente incontriamo nelle società umane molti
modelli di famiglia, come anche molti modelli di persona umana: ce ne parlano
gli antropologi, anche se spesso non li stiamo ad ascoltare e preferiamo
pensare che si debba tendere a un unico tipo di famiglia e a un unico tipo di
persona umana perché sono quelli naturali.
Quindi vivere la fede è anche pensare una società e ai tempi nostri c’è
l’opportunità di pensarla molto in grande, tanto da comprendere tutti i popoli
della terra. Infatti siamo nell’era della globalizzazione,
che significa appunto una rete di relazioni umane a livello mondiale per cui ci
scopriamo tutti interdipendenti, senza che nessun popolo della Terra possa dire
di bastare a sé stesso. Un esempio di come pensare la globalizzazione in una
visione di fede è costituito dall’enciclica Laudato
si’ , diffusa nel 2015 dal papa Francesco. La sua caratteristica principale
è quella di affidarsi religiosamente a un compimento beato della nostra storia,
quindi anche delle opportunità offerte dalla globalizzazione, con i suoi tanti sovvertimenti e rimescolamenti
sociali contro i quali molti profeti di sventura vorrebbero prevenirci:
243. Alla fine ci incontreremo faccia a faccia
con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1
Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero
dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine. Sì,
stiamo viaggiando verso il sabato dell’eternità, verso la nuova Gerusalemme,
verso la casa comune del cielo. Gesù ci dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le
cose» (Ap 21,5). La vita
eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente
trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri
definitivamente liberati.
9. Inequità
planetaria e lotta religiosa contro un modello di sviluppo
L’esortazione apostolica La gioia del
Vangelo, del 2013, e l’enciclicaLaudato si’¸ del
2015, del Papa regnante, l’argentino Jorge Mario Bergoglio, in religione Francesco,
sono espressioni di una medesima linea di pensiero. Si tratta di
documenti senza precedenti nella dottrina sociale. Al centro di essi vi è
l’analisi, anche religiosa, di una condizione di sofferenza umana definita con
il neologismo inequità.
Questa parola appare per la prima volta in italiano nel testo
nella nostra lingua dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium diffuso
da Libreria Editrice Vaticana. Deriva dallo dallo spagnolo. Nel testo
inglese del documento è reso con inequality (=ineguaglianza
- nell'inglese il termine è spesso implicitamente associato all'idea di
ingiustizia). Nel testo spagnolo, lingua nella quale il documento è stato
verosimilmente pensato, si legge inequidad, da cui
verosimilmente il neologismo italiano: in un dizionario spagnolo si definisce
"El concepto de inequidad se ha considerado sinónimo del concepto de
desigualdad. Es fundamental diferenciar estos dos conceptos. Mientras
desigualdad implica diferencia entre individuos o grupos de población,
inequidad representa la calificación de esta diferencia como injusta…";
quindi "disuguaglianza ingiusta".
All’origine di questa disuguaglianza
ingiusta, ed ingiusta in quanto
fonte di sofferenza umana, vi è un modello di sviluppo economico che degrada
insieme sia l’ambiente naturale, ormai fortemente pervaso della presenza e
delle attività umane e quindi da esse condizionato, e l’ambiente sociale.
Questo modello di sviluppo è espressione di unantropocentrismo
deviato. In quest’ottica è completamente ripensato il tema
del relativismo pratico, che presentato dal Ratzinger come il
rifiuto personale di valori assoluti e in particolare di quelli religiosi della
nostra fede proclamati dalla dottrina, quindi dei dogmi di
fede, viene presentato ora come patologia sociale che spinge una persona ad
approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto (Laudato si’,n.123).
Esso deriva dall’onnipresenza di un paradigma tecnocratico, secondo
cui tutto, in particolare il bene delle persone umane, diviene irrilevante se
non serve ai propri interessi immediati (Laudato si’,n.123). In
quest’ottica si diviene insofferenti delle leggi, che vengono considerate solo
come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare (questa ideologia
consiglia infatti la deregolamentazione, in particolare del mercato
del lavoro). Il senso del lavoro viene quindi stravolto. In particolare la finalità
dell’economia è diventata quella del riduzione dei costi di
produzione in ragione della diminuzione del costo del lavoro e della
diminuzione dei posti di lavoro, che sempre più vengono sostituiti dalle
macchine (Laudato si’, n.128).
A fronte di questa situazione di
sofferenza umana, troviamo sia nellaGioia del Vangelo sia
nella Laudato si’ l’appello a un impegno di lottaper
contrastare quel modello di sviluppo fondato su un antropocentrismo deviato.
Laudato si’, 13: “Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con
vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella
vita dei più poveri del mondo. I giovani esigono da noi un cambiamento. Essi si
domandano com’è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza
pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi.”
Laudato si’, 55: “A poco a poco alcuni
Paesi possono mostrare progressi importanti, lo sviluppo di controlli più
efficienti e una lotta più sincera contro la corruzione. E’ cresciuta la
sensibilità ecologica delle popolazioni, anche se non basta per modificare le
abitudini nocive di consumo, che non sembrano recedere, bensì estendersi e
svilupparsi. E’ quello che succede, per fare solo un semplice esempio, con il
crescente aumento dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria: i
mercati, cercando un profitto immediato, stimolano ancora di più la domanda. Se
qualcuno osservasse dall’esterno la società planetaria, si stupirebbe di fronte
a un simile comportamento che a volte sembra suicida.”
Laudato si’, 244: “ Nell’attesa,
ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che
ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a
tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio, perché «se il mondo
ha un principio ed è stato creato, cerca chi lo ha creato, cerca chi gli ha
dato inizio, colui che è il suo Creatore». Camminiamo cantando! Che
le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la
gioia della speranza.”
Laudato si’, Preghiera finale
per la nostra terra:
Dio Onnipotente,
che sei presente in tutto l’universo
e nella più piccola delle tue creature,
Tu che circondi con la tua tenerezza
tutto quanto esiste,
riversa in noi la forza del tuo amore
affinché ci prendiamo cura
della vita e della bellezza.
Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e
sorelle
senza nuocere a nessuno.
O Dio dei poveri,
aiutaci a riscattare gli abbandonati
e i dimenticati di questa terra
che tanto valgono ai tuoi occhi.
Risana la nostra vita,
affinché proteggiamo il mondo e non lo
deprediamo,
affinché seminiamo bellezza
e non inquinamento e distruzione.
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.
Questo appello non
viene proposto dall’autore di quei documenti tanto come maestro di teologia e
di fede quanto come persona religiosa compartecipe di una situazione di
sofferenza umana e desiderosa, anche per moventi religiosi, di intervenire su
di essa per apportare cambiamenti. Ecco perché, di fronte ai sofferenti dei
campi di battaglia di una società basata sull’inequità, viene proposto
un modello di impegno religioso basato sull’idea dell’ospedale da campo,
il luogo di soccorso d’emergenza più vicino ai sofferenti, e su quella di
essere in uscita. In altri tempi forse si sarebbe proposti di
mandare più predicatori.
L’appello di Bergoglio
cade in una società religiosa italiana che ancora non è uscita dalla lunga
glaciazione indotta dai suoi predecessori, timorosi che quel tipo di impegno di
fede che oggi viene proposto conducesse alla frammentazione e alla dissoluzione
delle nostre collettività di fede. Con molta fatica, e con forti resistenze, si
inizia, non dico a recepirlo, ma a confrontarsi con esso. Il pensiero di
Bergoglio si è formato in una società molto lontana dalla nostra, in ogni
senso: l’America Latina, un continente europeizzato che però si trova ai
margini del modello di sviluppo dominante in Occidente. L’Italia è invece al
suo centro e adotta l’ideologia dei potenti della Terra, di quelli che
nella Laudato si’ sono criticati come oppressori dei
poveri e dei lavoratori e, insieme, come responsabili del degrado dell’ambiente
naturale, in particolare di quello abitato dai più poveri. E’
stato sostanzialmente questo il senso di alcune delle principali riforme attuate
e progettate da noi, in particolare nel campo delle regole del lavoro. In
questo senso il pensiero del Bergoglio non trova ancora terreno fertile da noi.
Infatti in genere si dà per scontato che quel modello di sviluppo criticato
nella Gioia del Vangelo e nella Laudato si’ sia
inevitabile, naturale, per quanto fonte di sofferenza umana. Lo
vediamo, ad esempio, in certi atteggiamenti verso i cosiddetti immigrati
economici.
10. Cammini di
liberazione
Quando si parla dell’enciclica Laudato
si’, diffusa nel 2015 dal Papa, spesso la si inquadra nei discorsi
sull’ecologia correnti, nei quali ci si lamenta del degrado dell’ambiente
naturale e della cattiva sorte degli animali che ci sono più simpatici, un po’
sulla falsariga del testo della canzone Ragazzo della via Gluck, interpretata
da Celentano dal ‘68.
Questa è la storia
di uno di noi,
anche lui nato per caso in via Gluck,
in una casa, fuori città,
gente tranquilla, che lavorava.
Là dove c'era l'erba ora c'è
una città,
e quella casa
in mezzo al verde ormai,
dove sarà?
Questo ragazzo della via Gluck,
si divertiva a giocare con me,
ma un giorno disse,
vado in città,
e lo diceva mentre piangeva,
io gli domando amico,
non sei contento?
Vai finalmente a stare in città.
Là troverai le cose che non hai avuto qui,
potrai lavarti in casa senza andar
giù nel cortile!
Mio caro amico, disse,
qui sono nato,
in questa strada
ora lascio il mio cuore.
Ma come fai a non capire,
è una fortuna, per voi che restate
a piedi nudi a giocare nei prati,
mentre là in centro respiro il cemento.
Ma verrà un giorno che ritornerò
ancora qui
e sentirò l'amico treno
che fischia così,
"wa wa"!
Passano gli anni,
ma otto son lunghi,
però quel ragazzo ne ha fatta di strada,
ma non si scorda la sua prima casa,
ora coi soldi lui può comperarla
torna e non trova gli amici che aveva,
solo case su case,
catrame e cemento.
Là dove c'era l'erba ora c'è
una città,
e quella casa in mezzo al verde ormai
dove sarà.
Ehi, Ehi,
La la la... la la la la la...
Eh no,
non so, non so perché,
perché continuano
a costruire, le case
e non lasciano l'erba
non lasciano l'erba
non lasciano l'erba
non lasciano l'erba
Eh no,
se andiamo avanti così, chissà
come si farà,
chissà...
La lirica riprendeva
ragionamenti di critica sociale e politica che all’epoca si facevano, e che
potremmo considerare di impostazione rivoluzionaria, ma rimane ad un livello
molto più superficiale, del contrasto erba - cemento e vita rurale - vita di
città. D’altra parte era destinata al grande pubblico. Bene, nella Laudato
si’ c’è molto di più.
E’ dagli anni ’60 che
i Papi scrivono moltissimo. Ma scarseggiano i lettori e, ancor più, i lettori
attenti. D’altra parte, a volersi impegnare nello studio dei loro testi, non
rimarrebbe tempo per molto altro, almeno per gran parte della gente comune. Una
critica che si fa ai Papi contemporanei è che hanno lasciato ben poco spazio
alla riflessione e al dialogo, e soprattutto alla ricerca mediante il dialogo,
mettendo sempre di mezzo questi loro documenti lunghi e complessi, che,
provenendo da un’autorità religiosa e pretendendo quindi di essere obbediti
oltre che studiati, tendono a troncare le discussioni. Direi però che la Laudato
si’ è un documento di altro tipo, che apre il
dibattito invece che chiuderlo. Vi è scritto infatti che vuole aprire un
dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione [Laudato
si’, 64].
In genere sono
piuttosto insofferente verso il modo di presentare la vita religiosa come
un cammino, anche se si tratta di una metafora utilizzata fin dai
tempi antichi. Sì, si cammina, ma dove si va? In genere i traguardi sono
piuttosto vaghi. E così, appunto, questo camminare mi appare
un vagare senza una vera meta, un cammino che
non finisce mai e che soprattutto è progettato per non finire mai. L’idea è
quella della sequela, che mi attira se si tratta di seguire il
Maestro, molto meno se si tratta di seguire senza tante storie altri sedicenti
maestri. Se però si prende come riferimento per questo camminare la liberazione è
diverso, perché la liberazione è una meta. Ed è diverso
soprattutto se in questo impegnativo camminare ci
si apre al dialogo, per cui non si tratta solo di essere condotti e
di seguire, ma anche di decidere, insieme a molti
altri, dove andare e che cosa fare. Perché
in questo lavoro occorre fare innanzi tutto il punto della situazione ed
è bene farlo avendo quanti più punti di vista possibile. Lo studio delle
Scritture e la teologia non bastano. In passato, alle origini della dottrina
sociale, si è pensato invece che fossero sufficienti e che quindi, siccome
nella nostra confessione ne abbiamo un interprete autorevole assistito da potenze
soprannaturali, un Papa potesse legiferare in materia sociale e politica,
stabilendo come organizzare una società. Non è questa la pretesa della Laudato
si’.
Che l’enciclica non
rientrasse nella letteratura propriamente ecologica lo
si poteva capire già dal sottotitolo: “Enciclica sulla cura della casa
comune”. La casa è dove si abita. Nella parola ecologia la
casa c’è, perché essa contiene il termine del greco antico
òikos che significa casa (ma anche ambiente):
però è stata inventata in Germania a fine Ottocento e si riferiva allo studio
delle dinamiche degli ambienti naturali. E’ dagli anni ’60 del secolo scorso
che ha assunto un senso anche politico, come critica di un modello di sviluppo
(ne può essere considerato un indizio la canzone di Celentano che ho trascritto
sopra). La Laudato si’ si muove appunto su questa linea.
Essa infatti contiene una marcata critica politica, in particolare
dell’Occidente capitalistico, il modello economico e sociale dominante a
livello globale. Le reazioni più negative sono venute dagli Stati Uniti
d’America, che possiamo considerare ancora il centro di quel modello di
sviluppo: il Papa è stato invitato a farsi gli affari propri e a limitarsi ai
discorsi religiosi. Penso che la situazione si aggraverà ulteriormente
nell’era apertasi dopo le ultime elezioni presidenziali statunitensi.
Il discorso sviluppato
nella Laudato si’ è centrato sulle società umane, non
sulla natura. In questo si distacca marcatamente dall’ecologismo politico che
tende a considerare l’umanità una specie di malattia del pianeta. Gli esseri
umani, come tutti gli altri esseri viventi, sono di casa sul
questa Terra. Tutti i viventi sono uniti da legami invisibili e formano
una sorta di famiglia universale (Laudato si’, 89), ma
questo non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere
umano quel valore peculiare che implica al tempo stesso una tremenda
responsabiltà (Laudato si’, 90): non può essere autentico un sentimento
di intima unione con gli altri esseri della natura, se nel tempo stesso nel
cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani (Laudato
si’, 91).
Questa idea che tutti
i viventi, gli umani e i non umani, costituiscano una famiglia, non
è realistica. La natura è costituita in modo che i viventi si mangino tra loro
e quindi siano costantemente in lotta mortale gli uni con gli altri. Questa è
la principale obiezione a coloro che vorrebbero che gli umani rinunciassero a
nutrirsi degli altri animali. In questo modo si pongono gli umani al di sopra
della natura di cui invece sono parte. Si divinizzano gli umani. Lo si può fare
nel quadro di un discorso religioso, ma non di uno propriamente ecologico. Se
però, religiosamente, si vuole intendere che gli umani, come viventi di un tipo
molto particolare, dotati di spirito e ragione, e anche di una potenza
tecnologica che li ha portati a dominare (fino ad un certo punto) gli ambienti
da loro abitati, sentono una particolare responsabilità anche verso gli altri
viventi e si propongono di fare del mondo, quindi anche degli ambienti
naturali, la casa di tutti i viventi, nel senso innanzi tutto di porsi
dei limiti allo sfruttamento delle risorse naturali, e
quindi anche di ogni tipo di vita umana e non umana, allora il discorso
della famiglia universale diviene accettabile. Ma a quel
punto in questione non è tanto l’ecologia, ma un modello di sviluppo delle
società umane. E infatti l’enciclica è piena di raccomandazioni su come
migliorare l’organizzazione sociale e politica, a partire però da una
conversione personale ad uno stile di vita definito sobrio. Esso richiede
la costruzione di una spiritualità personale. Questo è un
apporto caratteristico dell’enciclica ed ha un’origine religiosa. Di solito i
modelli di sviluppo sono collegati a politiche e queste ultime a interessi
confliggenti che, ad un certo punto, possono trovare un accomodamento in un
equilibrio precario di rapporti di forza sociale, ma sono sempre in balìa
degli egoismi collettivi. Da qui il senso di precarietà e insicurezza dell’insieme,
tanto maggiore nel mondo globalizzato contemporaneo nel quale, per le
dimensioni gigantesche dei fenomeni sociali, ne sembra impossibile il governo
razionale. Tuttavia una rivoluzione culturale (Laudato
si, 114) che portasse a nuovi stili personali di vita per via di
conversione potrebbero avere anche una efficacia propriamente economica e
politica, come quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si
smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per
modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto
ambientale e i modelli di produzione (Laudato si’i, 206).
L’esperienza corrente è invece quella di una manipolazione dei consumatori da
parte delle imprese, in particolare di quelle maggiori che hanno raggiunto un
potere tale da poter condizionare addirittura le politiche degli stati, per
creare meccanismi consumistici compulsivi, per cui le persone finiscono per
essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue (Laudato
si’, 203).
11. Critica sociale, fede
religiosa e azione sociale: sviluppi nella dottrina sociale
La dottrina sociale fin dall’origine ha
espresso anche una marcata critica sociale. Il primo documento del genere
dell’era contemporanea viene considerata l’enciclica Le novità,
diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci ed era in polemica con il
socialismo. Considerava necessarie le diseguaglianze sociali, quelle che
nell’enciclica Laudato si’ vengono definite con il
neologismo inequità, vale a dire diseguaglianze ingiuste. Leggiamo
infatti nel documento del Pecci:
1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e
del lavoro faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo
principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere
dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i
socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile.
Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti
posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze
in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la
differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati
che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie
e di uffici diversi, e l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare
tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato
medesimo d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che
allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose
poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità,
secondo quell'oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro;
mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17).
Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure,
difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si
voglia o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque
il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v'è forza né
arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di
poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di
pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che
conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le
cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il
rimedio ai mali.
L’enciclica Le novità non è stata il
primo documento della dottrina sociale, che si è sviluppata fin dalle
origini e in modo sempre più imponente man mano che, dal Quarto secolo della
nostra era, cresceva la rilevanza politica della nostra fede (questa non è
stata una caratteristica solo dell’Islam) e la conseguente potenza
politica dell’apparato religioso.
Nell’Ottocento troviamo un altro
importante documento della dottrina sociale, quello definito Sillabo (=elenco,
dalla prima parola dell’espressione Elenco dei principali errori della
nostra epoca), allegato all’enciclica Con quanta cura (e pastorale
vigilanza), diffusa nel 1864 dal papa Giovanni Maria Mastai Ferretti, nel
quale si condannavano alcune delle principali idee del liberalismo, tra le
quali la libertà di coscienza in materia religiosa, inserita tra le mostruose,
false e perverse opinioni. Lo potete leggere alla pagina WEB
https://w2.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/epistola-encyclica-quanta-cura-8-decembris-1864.html
L’enciclica Le novità segna però l’inizio
di un nuovo filone della dottrina sociale, nel quale, criticando
principalmente il socialismo, se ne recepiscono alcune idee di giustizia
sociale. In uno sviluppo durato più di un secolo, si è arrivati quindi a
ribaltare la posizione del magistero sulle diseguaglianze sociali, che ora
vengono definite non solo ingiuste, ma anche peccaminose dal
punto di vista religioso. I ragionamenti sulle cause sociali delle
diseguaglianze ingiuste sono stati molto approfonditi nel magistero del papa
Karol Wojtyla, in particolare a partire dall’esortazione apostolica
post-sinodaleRiconciliazione è penitenza, del 1984), e
dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa), diffusa
nel 1987. Sono documenti che potete leggere sul Web ai seguenti indirizzi:
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_02121984_reconciliatio-et-paenitentia.html
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_30121987_sollicitudo-rei-socialis.html
Nella discussione dell’assemblea del Sinodo dei vescovi del 1983
emerse la discussione sui peccati sociali, vale a dire
quelli che riguardano i rapporti sociali e dipendono anche dall’organizzazione
delle società, con le loro strutture sociali, ad esempio i
peccati contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia
dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona, quelli
contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non
esclusa quella del nascituro, o contro l'integrità fisica di qualcuno; ogni
peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di
credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l'onore del
prossimo, ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta
l'ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini, quelli dei dirigenti
politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s'impegnano con
saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le
esigenze e le possibilità del momento storico, quelli dei lavoratori, che
vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende
possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie,
all'intera società, e infine quelli che si manifestano nei rapporti tra
le varie comunità umane.
Nell’esortazione post-sinodale Riconciliazione
e penitenza ci si preoccupò che l’idea di peccato
sociale non andasse a sminuire la responsabilità delle persone per
il peccato personale, osservando che, anche denunciando come
peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi
sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni,
si dovesse avere consapevolezza che anche in tali casi il peccato sociale
deriva dall'accumulazione e dalla concentrazione di molti peccati personali. Si
tratta infatti dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce
l'iniquità o la sfrutta. Tuttavia il discorso venne ripreso e sviluppato molto
nella successiva enciclica La sollecitudine sociale, introducendo
il concetto di strutture di peccato, vale a dire la
somma dei fattori sociali negativi, derivanti in
particolare dall’organizzazione civile e politica delle società, che agiscono
in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e
all'esigenza di favorirlo, orientando le persone verso il peccato sociale.
Esse, rafforzandosi e diffondendosi, diventano sorgente di altri peccati,
condizionando la condotta degli uomini. Negli anni ’80 si viveva ancora, in particolare
in Europa in un mondo diviso in blocchi politici con ideologie molto marcate,
quello degli stati con organizzazione dell’economia capitalista e quello degli
stati con organizzazione dell’economia socialista. Wojtyla nell’enciclica
citata ne parlò come di due forme diverse di imperialismo, di
ostacoli da superare in quanto caratterizzate da strutture di peccato, in
particolare mediante decisioni di ordine politico,
orientate da determinazioni essenzialmente morali, le quali, per i
credenti, specie se cristiani, si devono ispirare ai principi della fede con
l'aiuto della grazia divina. Questa impostazione aprì la strada ad una critica
sociale molto più ampia che nel passato, diretta in particolare ad una
riorganizzazione sociale e politica che negli anni ’80 si palesò sempre più
urgente soprattutto per la crisi terminale, intuita da pochi ma molto
chiaramente dal Wojtyla, dell’imperialismo sovietico, e quindi della metà
orientale dell’Europa di allora. Questi ragionamenti sfociarono in uno dei più
grandi e innovativi documenti della dottrina sociale, vale a dire
l’enciclica Il Centenario, diffusa dal Wojtyla nel 1991 in
occasione del centenario dall’enciclica Le novità, nel quale, tra
l’altro, è contenuta per la prima volta l’accettazione incondizionata della
democrazia come unico sistema politico rispettoso della dignità umana. Questo
filone del magistero conteneva anche un forte appello al laicato di fede
all’impegno sociale, richiamandosi al precedente dell’enciclica Lo
sviluppo dei popoli, diffusa nel 1967 dal papa Giovanni Battista
Montini. Critica sociale e azione sociale dovevano andare di pari passo,
in questo recependo l’insegnamento del socialismo storico. Questo pur
considerando che il Wojtyla, formatosi da capo religioso nell’ambiente del totalitarismo
comunista polacco, fu sempre marcatamente anti-socialista, nel filone della
prima dottrina sociale ottocentesca.
Grosso modo si possono distinguere
queste fasi nella critica sociale espressa dalla nostra dottrina sociale:
- dal Quarto secolo e per tutto il primo
millennio della nostra era: consolidamento dell’affermazione della nostra fede
come ideologia politica prevalente tra i popoli intorno al Mediterraneo e poi
anche nel nord Europa e lotta di stato contro i dissenzienti teologici e
religiosi, dall’Ottavo secolo affermazione progressiva del papato romano come
principato vassallo degli imperatori germanici in polemica con l’imperatore
bizantino;
- nel secondo millennio e fino al Settecento:
consolidamento della posizione del papato romano, come impero religioso
feudale, nei confronti dell’impero germanico, dei nascenti stati
nazionali europei, e dell’impero bizantino fino alla metà del Quattrocento,
nonché nei confronti della società civile, mediante un esteso e pervasivo
sistema poliziesco-giudiziario;
- dal Settecento e fino al Concilio Vaticano
2° (1962-1965): polemica del papato contro liberalismo, democrazia, socialismo,
e stati costruiti su queste ideologie, con sollevazione crescente delle masse
cattoliche utilizzate come corpo politico in difesa del papato;
- dal Concilio Vaticano 2°: critica ideologica
e politica basata su principi religiosi di giustizia sociale con coinvolgimento
attivo delle massa cattoliche nei processi democratici, per determinare
politiche per il rivolgimento delle strutture sociali di peccato: processi di
riforma religiosa e sociale che coinvolgono anche ruolo, funzioni e poteri del
papato romano.
Fino all’enciclica Laudato
si’ la critica sociale su base religiosa espressa dalla dottrina
sociale era caratterizzata dalla pretesa di autosufficienza: si riteneva
sostanzialmente che nelle Scritture e nelle tradizione teologica vi fosse tutto
ciò che occorreva per proclamare giusti principi di organizzazione sociale e
questo nonostante i sempre più estesi riferimenti alla situazione storica e
sociale e all’impiego di nozioni tratte dalle scienze sociali.
L’enciclica Laudato si’ è invece caratterizzata da un’analisi
che parte dalle considerazioni delle scienze naturali e sociali, applicandovi
poi i ragionamenti teologici della nostra fede. Questo metodo in
particolare è evidenziato dalla menzione di due autori: il filosofo e teologo
tedesco Romano Guardini (1885-1968), e in particolare del suo lavoro dal
titolo La fine dell’epoca moderna, del 1965, e dello scienziato
teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Ciò crea una base per
un’ampia condivisione, anche al di là degli ambienti religiosi, degli
impegni sociali e politici conseguenti, la base per un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di
liberazione [Laudato
si’, 64].
12. Nuova santità
Dopo le innovazioni introdotte dai
provvedimenti presi nel corso del Concilio ecumenico Vaticano 2° (1962-1965)
prese forza, fu accreditata, l’idea di nuove forme di santità, in particolare
dei laici. Si parla di santità e si vuole intendere nuovi modelli di vita
religiosa. Si può prendere come esempio di questa evoluzione il caso della
santità della francese Giovanna D’Arco, giustiziata a Rouen nel 1431 a 19 anni
dopo un processo per eresia seguìto ad avventure militari della ragazza durate
circa due anni, motivate da intenti politici a sfondo religioso. Giovanna,
guidata da voci celesti, volle far incoronare re di Francia Carlo di
Valois, figlio del defunto re Carlo 6° e pretendente al trono dopo la morte dei
fratelli maggiori che lo precedevano nella linea di successione, osteggiato
dagli inglesi che all’epoca controllavano parte della Francia. Ella, donna
laica, divenne condottiera di milizie e riuscì nel suo intento, cadendo infine
prigioniera dei suoi nemici nel 1430.
Se si leggono la bolla del papa
Benedetto 15°, Giacomo Della Chiesa, mediante la quale fu proclamata santa nel
1920
http://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/bulls/documents/hf_ben-xv_bulls_19200516_divina-disponente.html
e la presentazione che ne fece papa Joseph
Ratzinger, Benedetto 16°, nel 2011 (di seguito ho trascritto il testo del
discorso):
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110126.html
si nota una completa rivisitazione della
figura della santa.
In particolare papa Ratzinger ne fece un
modello di impegno laicale in politica e, soprattutto, di impegno femminile,
mentre nel documento di Della Chiesa era centrale il suo patriottismo
nazionalistico non ben raccordato con la pietà religiosa esemplare. Questa
evoluzione è stata possibile, credo, per il fatto che, almeno
formalmente, il papato, con il papa regnante nel 1431, Eugenio 4°, non fu
coinvolto nella condanna di Giovanna: l’appello della ragazza al Papa fu
infatti respinto dai giudici di Rouen. Nelle parole di Ratzinger appare
centrale l’opera di liberazione del suo popolo da parte della ragazza, la
quale, a soli diciassette anni, si mostrò come
una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e
scoraggiati, in un contesto di lacerazione all'interno della Chiesa e di
continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica
delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e
Inghilterra. Secondo Ratzinger “Uno degli aspetti più
originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra
esperienza mistica e missione politica.”
Il modello di santità
di Giovanna d’Arco, a prescindere dall’accentuazione del ruolo politico
della figura della giovane, è sicuramente divergente da quello tradizionalmente
femminile ed è caratterizzato da una marcata autonomia di decisione e dal saper
tener testa ad un mondo condotto interamente dagli uomini, che si trattasse del
pretendente al trono di Francia e poi re, o delle milizie e dei loro capi
militari, o dei giudici ecclesiastici. Contrasta anche con il modello di
secondo piano che le correnti religiose neo-fondamentaliste vogliono riservare
alle donne, riconducendole nelle prigioni domestiche, a ruoli di semplice cura.
La questione sui nuovi
modelli di santità, vale a dire di vita religiosa, impegna ancora le
discussioni di fede, perché certe idee hanno sostenitori e detrattori. Essa è
collegata al discorso sull’aggiornamento, in realtà sulla
riforma della vita religiosa, per renderla efficace ai tempi nuovi.
L’allontanamento dei giovani dalle parrocchie può essere considerato come un
segno che questo lavoro non si è fatto bene.
I più anziani hanno
molti pregiudizi sui giovani e vedono nei loro comportamenti innanzi tutto
quelli diretti a procurarsi piaceri immediati ed effimeri. Ma la ragione della
separazione tra mondo giovanile e mondo religioso, che è piuttosto evidente,
sta in realtà nel fatto che la vita religiosa, come è proposta prevalentemente,
appare, ed effettivamente è, inutile, e addirittura controproducente, per un
giovane. Contrasta infatti con le esigenze dei giovani del difficile
inserimento nel mondo loro contemporaneo. Volendo preservarli da influenze
nocive, si pretende di rinchiuderli. E, in definitiva, una certa quota di
coloro che in religione pontificano sui mali giovanili, probabilmente al tempo
di Giovanna sarebbero stati con i giudici che la condannarono ad essere arsa
viva, quindi annientata totalmente, resa un nulla. Del resto i meno giovani, se
fanno memoria veritiera del loro passato, di quando erano giovani, in
particolare nella fascia 18-30, possono convincersi facilmente dell’inefficacia
del modello di vita di fede proposto spesso ai più giovani.
Da giovane sono vissuto
in ambienti religiosi che seguivano tutt’altra impostazione. Ci preparavano al
governo della società. Ciò che un tempo veniva riservato alle organizzazioni
laicali intellettuali dovrebbe divenire invece
patrimonio comune del laicato. La formazione alla cittadinanza democratica
dovrebbe essere integrata in quella religiosa, perché il compito principale del
laico di fede, e anche il suo modo di promuovere i valori di fede nella
società, si fa con gli strumenti democratici. E’ la via di liberazione
che si apre ai laici di fede nelle società democratiche, in particolare in
quelle Europee. Invece, talvolta, questi discorsi vengono considerati solo un
espediente per interessare i più giovani e portarli in
chiesa.
Uno strumento molto
importante, per sostenere il lavoro di cui ho trattato, è l’enciclica Laudato
si’, che possiamo considerare una specie di manuale in
questo campo. Essa è stimolo ad approfondire, non esaurisce i temi trattati, e,
innanzi tutto, è appello all’azione civile a sfondo religioso.
Possiamo considerare
l’incoronazione di Carlo 7° a re di Francia, nel 1429, a Reims, il
risultato di un riuscito processo di liberazione, in senso moderno?
La guerra tra inglesi e francesi per il dominio in Francia, nel Quattrocento,
fu un conflitto dinastico o una vera guerra di liberazione? In
definitiva i modelli di governo della società non cambiarono veramente
sotto Carlo 7° rispetto a prima. All’epoca, va osservato, non si era consumato
ancora lo scisma tra la Chiesa d’Inghilterra e il papato, dunque dal punto
religioso non vi erano ragioni di contrasto tra inglesi e francesi. La
liberazione di cui si tratta nell’enciclica Laudato si’ va più
in profondità e, in particolare, non si basa su progetti nazionalistici.
Richiede una critica del modello corrente di sviluppo e modelli nuovi di
impegno civile a sfondo religioso. Ma certi modelli vanno ancora costruiti e
probabilmente individuati tenendo conto anche di esperienze religiose al di
fuori della nostra confessione. Qualche giorno fa, ad esempio, Bergoglio ha
fatto riferimento a Ghandi e a Martin Luther King, due modelli di vita di forte
impegno politico di liberazione con moventi a sfondo religioso. Ma in Italia
abbiamo molte figure storiche di politici di fede, impegnati nei processi
democratici, che possono essere prese come riferimento. Il problema è
naturalmente che esse vissero in ambienti ecclesiali in cui furono spesso
fortemente avversate dai clericali di ogni orientamento, reazionario,
conservatore, moderato e, da ultimo, sono svalutate dai neo-fondamentalismi,
tacciate a volta di protestantesimo come, all'inizio del Novecento, lo furono
di modernismo. E l’impegno democratico nella società civile non è compatibile
sia con il clericalismo, che si conferma una piaga della vita religiosa, così
come, sotto altri aspetti, con ogni tipo di fondamentalismo.
Trascrivo di seguito il discorso del papa
Benedetto 16° dal quale ho tratto le meditazioni su Giovanna d’Arco che
precedono,
da:
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110126.html
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 26 gennaio 2011
Santa Giovanna d'Arco
Cari fratelli e sorelle,
oggi
vorrei parlarvi di Giovanna d'Arco, una giovane santa della fine del Medioevo,
morta a 19 anni, nel 1431. Questa santa francese, citata più volte nel Catechismo
della Chiesa Cattolica, è particolarmente vicina a santa Caterina da Siena,
patrona d'Italia e d'Europa, di cui ho parlato in una recente catechesi. Sono infatti due giovani
donne del popolo, laiche e consacrate nella verginità; due mistiche impegnate,
non nel chiostro, ma in mezzo alle realtà più drammatiche della Chiesa e del
mondo del loro tempo. Sono forse le figure più caratteristiche di quelle “donne
forti” che, alla fine del Medioevo, portarono senza paura la grande luce del
Vangelo nelle complesse vicende della storia. Potremmo accostarle alle sante
donne che rimasero sul Calvario, vicino a Gesù crocifisso e a Maria sua Madre,
mentre gli Apostoli erano fuggiti e lo stesso Pietro lo aveva rinnegato tre
volte. La Chiesa, in quel periodo, viveva la profonda crisi del grande scisma
d'Occidente, durato quasi 40 anni. Quando Caterina da Siena muore, nel 1380, ci
sono un Papa e un Antipapa; quando Giovanna nasce, nel 1412, ci sono un Papa e
due Antipapa. Insieme a questa lacerazione all'interno della Chiesa, vi erano
continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica
delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e
Inghilterra.
Giovanna d'Arco non sapeva né leggere né
scrivere, ma può essere conosciuta nel più profondo della sua anima grazie a
due fonti di eccezionale valore storico: i due Processi che la
riguardano. Il primo, il Processo di Condanna (PCon),
contiene la trascrizione dei lunghi e numerosi interrogatori di Giovanna
durante gli ultimi mesi della sua vita (febbraio-maggio 1431), e riporta le
parole stesse della Santa. Il secondo, il Processo di Nullità della
Condanna, o di “riabilitazione” (PNul), contiene le deposizioni di
circa 120 testimoni oculari di tutti i periodi della sua vita (cfr Procès
de Condamnation de Jeanne d'Arc, 3 vol. e Procès en Nullité de la
Condamnation de Jeanne d'Arc, 5 vol., ed. Klincksieck, Paris l960-1989).
Giovanna
nasce a Domremy, un piccolo villaggio situato alla frontiera tra Francia e
Lorena. I suoi genitori sono dei contadini agiati, conosciuti da tutti come
ottimi cristiani. Da loro riceve una buona educazione religiosa, con un
notevole influsso della spiritualità del Nome di Gesù, insegnata da
san Bernardino da Siena e diffusa in Europa dai francescani. Al Nome di Gesù
viene sempre unito il Nome di Maria e così, sullo sfondo della
religiosità popolare, la spiritualità di Giovanna è profondamente
cristocentrica e mariana. Fin dall'infanzia, ella dimostra una grande carità e
compassione verso i più poveri, gli ammalati e tutti i sofferenti, nel contesto
drammatico della guerra.
Dalle
sue stesse parole, sappiamo che la vita religiosa di Giovanna matura come
esperienza mistica a partire dall'età di 13 anni (PCon, I, p.
47-48). Attraverso la “voce” dell'arcangelo san Michele, Giovanna si sente
chiamata dal Signore ad intensificare la sua vita cristiana e anche ad
impegnarsi in prima persona per la liberazione del suo popolo. La sua immediata
risposta, il suo “sì”, è il voto di verginità, con un nuovo impegno nella vita
sacramentale e nella preghiera: partecipazione quotidiana alla Messa,
Confessione e Comunione frequenti, lunghi momenti di preghiera silenziosa
davanti al Crocifisso o all'immagine della Madonna. La compassione e l’impegno
della giovane contadina francese di fronte alla sofferenza del suo popolo sono
resi più intensi dal suo rapporto mistico con Dio. Uno degli aspetti più
originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra
esperienza mistica e missione politica. Dopo gli anni di vita nascosta e di
maturazione interiore segue il biennio breve, ma intenso, della sua vita
pubblica: un anno di azione e un anno di passione.
All'inizio dell'anno 1429, Giovanna inizia la sua opera di liberazione.
Le numerose testimonianze ci mostrano questa giovane donna di soli 17 anni come
una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e scoraggiati.
Superando tutti gli ostacoli, incontra il Delfino di Francia, il futuro Re
Carlo VII, che a Poitiers la sottopone a un esame da parte di alcuni teologi
dell'Università. Il loro giudizio è positivo: in lei non vedono niente di male,
solo una buona cristiana.
Il 22 marzo 1429, Giovanna detta un'importante
lettera al Re d'Inghilterra e ai suoi uomini che assediano la città di Orléans
(Ibid., p. 221-222). La sua è una proposta di vera pace nella
giustizia tra i due popoli cristiani, alla luce dei nomi di Gesù e di Maria, ma
è respinta, e Giovanna deve impegnarsi nella lotta per la liberazione della
città, che avviene l'8 maggio. L'altro momento culminante della sua azione
politica è l’incoronazione del Re Carlo VII a Reims, il 17 luglio 1429. Per un
anno intero, Giovanna vive con i soldati, compiendo in mezzo a loro una vera
missione di evangelizzazione. Numerose sono le loro testimonianze riguardo alla
sua bontà, al suo coraggio e alla sua straordinaria purezza. E' chiamata da
tutti ed ella stessa si definisce “la pulzella”, cioè la vergine.
La passione di
Giovanna inizia il 23 maggio 1430, quando cade prigioniera nelle mani dei suoi
nemici. Il 23 dicembre viene condotta nella città di Rouen. Lì si svolge il
lungo e drammatico Processo di Condanna, che inizia nel febbraio
1431 e finisce il 30 maggio con il rogo. E' un grande e solenne processo,
presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon e
l'inquisitore Jean le Maistre, ma in realtà interamente guidato da un folto
gruppo di teologi della celebre Università di Parigi, che partecipano al
processo come assessori. Sono ecclesiastici francesi, che avendo fatto la
scelta politica opposta a quella di Giovanna, hanno a priori un giudizio
negativo sulla sua persona e sulla sua missione. Questo processo è una pagina
sconvolgente della storia della santità e anche una pagina illuminante sul
mistero della Chiesa, che, secondo le parole del Concilio Vaticano II, è “allo
stesso tempo santa e sempre bisognosa di purificazione” (LG, 8). E’
l'incontro drammatico tra questa Santa e i suoi giudici, che sono
ecclesiastici. Da costoro Giovanna viene accusata e giudicata, fino ad essere
condannata come eretica e mandata alla morte terribile del rogo. A differenza
dei santi teologi che avevano illuminato l'Università di Parigi, come san
Bonaventura, san Tommaso d'Aquino e il beato Duns Scoto, dei quali ho parlato
in alcune catechesi, questi giudici sono teologi ai quali mancano la carità e
l'umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio. Vengono alla mente le
parole di Gesù secondo le quali i misteri di Dio sono rivelati a chi ha il
cuore dei piccoli, mentre rimangono nascosti ai dotti e sapienti che non hanno
l'umiltà (cfr Lc 10,21). Così, i giudici di Giovanna sono
radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima:
non sapevano di condannare una Santa.
L'appello di Giovanna al giudizio del Papa, il 24 maggio, è respinto dal
tribunale. La mattina del 30 maggio, riceve per l'ultima volta la santa
Comunione in carcere, e viene subito condotta al supplizio nella piazza del
vecchio mercato. Chiede a uno dei sacerdoti di tenere davanti al rogo una croce
di processione. Così muore guardando Gesù Crocifisso e pronunciando più volte e
ad alta voce il Nome di Gesù (PNul, I, p. 457; cfr Catechismo
della Chiesa Cattolica, 435). Circa 25 anni più tardi, il Processo
di Nullità, aperto sotto l'autorità del Papa Callisto III, si
conclude con una solenne sentenza che dichiara nulla la condanna (7 luglio
1456; PNul, II, p 604-610). Questo lungo processo, che
raccolse le deposizioni dei testimoni e i giudizi di molti teologi, tutti
favorevoli a Giovanna, mette in luce la sua innocenza e la perfetta fedeltà
alla Chiesa. Giovanna d’Arco sarà poi canonizzata da Benedetto XV, nel 1920.
Cari fratelli e sorelle, il Nome di Gesù,
invocato dalla nostra Santa fin negli ultimi istanti della sua vita terrena,
era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore, il
centro di tutta la sua vita. Il “Mistero della carità di Giovanna d'Arco”, che
aveva tanto affascinato il poeta Charles Péguy, è questo totale amore di Gesù,
e del prossimo in Gesù e per Gesù. Questa Santa aveva compreso che l’Amore
abbraccia tutta la realtà di Dio e dell'uomo, del cielo e della terra, della
Chiesa e del mondo. Gesù è sempre al primo posto nella sua vita, secondo la sua
bella espressione: “Nostro Signore servito per primo” (PCon, I, p.
288; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 223). Amarlo
significa obbedire sempre alla sua volontà. Ella afferma con totale fiducia e
abbandono: "Mi affido a Dio mio Creatore, lo amo con tutto il mio
cuore" (ibid., p. 337). Con il voto di verginità, Giovanna
consacra in modo esclusivo tutta la sua persona all'unico Amore di Gesù: è “la
sua promessa fatta a Nostro Signore di custodire bene la sua verginità di corpo
e di anima” (ibid., p. 149-150). La verginità dell'anima è lo stato
di grazia, valore supremo, per lei più prezioso della vita: è un dono di
Dio che va ricevuto e custodito con umiltà e fiducia. Uno dei testi più conosciuti
del primo Processo riguarda proprio questo: “Interrogata se
sappia d'essere nella grazia di Dio, risponde: Se non vi sono, Dio mi voglia
mettere; se vi sono, Dio mi voglia custodire in essa” (ibid., p. 62;
cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2005).
La
nostra Santa vive la preghiera nella forma di un dialogo continuo con il
Signore, che illumina anche il suo dialogo con i giudici e le dà pace e
sicurezza. Ella chiede con fiducia: “Dolcissimo Dio, in onore della vostra
santa Passione, vi chiedo, se voi mi amate, di rivelarmi come devo rispondere a
questi uomini di Chiesa” (ibid., p. 252). Gesù è contemplato da
Giovanna come il “Re del Cielo e della Terra”. Così, sul suo stendardo,
Giovanna fece dipingere l'immagine di “Nostro Signore che tiene il mondo” (ibid., p.
172): icona della sua missione politica. La liberazione del suo popolo è
un’opera di giustizia umana, che Giovanna compie nella carità, per amore di
Gesù. Il suo è un bell’esempio di santità per i laici impegnati nella vita
politica, soprattutto nelle situazioni più difficili. La fede è la luce che
guida ogni scelta, come testimonierà, un secolo più tardi, un altro grande
santo, l’inglese Thomas More. In Gesù, Giovanna contempla anche tutta la realtà
della Chiesa, la “Chiesa trionfante” del Cielo, come la “Chiesa militante”
della terra. Secondo le sue parole, ”è un tutt'uno Nostro Signore e la Chiesa”
(ibid., p. 166). Quest’affermazione, citata nel Catechismo
della Chiesa Cattolica (n. 795), ha un carattere veramente eroico nel
contesto del Processo di Condanna, di fronte ai suoi giudici,
uomini di Chiesa, che la perseguitarono e la condannarono. Nell'Amore di Gesù,
Giovanna trova la forza di amare la Chiesa fino alla fine, anche nel momento
della condanna.
Mi piace ricordare come santa Giovanna d’Arco
abbia avuto un profondo influsso su una giovane Santa dell'epoca moderna:
Teresa di Gesù Bambino. In una vita completamente diversa, trascorsa nella
clausura, la carmelitana di Lisieux si sentiva molto vicina a Giovanna, vivendo
nel cuore della Chiesa e partecipando alle sofferenze di Cristo per la salvezza
del mondo. La Chiesa le ha riunite come Patrone della Francia, dopo la Vergine
Maria. Santa Teresa aveva espresso il suo desiderio di morire come Giovanna,
pronunciando il Nome di Gesù (Manoscritto B, 3r), ed era animata
dallo stesso grande amore verso Gesù e il prossimo, vissuto nella verginità
consacrata.
Cari
fratelli e sorelle, con la sua luminosa testimonianza, santa Giovanna d’Arco ci
invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo
conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà
di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e
attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa. Grazie.
13. La politica come campo d’azione della fede
[da: Guido Formigoni, Alla prova della
democrazia - Chiesa cattolici e modernità nell’Italia del 900, edizioni Il
Margine, 2008, p.1]
Studiando l’approccio del mondo
cattolico italiano all’idea di nazione e ai miti nazioni tra Otto e Novecento,
colpisce una sorta di straordinaria prevalenza più che secolare e quasi
onnivora di una cultura “guelfa”, che valorizzava fortemente l’idea e il
mito nazionale alla luce delle sue radici “cattoliche”. Esistenza e sviluppo
della nazione italiana venivano infatti largamente interpretati, per un lungo
periodo di tempo, mettendo l’accento sui legami costitutivi tra fede e civiltà.
L’Italia era “nazione cattolica” per eccellenza: questo elemento culturale e
naturalmente anche “ideologico” (in quanto si trattava di una interpretazione
della realtà con caratteri prescrittivi e operativi) correva in modo amplissimo
lungo tutta questa storia.
[…]
La Conciliazione del 1929 fu
largamente presentata come inveramento finale dell’antica visione guelfa della
nazionalità […]
All’ombra di questa visione,
propria del papa lombardo [Achille Ratti, in religione Pio 11°] va
riletto l’accentuato processo di “nazionalizzazione della fede” che si dispiegò
tra gli anni ’20 e ’30. Prese forma una sorta di coscienza religiosa nuova,
segnata da elementi che mi pare possano essere definiti di vero e proprio
“nazional-cattolicesimo”. Cioè di un’interpretazione e un’esperienza simbolica
e organizzata della fede che trovava sul terreno della cultura e della
mitologia nazionale un riconoscimento decisivo e centrale. Si trattò di un
percorso (ancora per molti versi da studiare analiticamente) che si intrecciò
in modo problematico e ambiguo con l’età dei nazionalismi di massa, della
modernizzazione industriale e della politica totalitaria, fino ad uscirne
lacerato al suo interno, ma serbando una grandissima capacità di rilancio.”
Qualche tempo fa, papa Jorge Mario
Bergoglio, in religione Francesco ,menzionò la frase “la
politica è la più alta forma di carità”, attribuendola a Montini, ma
aggiungendo di non essere riuscito a trovare la fonte della citazione. Chi ci è
riuscito? In effetti qualcosa di molto simile lo disse il papa Achille Ratti -
Pio 11°. Egli concluse nel 1929, la Conciliazione con il Regno
d’Italia sotto regime fascista. E’ in questo contesto che vide nella politica
nazionale italiana un’opportunità religiosa. E spinse le masse dei fedeli, in
particolare l’Azione Cattolica, su quella via. Oggi quella storia è
ritenuta disonorevole e ci sorvola sopra. Eppure è stata gravida di
conseguenze: l’ibridazione dell’ideologia politica a sfondo religioso con il
nazionalismo fascista fu molto profonda e si ancora avverte distintamente
dietro la visione di settori potenti del movimento cattolico. Si tratta
di concezioni profondamente ostili alla democrazia, come lo fu il fascismo
storico.
Eppure, la sfida dei tempi nuovi che
stiamo vivendo richiede di saper agire sapientemente nei processi democratici,
gli unici che sono in grado di produrre civiltà di integrazione delle
differenze culturali che sono espresse dai popoli che sempre più si mescolano,
non accettando i confini in genere arbitrari imposti dagli stati nazionali.
Ma di democrazia si fa poco tirocinio
nelle istituzioni e altre formazioni religiose.
Perché appunto in genere prevale lo
spirito guelfo, di cui ha scritto Formigoni. Nel Duecento /
Trecento in Italia i guelfi erano quelli che
appoggiavano la politica del papato. Nell’Ottocento si parlò di neo-guelfi per
coloro che, nella questione dell’unità nazionale, pensavano a un ruolo politico
del papato per costituire una federazione tra gli stati italiani di allora.
Il papato ha sempre fatto
politica: alle origini politica ecclesiastica, e poi, dal
Quarto secolo, anche la politica civile. Nel primo millennio della nostra
era, ha agito con un ruolo minore rispetto agli imperatori civili, dei quali,
politicamente, era un feudatario. Dal secondo millennio ha fatto politica come
imperatore religioso, rivendicando la supremazia sugli altri monarchi europei.
Nell’Ottocento, vistosi insidiare il suo stato nell’Italia centrale e capendo
di non avere più l’appoggio delle altre monarchie europee, in crisi di
trasformazione da fine Settecento a seguito dello sviluppo dei processi democratici
(oggi le residue monarchie europee, regnano ma non governano),
cercò di organizzare le masse cattoliche a difesa dei suoi interessi politici
di sovrano territoriale, non bastandogli più per questo la sua autorità
religiosa. Il papato fu, con l’impero d’Austria, il maggiore avversario
dell’unità nazionale italiana. Spinse le masse cattoliche ad una lotta
ideologica e politica contro il nazionalismo liberale dell’epoca e, poi, contro
le istituzioni del Regno d’Italia. La legge contro il terrorismo, promossa da
Francesco Crispi nel 1866, fu attuata ampiamente anche contro i movimenti
cattolici, come ho ricordato in un post di qualche
giorno fa, parlando di precursori dell’Azione Cattolica.
In questo contesto il papato osteggiò apertamente i processi democratici,
arrivando a comminare la scomunica religiosa a Romolo Murri, tra gli ideatori e
i primi fautori di una democrazia cristiana, non intesa come
partito politico, ma come forma istituzionale dello stato che consentisse la
partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica italiana, all’epoca
proibita.
La Conciliazione del 1929 con il
Mussolini, consentì al papato di recuperare un simulacro di stato nella città
di Roma e soprattutto uno straordinario potere di influenza ideologica sulla
masse popolari italiane. Da qui derivarono gran parte dei problemi che
travagliarono la partecipazione dei laici di fede alla politica democratica
dopo la caduta del fascismo, dalla metà degli scorsi anni Quaranta.
Il papato, fino all’elezione di papa
Francesco, non accettò mai di ritirarsi dalla politica italiana. La
ripresa neoguelfa fu evidentissima durante il lungo
regno religioso di Karol Wojtyla, anche se, a quei tempi, svolse un ruolo
sempre più rilevante la Conferenza episcopale italiana, e soprattutto il suo
presidente.
Il papato ha cercato sempre di
mantenere un dominio politico sulla società italiana, fino a che i movimenti di
massa suscitati dal papato come strumenti neoguelfi hanno iniziato a lottare
per la conquista del papato, sviluppando politiche autonome. Ora lo stesso
papato è in crisi e si pensa di trasformarlo. Il papa Francesco ne interpreta
una specie di nuovo modello. Questa è la storia ecclesiastica recente.
Di questa evoluzione in genere non
si tratta nella formazione religiosa di secondo e terzo livello, che dovrebbe
comprendere anche elementi di storia nazionale ed ecclesiastica. L’ingenuo
papismo che viene in genere proposto in religione maschera una vera e propria
ideologianeoguelfa, spesso declinata però ora in un modo
particolare, nel senso che sembra non essere preso come riferimento questo papa,
quello che ha deciso di spogliarsi dei simboli imperiali del suo ufficio che
sono solo pesanti incrostazioni del millennio appena trascorso, e vive in un
albergo invece che nella reggia che gli era destinata, ma unpapa ideale, futuro, un papa
a venire, che ancora non c’è ma che ciascuno spera possa essere
conforme ai suoi progetti, tanto che molti si industriano per generarlo. Sotto
questo profilo Francesco, nonFrancesco 1° come
dovrebbe essere il nome di un imperatore religioso, è stato una bella sorpresa.
Che fare, allora?
I tempi sono quelli che sono e non
sono un granché, ma possiamo consolarci ricordandoci che ce ne sono stati di
peggiori, come, ad esempio, all’epoca della Conciliazione con il fascismo, in
particolare nei passati anni Trenta.
Occorre far fare tirocinio democratico
in religione, visto che si concorda che “la politica è una delle più alte
forme di carità”, ciò che richiede di fare memoria della storia, in particolare
di quella recente e contemporanea. La consapevolezza storica è alla base dei
processi democratici. Da dove cominciare? La parrocchia può essere un buon
inizio. Anche l’Azione Cattolica, e in particolare il nostro gruppo
parrocchiale, può essere un buon inizio, perché dagli anni Sessanta si occupa
anche di tirocinio democratico. Ma occorre sviluppare processi democratici, ad
esempio , n parrocchia, rendendo realmente rappresentativo il Consiglio
pastorale. Un altro dei principi cardine della democrazia è la partecipazione
politica alle scelte economiche che si fanno nelle istituzioni, attraverso la
pubblicazione e approvazione di conti consuntivi e preventivi e dello stato
patrimoniale. Altrimenti le istituzioni che ambiscono ad essere comunitarie si
burocratizzano e uno si disinteressa del bilancio della parrocchia come si
disinteressa di quelli delle ASL. Poi però può accadere che la biblioteca
parrocchiale sia da ricostituire da capo (è la situazione che ha trovato il
nuovo parroco, ho sentito) e questo per qualche motivo che non è stato
spiegato (servivano fondi per urgenze parrocchiali, si voleva impiegare
altrimenti la stanza della biblioteca?), e che quindi adesso i giovani non
abbiano di che studiare. Avessi potuto partecipare democraticamente alla
decisione mi sarei opposto con tutte le mie forze. E’ tutto uno stile da
costruire, perché in questo campo in religione, da noi, non si è molto
avanti e anche nella politica nazionale si manifestano molti problemi. Ma
l’Italia non si salverà senza un nuovo spirito civico: storicamente i laici di
fede, in particolare nel secondo dopoguerra, sono stati protagonisti in questo
campo, naturalmente sempre con la palla al piede del clerico-fascismo, il nome
meno gentile di quello che Formigoni definisce come il sempre persistente neo-guelfismo.
14. Europeismo
Quando si inizia a parlare di Europa e di europeismo
spesso le persone che incontro attaccano con le critiche, riprendendo
superficialmente i discorsi che sentono fare da diversi politici nazionali, come
se gran parte dei problemi che ci sono in Italia derivassero dall’Europa, concepita secondo la mentalità
fascista (scrivo le cose come sono!), come un coacervo di nazione d’oltralpe
che ce l’hanno con noi. In realtà di Europa
si sa poco, in particolare della sua
storia e di come è diventata cercando di superare gli stati nazionali, i quali
(quelli sì) erano stati protagonisti della sanguinosa, tragica, storia europea.
Ecco un primo punto da tenere presente: l’idea di una unificazione istituzionale tra i popoli europei scaturiva dalla volontà
di stabilire una pace europea, dopo
secoli di conflitti. In effetti il progressivo processo di unificazione istituzionale europea, vale a dire, innanzi tutto,
prima ancora della creazione di un governo
europeo, la creazione di norme europee, che favorissero la cooperazione europea e l’avvicinamento delle
società europee, ci ha dato un lungo periodo di pace, che dura
tutt’oggi. L’ultima guerra mondiale finì
in Europa nella primavera del 1945 e non era scontato che non potesse
riprendere. Solo sei anni dopo, a Parigi, nel 1951, venne concluso il primo
degli accordi internazionali che diede inizio al processo di unificazione
istituzionale europea: il trattato che istituì la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, più nota con la sigla CECA. Lo conclusero sei stati nazionali: Belgio, Francia,
Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi (Olanda). Notate qualcosa? In questo
gruppo c’erano stati nazionali che si
erano combattuti durante la Seconda guerra mondiale: Germania e Italia da una
parte, Belgio, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi dall’altra. Le ultime due
guerre mondiali (1914/1918 e 1939-1945) erano originate sulla frontiera tra
Francia e Germania. Oggi il problema della pace europea non scalda i cuori, e
invece dovrebbe. Negli anni ’40 era diverso, perché sia aveva l’esperienza
diretta di due guerre mondiali che avevano provocato tante sofferenze ai popoli
europei e, in particolare, tra le classi popolari, operai e contadini, che
fornivano i militari di truppa, in
particolare la fanteria, votata allo sterminio. L’idea di unificazione europea era rivoluzionaria durante il regime fascista
(1922-1945). E infatti uno dei documenti più citati, ma poco conosciuto,
dell’europeismo italiano, il Manifesto di
Ventotene, che ho pubblicato ieri, venne scritto nell’Isola di Ventotene,
da tre pregiudicati sottoposti alla
misura di polizia del confino per
ragioni politiche, che era molto di più dell’obbligo di soggiorno che si applica oggi alle persone pericolose.
Comportava infatti una serie di gravi limitazioni che, in definitiva,
obbligavano i confinati a stare
sempre tra di loro. Quei confinati si
chiamavano Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Il più noto dei
tre è Spinelli, che nel 1941 aveva 34 anni. Gli altri due ne avevano 44 e
32. Li possiamo considerare tre rivoluzionari, perché volevano cambiare
totalmente il mondo in cui si erano trovati a vivere.
Come c’entra l’europeismo con la fede
religiosa? C’entra per vari motivi. Innanzi tutto l’ideale di una pace tra i popoli è diventato dalla metà del secolo
scorso molto importante nella nostra dottrina sociale. E l’unificazione europea
è stata una via verso la pace. E poi perché l’ideologia dell’unificazione
europea è vista con sospetto, tra noi in religione, nonostante che i laici di
fede siano stati protagonisti in quel processo politico. In effetti negli
ultimi decenni essa ha surclassato quella religiosa come potenza di pace, in
particolare, più recentemente, nelle politiche contro la discriminazione
sociale che sta attuando. Le organizzazioni religiose sono in genere andate a
rimorchio, spesso riottosamente, come quando si cerca di contrastare le
discriminazioni a sfondo sessuale. Si tende allora a pensare che la rivoluzione che si sta attuando nel processo
di unificazione europea sia antireligiosa, e non è così, come si potrebbe
facilmente capire se si trovasse il tempo di approfondire.
15. Nazionalizzazione degli stati
[Dal Manifesto
di Ventotene, 1941, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
La sconfitta della Germania non porterebbe
automaticamente al riordinamento dell'Europa secondo il nostro ideale di
civiltà.
Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali
giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno
materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di
accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti, i ceti che più erano privilegiati nei vecchi
sistemi nazionali
cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l'ondata dei sentimenti
e delle passioni internazionalistiche, e si daranno ostinatamente a
ricostruire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi,
magari d'accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo
senso, per riprendere la politica dell'equilibrio delle potenze nell'apparente
immediato interesse del loro impero.
Le
forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati
nazionali: i quadri superiori delle
forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista
che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da
una stabile società
conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al
loro seguito tutto l'innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che
son anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l'edificio scricchiola e
cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie
che hanno
avuto fin'ora e le esporrebbe all'assalto delle forze progressiste.
Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare
la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati.
Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle
classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro
i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso
contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i
conti.
Il
punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato
nazionale. Potranno così far presa
sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più
facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In
tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli
avversari, dato che per le masse
popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi
entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse
che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati
abbattuti dalla bufera.
Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o
socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo
questione di tempo. Risorgerebbero
le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione
delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve
scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali
tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i
corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si
raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente
alla guerra.
L’europeismo che si sviluppa dagli anni ’30
del Novecento è di tipo rivoluzionario, perché progetta di cambiare
profondamente la politica e istituzioni esistenti all’epoca in un’Europa
dominata da stati totalitari fascisti,
al seguito del cancelliere tedesco Adolf
Hitler (1889-1945) e del presidente del Consiglio del Regno
d’Italia Benito Mussolini (1883-1945), mentre in Russia, una parte importante
dell’Europa, dominava il totalitarismo sovietico di ispirazione comunista,
nella versione imposta dal segretario del Partito comunista dell’Unione
Sovietica Iosif Stalin (1879-1953), anch’esso
un sistema politico-istituzionale totalitario.
Un sistema politico è totalitario
quando il potere cala dall’alto, non ammette dissenso e pretende di regolare
tutti gli aspetti della vita del popolo che domina. Quindi l’europeismo di quell’epoca fu democratico
perché si oppone ai totalitarismi che
c’erano allora in Europa. Anche il nazionalsocialismo
tedesco, il movimento politico fondato da Adolf Hitler, e il comunismo
sovietico nella versione di Josif Stalin avevano progetti di dominio europeo,
ma non consideriamo Hitler e Stalin come europeisti
in quanto associamo l’europeismo alla
democrazie e quei due uomini politici non erano democratici.
Nel brano del Manifesto di Ventotene che
ho sopra riportato si legge un’aspra critica alle forze conservatrici,
accusate di aver provocato la lunga situazione di conflitto europeo protrattasi
dal 1914 al 1945 dominando gli stati
nazionali. Tra di esse vengono le “alte gerarchie
ecclesiastiche, che solo da una stabile società
conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie”. Questa visione può ritenersi strettamente
collegata alla storia italiana, in cui, nel 1929, il papato aveva concluso
accordi di pacificazione con il
Regno d’Italia dominato dal regime fascista, tanto che essi furono
sottoscritti per l’Italia, nel palazzo romano del Laterano personalmente da
Benito Mussolini. In esecuzioni di quegli accordi al papato fu riconosciuta la
sovranità, al modo di uno stato, su un quartiere della città di Roma,
importanti indennizzi finanziari, e, soprattutto, la possibilità di una
rinnovata egemonia religiosa sugli italiani, in particolare con la possibilità
di controllare l’istruzione religiosa nella scuola statale.
Al centro della critica
politica del Manifesto di Ventotene vi è l’evoluzione degli stati nazionali europei che
li avevi portati a combattersi incessantemente.
Che cosa è lo stato nazionale.
Questa espressione è
composta di due parole: stato e nazione.
Bisogna capire questo: storicamente lo stato, come istituzione politica di vertice, in Europa non nasce
come nazionale.
Il concetto di nazione in senso politico si sviluppa sostanzialmente tra il Settecento
e l’Ottocento. Nell’Ottocento si produce una nazionalizzazione politica
degli stati europei. L’ideologia politica dello stato nazionale emerge in
quell’epoca.
La costruzione degli stati nazionali in Europa è però di molto precedente: la si fa
risalire al Duecento. Qualche giorno fa ho ricordato la figura di Giovanna
d’Arco, vissuta nel Quattrocento, e vediamo la santa in una guerra
sostanzialmente volta alla consolidamento di uno stato nazionale, contrastando il dominio che all’epoca ancora
esercitava in Francia la monarchia inglese.
Che cos’è lo stato? Uno stato è un’organizzazione
politica che domina su una popolazione stanziata su un territorio e che non
ammette sopra di sé poteri superiori, salvo che sul base consensuale, quindi
sulla base di accordi.
Che cos’è la nazione: è un popolo che ha una storia e
una cultura comuni, quindi legato storicamente da relazioni più intense che con
i popoli intorno, ciò che si può manifestare con una lingua o una religione
prevalenti e altri costumi sociali, che possono riguardare vari ambiti, in
particolare l’industria, il commercio, la famiglia, ma anche in un passato di
coalizioni militari per la difesa di interessi comuni. Nell’Ottocento, che
possiamo considerare il secolo in cui originarono i nazionalismi europei, si aveva però chiaro che la nazione preesiste ma anche si costruisce:
si ricorda in merito la frase di Massimo D’Azeglio (1798-1866), verso il termine del processo di unificazione
nazionale italiana, dopo la costituzione del Regno d’Italia nel 1861, “la nazione è fatta, bisogna fare gli
italiani”.
Il processo di nazionalizzazione degli stati europei, nel senso di affermazione
dell’ideologia nazionalista di quegli stati, si sviluppa tra l’Ottocento e il
Novecento è sbocca nei totalitarismi europei del Novecento e nei conflitti mondiali tra il 1914 e il 1945. Quei conflitti
divennero mondiali innanzi tutto perché coinvolsero un mondo
ancora dominato in gran parte da potenze europee. Coinvolsero anche il Giappone che, all’epoca,
agiva politicamene al modo dei nazionalismi europei.
16.
Noi e i problemi europei
16.1 Perché e, soprattutto, per chi scrivo queste note?
Scrivo principalmente per persone di fede che vogliono fare tirocinio di democrazia. Faccio il lavoro che una volta si attendeva
dai più anziani: spiegare il senso delle cose sulla base di un’esperienza
personale e tramandare conoscenze e tradizioni. E’ ciò che dovrebbe essere di
routine nella formazione religiosa di secondo e terzo di livello, ma non mi
pare che in genere si riesca a farlo. Il tempo in cui si riesce ad avere la
disponibilità della gente è poco. Si prova a raccontare un po’ di storia sacra
e si spera di poter completare in seguito. Molti però si allontanano prima che
si possa approfondire. Allora può avvenire che il fedele non sia preparato a
fare quello che da lui ci si attende oggi in religione, vale a dire di cercare
di fare dell’umanità un’unica famiglia. Non è cosa che possa
riuscire incollando progressivamente famiglia a famiglia,
fino a fare di tutta l’umanità un’unica tribù. L’unificazione
pacifica della famiglia umana, questa è l’espressione che
ricorre in religione per definire quell’obiettivo strategico, richiede di fare
politica, che appunto è l’arte di governare le società umane in modo che la
gente, tentando di fare i propri interessi, non metta mano alle armi e cominci
ad ammazzarsi. E, ormai, si tratta di fare politica a livello continentale,
vale a dire almeno europeo, perché, a causa delle vaste interconnessioni
che si sono create in tutti i campi nell’umanità contemporanea, anche i
problemi si presentano su quella scala. Ce se ne accorge subito quando si tenta
di far fronte a problemi continentali con le risorse di un singolo stato
nazionale. Se, ad esempio, consideriamo l’ultima fase di recessione economica,
iniziata dal 2008 negli Stati Uniti d’America e ancora in corso, capiamo bene
che essa avrebbe travolto gli stati nazionali europei se non ci fosse stata una
reazione a livello europeo, resa possibile dall’esistenza di istituzioni
europee forti. Analogamente accade nella questione delle migrazioni verso
l’Europa di popoli dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa orientale. Nessuno
stato nazionale ha la forza di farvi fronte da solo e, in particolare, non può
farlo chiudendo le frontiere, vale a dire immaginando di chiudere
le porte di uno stato come si fa quando la sera si danno le
mandate alle porte di casa. Perché la storia, anche recente, insegna che si
possono impedire migrazioni dall’interno verso l’esterno, ma non nella
direzione contraria. Vale a dire che è possibile impedire a cittadini,
quindi a persone radicate in un sistema politico-istituzionale nel quale hanno
riconosciuta un’identità, di andarsene all’estero, ma nessuno è mai
riuscito a impedire del tutto ad apolidi, vale a dire a
persone che hanno perso o rifiutato quell’identità politico-istituzionale,
di entrare in un territorio governato da un diverso sistema
politico istituzionale, anche se molto deciso ad ostacolarli con misure di
polizia e addirittura militari, e ciò in particolare in tempi di crisi
economica, nelle migrazioni da posti dove si vive male, e addirittura
malissimo, a posti dove si vive meglio. I politici che predicano cose diverse
valgono poco, perché non tengono conto della lezione della storia e quindi sono
come guide cieche.
Ho scritto di lezione della
storia. Questo è molto importante: per fare politica occorre
conoscere almeno un po’ di storia, perché in politica non si parte mai da zero.
E’ come quando in stazione si sale su un treno e bisogna informarsi su dove va
e prendere quello che va dove vogliamo andare. E, innanzi tutto, decidere
dove si vuole andare.
Si parla di ricorsi storici:
date certe condizioni, eventi storici si ripetono simili. Questo è un
altro buon motivo per informarsi di storia.
Quando a scuola, da ragazzi, ci si
annoia nelle lezioni di storia, forse è perché non si ha ben chiara
l’importanza che essa ha e avrà sempre più, da adulti, per la propria
vita. Certo, è acqua passata, ma conta, perché l’umanità la prende
come riferimento per dare un senso a ciò che fa e decide. Essa è tanto
importante da essere ritenuta costitutiva del concetto di nazione,
che sta dietro sistemi politico-istituzionali molto vasti e potenti, tanto da
determinare gran parte di ciò che i singoli esseri umani possono essere,
diventare, fare. Ad esempio il Regno d’Italia, costituito nel 1861 e
sostituito nel 1946 all’esito di un referendum popolare dalla Repubblica
italiana, era uno stato nazionale. E la nostra Repubblica, lo
è? Che ne pensate?
16.2 La domanda è: “La Repubblica italiana è un nazione?”.
Non ho chiesto se l’Italia sia una nazione, ma se lo
fosse la nostra Repubblica. C’è una differenza ed essa consiste nella mitologia che
c’è dietro l’idea di nazione.
Un mito è un
storia semplificata e piuttosto fantasiosa, e per questo in genere anche
affascinante, che spiega il senso che si vuole
dare a un storia che spesso senso coerente non ha o se lo ha è molto più
complesso di quello che si preferirebbe fosse. Diversi miti sono contenuti
nelle scritture sacre delle religioni. Li troviamo anche nelle nostre.
Definiscono più quello che si vorrebbe essere, e in definitiva diventare,
più che quello che si è veramente stati e si è. L’idea di Italia che
fu alla base del nostro nazionalismo ottocentesco, il quale produsse un
movimento politico e militare di popolo e varie guerre fra
stati, conteneva molti miti. Se, invece che all’Italia, mi
riferisco alla Repubblica italiana mi impegno a osservare ciò che
è, facendo a meno di quei miti.
Un ampio utilizzo della mitologia fu
invece fatto dal regime fascista storico, che dominò il Regno d’Italia dal 1922
al 1945. Lo costruì scegliendo arbitrariamente nella storia italiana alcuni
eventi e strumentalizzandoli per indicare, in realtà, ciò che voleva che l’Italia divenisse.
Il fascismo storico pensò sé stesso come erede legittimo della romanità,
e in particolare di quella espressa dall’antico impero romano stanziato in
Italia, quello che visse nell’era che si definisce classica,
centrato su Roma (la storia dell’impero romano dalla fine del terzo
secolo della nostra era fu invece sempre più centrata su Bisanzio, in Oriente).
Riteneva di essere veicolo di civilizzazione e in questo integrò nella sua
ideologia la nostra confessione religiosa: questa fu la base ideologica
della Conciliazione conclusa tra il Regno d’Italia e la Santa
Sede (che significa il papato romano), ma mediata dal fascismo italiano: per
quest’ultimo e l’organizzazione ecclesiastica quei patti furono
ben più di un accordo di compromesso. Religione e partito politico
totalitario si rafforzarono a vicenda, cessò l’ostilità del regime verso la
religione e quella del potere ecclesiastico verso il regime, sulla base di una
precisa delimitazione di campo d’azione, sia pure con iniziali recrudescenze di
conflitti verso quelle organizzazioni di stampo religioso che non rispettavano
i confini posti da quegli accordi. Questa è oggi una memoria dolorosa,
spiacevole, in religione e in genere si preferisce costruire sopra quei fatti,
avvertiti ora come disonorevoli, un mito resistenziale
delle nostre organizzazioni religiose coeve al fascismo che non corrisponde
alla realtà se non in minima parte. Negli anni ’30 la nostra religione,
in Italia, si fascistizzò e la religione fu integrata nel nazionalismo
fascista. Le guerre coloniali del regime, in Libia e in Etiopia, vennero
presentate anche come imprese di civilizzazione religiosa e questo nonostante
che in Etiopia si combattesse contro cristiani di antichissima tradizione. Non
ci fu all’epoca una reale opposizione dei nostri capi religiosi, in particolare
del papato. Il fascismo storico immaginò una nazione imperiale
cristiana e in questo non trovò reali smentite da parte di quello che,
allora come oggi, concepiva sé stesso come un impero religioso e storicamente
aveva tenuto a marcare nettamente i confini per difendersi dalle ingerenze dei
poteri civili. La Conciliazione fu definita come opera
della Provvidenza e ci si condusse poi di conseguenza per circa una decina
d’anni. Poi cominciarono effettivamente le prese di distanza.
L’idea di nazione che
stava dietro i moti di unificazione nazionale era più simile a quella che ai
tempi nostri ne abbiamo e derivava dal pensiero di Giuseppe Mazzini
(1805-1872). Si pensava che vi fosse un popolo umiliato da potenze
straniere perché diviso e che si dovesse elevarlo alla
sovranità, innanzi tutto facendone un unico stato. Nel pensiero di Mazzini
questo doveva avvenire realizzando anche una democrazia, quindi un sistema
politico istituzionale che consentisse un’ampia partecipazione popolare alle
decisioni di governo. Mazzini aveva un’idea religiosa di questa democrazia di
popolo: la pensava fondata su principi supremi di origine divina. In questo
contesto il moto democratico avrebbe dovuto coinvolgere, e liberare, tutti i
popoli europei e affratellarli. Questa ideologia si
manifesta chiaramente nelle parole del nostro inno nazionale Fratelli
d’Italia.
L’idea di nazione del
fascismo era diversa e ne ho scritto sopra.
L’idea di nazione che
prevalse tra le forze politiche che, dopo aver vinto la guerra di
resistenza contro il fascismo, progettarono la nostra Repubblica era simile a
quella del Mazzini, ma con molto di più. Infatti andava oltre il
concetto di nazione che era stato alla base del movimento per
l’unificazione nazionale italiana e, rovesciando l’ideologia nazionalista
fascista, prevedeva un ordinamento politico istituzionale in cui non si
distinguesse tra le persone sulla base della razza, della lingua e della
religione (art. 3 della Costituzione), tre elementi che si erano ritenuti
fondamentali per definire la nazione.
Di fatto, la Repubblica italiana iniziò la sua vita
come stato nazionale, nel senso di stato che comprendesse tutti gli
italiani di stirpe, lingua, cultura e religione, come aveva voluto essere
quello fascista, ma senza più l’ambizione imperiale, anzi con l’impegno di
limitare le proprie pretese nazionalistiche se ciò fosse necessario per un
assetto internazionale pacifico sulla base di accordi con gli tri stati. Molti
dei miti del fascismo sopravvissero nell’era della repubblica
democratica. In particolare quello che integrava nell’ideologia nazionale la
nostra religione. Ma progressivamente ad essi si sostituì una realtà molto
diversa basata su sviluppi caratteristici del nuovo mondo in cui l’Italia si
era trovata a vivere dopo l'affrancamento dal fascismo. Nell’ideologia
nazionalista, come è vissuta oggi in concreto dalla gente, l’etnia, quindi la
stirpe, e la religione hanno molto meno importanza di un tempo, sono molto meno
caratterizzanti. Ci si è molto mescolati tra le genti delle varie regioni
italiane, che in gran parte corrispondono alle ripartizioni territoriali degli
stati precedenti all’unificazione nazionale. La lunga pratica della libertà di
coscienza ha permesso scelte diverse in materia religiosa, in particolare anche
di ateismo o di indifferenza religiosa, senza che ciò sia più sentito
come squalificante sul piano civile. Hanno avuto invece un potentissimo ruolo
nella costruzione di una nuova identità nazionale l’istruzione pubblica di
massa e il sistema radiotelevisivo pubblico, quindi poi l'affermarsi
dell'italiano scolastico sui dialetti, la vasta partecipazione ad un mercato
del lavoro su scala nazionale resa possibile dall’espansione economica vissuta
in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e, soprattutto, il
consumismo popolare, che ha creato modi di vivere, e di desiderare, quindi
anche prospettive di vita, molto simili in tutte le
regioni d’Italia. La nostra Repubblica però sta ancora diventando una
nazione come non c’è mai stata prima: la costruzione nazionale è quindi
ancora in divenire. L’integrazione europea ha poi consentito ai più
giovani di iniziare a costruirsi un’identità civica continentale, con
sempre più fitte relazioni con le genti europee di altre lingue e culture. Ed è
sbagliato, quando ci riferisce ai nostri giovani che studiano o lavorano in
altri stati dell’Unione Europea, parlarne come di migranti, come
gli italiani che emigrarono in massa alla volta dell’America e dell’Australia
dalla fine dell’Ottocento fino più o meno agli anni ’30 del secolo scorso, ma
anche quelli che emigrarono nel Nord Europa in epoca più recente. I giovani di
oggi girano l’Europa da cittadini europei, partecipi di una cultura politica,
istituzionale, economica e sociale sovranazionale nella quale sta producendosi
una nuova nazionalità europea, simboleggiata dalla bandiera a
dodici stelle in campo azzurro dell’Unione Europea.
Su questo nuovo contesto nazionale ed
europeo si è abbattuta la fase di recessione economica che stiamo
attualmente vivendo, derivata fondamentalmente dalla globalizzazione
dell’economia, e stanno incidendo in maniera sempre più rilevante le migrazioni di
popoli dall’Europa orientale, dall’Africa, dall’Asia e dall’America
Latina, non attirati tanto dal nostro benessere economico, ma innanzi tutto
dalla possibilità concreta di una vita libera, sicura e
dignitosa. Si tratta di popoli che prendono sul serio le
nostre dichiarazioni di principio su grandi valori umani. A fronte
di questo c’è chi propone di tornare al vecchio nazionalismo di tipo clerico-fascista,
e con questa espressione intendo riferirmi a ciò che uscì dalla Conciliazione di
cui ho scritto. Ma, a prescindere da tutte le altre
controindicazioni, quell’ideologia era strumento di una politica di espansione
militare in Europa e in Africa, mentre ora si vorrebbe bloccare l’arrivo
dei nuovi venuti, non di andare a invadere i posti da dove ci giungono. E anche
il vecchio nazionalismo che sorresse il processo di unificazione statale
italiana rispondeva a problemi diversi: si proponeva di mandare fuori
d’Italia le potenze straniere che all'epoca la occupavano, e in
particolare l’Impero austriaco, non di contrastare migrazioni di
massa da altri continenti verso l’Italia che all'epoca non solo non
c’erano ma non erano nemmeno immaginabili. Ma anche l’ideologia nazionalista
repubblicana, come si è venuta costruendo dalla metà degli anni Quaranta ad
oggi, non sembra andare bene perché, in definitiva, si limita a unire,
legandoli culturalmente, gruppi, ceti, classi, etnie, movimenti, religioni che
già erano insediati da noi da lungo tempo e hanno beneficiato dello statuto
di eguaglianza in dignità riconosciuta dal nuovo assetto politico
istituzionale democratico, ma sembra insufficiente per costruire
l’integrazione delle masse di migranti che, provenienti non solo
da altri continenti, ma da altre culture, giungono tra noi
rivendicando la medesima eguaglianza, come diritto umano
fondamentale. Che fare dunque? Che ne pensate? Innanzi tutto: vi
ponete il problema del che fare? L’attuale dottrina sociale, veramente tanto
diversa dall’antico clerico-fascismo che in Italia si produsse dopo la Conciliazione del
1929, ci impegna a pensarci. E quando scrivo “ci impegna” significa
che non ci spinge solo a rifletterci sopra, ma a progettare e
costruire una nuova realtà sociale, in linea con i nostri valori di fede: questo
è politica.
17. Un mandarino per Teo
[Dal Manifesto
di Ventotene, 1941, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
La civiltà
moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà,
secondo il quale l'uomo non deve essere
un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice
alla mano si è venuto imbastendo un grandioso
processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo
rispettino:
1. Si è affermato l'eguale
diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato nelle sue caratteristiche
etniche geografiche linguistiche e storiche, doveva trovare nell'organismo
statale, creato per proprio conto secondo la sua particolare concezione della
vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni,
indipendentemente da ogni intervento estraneo.
L'ideologia
dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha
fatto superare i meschini campanilismi
in un senso di più vasta solidarietà
contro l'oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli
uomini e delle merci; ha fatto estendere,
dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le
istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo
imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati t talitari ed allo
scatenarsi delle guerre mondiali.
La
nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza
degli uomini, che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore
uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più
efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società
umana. E' invece divenuta un'entità
divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al
proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono
risentirne. La sovranità assoluta degli
stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo
"spazio vitale" territori sempre più vasti che gli permettano di
muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da
alcuno. Questa volontà di dominio non
potrebbe acquietarsi che nell'egemonia dello stato più forte su tutti gli altri
asserviti.
In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei
cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per
rendere massima l'efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati
come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà
dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili,
rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi; la scuola, la scienza, la produzione,
l'organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il
potenziale bellico; le madri vengono
considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli
stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più
tenera età al mestiere delle armi e dell'odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla
dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar
servizio militare; le guerre a
ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l'impiego, gli averi ed a
sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce veramente il
valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decenni di sforzi
compiuti per aumentare il benessere collettivo.
******************************************************
Nel
1960 c’era al teatro Sistina di Roma la commedia di Garinei e Giovannini di
Pietro Garinei e Sandro Giovannini Un
mandarino per Teo, nella quale il diavolo proponeva a un uomo di ereditare
un mucchio di soldi uccidendo un mandarino in Cina con il premere il pulsante di un campanello, senza rischiare
nulla. Il protagonista lo fa, riceve un
anticipo dell’eredità, si dà alla bella vita, ma poi gli viene rivelato che si
tratta di firmare un patto con il diavolo, ha una crisi di coscienza e, per
liberarsi dalla soggezione al demonio, restituisce tutti il denaro ricevuto. La
trama di quella commedia propone il dilemma di coscienza in cui tutti noi
cittadini europei ci troviamo. Infatti il nostro benessere dipende dalla
sofferenza di gente lontana, di lavoratori-schiavi che producono gran parte
delle nostre cose di nostro uso quotidiano, dal vestiario al computer con il
quale sto scrivendo, per salari bassissimi, ciò che rende possibile i prezzi
bassi che vengono praticati da noi. Si tratta di persone umane, ma, appunto,
molto lontane, in genere in Asia, e allora non ci facciamo tanti problemi. Ma
lavoratori schiavi ci sono anche da noi, ci raccontano le cronache
giornalistiche e ci confermano le inchieste giudiziarie: in particolare sono
quelli che raccolgono il pomodoro e diversi tipo di frutta. Ma la gran parte di
loro sono irregolarmente in Italia e quindi non protestano per non rischiare
guai con la polizia e la legge. Oltre a ciò, c’è altra gente che lavora in
condizioni difficili, perché costretta a ritmi di produzione molto serrati e
duri, e tra di essa ci sono anche molti giovani italiani. In genere per tutte
queste persone il lavoro è precario, vale a dire che possono essere licenziati
senza tanti problemi. Chi è in queste condizioni difficilmente protesta e si
associa ai sindacati, per non subire ritorsioni sul lavoro. C’è un libro,
disponibile anche in formato digitale, che racconta tutto questo, di Giovanni
Arduino e Loredana Lipperini, Schiavi di
un dio minore - Sfruttati, illusi e
arrabbiati, UTET, 2016, €11,40 in
formato cartaceo, €7,99 in ebook. Ve
ne consiglio la lettura, così, in particolare avrete qualche idea in più quando
in confessione non vi viene in mente nulla di più dei soliti peccati di routine, sesso, maldicenza, messe
saltate. Noi Occidentali siamo tutti colpevoli di un tremendo peccato sociale
che consiste nel trattamento ingiusto di lavoratori lontani, che non
conosciamo, un peccato di quelli che, è scritto, grida, nel senso che trova ascolto soprannaturale molto più di
altri. E’ la conseguenza di un ordine sociale ingiusto a livello globale del
quale ci siamo fatti complici, per interesse. Cambiare non si può con le risorse
di un singolo stato nazionale.
Bisogna infatti incidere su un sistema che si estende a livello
intercontinentale. Ma, in fondo, vogliamo veramente cambiare le cose? Eppure
queste cose stanno cambiando anche noi, perché i patti con
il demonio sono sempre distruttivi per la parte debole, vale a dire per
l’essere umano che li conclude. Ecco che allora questo sistema sta privando del
futuro i nostri figli.
Uno
dei maestri del pensiero che più chiaramente ci ha spiegato il problema è stato
l’anziano sociologo polacco Zygmunt Bauman, morto qualche giorno fa. Lo ha
fatto con diversi libri divulgativi (la sociologia contemporanea è una scienza
molto complessa, in cui si impiegano sofisticati modelli di matematica
statistica), a partire dal più famoso: Modernità
liquida, del 2000, che è in commercio in traduzione italiana edito
da Laterza. Se dovessi programmare un ciclo di incontri in parrocchia con
persone dell’età dell’università, tra i 18 e 25 anni, lo metterei come libro di
testo. A proposito: ricordate bene che non si ragiona insieme su nulla senza
avere un buon libro di testo. Ci deve essere una base comune. E le Scritture
non bastano. Francesco d’Assisi sbagliava pensandola diversamente: sbagliava
già ai suoi tempi, ma tanto più il suo pensiero in questo non va bene ai nostri
tempi e, soprattutto, non va bene per chi voglia elevarsi alla cittadinanza e
abbia bisogno di capire realisticamente ciò che accade.
C’è
stata in Europa un’evoluzione storica che ha portato agli stati nazionali, dal Duecento al Cinquecento. Ma in Italia siamo
arrivati molto più tardi, nell’Ottocento. E quando ci si è arrivati, si è
prodotto un grosso problema religioso, perché il papato possedeva uno degli
stati che si voleva abolire per realizzare l’Italia unita.
Ad un
certo punto, le masse, sviluppandosi istituzioni democratiche, hanno contato di
più negli stati nazionali, che hanno iniziato a occuparsi della gente comune
sviluppando politiche di giustizia sociale e di sviluppo collettivo. E’ a
questo che si riferirono gli autori del Manifesto
di Ventotene, scrivendo che “L'ideologia
dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso”, per il quale
furono superati meschini
campanilismi e furono estesi, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni
più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Poi però segnalano l’involuzione degli stati
nazionali, che guidati da oligarchie liberate o non sufficientemente trattenute
dai vincoli democratici si impadronirono dei loro popoli facendone strumento di
una politica di potenza imperialista, diretta a imporre l’egemonia di uno stato
sugli altri. Ebbero in questo, in particolare, l’immagine dell’involuzione del
Regno d’Italia, lo stato nazionale italiano costituito nel 1861, a seguito
della fascistizzazione del regime politico. L’istituzione della Repubblica
italiana, nel 1946, andò in senso contrario, riportando lo stato nelle mani
della gente comune, attraverso processi democratici che, per la prima volta in
Italia, coinvolsero le donne. Tra le masse femminili più preparate a questo
nuovo impegno politico ci furono le donne dell’Azione Cattolica, che dettero un
contributo determinante alla politica nazionale, sia con loro voto che con
l’impegno nell’Assemblea Costituente e poi in Parlamento. Al centro dell’impegno del nuovo stato
nazionale democratico furono le riforme sociali, in ogni campo del lavoro, a
fini di giustizia sociale e di estensione del benessere collettivo alle masse. Presto si capì che questo lavoro richiedeva
collaborazione internazionale, in particolare a livello europeo, e si
progettarono le istituzioni sovranazionali dalle quali, in un lungo processo
dal 1951 al 2009 scaturì la nostra nuova Europa, che non è solo un’istituzione
dei banchieri, mercanti e commercianti, come ritengono alcuni politici
populisti di oggi, ma è centrata su un catalogo di diritti fondamentali, che potete leggere nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata nel
2000 a Nizza ed entrata in vigore, anche come legge vigente nella Repubblica
italiana, il 1 dicembre 2009 (sul Web:
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex:12016P/TXT).
Bauman ha spiegato che l’economia
globalizzata, dove si produce, si spostano capitali (il denaro impiegato nella produzione nel commercio) e commercia secondo criteri
condivisi in tutto il mondo come se fosse un'unica nazione, ha sovrastato il
potere degli stati nazionali e delle stesse istituzioni politiche
sovranazionali, esprimendo un potere anonimo, non centrato quindi su uno o più imperatori del mondo, ma effettivo, che
viene spesso evocato con l’espressione “i
mercati”. Le vite della gente comune sono
asservite ad esso, in particolare quella che è legata ad un certo posto
e non ha né la voglia né la possibilità di spostarsi. In particolare si vive in
una crescente condizione di insicurezza sul proprio destino, a riguardo del
lavoro ma anche in altre cose, come la salute e la sicurezza da aggressioni di
vario tipo. Si ha la sensazione che il mondo in cui si vive sia divenuto
instabile, che valga fino a nuova
notifica. Tutto può cambiare molto velocemente e la gente è invitata ad
adattarsi a questa nuova situazione. Anche i governi degli stati nazionali,
quelli democratici come quelli non democratici, e addirittura il Presidente
degli Stati Uniti d’America, che per ora rappresenta il massimo del potere
mondiale che sia oggi attribuito ad una persona, non ci possono fare molto. Ci
viene così imposto un nuovo stile di vita in cui il saper fare conta molto meno
e invece conta di più il saper essere,
le relazioni che si riescono a sviluppare, ma senza legami forti, in maniera
tale da potersene liberare in un secondo quando non servono più. E’ la
mentalità dei consumatori dei nostri tempi, che vaga in mezzo a offerte commerciali
che sembrano infinite, per cui l’ultima cosa a cui si pensa è di concentrarsi
su un determinato stile di vita, perché si pensa che il benessere consista nel
cogliere tutte le opportunità che all’infinito si presentano.
In questo modo le relazioni veramente significative per le persone divengono
più rare, vengono sentite come limitanti: è questa la causa dell’apparente
crisi dell’istituzione matrimoniale. Ed essendo tutti presi dal proprio
benessere, non si pensa alla sofferenza che c’è dietro la produzione di tante
cose di uso quotidiano, che arraffiamo senza tanti problemi dagli scaffali dei
grandi magazzini e poi presto buttiamo. La nostra è diventata una civiltà dello scarto ci dice il nostro Padre Francesco, e tra gli
scarti sono finiti anche gli esseri umani. Ad un certo punto può accadere anche
a noi stessi di venire scartati se, ad un certo punto, non riusciamo a tenere
il ritmo.
Di
questi tempi c’è in Europa un ritorno del nazionalismo populista, anche da noi.
Ma il neo-stato nazionale, ormai
inutile a salvarci dal processo di scarto
dell’economia globalizzata, è
pensato non come difesa dalle potenti forze che stanno guastando la nostra
vita, ma come forma di chiusura verso che vive i nostri stessi guai, per chiudere le porte alle sofferenze altrui, illudendosi così di
riuscire a trattenere per noi, solo per noi, le poche risorse rimaste. Il neo-stato nazionale è in fondo uno di quei meschini (e inutili) campanilismi disprezzati dagli autori del Manifesto di Ventotene.
Ma
l’evoluzione omicida dell’economia globalizzata non dipende da potenze
soprannaturali: anche se il potere non ha più il volto dell’uomo forte nel quale in passato veniva impersonato e quindi è anonimo un po’ come una grande società
di capitali della quale non si conosca il presidente del consiglio di
amministrazione, è tuttavia semplicemente un’istituzione umana, che può essere
descritta e capita, anche se il suo funzionamento è divenuto bizzarro e
imprevedibile. Il potere globale è un
insieme di norme e di istituzioni, concordate dagli stati nazionali e dalle
istituzioni sovranazionali, per cui si è uniformato il modo di produrre,
commerciare e trasferire capitali. Si è creato un sistema globale che ha
lasciato campo libero ad una nuova classe dirigente globale, libera di muoversi
senza tener conto delle frontiere nazionali
per fare i propri interessi, mentre
la gran parte dell’umanità vi è ancora asservita, come i disperati i quali,
prendendo esempio da quelli che Bauman chiama cittadini globali, cercano di raggiungere l’Europa per salvarsi da
vite miserabili. Questo nuovo potere, sostiene Bauman, non ha più bisogno di
estesi apparati di polizia per tenerci sotto controllo: siamo noi stessi a
rendercene schiavi, adottando l’ideologia e lo stile di vita che ci separano
dagli altri, dei quali non facciamo più conto anche se stanno molto male. In
definitiva noi, da consumatori globali,
stiamo divenendo insieme complici e schiavi di questo sistema. Gli attori
principali di questo scenario sanno bene chi sono le vittime del sistema e le
cause delle loro sofferenze, ma ci invitano a disinteressarcene. E’ la proposta
che il demonio fa a Teo, il protagonista della commedia che ho citato
all’inizio. E noi, aderendo all’invito, firmiamo una specie di patto con il
demonio, autodistruttivo. La soluzione? Bauman la indica: riscoprire la
cittadinanza vera, le relazioni forti, e unirci per cambiare un sistema che sta
prendendo una brutta piega. Si tratta di costruire una vera cittadinanza globale, cogliendo così le
opportunità positive della globalizzazione,
in modo che ciascun essere umano si senta in tutto il mondo a
casa propria. In altre parole: fare
dell’umanità un’unica famiglia, secondo i nostri auspici religiosi. Questo
però richiede anche una giustizia sociale
su scala globale, come è spiegato
nell’enciclica Laudato si’. Non
potremo salvarci se non cambiando molto i nostri stili di vita, facendo posto
agli altri.
Come si vede è una sfida
più estesa di quella che si presentava agli autori del Manifesto di Ventotene, i quali avevano essenzialmente davanti
problemi su scala europea e proponevano
soluzioni europee. Ai tempi nostri l’Europa
è solo il punto di inizio, ma un
punto di inizio indispensabile perché i problemi posti dalla
globalizzazione dell’economia non possono che avere soluzioni su scala
continentale.
18. In una fase di transizione
[Dal Manifesto di Ventotene, scritto del 1941
da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Gli stati totalitari sono quelli che hanno reali nel modo più
coerente la unificazione di tutte le
forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono
perciò dimostrati gli organismi più adatti all'odierno ambiente internazionale.
Basta che una nazione faccia un passo
più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle
altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di
sopravvivere.
****************************************************************************
Qualche giorno fa è morto l’anziano sociologo polacco Zygmunt Bauman,
autore di numerosi scritti divulgativi di grande successo che cercano di far
capire alla gente comune che cosa le accade intorno. Ha osservato che con
la globalizzazione, il processo culturale ed economico a livello
mondiale che ha molto ridotto le differenze tra i popoli e li ha portati a
legarsi in una fitta rete di relazioni divenendo interdipendenti, gli stati
nazionali hanno molto meno potere e si sono allentate, divenendo
da solide a liquide, le
relazioni sociali al loro interno.
Dopo la morte di Bauman si stanno
riproponendo alcuni sui interventi televisivi e l’altro ieri mi è capitato di
guardarne uno su Rai Storia, in cui si parlava dell’evoluzione
della situazione europea. Bauman ha esposto a grandi linee il suo pensiero.
Lo stato nazionale è nato per esercitare un forte
potere di controllo su una popolazione che condivide molte caratteristiche
culturali ed etniche, unificandone le forze e
rendendosi così autosufficiente, ha detto. Gli stati
nazionali dal Cinquecento fino alla metà del secolo
scorso hanno espresso il massimo potere politico e nazionale delle
collettività umane. E tra glistati nazionali più
potenti ci sono stati quelli totalitari, vale a dire quelli in cui
il controllo al loro interno era arrivato al massimo grado, in
cui le istituzioni statali non ammettono il dissenso e pretendono di regolare
ogni aspetto della vita collettiva. Un esempio di stato nazionale molto
potente non totalitario è stato l’Impero britannico. Un esempio di stato
nazionale totalitario molto potente è stata la Germania sotto il regime
nazista. L’Unione Sovietica, che comprendeva gli immensi territori conquistati
dall’Impero russo degli Zar, non era invece uno stato nazionale ma una Federazione
di stati, sotto fortissimo controllo ideologico totalitario.
Dalla dissoluzione dell’Unione sovietica è scaturito un nuovo stato
nazionale russo. Attualmente i sistemi politici più potenti nel
mondo sono ancora stati nazionali e sono quelli degli Stati
Uniti d’America, della Federazione Russa e della Repubblica popolare di Cina.
Ma anche questi stati soggiacciono ora a un potere più forte e
impersonale, sostiene Bauman, che è dato dal quadro giuridico ed economico
delle relazioni con le quali essi stessi, per convenienza di interesse, si sono
legati e che di solito si evoca, anche se descriverlo riesce difficile, con il
nome di mercati.
Dal Cinquecento gli stati nazionali in
fase di formazione o consolidamento si sono trovati ad affrontare la crisi
molto grave determinata dalle divergenze religiose al loro interno, ma anche
dai problemi di coesistenza in tempi in cui essi divenivano sempre più potenti
e sviluppavano mire di conquista nei confronti dei confinanti. Furono quindi
travagliati da un lungo periodo di conflitti bellici che terminarono con
accordi di pace conclusi nella provincia tedesca della Vestfalia nel 1648,con i
quali si confermò il principio affermato circa un secolo prima ad Augusta
(città tedesca. In tedesco Ausburg) che il sovrano avesse il
potere di determinare la religione di stato, ma nel contempo
si separarono gli affari religiosi da quelli di stato, e furono risolte varie
questioni territoriali. Da ciò si ritiene che sia sorta l'Europa moderna. Per
altro questa sistemazione fu molto più efficace a garantire il controllo all’interno degli
stati nazionali, sulle popolazioni soggette, che a mantenere un
ordine internazionale pacifico. Dopo la lunga fase di
conflitti bellici tra il 1914 e il 1945 scaturì infine un nuovo ordine
internazionale in cui gli stati nazionali, al fine di
mantenere la pace tra di loro, accettavano di rispettare le decisioni di grandi
istituzioni sovranazionali create sulla base dell’affermazione di grandi
principi umanitari, come le Nazioni Unite e le varie istituzioni
sovranazionali, che in un processo durato dal 1951 al 2009, sono scaturite
nell’attuale Unione Europea, organizzata a livello continentale. Sembrava
realizzato l’obiettivo di un forte controllo interno e
di unefficiente controllo internazionale. Di fatto dal 1945 non sono più
esplosi conflitti di portata mondiale, anche se gravi situazioni di
tensione sono rimaste latenti e quindi sono rimaste le condizioni e,
soprattutto, le organizzazioni militari che potrebbero farli scoppiare. E, in
effetti, come sostiene i Papa, se consideriamo in uno sguardo d'insieme tutti i
conflitti regionali che ci sono stati potremmo anche parlare di guerra
mondiale a pezzi. Ma, in effetti, qualcosa come la Seconda guerra
mondiale non si è finora ripetuta.
Con la globalizzazione sia il controllo interno che
quello esterno sono divenuti molto meno efficienti.
Siamo quindi, ha detto Bauman, in una fase di passaggio ad un
diverso ordine internazionale, che necessariamente sarà a
livello globale, per le fitte relazioni internazionali che consentono la
sopravvivenza di un'umanità ormai fatta di circa sette miliardi di persone. Ma
sembra difficile poterlo istituire con accordi internazionali come quelli di
Vestfalia del 1648, perché gli stati nazionali si sono
molto indeboliti, perdendo il controllo della situazione, divenendo soggetti
all’economia globalizzata della quale essi stessi hanno creato i
presupposti giuridici, e anche le istituzioni sovranazionali, animate dagli
stessi stati nazionali, sono entrate in crisi, perché, di fronte alle
difficoltà, ogni sistema politico è ora tentato di fare da sé, chiudendosi di
fronte a problemi che sembrano provenire da fuori.
Gli stati nazionali si sono indeboliti
perché l’economia è stata resaextraterritoriale e
sfugge al loro controllo, così come anche la classe di imprenditori e dirigenti
apicali d’impresa che la anima. Questo ha comportato dei vantaggi per le
popolazioni: in Occidente ad esempio compriamo ancora a poco prezzo prodotti di
uso comune, ma di alta qualità, realizzati in Oriente. In Oriente una classe di
imprenditori si sta molto arricchendo con i profitti fatti in Occidente. Ne è
immagine evidente il velocissimo sviluppo urbanistico della Cina
continentale, le cui maggiori città industriali e la cui capitale assomigliano
sempre più al modello della città statunitense di New York. La gran parte degli
oggetti domestici di uso comune sono fatti in Cina, o comunque in Oriente,
anche il computer che sto utilizzando in questo momento. Però i prodotti
a tecnologia più sofisticata sono spesso ancora prodotti su progetto di imprese
occidentali. La protezione dei diritti di chi progetta i prodotti, che viene
definita proprietà intellettuale, è parte di quel sistema
normativo globale che consente la realtà economica dellaglobalizzazione,
in cui si può liberamente produrre e commerciare in tutto il mondo come se si
fosse sempre all'interno di un unico sistema politico, di un solo stato. Che
cosa consente agli Occidentali di prevalere ancora nel mercato
globale se, in definitiva, la gran parte di ciò che si produce è
realizzata in Oriente? Che cosa diamo in cambio? Fondamentalmente l’Occidente
vende ancora sé medesimo, il proprio modello di umanità, la propria civiltà
anche se prevalentemente nei suoi aspetti consumistici. Quando uno diventa
molto ricco in Oriente tende ancora a vivere, vestirsi, mangiare, divertirsi,
acquistare cose belle, istruirsi come i ricchi occidentali. Durerà? Per Bauman
siamo in una fase di transizione, quindi non durerà.
E’ difficile scorgere il futuro, la sua
evoluzione. Nel mondo ci sono tre grandi sistemi nazionali prevalenti:
quello statunitense, ancora democratico; quello russo, che ha elementi di
democrazia e di totalitarismo; quello cinese che è ancora totalitario.
Apparentemente essi stanno convergendo verso un modello che combina elementi di
democrazia e di totalitarismo, come nella Russia di oggi. Sono diventati
molto critici verso le istituzioni sovranazionali che finora hanno garantito la
pace mondiale. In particolare lo è stato il presidente statunitense eletto
Donald Trump. Nei giorni scorsi egli si è reso protagonista di una vera e
propria aggressione verbale all’Unione Europea, sostanzialmente invitando gli
stati suoi membri a lasciarla seguendo l’esempio britannico. Come fu scritto
nel Manifesto di Ventotene, osservando la situazione della politica
internazionale degli anni ’30 e ’40, gli stati tendono ad
imitarsi fra loro, quando si tratta disopravvivere e, in
particolare, ad imitarsi in ciò che li sembra rendere più potenti. La Cina e il
Giappone ne sono stati un esempio evidente: si sono occidentalizzati quando
l'Occidente ha avuto il dominio del mondo. Dal secondo dopoguerra, quindi
dalla caduta del fascismo e dall’istituzione della Repubblica, l’Italia fa
riferimento all’ordine politico intercontinentale centrato sugli Stati
Uniti d’America e realizzato dalla NATO, l’organizzazione politico-militare che
lega nord americani ed europei a scopi difensivi. Bisogna attendersi quindi che
l’ideologia del presidente eletto Trump trovi seguaci anche da noi. Essa è
condensata nello slogan “America first!”, vale a dire che prima di
tutto vengono gli interessi nazionali. Il presidente eletto Trump vuole ad
esempio rafforzare la frontiera con il Messico, costruendo una grande muraglia
per impedire l’immigrazione da quello stato, e propone agli europei di fare
altrettanto. La sua quindi è apparentemente una ideologia di
chiusura ai problemi del mondo. Essa è stata già seguita dai
britannici. Per l’Italia ci sarebbero difficoltà a farlo, perché il nostro
territorio è fatto di isole e da una penisola e quindi la gran parte
delle nostre frontiere sono marittime. Non si costruiscono muri sul mare. Ma
storicamente, come ho scritto l’altro giorno, nessun sistema politico, anche
quello che si è barricato dietro a muraglie, e l'antica Cina con la
sua Grande muraglia ne è l'esempio storico più
impressionante, è riuscito a impedire immigrazioni di apolidi.
Neanche gli Stati Uniti d’America ci riusciranno, per quanto potenti pensino di
essere. L’ideologia di chiusura serve sostanzialmente a dare
un’immagine di sicurezza all’interno per consentire agli
stati nazionali di recuperare un po’ del controllo sulle loro popolazioni che
hanno perso nell’era della globalizzazione. Ma è solo un’immagine,
perché la nostra sopravvivenza dipende ormai dalla fitta rete di relazioni,
innanzi tutto economiche ma anche culturali, che legano i popoli della terra,
per cui la soluzione dei nostri problemi o sarà globale o
non avrà alcuna efficacia, per cui si rimarrà soggetti a quel potere
impersonale di cui dicevo, che appare dominato dalla spietata
legge della natura, dove il più grosso mangia il più
piccolo e i più grossi lottano tra loro a rischio della vita.
Il punto, sosteneva Bauman, è che una
soluzione soddisfacente a livello globale non si può centrare sull’aumento
indefinito del PIL (Prodotto interno lordo), vale a dire della ricchezza
prodotta e dei conseguenti consumi, perché questo è insostenibile dal
punto di vista ambientale. Questo significa che sarà necessario scoprire un
nuovomodello di sviluppo e quindi poi una nuova civiltà,
in cui si dia di nuovo valore a ciò che veramente crea il benessere
umano, vale a dire a cose come rapporti umani positivi di vicinato, la
soddisfazione di far bene il proprio lavoro, e, aggiungo io, molto di ciò
che comprendiamo nelle cose della fede. Non si tratta quindi di consumare
di più, di avere di più, ma di essere diversi. L’alternativa
è la ripresa dei conflitti a livello globale, un nuovo bagno di sangue
come quello che ci fu tra il 1914 e il 1945. E’ questo che porterà, se non
corretta con decisione, la ripresa delle politiche di stato
nazionale con accentuazione totalitaria, per reprimere il dissenso
interno. Di questa insofferenza verso il dissenso cominciamo a notare qualche
segno nello stile di questi giorni del presidente eletto statunitense Trump,
con il fastidio che egli ha mostrato verso i giornalisti di organi di stampa
che sono stati critici nei suoi confronti.
Questa soluzione di un diverso
modello di sviluppo, come base di un nuovo ordine mondiale pacifico, e di diversi
stili di vita per attuare quel modello è al centro
dell’enciclica Laudato si’, diffusa lo scorso anno dal Papa, che in
parrocchia dovremmo adottare come libro di testo di un
gruppo di formazione religiosa di terzo livello, per giovani adulti che
vogliano rispondere a pieno all'impegno laicale che si richiede oggi in
religione, per cambiare il mondo secondo i valori di fede con un impegno
sociale e politico.
19. L’evoluzione della storia animata da formazioni sociali
[dal Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto
Rossi ed Eugenio Colorni]
La civiltà
moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà,
secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un
autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico […]
2.Si è affermato l'uguale
diritto per i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa
doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche
di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere, o almeno di
attenuare, molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dai regimi passati.
Ma la libertà di stampa e di
associazione e la progressiva estensione del suffragio rendevano sempre più
difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo.
I nullatenenti a poco a poco imparavano
a servirsi di questi istrumenti per dare l'assalto ai diritti acquisiti
dalle classi abbienti; le imposte
speciali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote
progressive sulle maggiori fortune, le esenzioni dei redditi minimi, e dei beni
di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l'aumento delle spese di
assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle
fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate
cittadelle.
Anche
i ceti privilegiati che avevano consentito all'uguaglianza dei diritti politici
non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di
realizzare quell'uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un
contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima
guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero
le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro
avversari.
D'altra
parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati
riunenti sotto un'unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e
complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai
loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante
baronie economiche in acerba lotta tra loro.
Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi
gruppi si valevano per meglio sfruttare l'intera collettività, perdevano sempre
più il loro prestigio, e così si
diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la
libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi
che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.
Di fatto poi i regimi totalitari
hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei
punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di
tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei dissenzienti,
ogni possibilità legale di correzione dello stato di cose vigente. Si è così assicurata l'esistenza del ceto
assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei
redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le
cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che
sfruttano i consumatori e fanno volatilizzare i denari dei piccoli
risparmiatori, dei plutocrati, che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili
degli uomini politici, per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio
esclusivo vantaggio, sotto l'apparenza del perseguimento dei superiori
interessi nazionali. Sono conservate
le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse
dalle possibilità di godere i frutti delle moderna cultura. E' salvato, nelle
sue linee sostanziali, un regime
economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero
essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle
energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei
desideri più futili di coloro che sono in
grado di pagare i prezzi più alti; un
regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si
perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna
corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il
campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono
costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità
d'impiego.
Per tenere immobilizzate e sottomesse le
classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di
lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi
di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo
governante e ad esso solo responsabili.
Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo
dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le
reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli
stati totalitari.
******************************************
Uno dei principali scogli da affrontare e
superare nell’affrontare i problemi dell’umanità contemporanea con animo
religioso, per fare nelle società il lavoro che ci si aspetta dai laici, è
quello del considerare il mondo che c’è intorno prevalentemente sotto il
profilo degli individui che lo compongono, non dei gruppi. Questo ostacola la
critica sociale che è al fondo di ogni riforma. La troviamo, ad esempio, molto
forte nell’enciclica Laudato si’,
diffusa lo scorso anno; più forte di come mai è stata prima. E lo è per una sua
particolarità che la distingue da tutti gli altri documenti del genere che sono
stati diffusi in passato: di fronte ad una società che non va bene, illumina movimenti che vi si oppongono; questo il
senso delle numerose citazioni di documenti di conferenze di vescovi di tutto
il mondo. E si propone di suscitare un moto
popolare che sostenga un cambiamento
radicale, un nuovo modello di sviluppo.
[dall’enciclica
Laudato si’, del 2015, n.13 e 14 “Il
mio appello”]
La sfida urgente di
proteggere la nostra casa comune
comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di
ogni sviluppo sostenibile e integrale, perché sappiamo che le cose possono
cambiare. […] L’umanità ha ancora la capacità di
collaborare per costruire la nostra casa comune […] Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo
costruendo il futuro del pianeta. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca
tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci
riguardano e ci toccano tutti. Il movimento ecologico mondiale ha già percorso
un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a
numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza.
L’ecologia
di cui si tratta nell’enciclica
menzionata è molto distante dal senso che le si attribuisce nella società
intorno a noi, come un’azione per preservare gli ambienti naturali dall’azione
distruttrice e inquinatrice delle attività umani, in particolare
dell’espansione urbanistica e dell’industrializzazione. Essa comprende infatti
anche la stessa umanità e, proponendosi un’ecologia
umana, quindi uno sviluppo
sostenibile, essa è essenzialmente politica,
e i movimenti a cui si accenna in quel documento sono politici. Se leggiamo con attenzione la Laudato si’ vi cogliamo
l’eco della critica sociale che troviamo anche nel Manifesto di Ventotene, anche se espressa con terminologia inusuale
nel gergo politico consueto.
[Dall’enciclica
Laudato si’, n.139]
Quando parliamo di “ambiente”
facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e
la società che la abita. Questo ci
impedisce di considerare la natura come
qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo
inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati. Le ragioni per le
quali un luogo viene inquinato richiedono
un’analisi del funzionamento della società, delle sua economia, del suo
comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà. Data l’ampiezza dei cambiamenti,
non è più possibile trovare una risposta specifica e indipendente per ogni
singola parte del problema. E’ fondamentale cercare soluzioni integrali che
considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi
sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale,
bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la
soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per
restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura
della natura.
Il Manifesto
di Ventotene e la Laudato si’ presentano significative assonanze, che le
manifestano come parte di un unico movimento
di critica sociale.
Segnalo ad esempio:
[dall’enciclica
Laudato si’]
203. Dal momento che il mercato tende a creare
un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone
finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese
superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma
tecno-economico.
[dal
Manifesto di Ventotene, nel brano sopra citato]
E' salvato, nelle sue
linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze
di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali
per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla
soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i
prezzi più alti.
La politicità del magistero
sociale del Papa è ciò che lo rende veramente capace di indurre il cambiamento
che serve per fronteggiare i problemi dell’umanità contemporanea, non
limitandosi all’appello moralistico ai governanti
che si ritrova nella gran parte
della letteratura del genere, ma sollecitando all’aggregazione sociale per
cambiare le cose. Questo poi comporta che l’azione per il cambiamento sia
realisticamente concepita anche come lotta
tra formazioni sociali.
55. A poco a poco alcuni Paesi possono mostrare
progressi importanti, lo sviluppo di controlli più efficienti e una lotta più sincera contro la corruzione.
59. […] Se guardiamo in modo superficiale, al di
là di alcuni segni visibili di inquinamento e di degrado, sembra che le cose
non siano tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle
condizioni attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i
nostri stili di vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i
vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando
le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse.
91. Non può essere autentico un sentimento di
intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel
cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani. È evidente l’incoerenza di chi lotta
contro il traffico di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto
indifferente davanti alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri, o è
determinato a distruggere un altro essere umano che non gli è gradito. Ciò mette a rischio il senso della lotta
per l’ambiente.
207. La Carta della Terra [Carta della Terra, L’Aja (29 giugno 2000)] ci chiamava tutti a lasciarci alle spalle
una fase di autodistruzione e a cominciare di nuovo, ma non abbiamo ancora sviluppato
una coscienza universale che lo renda possibile. Per questo oso proporre
nuovamente quella preziosa sfida: «Come mai prima d’ora nella storia, il
destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio […]. Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova
riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per
l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa
celebrazione della vita».
Nei Paesi che dovrebbero produrre i maggiori
cambiamenti di abitudini di consumo, i giovani hanno una nuova sensibilità
ecologica e uno spirito generoso, e alcuni di loro lottano in modo ammirevole
per la difesa dell’ambiente, ma sono cresciuti in un contesto di altissimo
consumo e di benessere che rende difficile la maturazione di altre abitudini.
Per questo ci troviamo davanti ad una sfida educativa.
209. […]
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.
La politicità del magistero sociale del
Papa è ciò che fa di Jorge Mario Bergoglio uno dei papi più diffamati
dai suoi stessi fedeli: un fenomeno impressionante e non solo sul WEB dove i
discorsi in libertà sono la normalità. Tra i primi e violenti critici del suo
pensiero vi sono stati settori importanti della politica e dell’economia
statunitense, quelli stessi che hanno appoggiato l’ascesa politica del nuovo
presidente statunitense Donald Trump. E, in effetti, gli Stati Uniti d’America,
insieme alle potenze economiche asiatiche, in particolare la Cina continentale,
il Giappone e la Corea del Sud sono al centro del modello di sviluppo criticato
nella Laudato si’. Data
l’organizzazione globale, vale a dire
in un sistema di relazioni che lega tutto il mondo, dell’economia
contemporanea, la critica sociale del magistero sociale del Papa riguarda anche
quei potenti sistemi politico-economici. E vediamo anche che le opinioni
politiche del nuovo presidente statunitense sono particolarmente critiche verso
il processo di unificazione europea e, in particolare, verso le nuove
istituzioni europee dell’Unione Europea, di cui Trump, in dichiarazioni di
qualche giorno fa, ha sostanzialmente auspicato la dissoluzione.
Spesso l’idea di pace e di pacificazione che la dottrina sociale ha manifestato è
apparsa con un senso di compromesso in cui, per amore di pace, le masse di chi stava peggio erano invitate ad
accettare serenamente la loro condizione e ad accettare i miglioramenti che le
classi dominanti, una minoranza, erano
disposte a elargire, a patto di non toccare la loro posizione di egemonia
sociali. Quindi: maggioranze che dovevano sottomettersi a minoranze, l’opposto
dei processi democratici.
[dall’enciclica
Le novità, del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci,
regnante in religione come Leone 13°]
1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si
deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le
disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma
ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande
varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso
ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da
queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni
sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio,
perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e
l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la
disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo
d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora
avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose poi,
ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo
quell'oracolo divino: Sia
maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni
della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai
sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree
conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l'uomo fino
alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa
si faccia e si tenti, non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le
sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle
misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto,
illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi
di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel
medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.
[…]
16. Innanzi tutto, l'insegnamento cristiano, di
cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in
accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i
mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di
giustizia, quanto al proletario e all'operaio, sono questi: prestare
interamente e fedelmente l'opera che liberamente e secondo equità fu pattuita;
non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa
stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in
ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi,
senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E
questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai
schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal
carattere cristiano.
Ma la
storia insegna che ogni conquista sociale dell’umanità, in particolare ogni
progresso verso l’estensione del benessere verso le masse che stanno peggio,
non si è raggiunta se non a seguito di una lotta
sociale, vale a dire su uno scontro politico tra gruppi sociali, che
in democrazia si fa in modo non violento, ma si fa e si deve fare, pena non
progredire o addirittura regredire.
La
politica, l’azione per il governo e la trasformazione della società, ha anche
un valore religioso, insegna oggi la dottrina sociale ed è dovere anche
religioso del laico di fede impegnarsi nell’azione politica. Ma nella
formazione religiosa la politica in genere non c’è. Da quando bisognerebbe cominciare?
Da molto presto, fin dal primo catechismo, da quando la persona comincia a
vivere in società e comincia a soffrirne o a ricavarne vantaggi. E’
un’esperienza che si fa fin da piccoli e gli psicologi dell’infanzia ci
raccontano delle tremende sofferenze che si possono vivere nelle società dei
bambini, che a volte ci appaiono sfacciatamente crudeli: è un’esperienza che,
del resto, tutti fanno, da vittime o da persecutori o da semplici spettatori.
Ma il discorso andrebbe molto approfondito con il maturare della persona e
soprattutto con le acquisizioni culturali scolastiche, che mettono in grado di
capire discorsi più complessi su come vanno le cose del mondo e soprattutto
creano una consapevolezza storica. In un movimento
democratico per la riforma della
società, tutti sono riformatori e la critica sociale che è al fondo di ogni progetto di riforma parte
dall’osservazione della società e dalla consapevolezza della sua storia. Lo fa
anche Bergoglio, all’inizio della Laudato
sì, nel capitolo che appunto si intitola Quello che sta accadendo alla nostra casa. Si tratta di un’attività
di formazione che non sempre rientra nella capacità dei preti, perché non
sempre rientra nella loro stessa formazione. E questo nonostante che nella
storia recente delle nostre collettività religiose ci sono stati preti maestri
in questo campo e cito ad esempio Romolo Murri, Luigi Sturzo, Primo Mazzolari,
Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Gianni Baget Bozzo e molti altri: preti con
un forte impegno civile che li spingeva alla politica. Un tempo questo era
considerato sconveniente e addirittura osteggiato e punito. Tutti i preti che
ho sopra citato hanno infatti avuto problemi disciplinari. Ai tempi di papa
Francesco la situazione è diversa. Bisognerebbe cogliere l’occasione, ma serve
innanzi tutto un più forte impegno laicale, perché la politica è uno dei campi
privilegiati dell’azione laicale. E, per cominciare, occorrerebbe programmare
occasioni sistematiche di incontro. L’ideale sarebbe farle in un locale con
molti libri e una connessione internet, che sono finestre sul mondo e sulla
storia. Non si cambia il mondo da incolti.
20.
Francesco e il trumpismo
Dal Messaggio per la 50° Giornata
mondiale per la pace 2017 di papa
Francesco
Nelle situazioni di
conflitto facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.
Il beato Papa Paolo VI si
rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «E’
finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea
dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non
le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)».
Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie internazionali
non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate
sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti
e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del
suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il
senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla
libertà, sull’amore».
Desidero soffermarmi
sulla nonviolenza come stile di una politica di pace.
Dal livello locale e quotidiano fino
a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile
caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre
azioni, della politica in tutte le sue forme.
Un mondo frantumato
Non è facile sapere se il mondo attualmente
sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di
comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più
consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa. In ogni caso, questa
violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi
sofferenze di cui siamo ben consapevoli.
La violenza non è la cura per il nostro
mondo frantumato.
Come ha affermato il mio
predecessore Benedetto XVI –
«nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia,
e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di
più di amore, un di più di bontà. [La
nonviolenza] «non consiste nell’arrendersi al male[…] ma nel rispondere al
male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la
catena dell’ingiustizia».
Più potente della violenza
4. La nonviolenza è talvolta intesa
nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così.
La nonviolenza praticata con decisione e
coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma
Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin
Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati.
Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio,
Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di
preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto
livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.
Né possiamo dimenticare il decennio epocale
conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane
hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione
coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di
san Giovanni Paolo II.
Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991),
il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita
dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta
pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».Questo
percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte
«dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di
cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme
efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli
uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla
lotta di classe nelle controversie interne ed alla guerra in quelle
internazionali».
La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di
strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più
violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.
Questo impegno a favore delle vittime
dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa
Cattolica, ma è proprio di
molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono
essenziali e indicano la via della vita». Lo ribadisco con forza: «Nessuna
religione è terrorista».La violenza è una profanazione del nome di Dio.
Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare
la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!»
Se l’origine da cui scaturisce la
violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il
sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia.
Un’etica di fraternità e di coesistenza
pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della
paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul
rispetto e sul dialogo sincero.In questo senso, rivolgo un appello in favore
del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la
deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non
possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico che si
arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambi
invito
6. La costruzione della pace mediante
la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi
della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali,
mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e
grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della
legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa
strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le
otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della
persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice
Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che
hanno fame e sete di giustizia.
Questo è anche un programma e una
sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni
internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare
le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una
sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili
con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando
di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo.
Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e
trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Operare
in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia
e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare
che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto.
La Chiesa Cattolica accompagnerà ogni
tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e
creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio
dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo
sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e
della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i
bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei
conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le
vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura». Ogni azione in questa
direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero.
Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con
l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro
parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si
prendono cura della casa comune.
******************
Papa Francesco richiamando l’idea
di nonviolenza (scritta tutta attaccata o con il
trattino di congiunzione, non-violenza) ha evocato
espressamente il messaggio politico del leader indiano Mohandas Karamchand Gandhi
(1869-1945), liberatore dell’India dal dominio europeo, che nel Messaggio
per la giornata della pace 2017 è menzionato espressamente.
In ambito cattolico di
Gandhi spesso si fa una specie di santino: egli fu, in realtà, un
agitatore politico, un rivoluzionario. Non fuggiva i conflitti, ma vi si
cacciava dentro, li affrontava. Egli combatteva e incitava a combattere
mediante la nonviolenza, che in primo luogo si attuava nella pervicace
disobbedienza di massa alle leggi ingiuste sopportando la reazione violenta del
potere senza opporre altra violenza, in secondo luogo nella non-menzogna,
l’impegno a non esercitare un dominio ingiusto mentendo alla gente e, infine,
con un diverso stile di vita da consumatori, quindi da attori del mercato, in
particolare del mercato globale della sua epoca, rifiutando di acquistare
prodotti che avessero dentro ingiustizia e sofferenza umana. Questo suo impegno
lo portò ripetutamente in carcere.
Era un agitatore
sociale, un rivoluzionario, anche Martin Luther King, anch’egli evocato
nel Messaggio. Anche King finì ripetutamente in carcere.
In linea con l’appello
fortissimo all’azione politica di massa contenuto nell’enciclica Laudato
si’ Francesco - Bergoglio guida la Chiesa a porsi di traverso,
in una posizione fortemente conflittuale, con l’ideologia globale
dell’ingiustizia sociale, fondando a tal fine anche un nuovo ministero
nella sua Curia.
Nel solco della lezione
gandhiana ci spinge a organizzarci in movimento contro la cultura dell’egoismo
nazionalistico, dello scarto dei perdenti e dello spreco senza curarsi delle
conseguenze sull’ambiente naturale: in una parola, contro il trumpismo,
l’ideologia politica manifestata in campagna elettorale da nuovo presidente
statunitense. Nella linea del gandhismo Francesco ci incita a non arrenderci al
male, a rifiutare atteggiamento di passività e di resa, a non rifiutare il
conflitto, ma a combattere in modo nonviolento per impedire la degenerazione
del mondo.
Si tratta di un
impegno tutto da costruire, perché la pesante eredità culturale del compromesso
con il fascismo storico italiano, con la conseguente pervasiva integrazione tra
religione e ideologia mussoliniana, ha portato storicamente le collettività di
fede italiane in altra direzione, verso una visione corporativa della
risoluzione dei conflitti sociali, in cui, fatalmente, le masse di chi sta
peggio soccombono alle pretese di dominio delle oligarchie che controllano
l’economia e quindi la società e la politica.
Il conflitto con
il trumpismo si prospetta tremendo, tragico, ma
inevitabile, in una visione religiosa dei fatti sociali che prende come
riferimento le Beatitudini, perché, sorretto da quella che è
ancora la maggiore potenza militare del mondo, colpirà duramente le masse dei
popoli che hanno avuto la peggio nel nuovo ordine economico globalizzato del
quale gli Stati Uniti d’America e le potenze economiche dell’Asia sono stati
protagonisti, ma secondo una cultura marcatamente statunitense.
Significherà anche mettersi di traverso rispetto ai processi bellici che si
intuiscono dietro i risorgenti nazionalismi. E difendere l’umanesimo europeista
dall’assalto populista che vuole dissolvere la nostra nuova Europa, attualmente
ancora la più grande potenza politica di pace del mondo. “Bisogna pregare”, ha detto un politico italiano a chi gli chiedeva
come vedesse il futuro del mondo nell’era del trumpismo, ma l’appello di Francesco chiede molto di più di questo.
E’ una nuova cultura politica che si tratta di costruire.
21. Critica e autocritica sociale, dialogo
[Dal Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto
Rossi ed Eugenio Colorni]
3.Contro il dogmatismo
autoritario si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto
quello che veniva asserito doveva dare ragione di sé o scomparire. Alla
metodicità di questo spregiudicato atteggiamento sono dovute le maggiori
conquiste della nostra società in ogni campo.
Ma questa
libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati
totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede o da accettare ipocritamente,
si stanno accampando in tutte le scienze. Quantunque nessuno sappia che cosa
sia una razza e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare
l'assurdità, si esige dai fisiologi di credere di mostrare e convincere che si
appartiene ad una razza eletta, solo perché l'imperialismo ha bisogno di questo
mito per esaltare nelle masse l'odio e l'orgoglio. I più evidenti concetti
della scienza economica debbono essere considerati anatema per presentare la
politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferravecchi del
mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nostri tempi. A causa della interdipendenza economica di
tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare
il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo; ma si
è creata la pseudo scienza della geopolitica che vuol dimostrare la consistenza
della teoria degli spazi vitali, per dare veste teorica alla volontà di
sopraffazione dell'imperialismo. La
storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell'interesse della classe
governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere
non considerate ortodosse. Le tenebre dell'oscurantismo di nuovo minacciano di
soffocare lo spirito umano.
La
stessa etica sociale della libertà e dell'uguaglianza è scalzata. Gli uomini
non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per
meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato che
stabilisce quali debbono essere i loro fini, e come volontà dello stato viene
senz'altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di
diritto, ma gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere
alle gerarchie superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato.
Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri.
Questa
reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha
infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di
trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando
con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, della stupidità
altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei - primo fra i
quali l'Italia - alleandosi col Giappone che persegue fini identici in Asia
essa si è lanciata nell'opera di sopraffazione.
La sua vittoria significherebbe
il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue
caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive
sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa.
La tradizionale arroganza e
intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un'idea di quel che
sarebbe il carattere del loro dominio dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi
vittoriosi potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli
altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro
istituzioni politiche, per governare così
soddisfacendo lo stupido sentimento
patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli
uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle
forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque
camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione
dell'umanità in Spartiati ed Iloti [nell’antica città greca di Sparta,
erano schiavi di proprietà dello stato].
Anche
una soluzione di compromesso tra le parti ora in lotta significherebbe un
ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero
sfuggiti alla stretta della Germania sarebbero costretti ad accettare le sue
stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla
ripresa della guerra.
Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati
minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in
lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento
più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto si che i
Tedeschi siano andati a cozzare contro la strenua resistenza dell'esercito
sovietico, ed ha dato tempo all'America di avviare la mobilitazione delle sue
sterminate forze produttive. E questa lotta contro l'imperialismo tedesco si è
strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro
l'imperialismo giapponese.
******************************************************************
I processi democratici, che cercano di
realizzare la compartecipazione alle decisione di governo delle masse,
richiedono capacità critica e di autocritica, vale a dire di rendersi conto del
corso degli eventi storici, delle cause dei mali sociali e della propria
corresponsabilità nel provocarli. A questo appunto serve il dialogo, che non va inteso solo come un parlare insieme, né solo come un parlare e ascoltare
(che è già di più), ma come uno sforzo per capire le ragioni degli altri cercando di costruire relazioni. Questo
metodo è richiamato nel Messaggio per la
50° Giornata della pace diffuso nel
dicembre scorso da papa Francesco, citando un brano della sua esortazione
apostolica La gioia del Vangelo, del
2013:
227. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente
lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter
continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne
rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le
proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato,
di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto,
risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo.
«Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
Non vi è
vero dialogo se non c’è questo spirito di voler tentare di creare anelli di collegamento tra gli esseri umani, come singoli e nei
gruppi che danno senso alla loro vita, quelli che un filone della sociologica
definisce mondi vitali.
Ma su che cosa dialogare innanzitutto? Per
un laico di fede si dovrebbe sempre partire da come va il mondo intorno, a partire dalle realtà più prossime,
nelle quali si è immersi appena sceso l’ultimo gradino del sagrato. E bisognerebbe cominciare con il tentare di capirle bene: questo riesce meglio nel dialogo, perché si tiene conto di
diversi punti di vista, che fanno superare le limitazioni individuali. Lo ha
spiegato la filosofa Hanna Arendt (1906-1975):
[da: Hannah Arendt, Che cos’è la politica, Einaudi, 2006]
Nessuno senza compagni può comprendere
adeguatamente nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli
si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca
alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così come
è realmente si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che
sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e
dunque diventa comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e
confrontano le loro opinioni e prospettive. Solo nella libertà di dialogare il
mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni
lato”.
Se si procede in
questo modo, dal piccolo al grande, dal proprio condominio al proprio
quartiere, da quest’ultimo alla città e poi alla nazione, al continente, al
mondo, ci si accorge facilmente di ciò di cui scrissero molto tempo fa, nel
1941, in piena Seconda guerra mondiale, dall’isola di Ventotene dove erano confinati, costretti a rimanervi con
moltissime limitazioni alla possibilità di relazioni con la poca gente intorno,
Spinelli, Rossi e Colorni: “A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del
mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita
corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo”. E’ anche ciò che ha scritto anche il nostro
vescovo e padre universale nell’enciclica Laudato
si’. Se globali sono i problemi, e
lo sono perché la sopravvivenza dell’umanità, oggi molto più che negli anni ’40
del secolo scorso, dipende da relazioni a livello mondiale, anche le soluzioni
devono essere globali. Ma è ciò che i risorgenti nazionalismi europei, come
anche il neo-nazionalismo statunitense (una cultura che così come appare
nel pensiero politico del nuovo presidente statunitense non c’è mai stata nella
storia degli Stati Uniti d’America), vogliono dimenticare, pensando, illudendosi, come già i fascismi europei
degli anni tra le due Guerre mondiali, che la soluzione sia chiudersi nei propri spazi
vitali, lasciando fuori il resto del mondo con i suoi problemi.
Nel Manifesto di Ventotene, così come nell’enciclica Laudato si’, c’era anche l’autocritica
sociale. L’Italia fu maestra e parte attiva dei totalitarismi fascisti che trasformarono
l’Europa Centro-Occidentale in una prigione, fino alla loro tragica caduta, nel
1945. In questo quadro si produsse quella profonda contaminazione tra cultura
religiosa e cultura fascista che ancora oggi si avverte distintamente tra noi,
come una sorta di rumore di fondo:
essa è all’origine della profonda avversione verso Jorge Mario Bergoglio e il
suo pensiero sociale, la sua dottrina
sociale, di ampi
settori delle nostre collettività di fede, così come di un’analoga avversione
dei medesi ambienti verso la cultura europeista e le istituzioni della nostra
nuova Europa unita.
“Lo stupido sentimento
patriottico che guarda ai colori dei pali di confine”, si legge nel Manifesto di Ventotene. Perché “stupido”? Perché non riesce, o peggio non vuole, vedere ciò che è
evidente, vale a dire che è tutta una civiltà basata su un’organizzazione dello
sviluppo economico concepito secondo la legge della giungla, secondo cui i più
forti ammazzano i più deboli, che, entrando in crisi, ci peggiora l’esistenza
di sulla soglia di casa e anche dentro.
Il dialogo per capire la realtà come veramente
è dovrebbe essere di casa nelle parrocchie, in particolare nella formazione dei
laici di fede. Ma in genere non si riesce a praticarlo e, soprattutto, a
insegnarlo. Così la nostra gente, anche i più giovani, ha un’idea troppo vaga e
imprecisa della realtà. Non viene abituata a capirla per incidervi con
un’efficace azione sociale. Ci si limita ad un po’ di storia sacra, ma prevalentemente a fini apologetici, per farci sentire
i migliori di tutti, per diritto
divino per così dire, senza
verificare questa convinzione. E’ quello che si è fatto, per la generalità
delle persone religiose, per la gran
parte della storia delle nostre collettività di fede: è a partire dalla metà
del secolo scorso che si è prodotto, anche tra noi, la convinzione che
bisognasse cambiare, ciò che però si è affermato ufficialmente, con decisione d’autorità, solo negli scorsi anni
’60, durante il Concilio Vaticano 2°.
Per capire la realtà come veramente è non
basta chiacchierarci sopra sulla base delle proprie estemporanee espressioni, e
non bastano nemmeno solo i quotidiani, anche se tenendone conto si è già un bel
pezzo avanti, servono libri, dove
troviamo un pensiero sistematico,
concentrato, potente. “Le biblioteche e le librerie vengono purificate
di tutte le opere non considerate ortodosse.”, scrissero gli autori del Manifesto di Ventotene, e si riferivano ai roghi di libri accaduti
nella Germania nazista, ma anche in Italia nel corso degli assalti alle sedi
dei giornali, a quelle di partito, alle Case
del popolo, e anche alle sedi della nostra Azione Cattolica, ma più in
generale all’insofferenza dei totalitarismi fascisti (ma in generale di tutti i totalitarismi) verso la potenza del pensiero
che scaturisce dalle raccolte di libri. E penso alla nostra biblioteca
parrocchiale che, nel nuovo corso inaugurato un anno e mezzo fa, non si è più
trovata, e non se ne sono avute spiegazioni del perché, probabilmente
sacrificata a bisogni ritenuti più urgenti e importanti.
Perché un libro
costituisce una base di partenza del dialogo, è qualcosa che, come scrisse la
filosofa Hannah Arendt, insieme unisce e divide, ma che, in definitiva, dopo
averlo condiviso, unisce. E’ così che si cominciano a creare anelli di collegamento. Questa è anche un via verso la libertà, e la nostra fede vorrebbe esserlo, perché
pensa di essere fondata sulla verità e che la verità
ci renderà liberi. Amen.
22. Una nazione senza frontiere non è una nazione?
“Una nazione senza frontiere non è una
nazione”. L’ha affermato il presidente statunitense Donald Trump, stando a
quello che hanno riportato radio e televisione.
Questa frase è estremamente efficace:
condensa in pochissime parole tutto ciò che l’ideologia dell’europeismo, a
partire dal Manifesto di Ventotene del 1941, di
Spinelli, Rossi e Colorni, ha voluto superare, per creare la pace sul nostro
continente. In particolare l’idea di una nazione definita
da frontiere. E’ possibile che gli Stati Uniti d’America, il più
antico sistema politico della democrazia moderna, non riescano più a
definire sé stessi se non tracciando frontiere? Dimenticando
completamente la cultura dei diritti umani fondamentali che è alla base della
loro fondazione e che hanno insegnato a tutto il mondo? E tra questi il diritto
di essere liberi di cercare la felicità, che sta
scritto nellaDichiarazione di indipendenza statunitense del 1776.
La nostra nuova Europa, quella delle 28
nazioni, con altrettante culture e lingue, un fantastico mosaico di umanità
rispetto all’uniformità statunitense da costa a costa, più o meno
due lingue, spagnolo e angloamericano, e tre culture, quelle della costa
orientale, del centro (la Cintura della Bibbia) e della costa
orientale, è stata costruita puntando all’abolizione delle frontiere, in gran
parte effettivamente realizzata, come di quella, caldissima un tempo, tra
l’Italia e l’Austria. Questo ha portato ad una lunga epoca di pace, mentre,
negli stessi anni, gli Stati Uniti d’America sono stati impegnati in continue
guerre in tutti i continenti: infatti hanno ancora la forza militare più
potente della Terra, ritengono di averne ancora bisogno e addirittura di
doverla aumentare.
“Una nazione non è una nazione senza
frontiere”? E’ un po’ come dire che il valore di un’orchestra sinfonica
dipende dalla sala dove suona.
Osservo infine che l’ideologia politica
del nuovo presidente statunitense appare in rotta di collisione con la dottrina
sociale diffusa da Jorge Mario Bergoglio, anche lui un americano,
benché gli statunitensi quando parlano di americani si
riferiscano solo a loro stessi. “America first”, “l’America
prima di tutto”, significa per loro “Gli Stati Uniti prima di tutto”.
Sembra una novità, ma è ciò che è sempre successo: la politica statunitense è
sempre stata improntata a questo principio, e infatti gli Stati Uniti d’America
sono ancora lo stato più ricco della Terra, e vogliono diventare sempre più
ricchi. Non sono i popoli dell’Asia, per ora molto meno ricchi, ad aver rubato la
ricchezza agliamericani, tanto è vero che negli Stati Uniti d’America ci
sono alcune delle persone più ricche della Terra, come lo stesso presidente
statunitense è. E’ la divisione delle ricchezze prodotte che, come anche in
Europa, ha determinato ineguaglianze per cui nello stato più ricco della Terra
c’è anche molta gente sulla soglia della povertà e anche molto sotto, e molta
gente che a quella soglia si sta avvicinando. Questo in Europa è sentito come
un ordine ingiusto, ma, sembra, non più negli Stati Uniti d’America.
La veloce metamorfosi degli Stati Uniti
d’America in un neo-stato nazionalista, come non sono stati mai
nella loro storia avendo sempre accolto genti da tutto il mondo e avendo
fondato proprio su questo la loro potenza, è potenzialmente tragica, perché
riguarda la massima potenza militare del mondo.
23. Il risorgente
nazionalismo mette in pericolo il mondo
si veda sul
WEB http://www.treccani.it/enciclopedia/unione-europea/
[dal Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto
Rosse ed Eugenio Colorni]
E quando, superando l'orizzonte del vecchio
continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che
costituiscono l'umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione
europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e
americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di
un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l'unità politica dell'intero
globo.
La linea di divisione fra i partiti
progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai,
non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o
minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che
separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico,
cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno,
sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la
lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio
stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come
compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che
indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il
potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per
realizzare l'unità internazionale. Con la propaganda e con l'azione,
cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti
simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d'ora
gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per
far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più
innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato
federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto
degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina
dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per
fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a
mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l'autonomia che
consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo
le peculiari caratteristiche dei vari popoli.
Se ci sarà nei principali paesi europei un
numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve
nelle loro mani, perché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla
loro opera e di fronte avranno partiti e tendenze già tutti squalificati dalla
disastrosa esperienza dell'ultimo ventennio. Poiché sarà l'ora di opere nuove,
sarà anche l'ora di uomini nuovi, del movimento per l'Europa libera e unita!
Da:
<https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/l-ordine-di-trump-uno-schiaffo-alla-solidarieta-internazionale>,
sabato 28-1-17, di Andrea Lavazza, “L’ordine di Trump uno schiaffo alla
solidarietà nazionale
L'ordine
esecutivo con cui il presidente americano Donald Trump blocca l'ingresso ai
cittadini mediorientali di 7 Paesi, ferma per 4 mesi il programma a favore dei
rifugiati, riduce la quota di profughi accolti nell'anno in corso e chiude le
frontiere a tempo indeterminato per i siriani appare come uno schiaffo
alla solidarietà internazionale, alla libera circolazione delle persone e alle
istanze universalistiche cui l'America ha dato un impulso con la sua storia
recente.
[…]
vi sarà un probabile seppure non auspicabile
effetto traino. Se gli Stati Uniti si muovono in questa direzione, molti
politici europei si sentiranno ancor più legittimati nel proporre politiche di
chiusura verso profughi e migranti. Con un crescente favore dell'opinione
pubblica. Il soft power americano che tanto influenza anche la nostra
cultura sembra aver imboccato una strada nuova e rischiosa. Sarà compito
importante riflettere e dibattere su questi sviluppi, figli in taluni casi
anche di una sottovalutazione della portata del fenomeno migratorio e delle sue
conseguenze.
*******************************************************
Due delle
quattro maggiori potenze economiche e militari del mondo, gli Stati Uniti
d’America e la Federazione russa, stanno seguendo politiche neo-nazionaliste. Sono entrambe in fase
militare espansiva, ma con motivazioni molto diverse da quelle dei vecchi
imperi nazionali: nella concezione dei loro capi politici egemoni si
tratterebbe di strategie di difesa nazionale.
Queste le rende molto pericolose, perché, se si pensa di doversi difendere si è pronti a
tutto. Negli Stati Uniti d’America il potere federale è caduto nelle mani
di un uomo molto ricco, la cui figura ha diverse somiglianze con quelle degli oligarchi russi, che cercarono di
controllare l’economia e la politica russa negli anni seguiti alla dissoluzione
del regime sovietico; la Federazione russa è dominata da un ex militare della
polizia politica sovietica che ha prevalso duramente su quegli oligarchi. Il
primo segue un neo-nazionalismo di tipo sostanzialmente economico, il secondo
un nazionalismo di tipo più tradizionale, vicino a quello corrente nell’impero
zarista, fortemente appoggiato dalla Chiesa ortodossa russa. Il leader
americano, che non alcuna precedente esperienza di governo politico e, in
particolare, in campo internazionale, si presenta come un uomo impulsivo, poco
riflessivo e poco disposto a farsi consigliare. E’ solo un atteggiamento, una
specie di proseguimento della campagna elettorale, o è veramente così? Il capo
russo è l’esatto opposto, ha un’importante e lunga esperienza di governo, anche
nelle relazioni internazionali, e ha una squadra di collaboratori che lo
assiste da diversi anni, e ha una formazione militare, dura. E fatale che
l’americano commetta prima o poi qualche grave errore e che il russo cerchi di
approfittarne. I due si conoscono poco e questo aggrava la situazione. Il
politico che al mondo sembra aver avuto le relazioni più intense con Putin è
l’italiano Silvio Berlusconi. L’americano si è paragonato a Berlusconi, ma
quest’ultimo ha espresso delle perplessità in merito: in effetti sono molto
diversi. Ma, soprattutto, anche Berlusconi ha avuto una lunga storia politica e
un’esperienza intensa di relazioni internazionali. Questo ha giovato
all’Italia, qualche anno fa, quando il governo sembrava intenzionato a
intervenire militarmente in Libia, e Berlusconi e Prodi, concordemente quella
volta, lo sconsigliarono. E’ stato osservato che l’americano gira sempre con
appresso i codici di avvio dell’apparato nucleare statunitense: egli è infatti
il comandante in capo della forza militare federale. Le decisioni
che potrebbe prendere sono potenzialmente molto più gravi di quelle che il
governo si trovò a decidere a quell’epoca. Nonostante che l’americano e il
russo sembrino, ora, andare d’accordo, è possibile che sia solo questione di
tempo, mesi, perché si generi una crisi grave come quella Ucraina, che, fra
l’altro, non è neppure risolta. Ma il teatro di conflitto potenzialmente più
grave sarà quello che corre in Asia, appena al largo della Repubblica popolare
di Cina, e questo per le continue provocazioni dell’americano. Un conflitto in
quella zona del mondo, benché agli antipodi dell’Italia, provocherebbe la fine
del mondo come lo conosciamo: quasi tutto ciò che usiamo tutti i giorni viene
prodotto laggiù. Anche la Cina sta diventando nazionalista, in un modo che ha
qualche assonanza con il neo-nazionalismo statunitense: è infatti di tipo
economico più che culturale.
E’ l’Europa,
la quarta grande attrice sulla scena globale?
“La
federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con popoli
asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione”, si legge nel Manifesto di Ventotene, e
questo, pensavano i sui autro, “in una
visione di insieme di tutti i popoli che costituiscono l'umanità”. Perché?
All’epoca gli autori del Manifesto
pensavano al declino degli imperi coloniali e alla necessità di
ottenere, sulla base di intese europee, una sistemazione pacifica delle
questioni delle ex colonie. Nella situazione storica contemporanea un’Europa
unita molto estesa, a livello quasi continentali, animata a politiche di
collaborazione internazionale al suo interno e quindi di esempio anche verso
l’esterno, potrebbe essere ancora quel campo
di pacificazione tra le altre potenze politiche in rotta di collisione
di cui si avrà sempre più necessità. Ma essa è minacciata dallo stesso morbo
che sta colpendo le altre maggiori potenze mondiali. Ma mentre nel caso di queste
ultime il neonazionalismo tende a compattarle,
in difesa, il medesimo moto politico tende a dissolvere l’Unione
Europea, costituita di tante nazionalità nessuna delle quali viene accettata
come egemone. Essa è sotto attacco da parte del neo-presidente statunitense,
che sembra spingere gli stati membri dell’Unione Europea a distaccarsene,
seguendo l’esempio della Gran Bretagna. Egli ha mostrato di disprezzare
l’Organizzazione delle Nazioni Unite, sulla base di considerazioni piuttosto
superficiali. Non si mostra particolarmente informato dei problemi europei. Né,
a differenza di diversi suoi predecessori, anche della sua stessa fazione
politica, molto preoccupato di preservare la pace mondiale. E’ possibile che
del mondo sappia meno dei suoi predecessori e questo è un grave problema. L’ONU
e l’Unione Europee nascono come potenza di pace e lo sono effettivamente
diventate. Screditandole, il mantenimento della pace viene messo in forse.
Nessuna potenza mondiale, nemmeno gli Stati Uniti d’America, ha la forza di imporre la pace con la minaccia delle armi: essa può
scaturire solo da un ordine internazionale condiviso. In un mondo retto da
relazioni bilaterali, come immaginato
dal neo-presidente statunitense, verrebbe a mancare la rete di protezione che finora ha impedito conflitti caldi tra le maggiori potenze mondiali.
Tre delle maggiori potenze mondiali sono rette da leader nazionalisti e
sono in fase espansiva, in rotta di collisione. E’ quello che serve per far
esplodere un conflitto armato. L’unica grande potenza di pace, legata da
intensi rapporti economici con Stati Uniti, Russia e Cina, rimane la nostra
nuova Europa. Ma fino a quando?
Il movimento europeista è in crisi, minacciato
dai nazionalismi europei risorgenti, che
saranno influenzati e probabilmente rafforzati anche dal nuovo corso
statunitense. “Il soft power americano [la capacità di persuasione esercitata per attrazione] che tanto influenza anche la nostra cultura
sembra aver imboccato una strada nuova e rischiosa.” ha scritto oggi
Lavazza su Avvenire. Ma,
contrariamente a quanto superficialmente gridato dai populismi antieuropeisti,
la nostra nuova Europa non è fatta solo di burocrati, ma di popoli che da
decenni si sono conosciuti molto meglio e soprattutto molto più frequentati. E’
certamente ancora possibile quello che
si proponevano gli autori del Manifesto
di Ventotene, vale a dire gettare le
fondamento di un nuovo movimento europeista e stabilire
in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si
vanno certamente formando, per
contrastare la fatale evoluzione della storia mondiale verso il conflitto. E’
quello che sostanzialmente ha raccomandato il Papa, nel suo messaggio per la
50° Giornata mondiale della pace. E un movimento simile, per aver l’intensità
umana che occorre, deve iniziare dalle realtà più vicine alle persone, dalla
famiglia, dal condominio, dal quartiere, per estendersi alla città e a
territori sempre più vasti, collegando movimenti con movimenti, superando ogni
frontiera che i neonazionalismi vogliono chiudere e murare, arrivando a tutto il mondo.
[Dal Messaggio per la 50° Giornata
mondiale per la pace]
5. Se l’origine da cui
scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale
percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della
famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello
scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due
anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La
famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e
figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni
degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i
conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il
rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.
Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si
irradia in tutta la società.
Tante volte, nei miei
sessant’anni di vita, mi è parso che l’ideologia politica che in concreto era
espressa dalla nostra organizzazione religiosa non fosse all’altezza dei grandi
valori di fede proclamati e insegnati. Per una volta la situazione è diversa.
“«La Santa Sede è
preoccupata per il segnale che si dà al mondo» con la costruzione del muro tra
Usa e Messico, voluto da Donald Trump per frenare le migrazioni. E si augura
che gli altri Paesi, anche in Europa,
«non seguano il suo esempio». Lo ha evidenziato al Sir [l’agenzia di stampa Servizio
di informazione religiosa] il cardinale Peter Turkson, presidente del
dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale. «Noi ci auguriamo
che il muro non sia costruito ma conoscendo Trump forse si farà - ha affermato
ancora Turkson -. Non sono solo gli Usa che vogliono costruire i muri
contro i migranti, accade anche in Europa. Mi auguro che non seguano il suo
esempio. Un presidente
può anche costruire un muro ma può arrivare un altro presidente che l'abbatterà»”, leggo su Avvenire di oggi.
La nostra
nuova Europa è veramente nata quando si iniziò a demolire la muraglia e il
sistema di fortificazioni erette tra le
due parti in cui la Germania era stata divisa dopo la caduta del regime nazista
e all’interno della città di Berlino, e intorno ad essa. Quell’evento storico,
ce lo racconta la grande storia, fu prodotta dai popoli che fecero pressione
sulle frontiere. Le barriere nazionali cominciarono a cadere a furor di
popolo. E ora dovremmo ricostruirle?
Divisi, saremmo preda dei nazionalismi più potenti e non ci potremmo fare
nulla. Essi poi ci condurrebbero al conflitto mondiale.
[Dall’Inno di Mameli, Fratelli d’Italia]
Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popoli,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l'ora suonò.
L’Inno fu fortemente influenzato dal pensiero di
Giuseppe Mazzini (1805-1872) che aveva una visione religiosa del processo che doveva portare i popoli alla
libertà dai despoti che all’epoca li dominavano, dalle superpotenze dell’epoca. Il
suo motto era infatti Dio e Popolo. Anch’egli sognò
qualcosa come la nostra nuova Europa. Un’Europa unita di popoli liberi, in cui
ad ogni persona fosse riconosciuta dignità umana. E’ una visione che finalmente
siamo liberi di condividere anche in religione.
“Sarà compito
importante riflettere e dibattere su questi sviluppi”, scrive Lavazza oggi su Avvenire. Riflettere e dibattere su questi temi non sono inutili perdite di
tempo, in particolare nella vita parrocchiale non sono tempo sottratto alla
preghiera, alla liturgia e alla formazione religiosa. Infatti ne va della pace,
che è una finalità espressamente religiosa. Dalla riflessione e dal dibattito
può scaturire la condivisione e poi un impegno collettivo, un movimento. Per
creare un ambiente favorevole alla pace che renda inutile la costruzione dei
muri.
24. La grande storia ci si sta per rovesciare addosso
[dal Manifesto di Ventotene - 1941 - di Altiero
Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
La caduta dei regimi totalitari significherà
per interi popoli l'avvento della "libertà" sarà scomparso
ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di
associazione.
Sarà il trionfo delle tendenze
democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature che vanno da un
liberalismo molto conservatore, fino al socialismo e all'anarchia. Credono
nella "generazione spontanea" degli avvenimenti e delle istituzioni,
nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono
forzare la mano alla "storia" al "popolo" al
"proletariato" o come altro chiamano il loro dio. Auspicano
la fine delle dittature immaginandola come la restituzione al popolo degli
imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro
sogni è un'assemblea costituente eletta col più esteso suffragio e col più
scrupoloso rispetto degli elettori, la quale decida che costituzione il popolo
debba darsi. Se il popolo è immaturo se ne darà una cattiva, ma correggerla si
potrà solo mediante una costante opera di convinzione.
I democratici non
rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la
maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando
non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sulla i. Sono perciò dirigenti
adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è
nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che
debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle
epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere
amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La
pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola,
sono tre dei più recenti esempi.
In tali situazioni, caduto
il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione,
pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o
sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in
cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha
sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa
volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi
milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di
tendenze in lotta tra loro.
Nel momento in cui occorre la massima
decisione e audacia, i democratici si sentono smarrirti non avendo
dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di
passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si
presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino
sapendo dove arrivare; perdono le occasioni favorevoli al
consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che
presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa
tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono
per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non
già la volontà di rinnovamento, ma le confuse volontà regnanti in tutte le
menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo
sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto
nella crisi rivoluzionaria.
Man mano che i democratici
logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della
libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero
immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e
la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della
contrapposizione delle classi.
Il principio secondo il quale
la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici,
ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle
fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non
erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si
converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la
necessità di trasformare l'intera organizzazione della società. Gli
operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro
particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi di come
connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano
alla unilaterale dittatura delle loro classe, per realizzare
l'utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione,
indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro
mali.Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché
sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro
sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le
organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.
***************************************************************
In questi giorni la grande storia ci si
sta rovesciando addosso, provenendo da oltre Oceano. Il mondo sta velocemente
cambiando, ma non nel senso che in genere si auspicava. Risorgono i
nazionalismi egoistici e i popoli sono spinti l’uno verso l’altro. Il contesto
internazionale che costituiva l’ambiente considerato dalla dottrina sociale
degli ultimi sessant’anni sta andando in pezzi. Non c’è più fiducia in un
ordine internazionale pacifico frutto di grande istituzioni sovranazionali, ma
si pensa che sia meglio trincerarsi ognuno dietro frontiere sempre più
impenetrabili e formare accordi limitati, tra stato e stato, contro tutti gli
altri. In accordo bilaterale il più forte, il più grosso, ha la meglio mentre
in una grande istituzione sovranazionale tutti i membri hanno pari dignità e
viene perseguito il bene comune. Il mondo fatto di accordi bilaterali sarà regolato
dalla legge delle giungla, in cui il più grosso mangia il più debole. La gente,
mossa da passioni istintive, primordiali e inconsapevoli crede a chi le propone
questo, pensando di guadagnarci. Ma a proporlo sono i più forti: ci
rimetteranno i più deboli, la maggioranza, sia all'interno delle società sia
nel contesto internazionale. In questo contesto l’attuale nostra dottrina
sociale appare come rivoluzionaria, mentre prima sembrava addirittura troppo
prudente. Da essa si sono già separati importanti settori delle collettività
statunitensi della nostra fede.
Ci si diceva che occorreva prepararsi,
studiare, dialogare, per affrontare qualcosa del genere, e ci accorgiamo che
siamo rimasti indietro e che improvvisamente non c’è più tempo per farlo. La
formazione di base è stata estremamente carente, in particolare per la
comprensione degli eventi sociali. Ci siamo più o meno limitati a briciole di
storia sacra e a inscenare giochi a tema a sfondo religioso, immaginando di
vivere nel primo secolo della nostra era, estraniandoci da essa. Invitati a
smontare frontiere e dogane, ci siamo adeguati, ma da fuori, guardando dentro,
c’è più o meno quello che c’era prima. Cambiare, dopo tanti anni in cui si è
andati in una certa direzione, è difficile. La gente, in particolare i più
giovani, non viene tra noi perché non abbiamo quello che le serve. La fede e la
religione appaiono inutili e, in un certo senso, lo sono realmente. Non ci si
deve perdere d’animo, naturalmente. Ci sono tra noi persone che si spendono totalmente
per cambiare, ma lo scenario è cambiato improvvisamente, troppo velocemente.
Ciò che intuirono gli autori del Manifesto
di Ventotene, che la scarsa formazione alla democrazia conduce alla
svalutazione della democrazia, perché nelle masse prevalgono passioni
tumultuose che le portano verso gli “uomini forti”, o apparentemente forti,
fu ben chiaro fin dall’antichità. I leader populisti della nostra epoca
sarebbero stati definiti demagoghi dai pensatori
dell’antica Grecia, semplici trascinatori di popolo. La
dottrina sociale li vorrebbe invece come formatori e guide
sapienti.
Che fare, in questa situazione?
Nel nostro piccolo mondo di quartiere
occorre continuare l’opera iniziata, cercando di avvicinare di nuovo la gente
agli spazi religiosi e migliorare l’attività di formazione e dialogo. In questo
modo si possono costituire punti di resistenza e gettare i
semi di un movimento che abbia più capacità di incidere
sulla società intorno. E’ ciò che si fece, nell’Azione Cattolica, verso la metà
degli anni ’30 del secolo scorso, in un’altra epoca buia. All’epoca si aveva la
diffidenza delle autorità religiose, oggi è molto diverso e questo aiuterà
senz’altro. La dottrina sociale contemporanea, in particolare da ultimo con
l’enciclica Laudato si’, dà un’idea realistica di ciò che accade e
delle soluzioni a cui bisogna puntare. E invita a federarsi con tutte le altre
persone di buona volontà, abbandonando ogni pretesa di autosufficienza
religiosa, per creare un movimento che dalle realtà di prossimità, la famiglia,
il condominio, il quartiere, la parrocchia, si estenda a livello globale. Ci
invita a creare un movimento, come appunto, dopo aver scritto ilManifesto
di Ventotene, fecero i suoi autori.
25. Religione tanto più coinvolgente quanto più
inutile?
Da adolescente, negli anni ’70, ho
vissuto in un mondo in cui si pensava che la religione fosse in declino. Oggi
sembra che lo sia solo in Europa. Ne hanno scritto i sociologi Peter Berger,
Grace Davie ed Effie Fokas nel 2008, in un libro pubblicato in Italiano
da Il Mulino, con il titolo America religiosa,
Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, €18,50.
Il secolarismo è una cultura che spiega i
fatti umani e della natura senza fare ricorso alla religione. Il principio
della laicità dello stato, per cui le istituzioni pubbliche non
devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata
ogni discriminazione su base religiosa, ne è un’applicazione. Esso garantisce
la pace religiosa nel nostro continente. Storicamente la progressione culturale
non è andata dal secolarismo al principio della laicità
dello stato, e poi alla pace religiosa, ma si è sviluppata al
contrario. Prima si è voluto ottenere la pace religiosa, e allora si è pensato
di separare gli affari pubblici dalla religione e poi si è sviluppato il
secolarismo, come estensione di questo metodo. Questa è stata una via
originale, ed è per questo che le società europee presentano un marcato
secolarismo, a differenza di quasi tutto il resto del mondo. Quando si è
pensata di finirla di fare guerre sotto bandiere religiose, è sembrato che la
religione divenisse progressivamente inutile. La si è continuata da usare per
l'educazione morale, ma i suoi principi sempre più sono risultati arretrati e
discriminatori, solo una ciliegina sulla torta nella
formazione dei più ricchi e poco più che un anestetico per i meno ricchi; poi,
da ultimo, la si è usata come medicina dell'anima, insieme ad altri rimedi,
confinata nel privato o in piccoli gruppi. In realtà i più grandi
principi umanitari della nostra fede sono rimasti ancora come ideologia
politica anche nella nostra nuova Europa (fondano la sua Carta dei
diritti), ma laicizzati, per cui senza una formazione specifica
non se ne riesce più a cogliere l'origine religiosa. Ma la politica, nella
nostra organizzazione religiosa, fino a non molto tempo fa fu ritenuta
sconveniente per la maggior parte del popolo: era riservata ai capi del nostro
clero, i quali ne hanno sempre fatta molta. Per loro la religione ha infatti
ancora senso. E per gli altri?
Negli ultimi sessant’anni ci siamo
abituati ad associare la nostra religione, e la fede che la sorregge, con la
pace. In realtà la nostra religione, come da più parti si è osservato, è stata
storicamente ben poco pacifica. Alcuni hanno osservato che condivide questa
caratteristica con le altre due religioni monoteistiche, che hanno in comune
con la nostra fede un importante patrimonio culturale. Il politeismo è più
pacifico del monoteismo? Una realistica consapevolezza storica smentisce questa
tesi. Le società umane si sono sempre combattute, usando i loro dei come
bandiere e immaginando che anch’essi si combattessero tra loro. Le storie sacre
dei politeismi sono piene di queste guerre tra dei. Questa concezione, di dei
troppo umani, cominciò a essere considerata insoddisfacente nell’antica Grecia,
tra il Quinto e il Quarto secolo dell’era antica. Nell’antica Grecia si
svilupparono le filosofie che sono ancora alla base della cultura europea.
L’idea che le società potessero essere organizzato secondo un ordine razionale
che le rendesse stabili e pacifiche nasce da lì. Molti concetti che sono
entrati nella nostra teologia monoteistica derivano da quelle filosofie. L’universalismo umanitario della
nostra fede deriva da lì, dall’incontro di un pensiero religioso sviluppatosi
intorno alla Siria con la cultura greca. Ora noi consideriamo Terra
Santa quella intorno a Gerusalemme, ma, attenendoci alla realtà
storica, dovremmo cambiare opinione. La veraTerra Santa della
nostra fede è tra il lago di Tiberiade, nella Galilea delle genti dove
iniziò la predicazione del Maestro, Damasco e la città di Antiochia, che
è ora è nella Turchia meridionale, al confine con la Siria, ma che anticamente
era la capitale della provincia romana della Siria. In quella che viene
considerata in genere la nostra Terra Santac’è invece poco o nulla
della nostra religione delle origini. Il sospetto che certe memorie siano state
contraffatte è fortissimo. Su tutto, antica Siria e Palestina, si è sovrapposta
la cultura islamica, che ha trasformato, in particolare, l’urbanistica di
Gerusalemme. Così, in realtà, la vera Terra Santa della
nostra fede è l’intero mondo in cui si è diffusa, e un posto come Roma
sicuramente di più dell’attuale Gerusalemme.
Il nostro monoteismo non ha avuto
l’opportunità, quando si è imposto come ideologia dello stato romano, di
imporsi come potenza culturale di pace e questo per tanti motivi. Il principale
è che molto presto, l’antica cultura universalistica greco-romana che lo aveva
profondamente conformato, determinando i principali suoi concetti teologici, è
andata in pezzi insieme all’impero mediterraneo di cui aveva costituito
l’anima. E questo anche se i popoli nuovi che, a partire del Terzo secolo,
conquistarono con le armi l’Europa occidentale furono in qualche modo
conquistati dalla sua cultura politica a sfondo religioso. Essi erano fascinati
dall’immaginifica maestà della corte bizantina, che ancora si riflette nei riti
della corte papale contemporanea. Ma l’unione politica continentale che era
stata la culla della nostra fede religiosa non rinacque mai più, fino al secolo
scorso, con la nostra nuova Europa. La politica fu saldamente connessa alla
fede e ogni stato si propose come delegato della divinità, interprete del vero
monoteismo. Ed anche il papa romano, nel secondo millennio della nostra era,
iniziò ad agire politicamente come un capo di stato. I conflitti politici si
connotarono religiosamente, pur rimanendo al fondo politici. La situazione si
aggravò molto con gli scismi del Cinquecento, in Europa Occidentale. Da qui una
serie continua di guerre, che finirono quando ci si accordò per farle finire,
da questo derivò la nostra nuova Europa. Si decise di non fare più della
religione una fonte di guerra. Da qui il principio della laicità degli stati e
poi il secolarismo. A questo punto la religione sembrò divenire
progressivamente inutile. Se ne poteva fare a meno e non succedeva nulla.
Da una consapevolezza storica
realistica emerge che, per quanto riguarda il problema della pace, non fu
dannoso il monoteismo, ma l’appropriazione del monoteismo da parte degli stati,
al modo in cui era avvenuto nell’antico impero bizantino. Gli stati vollero
essere imperi universali cercando giustificazioni religiose al loro dominio e quindi,
poiché nessuno di essi aveva la forza di imporsi su tutti gli altri,
scaturirono continue guerre. Da ciò deriva che non bisogna pensare che la pace
europea, fondata su principi di secolarismo, sia conseguita all’abbandono della
fede religiosa, perché ciò avvenne piuttosto tardi, verso la metà del secolo
scorso, mentre la pace religiosa europea risale a una serie di trattati
conclusi nella provincia tedesca della Vestfalia nel Seicento. Certo, fu
importante decidere di non fare più delle questioni religione un motivo di
guerra, ma all’origine della pace fu la rinuncia all’idea di dominare l’Europa
al modo in cui l’aveva dominata l’antico impero romano dopo aver sostituito la
nostra fede monoteistica come ideologia politica dello stato al politeismo. Questo
fu l’accordo. Tutte le volte che si attenuò, ripresero le guerre europee.
Rispetto ad esse la nostra fede, a fronte di un ambiente secolarizzato dal
principio di laicità degli stati, rimase neutrale. Solo nel secolo scorso nelle
nostre collettività religiose si sviluppò faticosamente una cultura di pace. Ai
tempi nostri la religione non è più neutrale di fronte al problema della
guerra. Essendo ormai esterna agli stati, fa loro la
morale, cerca di condurli sulle vie della pace. Ma questo movimento coinvolge
poco i fedeli. In Europa cercano dalla religione più il benessere psicologico,
quella che viene definita pace spirituale, che un ammaestramento di
pace. E sono endemiche concezioni magiche risalenti culturalmente agli antichi
politeismi. Gli eventi straordinari, la spettacolarizzazione di pretesi eventi
prodigiosi, coinvolge ancora le masse. Ma, tanto più la religione diviene
questo, tanto più diviene inutile, in particolare per i più giovani, che devono
farsi spazio nel mondo e non sentono il bisogno di rimedi consolatori. Fare
spazio nel mondo a gente nuova, tutta quella che la natura produce in gran
numero (siamo ormai circa sette miliardi) richiede di ragionare di politica e
di farlo anche in termini religiosi, ponendosi alcuni punti fermi, come quello
dell'uguale dignità delle persona e del diritto di tutti alla vita e alla
ricerca della felicità. Altrimenti il mondo esploderà, se si pretende di
governarlo con la legge della giungla, secondo l'ideologia corrente del grande
capitalismo globale. Si osserva però che il monoteismo non può riprendere
a fare politica perché la sua politica storicamente non ha prodotto la pace.
Questa è la principale obiezione rivolta storicamente anche alla dottrina
sociale. Come unire religiosamente un’umanità in cui devono convivere molte
grandi religioni, che in genere si manifestano intolleranti le une contro le
altre? E’ possibile sviluppando una nuova cultura religiosa, secondo quanto, ad
esempio, è indicato nell’enciclica Laudato si’. Occorre,
in particolare, prendere atto che dalla nostra fede sono scaturiti i grandi
principi sui quali si fonda oggi l’integrazione europea, in un grande processo
di pacificazione continentale. Far capire come sia successo che, pur
abbandonando l’idea di religione di stato, la fede delle
Beatitudini costituisca in fondo, ancora, la base culturale della
nostra nuova Europa, e che quindi il processo di secolarizzazione europea non
sia sfociato in realtà in un’apostasia, come superficiali critici ritengono, è
la sfida che si propone oggi nella formazione religiosa ad ogni livello, fin
dall’inizio. In questo modo la religione può divenire utile, oltre che
coinvolgente.
26. Noi, la pace e la religione
In una riunione del gruppo
parrocchiale di AC in San Clemente papa,
con l’aiuto di alcuni pensieri di nonviolenza di grandi
anime che ciascuno di noi ha letto ad alta voce su un foglietto che ci
è stato distribuito, un pensiero su ogni foglietto, abbiamo continuato la
riflessione sulla pace, che avevamo avviato in vista dell’incontro diocesano
dell’AC sul Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace di
papa Francesco, che si è tenuto nella nostra parrocchia.
Nella discussione che è seguita sono
emerse gran parte delle obiezioni che di solito vengono portate contro la nonviolenza,
e anche contro la pace. In parte venivano proposte ai giovani che chiedevano
l’esenzione dal servizio militare armato per ragioni di coscienza, gli obiettori
di coscienza. “Se qualcuno ti uccidesse un parente stretto?”,
“C’è tanta malvagità nel mondo, tanta corruzione…”, e via
dicendo. Si è manifestata poi la difficoltà a condividere pensieri di nonviolenza di
persone appartenenti ad altre tradizioni religiose, anche se cristiane come il
pastore battista Martin Luther King. E c’è stata anche un’eco della storica
diffidenza che si è avuta in religione per i processi democratici, in
particolare valutando il risultato delle ultime elezioni presidenziali
statunitensi.
Può sembrare che si tratti di discorsi
lontani dalla nostra realtà quotidiana, eppure tremendi episodi di violenza e
di intolleranza sociale sono accaduti proprio dalle nostre parti, veramente a
due passi dalle nostre case. E tutti i problemi che vediamo a livello globale
si manifestano anche da noi, ad esempio quello di uno sviluppo economico inumano,
che porta degrado degli ambienti urbani e naturali e insicurezza economica ed
esistenziale. Il nostro quartiere appare abbandonato, ci si limita a garantire
i servizi essenziali, ma in una città come Roma ci si aspetterebbe qualcosa di
più. A parte la parrocchia, non ci sono posti per incontrarsi. E’ stato dato
alle fiamme il bar più grande, che costituiva un bel punto di ritrovo per la
gente del quartiere: ecco un segno della violenza sociale molto vicina a noi,
che ha sfigurato l’ambiente urbano del quartiere. Ora è lì, povera maceria
annerita, a ricordarci che qualcosa non va nella nostra società di quartiere.
Siamo assediati dal traffico, da grandi correnti di traffico dirette verso
altri posti. Questo rende pericolose le strade del quartiere per i più piccoli
e i più anziani. La bellezza nel nostro quartiere non c’è e
nessuno ci pensa. Potrebbe esserci anche tra i nostri palazzoni. La bellezza,
infatti, è democratica, alla portata di tutti, perché tutti ne hanno bisogno e
se ce n’è troppo poca si soffre. Si vive, allora, come in una grande stazione
ferroviaria, in un ambiente funzionale ma anonimo. E’ anche la cura che
si riserva al grande parco al lato delle nostre case, il Pratone,
conquistato in un lungo periodo di lotte sociali è insufficiente, del resto
come accade negli altri parchi della città.
Che c’entra tutto questo con la nonviolenza?
C’entra perché la radice dei mali che ho descritto è la
medesima da cui scaturisce la mala pianta della violenza sociale, su piccola e
grande scala: il crescente egoismo per cui ognuno guarda solo al proprio
particolare e pensa sia inutile intendersi con gli altri per migliorare le
cose. La violenza, tra le persone, i gruppi e gli stati, serve a farsi
spazio e a rapinare gli altri. Gli altri, in questa
prospettiva, diventano solo degli ostacoli o persone che possiedono cose che
vorremmo sottrarre loro. E, invece, il progresso sociale per cui si può vivere
una vita sicura, decorosa e anche bella, dipende dal nostro rapporto positivo
con la società intorno per cui si possano trovare all’interno di essa degli
alleati. La società contemporanea è stata paragonata a una macchina, a
una macchina sociale. Ma gli esseri umani non sono ingranaggi,
anche se talvolta li si vuole rendere tali, come in certe produzioni
industriali. Ognuno di loro ha quella che le religioni definiscono anima e
che significa che sono più di un meccanismo biologico e
hanno bisogno di dare senso alla proprie esistenza. E questo senso lo si
ritrova solo nel rapporto positivo con gli altri, che significa costruire
una società orientata verso la persona umana. La città solo come macchina
sociale diventa un inferno urbano, come se ne sono creati molti in
Oriente.
Se si reagisce alla violenza con altra
violenza ci sarà solo più violenza e, si dice, occhio per occhio rende
il mondo cieco. Un verità tanto chiara, perché costantemente confermata
dall’esperienza, è ancora difficile da accettare, anche in religione. Quando si
passa dalla teologia in pillole del catechismo dell’infanzia al pensare qualcosa
di più serio e impegnativo sorgono problemi. Non siamo stati abituati, in
religione, a pensare la società: immaginavamo che la verità
sociale ci venisse insegnata dall’alto e fluisse fino a noi attraverso
i nostri preti. Spesso, ancora quando si parla di problemi sociali chiediamo
loro di spiegarci perché questo, perché quello, perché la violenza,
perché il male, e via dicendo, come se il sapere di teologia,
quindi della nostra fede comune, li costituisse tuttologi. Lorenzo
Milani diceva invece che dovremmo essere noi a spiegare loro come va il mondo.
Ma anche quest’idea non mi convince, perché presuppone che i preti vivano fuori del
mondo, e non è così. In realtà la comprensione realistica di come vanno le cose
nel mondo, dei problemi che ci sono, e delle soluzioni possibili, deriva dal
mettere insieme tanti punti di vista particolari, anche quelli dei preti, in
modo che facendo luce su tanti aspetti della realtà, come quando si marcia di
notte in campagna e ognuno fa luce con la sua piccola torcia, si riesca a
capire dove bisogna andare per trasformare il mondo.
Ecco, su un pensiero di Aldo Capitini
che abbiamo letto l’altro giorno c’era scritto che la nonviolenza non
lascia il mondo così com’è, ma lo trasforma in meglio. Penso che la nostra parrocchia
avrà superato molti dei suoi problemi quando potrà dire di aver contribuito a
trasformare il quartiere in cui è immersa. In passato mi è parso che a
lungo se ne sia disinteressata, preferendo dedicarsi alla realizzazione di
quelle che ho chiamato serre umane, a coltivare belle
anime al suo interno, al modo in cui lo si fa con le piante
nelle serre dei giardinieri. E da dove può venire una soluzione ai problemi
sociali del quartiere se non da una realtà come la parrocchia, che che è quasi
l’unica, e comunque credo la maggiore, a disporre di luoghi d’incontro?
La parrocchia può riprendere ad essere (lo è già stata in passato) la potenza
spirituale che può innescare dinamiche sociali virtuose, in grado di cambiare
il mondo dalle nostre parti. Per pensare, ad esempio, una nuova sistemazione
urbanistica del quartiere, che liberi via Val Padana dall’assedio delle
automobili, e per rendere più sicure per tutti le strade del quartiere.
Da impegni sociali virtuosi, catalizzati dalla parrocchia, scaturirebbe, ci si
può giurare, un forte impegno di volontariato, perché in Italia, basta che se
ne dia occasione, esso si sviluppa rigoglioso.
27. Antipapa?
"Nella mia precedente carriera diplomatica ho
aiutato ad abbattere l'Unione sovietica, ora sembra che ci sia un'altra Unione
che ha bisogno di una scossa”. Ted Malloch, proposta dal nuovo presidente
statunitense come ambasciatore U.S.A. presso l’Unione Europea
Se consideriamo il pensiero politico diffuso
dal nuovo presidente statunitense Donald Trump e gli insegnamenti sulla
dottrina sociale contenuti nell’enciclica Laudato
si’ di papa Francesco ci convinciamo a prima vista che sono agli opposti.
Il messaggio di Trump al mondo è più che politico e quello del Papa è più che
spirituale. Entrambi sostengono che il mondo va male e che bisogna fare dei
cambiamenti, ma le soluzioni divergono radicalmente. Per Trump gli Stati Uniti
d’America possono salvarsi anche senza il resto del mondo, per il Papa nessuno
stato, anche molto potente, può salvarsi da solo. Per Trump gli Stati Uniti
d’America, lo stato per ora più potente del mondo, sia dal punto di vista
economico sia da punto di vista militare, ci stanno rimettendo per salvare il
mondo e quindi per salvarsi devono cominciare a pensare di più a loro stessi,
al loro interessa nazionale, per il
Papa questo è ciò che gli stati più potenti del mondo hanno sempre fatto, a
discapito dei meno potenti e ricchi, generando sofferenza sociale a livello
globale. Per Trump occorre una rivoluzione culturale, ed è in questo che il suo
pensiero è più che politico, e può dirsi lo stesso per il Papa, ed è in questo
che il suo insegnamento è più che spirituale. Trump dichiara che gli Stati
Uniti d’America sono disposti a tutto per salvarsi, il Papa indica il metodo
della nonviolenza. La dottrina
sociale indica la strada della grandi istituzioni sovranazionali per promuovere
la pace, Trump vuole scioglierle perché ritiene che ingabbino la potenza
statunitense a discapito dei cittadini americani,
che nella sua visione sono solo quelli del suo stato. E il resto di quelli che
vivono nel continente Americano, compreso Bergoglio, che è nato americano? Trump non ci dice che ne
pensa, salvo che ritiene siano persone che vogliono oltrepassare abusivamente
le barriere che già ci sono tra Messico e Stati Uniti d’America. In sostanza “bad hombres”, gente cattiva, come
sembra abbia detto l’altro ieri parlando con il presidente messicano. Trump
vuole costruire un mondo di accordi bilaterali, tra gli Stati Uniti e, di volta
in volta, un altro stato: pensa così di avere sempre la meglio, per ora, perché
gli Stati Uniti d’America sarebbero il pesce grosso che mangia il pesce
piccolo. Ma fino a quando? Ci sono altri pesci che si stanno ingrossando molto.
Quando se la sentiranno di ragionare come Trump sarà la guerra mondiale.
Il pensiero di Trump ha e avrà ancor più
seguaci in Occidente, anche tra chi non è americano.
Anche in Italia, benché essa sia una nazione piccola e poco influente sullo
scenario mondiale: nei futuri accordi bilaterali
è destinata ad avere la peggio.
Questo perché non si è ancora raggiunto la capacità di pensare europeo, su scala continentale. Parliamo dell’Europa
come nell’Ottocento da noi si parlava dell’Impero d’Austria, come di una
potenza che ci ha invaso, e invece noi
siamo Europa. Sono italiani il presidente del Parlamento europeo, il
ministro degli esteri dell’Unione, il presidente della Banca Centrale Europea e
un gran numero di alti funzionari dell’Unione Europea. Nel Consiglio Europeo,
il nostro governo condivide tutte le decisioni più importanti. In un rapporto
bilaterale con gli Stati Uniti d’America l’Unione Europea tratterebbe da pari,
perché, nell’insieme, è una grande potenza economica e un grande mercato: è uno
dei pesci grossi del mondo e non si lascerebbe tiranneggiare da altri. E’ per
questo che Trump, nelle sue dichiarazioni pubbliche di questi giorni, l’ha
aggredita violentemente, per ora verbalmente (ma egli si è dimostrato uomo
capace di passare rapidamente dalle parole ai fatti, cambiando con pochi tratti
di penna la vita di moltitudini di persone, per ora tra quelle che nelle
società stanno peggio). Vuole mandare da noi come ambasciatore presso l’Unione
Europea uno come Ted Malloch che la paragona all’Unione Sovietica e si propone
di dare una mano a scuoterla. In
realtà gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea condividono ancora una
medesima ideologia democratica, anche se sembra che in certe cose il presidente
Trump se ne stia sbrigativamente discostando. Egli sembra apprezzare l’attuale
capo egemone della Russia, il quale si è formato in tutti i sensi, come uomo,
come soldato, ma anche nell’azione politica, in Unione Sovietica, in
particolare come ufficiale della polizia politica segreta, e che dell’Unione
Sovietica vuole riaffermare certi fasti, mischiandovi anche quelli della Russia
zarista. Negli anni ’70 l’Unione Sovietica stava vincendo la sua battaglia
globale con gli Stati Uniti d’America: a
quell’epoca raggiunse il picco della sua fase espansiva, della sua potenza
economica e della sua capacità d’influenza ideologica. Stava diventando il
pesce più grosso. Tutto poi cambiò, in processi che ancora oggi non sono
chiari, ma che fondamentalmente sono collegati all’azione politica del leader
sovietico Michail Gorbaciov e alle sue intese con il presidente statunitense
Ronald Reagan (1911-2004, presidente statunitense dal 1981 al 1989). Qualcosa
che oggi si ripropone nel caso di Trump e del presidente russo Vladimir Putin
(n.1952), ma con un senso molto diverso.
Qui si tratta di confronto bilaterale tra pesci grossi in fase
espansiva: cose così vanno sempre a finire male. Al fondo dell’azione politica
di Gorbaciov c’era invece l’idea di umanizzare la politica sovietica, risultato
che, in definitiva, egli non riuscì ad ottenere. Negli anni successivi alla sua
caduta, gli Stati Uniti d’America acquisirono sempre più potere nelle cose
russe, in particolare sotto la presidenza di Boris Eltsin (1931-2007,
presidente della Russia dal 1992 al 1999). E’ appunto sotto la presidenza
Eltsin che Putin cominciò ad ottenere incarichi politici sempre più importanti
e da Eltsin fu nominato per la prima volta capo del governo. Egli però si è
manifestato molto diverso da Eltsin, in particolare nella politica verso gli
Stati Uniti d’America. Solo apparentemente nel rapporto Trump-Putin sembra
riproporsi quello Reagan-Gorbaciov: la Russia di Putin e gli Stati Uniti
d’America di Trump sono infatti in rotta di collisione. Il terreno di battaglia
più probabile tra le due grandi potenze, i due pesci grossi, è l’Europa. Ed
è per evitarlo che l’Europa dovrebbe rimanere molto forte e coesa. Ma di questo
non c’è sufficiente consapevolezza tra le forze politiche italiane e,
soprattutto, tra i cittadini, disabituati a pensare in grande e invece
abituati fare i conti solo nelle proprie
case e in base a ciò che vedono nell’arco di cento metri da dove vivono di
solito. Gli africani, gli europei orientali e i rom che vivono tra noi saranno
l’ultimo dei nostri problemi se Russia e Stati Uniti d’America si faranno la
guerra in Europa, e invece i populisti delle nostre parti è proprio su quelli
che attirano l’attenzione degli elettori, sollecitando le nostre paure verso il
diverso, mentre per il mondo ricominciano a soffiare venti di un conflitto
globale. In questo quadro il Papa fa la figura del grillo parlante della storia
di Pinocchio, e rischia di finire
acciaccato contro una parete da gente, noi!,
talvolta ridotta un po’, ormai, sul
piano della capacità di pensiero politico, alla condizione di bambini discoli.
Si legge nell’enciclica Laudato
si:
5°. AMORE CIVILE E
POLITICO
228. La
cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere
insieme e di comunione. Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro
Padre comune e che questo ci rende fratelli. L’amore fraterno può solo essere
gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un
anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici.
Questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi,
benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di
una fraternità universale.
229. Occorre sentire nuovamente che abbiamo
bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e
verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci
gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il
momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della
vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri
interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e
impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.
230. L’esempio di santa Teresa di Lisieux ci
invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità
di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini
pace e amicizia. Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti
quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento,
dell’egoismo. Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il
mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma.
231. L’amore, pieno di piccoli gesti di cura
reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che
cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per
il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le
relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali,
economici, politici». Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale
di una «civiltà dell’amore». L’amore
sociale è la chiave di un autentico sviluppo: «Per rendere la società più
umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale –
a livello, politico, economico, culturale - facendone la norma costante e
suprema dell’agire»[dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa,
582].In questo quadro, insieme
all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino
efficacemente il degrado ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni
tutta la società. Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a
intervenire insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare
che ciò fa parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in
tal modo matura e si santifica.
232. Non tutti sono chiamati a lavorare in
maniera diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una
innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune,
difendendo l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un
luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un
paesaggio, una piazza), per proteggere, risanare, migliorare o abbellire
qualcosa che è di tutti. Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e
sorge un nuovo tessuto sociale locale. Così
una comunità si libera dall’indifferenza consumistica. Questo vuol dire anche
coltivare un’identità comune, una storia che si conserva e si trasmette. In
tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della vita dei più poveri,
con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo consapevolezza di abitare
una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni comunitarie, quando
esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in intense esperienze
spirituali.
A chi
vogliamo dare retta, noi adulti di fede italiani? A Trump o al Papa? I due,
come ho osservato, sono agli opposti: uno è l’ “anti-“ dell’altro. Non si può essere trumpisti in politica e papisti in religione, perché, il messaggio di Trump è
più che politica e quello del Papa è più che spirituale, e sono in rotta di
collisione. Entrambi infatti sollecitano ad un impegno sociale, ma seguendo una
spiritualità dell’egoismo nazionale il
primo, mentre il secondo invitando a quella dell’umanesimo e della
fraternità globali. La prima via conduce alla guerra tra pesci grossi, la
seconda ha di mira la pace come bene essenziale dell’umanità. La prima
vuole mantenere, anche a scapito di
tutto il resto del mondo, la ricchezza nella nazione che per ora è la più ricca
del mondo, la seconda vuole la giustizia tra le nazioni come strategia di pace.
Mentre Trump urla “Solo noi!”, il
Papa dice “Tutti noi”.
28. Il neo-nazionalismo: un problema di corruzione
spirituale della società
[Dal Manifesto di Ventotene, ideato
nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Immense masse di uomini e di
ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie. Le forze di
queste potenze hanno raggiunto il loro culmine e non possono oramai che
consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il
momento della massima depressione e sono in ascesa. La guerra degli alleati
risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione anche nei paesi
che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano come smarriti per il colpo
ricevuto. E persino risveglia tale volontà nei popoli delle potenze
dell'Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione
disperata solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.
Il lento processo, grazie al
quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo
regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è
invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata, che
lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressiste; e, le
parti più illuminate delle classi lavoratrici che si erano lasciate
distogliere, dal terrore e dalle lusinghe, nella loro aspirazione ad una
superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti
intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta l'intelligenza; imprenditori,
che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature
burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro
movimento; tutti coloro, infine, che, per un senso innato di
dignità, non sanno piegar la spina dorsale nella umiliazione della servitù.
A tutte queste forze è oggi affidata
la salvezza della nostra civiltà.
[…]
Le forze conservatrici,
cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali […]
hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno
accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno
presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della
libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato
abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano
paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la
forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.
Il punto sul quale essi
cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale.
Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai
recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento
patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le
idee degli avversari, dato che per le masse popolari l'unica esperienza
politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è
perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul
terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
Se raggiungessero questo scopo
avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente
democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari
sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e
ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo
nella forza delle armi.
[…]
Il problema che in primo luogo va
risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è
la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali
sovrani.
[…]
Gli spiriti sono giù ora molto
meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell'Europa.
La dura esperienza ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha
fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
[…]
E' ormai dimostrata la inutilità,
anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che
pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare
capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli
stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non
intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di
darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna
di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri
paesi europei.
Insolubili sono diventati i molteplici
problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione
mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati
nell'interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc., che troverebbero
nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l'hanno trovata in
passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle
più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi
in problemi di rapporti fra le diverse provincie.
D'altra parte la fine del senso
di sicurezza nella inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli
inglesi la "splendid isolation", la dissoluzione
dell'esercito e della stessa repubblica francese, al primo serio urto delle
forze tedesche - risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la
presunzione sciovinista della superiorità gallica - e specialmente la coscienza
della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte
circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale che ponga
fine all'attuale anarchia. Ed il fatto che l'Inghilterra abbia accettato il
principio dell'indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto
col riconoscimento della sconfitta, tutto il suo impero, rendono più agevole
trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea dei
problemi coloniali.
***********************************
Gli autori del Manifesto di
Ventotene pensavano di costruire la pace europea istituendo in
Europa uno stato federale simile agli Stati Uniti d’America, con una propria
organizzazione armata in grado di imporre le sue decisioni anche con la forza e
che superasse gli stati nazionali, vale a dire quelli fortemente
caratterizzati sul piano delle culture sociali, quindi con riguardo a
determinati connotati etnici, linguistici, religiosi, economici, militari,
derivanti dalla loro storia. Questo perché la lunga fase di conflitto bellico
sviluppatasi tra il 1914 e il loro tempo (scrivevano ne mezzo dell’ultima epoca
di guerra) appariva originata da conflitti tra stati nazionali,
benché nella Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) avessero preso sempre più
importanza i motivi di divisione ideologica, in particolare tra le società
democratico-liberali con economia capitalista, quelle riorganizzate dai
fascismi europei, il più potente dei quali si era manifestato il nazismo
tedesco, e le società cadute sotto il dominio sovietico, nell’immenso
territorio un tempo dominato dal regime della Russia zarista. Pensavano quindi
di ripetere sul continente il processo politico che aveva portato alla faticosa
costruzione dell’unità nazionale italiana. Il processo di unificazione europea
ha poi presso un’altra via, in particolare seguendo il pensiero del politico
francese Jean Monnet (1988-1979). Chi desidera approfondire può farlo sul
portale WEB della Treccani a questo indirizzo
<http://www.treccani.it/enciclopedia/europeismo_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/>.
I nazionalisti italiani dell’Ottocento
scoprirono che “fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani”,
vale a dire che gli elementi culturali unificantiche avevano
sorretto il movimento politico per l’unità nazionale erano propri di classi
piuttosto ristrette, in particolare di ceti colti, con scarsa rappresentanza
delle masse popolari. Bisognava creare nei popoli italiani i presupposti per il
consolidamento dell’unità nazionale, innanzi tutto elevando il livello di
istruzione popolare, che era molto basso, istituendo un servizio nazionale di
stato per l’istruzione di base, quella elementare. Anche la leva militare
fu utilizzata a questo scopo, anche se coinvolgeva solo i maschi. Il più
potente fattore di coesione culturale delle genti italiane era costituito, all’epoca,
dalla fede religiosa, ma esso poté essere utilizzato politicamente solo molto
più tardi, nel secondo decennio del Novecento, perché l’unità nazionale
si era fatta anche contro il papato, che dominava uno dei piccoli regni in cui
l’Italia era suddivisa e che vennero soppressi nel processo politico di
unificazione. I Papi, quindi, vietarono a lungo ai fedeli cattolici la politica
nazionale e ciò fino al 1913.
Nel processo di unificazione europea
iniziato negli anni ’50 del secolo scorso, si cominciò dal tentativo di indurre
un avvicinamento delle economie e delle società europee, come premessa per una
progressiva cessione di sovranità degli stati nazionali alle
istituzioni europee. Negli ultimi trent’anni questo processo ha coinvolto masse
di giovani in programmi di integrazione scolastica che prevedono che liceali e
universitari possano svolgere parte dei loro studi in altri stati europei.
Questo ha portato i giovani ad essere molto più europeisti dei loro genitori,
formatisi nella cultura dello stato nazionale. Nelle difficoltà attuali
dell’Europa, però, molta gente non pensa alle istituzioni europee come
una risorsa per resistere e superarle, ma come a un impedimento e addirittura
come una loro causa. Nel voto al referendum in Gran Bretagna per l’uscita dall’Unione
Europea è risultato che i più anziani, quelli meno acculturati all'europeismo,
sono stati determinanti. Il processo culturale per l’unificazione europea non
ha quindi ancora raggiunto quel grado che consenta di proteggere le nuove
istituzioni dalla minaccia di dissoluzione. Ai tempi in cui fu scritto
il Manifesto di Ventotene, e ancor più alla caduta dei fascismi
europei, nel 1945, fu chiaro invece che i popoli europei potevano risollevarsi
solo tutti insieme, superando gli egoismi nazionali che li avevano divisi e
condotti a combattersi.
I nazionalismi in cui sta ricadendo
l’Europa sono molto diversi da quelli del passato, che facevano leva, in
particolare in Italia, sulla scarsa istruzione popolare, che rendeva la gente
più facilmente manovrabile. Piuttosto essi appaiono come un’estensione su
grande scala, dalla realtà domestica a quella degli stati e dell’organizzazione
del continente, di egoismi consumistici individuali, per cui si pensa che, possedendo
ciò che bisogna possedere, tutto il resto conti poco e, in particolare il
grado di ingiustizia sociale che c’è in ciò che si è comprato e si possiede. I
vecchi nazionalismi facevano leva sullo spirito di sacrificio della gente,
spingendola anche a dare la vita per il bene della
nazione, intesa in definitiva come la casa dei padri, la patria.
Tutta l’epica nazionalista Ottocentesca è piena di figure esemplari così. Il
nazionalismo di oggi si basa invece sull’idea che non valga assolutamente la
pena di sacrificarsi per nulla al mondo e quindi sulla volontà
di tutelare, non tanto la propria roba, ma la possibilità dicomprare tutto
ciò che si desidera, buttando ciò che non è più di moda possedere. L’idea di
limitarsi in questo per ragioni umanitarie spaventa, perché da cittadini siamo
diventati consumatori, come ha spiegato bene Zygmunt Bauman, e in
questo continuo consumare troviamo ilsenso della vita,
il nostro benessere sociale, la nostra fonte di integrazione con
gli altri. Ecco perché il neo-nazionalismo non ha più bisogno dei miti che
riempivano ad esempio l’ideologia popolare del fascismo mussoliniano, basata su
una reinterpretazione della storia imperiale romana. Il vecchio nazionalismo
era altruistico, benché solo su scala nazionale: per la patria si
era spinti a dare anche la vita, a perdere tutto, come si cantava nella lirica
di Paolo Pola: Chi per la patria muor / vissuto è assai / la
fronda dell’allor/ non langue mai[dal melodramma
di Saverio Mercadante, Caritea, regina di Spagna,
ossia La morte di Don Alfonso re di Portogallo, messo in scena nel 1826;
due atti con libretto curato da Paolo Pola]. Nel neo-nazionalismo
contemporaneo tutti vogliono salvarsi anche a costo di abbandonare gli altri,
in particolare ributtando a mare le genti che arrivano
da altri continenti. Questo mette in questione la fede religiosa? Come si
raggiunge l’integrazione tra fede e vita, ragionando così? E se si
vuole innanzi tutto salvarsi come individui, come ci si
salverà come nazione? E come ci si salverà come individui, se il salvarsi
richiede di agire come nazione e anche in un ambito più vasto? C’è in questione
anche una spiritualità, come è spiegato nell’ultimo capitolo
dell’enciclica Laudato si’. Occorre una specifica formazionealla
cittadinanza europea, che, proprio per gli elementi di spiritualità che
connotano i problemi di oggi, dovrebbe farsi anche in religione, ma in genere
non si fa.
Bauman ha spiegato
che quello che i vecchi nazionalismi ottenevano con la mitologia e la forza,
quelli attuali riescono ad ottenere spontaneamente dalla gente: quest’ultima si
accomoda disciplinatamente alla cassa, senza più necessità di
polizia per tenerla a freno. E lì pensa solo a sé stessa e a ciò che sta
acquistando, al proprio giocattolo nuovo, che presto abbandonerà. Come è
scritto nell’enciclica la nostra società produce molti rifiuti, e anche di tipo
umano, vite abbandonate.
Spinelli e i suoi
amici avevano una certa idea delle classi conservatrici, che
avrebbero tentato di mantenere il dominio anche dopo la caduta dei fascismi
europei. Bisogna dire che esse sono molto mutate, si sono fatte meno visibili,
nascoste dietro uno dei miti di oggi, quello delmercato. Quest’ultimo,
per la sua dimensione anche spirituale e la sua personificazione al modo delle
antiche divinità, è divenuto, nella considerazione di molta gente, un
nuovo dio. Anche di questo si parla nell’enciclica Laudato
si’. Esso ci domina e, spingendoci gli uni contro gli
altri, dividendoci, mantiene il controllo su di noi. E noi,
pensando di fare solo il nostro interesse, lasciandoci dividere dagli altri,
facciamo il suo gioco. Il suo, però, è un vero giogo, e non è
dolce come quello del Maestro. Infatti ci rende schiavi. "Schiavi
di un dio minore", secondo il titolo del bel libro di Arduino e
Lipperini sulle nuove schiavitù che ho citato qualche giorno fa (disponibile
anche in e-book).
29. Economia e comunione
Di solito sono piuttosto parco nel citare e riportare documenti dei
Papi, perché è stata letteratura sovrabbondante che ha un po’ compresso tutto
il resto limitando il dialogo, ma questo
breve pezzo che segue lo devo proprio
trascrivere integralmente per la grande emozione che mi ha procurato e il
sentimento di totale condivisione.
dal sito WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papa-francesco_20170204_focolari.html
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO "ECONOMIA DI COMUNIONE",
PROMOSSO DAL MOVIMENTO DEI FOCOLARI
Aula Paolo VI
Sabato, 4 febbraio 2017
Cari fratelli e sorelle,
sono
lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo
sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e
ringrazio in particolare il coordinatore, Prof. Luigino Bruni, per le sue
cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze.
Economia e comunione. Due parole che la
cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che
voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi
rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della
diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare
agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo
questo. L’imprenditore da voi è visto
come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete
iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa.
L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può
edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle
quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più
bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più
piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti.
Pensando
al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose.
La prima
riguarda il denaro. È molto
importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei
vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti,
espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi.
Non a caso la prima azione pubblica di
Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr
2,13-21). Non si può comprendere il
nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più
potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non
scaccia? Il denaro è importante,
soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei
figli. Ma diventa idolo quando diventa
il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di
idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire.
E’ stato Gesù, proprio Lui, a dare
categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due
padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto
Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.
Quando il capitalismo fa della ricerca del
profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una
forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa
finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di
famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico
è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…)
invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne
immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.
Si capisce, allora, il valore etico e
spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il
modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo,
condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare
i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri
profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al
denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non
dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire
alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo!
La
seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale
nel vostro movimento.
Oggi si
attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la
povertà. E tutto ciò, da una parte, è
una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli
“scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la
spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti
non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società
restavano molti. Oggi abbiamo inventato
altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia
sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle
tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed
elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la
legge basilare della vita: il reciproco soccorso.
Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza
– il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi
vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la
creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più
vedere. Una grave forma di povertà
di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima
vengono scartati e poi nascosti.
Gli
aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto
pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società
dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse
creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare
i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine.
Questa è l’ipocrisia!
L’economia di comunione, se vuole essere
fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un
sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano
più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona
scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità
universale non è piena.
Bisogna allora puntare a cambiare le regole
del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo
non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si
imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon
samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di
fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si
imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono
briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo
dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la
comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio
prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno
sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare
dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del
merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a
fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano
sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con
i porci. Nessun figlio, nessun uomo,
neanche il più ribelle, merita le ghiande.
Infine,
la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono
che la comunione e l’impresa possono
stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata
ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale
del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non
sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un
agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che
incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci
hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino,
l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.
Non occorre essere in molti per cambiare la
nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro
da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il
sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo
sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità.
Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di
salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di
potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando
semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il
passare del tempo. Come fare per non
perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?
Quando
non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del
pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando
dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella
donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma
anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di
nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta
attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo,
non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo
teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può
ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non
resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e
ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare
il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non
solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è
la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il
denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani
hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità
rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro
denaro.
Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È
semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone
che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci
possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella
logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.
Queste
cose voi le fate già. Ma potete
condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture
per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il
vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che
uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include
i poveri, usa i profitti per creare comunione.
Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con
coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7).
Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo
ancora di più.
Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e
lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno
condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.
30. Pace, perdono e indole personale
Dal Messaggio per la 50° Giornata
mondiale della pace di papa Francesco
La radice domestica di una politica nonviolenta
5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza
è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della
nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di
quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione
apostolica Amoris laetitia [= La
gioia dell’amore], a conclusione di due anni di riflessione da parte della
Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo
attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a
comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove
gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza,
ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia
e il perdono. Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga
nel mondo e si irradia in tutta la società. D’altronde, un’etica di
fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può
basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla
responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un
appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle
armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca
assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico
che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.
************************************************
In una riunione del gruppo parrocchiale
di AC ci siamo interrogati sulle radici personali e familiari della vita pacificata.
Preferiamo essere amati o temuti? Ci
conosciamo veramente, o siamo troppo indulgenti con noi stessi nel riconoscere
caratteristiche della nostra indole come l’aggressività, l’intransigenza, la
durezza, che portano inevitabilmente a situazioni di conflitto. Abbiamo letto
un brano della Regola di Benedetto da Norcia (480-547),
nella quale si consiglia ai capi di comunità di cercare di farsi amare più che
temere, e un brano tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli
(1469-1527) in cui si dà l’indicazione opposta, perché il capo che faccia conto
sull’amore dei suoi sottoposti viene in genere tradito nelle avversità, mentre
il timore dura per sempre e rende coese le società. Infine con l’aiuto di don
Giorgio abbiamo meditato sul brano evangelico con la parabola detta del Servo
malvagio (Mt 18, 21-35), in cui a un servo viene condonato un debito
rilevantissimo, ma poi rifiuta di condonare a sua volta a un suo debitore un
debito molto più piccolo, facendolo gettare in prigione, subendo lo sdegno del
suo padrone. Siamo capaci di perdonare, di condonare agli
altri i debiti che pensiamo abbiano contratto verso di noi? Il parroco, che è
da poco tornato da un viaggio in Uganda per incontrare alcuni missionari che là
operano, ci ha raccontato dei duri conflitti tribali che travagliano quella
parte dell’Africa e che non si riesce a sopire: la soluzione, attuata in altre
parti dell’Africa, potrebbe basarsi sul perdono, al modo in cui lo si è fatto
in Italia alla caduta del fascismo. Vendetta chiama vendetta e di vendetta in
vendetta si distrugge il contesto civile, come ancora osserviamo in alcune zone
del nostro Meridione. Abbiamo infine richiamato alla memoria il passo del
recente Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace di
papa Francesco, in cui si esorta a “percorrere il sentiero della nonviolenza
in primo luogo all’interno della famiglia”. Infatti, ha scritto il Papa, “l’origine
da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini”.
In quel messaggio il Papa indica la
necessità di una politica nonviolenta a partire dalla
realtà domestica. Quest’ultima non sempre è pacificata e
fonte di gioia. Vive tensioni che possono sfociare in violenza, come le
cronache ci raccontano sempre più spesso. Per certi versi i mali sociali si
riflettono sulle realtà familiari, le quali a loro volta ne sono anche sono
espressione e origine. Parlare di pace è facile e bello, praticare la
pace è molto più difficile. E, quando si vive in famiglia, sono appunto
le pratiche quotidiane di vita che possono fare soffrire
e che, dunque, bisognerebbe cambiare. Nella famiglia si può educare alla pace
o, al contrario, alla violenza e alla sopraffazione. E’ lì che si può
cominciare a sperimentare la sopraffazione tra esseri umani, ad esempio tra
maschi e femmine, tra genitori e figli e tra fratelli. Le tradizioni etniche,
religiose e politiche della società in cui la famiglia è immersa la possono
condizionare pesantemente anche in senso negativo. In religione, in
particolare, è in genere ancora piuttosto critica la questione del ruolo delle
donne nella famiglia, sia nel rapporto coniugale sia in quello filiale. E’ in
famiglia che si forma la nostra indole, certe nostre caratteristiche che
tendono a permanere nel corso di tutta la vita, e la psicologia ce ne dà la
spiegazione. Ma non dobbiamo sottovalutare la capacità di cambiamento che una
persona può avere nel corso della propria vita, solo che riesca a prendere
coscienza della radice del male che c’è in lei e nella società intorno ed avere
gli amici giusti. Di solito i problemi sociali non derivano solo e in primo
luogo dall’indole degli individui, ma dall’organizzazione sociale che una
civiltà ha prodotto e che è alla base della produzione e distribuzione delle
risorse e di ciò che la gente desidera per sé per raggiungere la felicità, come
anche delle regole della vita delle famiglie. E’ qui che la pace diventa un
problema politico. Se non si riesce a compiere il passaggio dal particolare,
dall'individuo e dalla sua famiglia alla società intorno, non si passa mai alla
dimensione politica e anche le soluzioni ai mali sociali sfuggono. Spesso però
in religione si è indicata una via della pace attraverso il perdono che si
esprimeva nella rinuncia alla lotta, per cui la religione è apparsa, è non di
rado lo è effettivamente diventata, uno dei modi con cui le classi dominanti
tiranneggiavano quello sottoposte. L’ingenua ideologia corporativa delle
origini della dottrina sociale in sostanza consisteva proprio in questo: non
era capace di apprezzare il potenziale di liberazione attraverso coscienza
collettiva e lotta sociale espresso da certe politiche, ad esempio quelle nonviolente che
furono proprie di Mohandas Gandhi in India e di Martin Luther King negli Stati
Uniti d’America.
“Dall’interno della famiglia la gioia
dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società”, si legge
nel Messaggio del Papa: questa, in realtà, più che una
constatazione di ciò che veramente accade, è un auspicio e un’esortazione. E’
però tanto difficile passare dalla dimensione domestica a quella sociale, fino
a comprendere tutto il mondo. Il mondo fa paura e allora non di rado veniamo
consigliati a rinchiuderci nelle realtà familiari, appagandocene. E’, in fondo,
una via neo-tribale ad una religione difensiva, di
protezione contro i mali del mondo, la comunità di fede come neo-tribù di
famiglie. Difficile però far sopravvivere un mondo di sette miliardi di persone
con organizzazioni neo-tribali: in questo modo, in realtà, ritirandosi
sostanzialmente dalla politica, si lascia il campo alle forze che, a livello
globale, diffondono un’organizzazione ingiusta e predatoria delle società,
creando tanta sofferenza e, in particolare, privando progressivamente, nel nome
della libertà, le organizzazioni pubbliche dei poteri e risorse che loro
competono per realizzare il bene comune, in particolare l’equità sociale.
L’ideologia globale proclama la legge della giungla, quella del forte che
mangia il debole e rifiuta ogni limite posto dalle collettività a fini di
giustizia sociale: preferisce rapporti bilaterali, tra un forte e
un debole, e in questo modo finisce come deve finire. Così una persona può
cercare di essere buona e di farsi amare, e anche di costruire una famiglia
basata su questi principi, ma se poi non si occupa di politica,
quindi di ciò che c’è appena oltre la porta di casa, non fa tutto il suo
dovere, anche in senso religioso. E’ docile, non usa la
violenza, ma questo diventa in fondo una manifestazione di resa al male, di arrendevolezza. Capire
la società per influirvi consapevolmente è però più difficile che capire la
propria famiglia, fondata su rapporti elementari. Anche perché la società si è
fatta molto più complessa di una volta: siamo tanti di più di prima al mondo. E
non bastano i testi sacri per orientarsi. Dunque una formazione religiosa fatta
solo di questi ultimi, di qualche istruzione liturgica e di famiglia è
insufficiente. Fin da molto piccoli, fin dalle società di bambini, ci si
confronta con il male sociale, ma se non si ha avuta, in famiglia o a scuola o
in religione, una formazione specifica non si riesce ad affrontarlo. Lavorarci
su richiede di creare un’organizzazione, fin da molto giovani. Una realtà
sociale come la parrocchia dispone delle strutture giuste per attuarla. E’ una
grande responsabilità. Come partire, o ripartire, nei casi in cui si è
interrotta una tradizione, una memoria. Certe cose vanno riscoperte e riprese.
Innanzi tutto occorre creare occasioni di incontro in parrocchia molto più
prolungate delle usuali liturgie ed esercizi spirituali. Un ragazzo dovrebbe
abituarsi a venire a studiare da noi, insieme agli altri: così la religione
inizierebbe ad apparirgli utile per la vita. Ci vorrebbe un ambiente adatto,
con molti libri, connessione wi-fi e strumenti multimediali. E
un’organizzazione di volontariato per custodirlo e curarlo. Poi un programma di
riflessione, basato su certi libri di testo, e gente che spieghi come si lavora
insieme in queste cose, delle quali i più non hanno più esperienza, in modo che
il tempo insieme non sia tempo perso o solo impiegato per lo studio personale.
E' infatti dal confronto tra tanti punti di vista che
scaturisce un'immagine affidabile della realtà intorno.
Serve
materiale, soprattutto servono libri, che ora sono divenuti più accessibili in
formato digitale. Se non se ne ha a sufficienza o non se ne ha del tutto, come
fare a capire la società?
Ricordo
che la sala della Rettoria di S. Ivo alla Sapienza, a corso Rinascimento,
nell’antica sede dell’Università Sapienza, dove si riunivano i soci del
movimento romano dei Laureati cattolici che tanta parte ebbero nella
ricostruzione politica ed economica dell’Italia dopo la caduta del fascismo,
era appunto un luogo di incontro con un tavolo e tante sedie e, intorno, tanti
libri. Lì si attuò il passaggio virtuoso, il tirocinio innanzi tutto, dalla
religione individuale e domestica alla politica animata dai valori di fede,
attraverso la costruzione di una sapienza collettiva. Era un posto all'interno
dell'Università, proprio lì dove gli universitari e i loro docenti passavano
gran parte del giorno: al centro della società non in suo angolino appartato.
31. Un mondo sta finendo
Le autorità che
parteciparono alla firma del Trattato del 1951 di Parigi che istituì la prima
delle Comunità Europee, la Comunità
Europea del Carbone e dell’Acciaio, tra Belgio, Germania, Francia, Italia,
Lussemburgo e Olanda fuorono: Paul Van Zeeland, ministro degli esteri belga,
Joseph Bech, ministro degli esteri del Lussemburgo, Joseph Meurice, ministro
del Commercio estero del Belgio, Carlo Sforza, ministro degli esteri italiano,
Robert Shuman, ministro degli esteri francese, Konrad Adenauer, capo del
governo e ministro degli esteri tedesco, Dirk Stikker, ministro degli esteri
olandese, Johannes van de Brink, ministro degli affari economici olandese.
L’iniziativa del trattato fu del francese Robert Shuman, per mettere fine alle
situazioni di potenziale conflitto tra Francia e Germania. L’azione della
Germania, che nella firma del trattato fu rappresentata al più alto livello, fu
determinante. Ma senza la partecipazione dell’Italia il trattato sarebbe
rimasto, in definitiva, un accordo franco-tedesco limitato, non l’abbozzo di
un’Europa unita a livello continentale. L’Unione Europea si dissolverà quando
uno di questi stati fondatori, Francia, Germania e Italia, la dovesse lasciare.
[Dal Manifesto di Ventotene, scritto
nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Un'Europa libera e unita è
premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l'era
totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere
immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i
privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne
impedivano l'attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà
essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea,
per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè
dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse
di condizioni più umane di vita.
La bussola di orientamento per i
provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio
puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali
di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in
linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La
statizzazione generale dell'economia è stata la prima forma utopistica in cui
le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo
capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato,
bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita
alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in
Russia.
Il principio veramente
fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione
generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello
secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come
avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate
nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le
gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale,
non vanno spente nella morta gora della pratica "routinière"
[=secondo un programma sempre uguale] per trovarsi poi di fronte all'insolubile
problema di resuscitare lo spirito d'iniziativa con le differenziazioni dei
salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo
dell'U.R.S.S. [Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il regime
politico che aveva sostituito quello imperiale zarista nel dominio della Russia
e delle popolazioni asiatiche conquistate dai russi in epoca zarista, durato
dal 1917 al 1991], col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle
forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di
sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli
argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la
collettività.
La proprietà privata deve
essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente
in linea di principio.
Questa direttiva si inserisce
naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea
liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa
possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici
oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi
comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale
deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei
lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di
questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto
programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto
oramai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:
a. non si possono più lasciare ai privati
le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in
condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie
elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni
di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi,
sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo
tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le
imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai
occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli
organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa(es. industrie
minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il
campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala
vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;
b. le caratteristiche che hanno avuto in passato
il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di
accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà
distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per
eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl'istrumenti di
produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far
loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè
ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti
enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che
estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con
le gestioni cooperative, l'azionariato operaio, ecc.;
c. i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al
minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola
pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi
superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà
preparare, in ogni branca di studi per l'avviamento ai diversi mestieri e alla
diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente
alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi
pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque
possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell'interno di ciascuna
categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;
d. la potenzialità quasi senza limiti
della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna,
permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente
piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario
per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che
riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le
forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui
conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che
garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un
tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così
nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro
iugulatori;
e. la liberazione delle classi
lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti
precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati
monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi
sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere
liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a
cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici
per garantire l'osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze
monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno
realizzate quelle trasformazioni sociali.
Questi sono i cambiamenti necessari
per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini
interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata
impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su
queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto
e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà
una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e
continuo controllo sulla classe governante.
****************************************************
Mie considerazioni
Quando si ragiona di politica,
bisognerebbe tenere sempre tra le mani l’ultimo volume del corso di storia
delle scuole superiori. Quello è un libro da cui non separarsi per tutta la
vita. E se, per qualche motivo, non lo si ha più in casa, bisogna ricomprarlo.
I libri sono tra le cose più a buon mercato nella nostra civiltà. Ma ce ne sono
molti di inutili, semplice solletico per la mente. Non è così per quelli di
storia delle scuole. Senza quel libro di storia di cui ho detto, da dove
partire? Si fanno solo delle chiacchiere, riprendendo quelle ascoltate in
televisione o, peggio, quelle che si fanno sulle reti sociali sul WEB.
Quando sono nato, erano passati solo
dodici anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e nove anni
dall’istituzione della Repubblica italiana democratica. Si viveva in un’epoca
di forte sviluppo economico, nonostante che le ferite tremende della
guerra fossero ancora aperte nella società e nei luoghi dove la gente viveva.
L’economia nazionale era influenzata favorevolmente dalla cooperazione
internazionale e dalle condizioni di mercato dell’epoca, con basso costo
del lavoro e dell’energia. Negli anni successivi un certo benessere si diffuse
anche nelle masse popolari, generando varie rivendicazioni sociali. Questo
ciclo economico ebbe fine all’inizio degli anni ’70. Seguirono circa dieci anni
di ciclo depressivo, poi circa altri dieci anni di ripresa economica, poi
iniziò l’era dell’economia mondiale che stiamo ancora vivendo, basata sulla
globalizzazione dei mercati con vantaggi e svantaggi per la gente e, infine,
una lunga depressione economica in Europa, arrivata nel 2008 dagli Stati Uniti
d’America e ancora non superata.
Dunque, dicevo, sono nato a dodici anni
dalla fine della guerra mondiale.
Se oggi andiamo indietro di dodici anni
che troviamo? Più o meno l’Europa di adesso. Un continente sicuro e
pacificato. Ma sarebbe così anche andando più indietro nel tempo.
Fino agli anni ’80 troveremmo un’Europa divisa in due da regimi
politico-economici molto diversi: quelli capitalistici nella parte occidentale,
quelli comunisti in quella orientale. Il confine, che Winston Churchill
definì “Cortina di ferro” per la sua impenetrabilità, correva lungo
le due parti della Germania in cui quello stato era stato diviso politicamente
dopo la caduta del regime nazista, lungo il confine tra l’Austria e l’Ungheria
e quello tra l’Italia e la Jugoslavia, uno stato che oggi non c’è più, ma che
all’epoca federava Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e
Montenegro, e infine lungo il confine tra l’Italia e l’Albania e quello
tra quest'ultima, la Bulgaria, da una parte, e la Grecia dall'altra. Ma
l’Europa occidentale, e l'Italia in particolare, non era molto diversa da
ora.
Nel 2012 i saggi del Premio Nobel
attribuirono quello per la pace all’Unione Europea. Infatti è proprio questo
più eclatante effetto del processi di cooperazione e integrazione europea: un
lunghissimo periodo di pace, quale le generazioni europee precedenti non
avevano mai vissuto. Quando ero bambino, facevo le elementari, mia nonna
Rosa, nata all'inizio del Novecento, mi raccontava che nella sua vita
c’era stata una guerra più o meno ogni dieci anni, perché a quelle mondiali bisognava
aggiungere quelle coloniali. E si stupiva che non ne fosse
ancora iniziata una: si era all’inizio degli anni Sessanta. Anche il mio
maestro delle elementari la pensava nello stesso modo. Per lui ci sarebbero
state a breve altre guerre e noi, ci diceva, dovevamo prepararci, perché
sicuramente saremmo stati chiamati a combatterne una, non appena avessimo
raggiunto la maggiore età, che all’epoca era a ventuno anni. Ma quelle guerre
non vennero da noi. Negli anni ’90 scoppiarono in Jugoslavia, nel processo di
dissoluzione di quello stato, e anche l’Italia vi partecipò, ma solo con
l’aviazione militare e nel quadro di un’azione della NATO. Fu un conflitto
limitato, interno alla stessa Jugoslavia. Oggi la Slovenia e la Croazia, che
combatterono quelle guerre, sono parte dell’Unione Europea, e Bosnia-Erzegovina
e Serbia sono in procinto di diventarlo.
A che cosa è stato dovuto quel lungo
periodo di pace?
Dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale il mondo si polarizzò intorno alle due maggiori potenze vincitrici, i
maggiori tra gli Alleati che avevano combattuto i fascismi europei, tra i quali
quello italiano, precursore e modello di tutti i fascismi europei: Stati Uniti
d’America, una potenza americana, e Unione Sovietica, una potenza
euroasiatica; la prima ad economia capitalista avanzata, la secondo ad economia
capitalista. Entrambe volevano esportare il loro modello politico ed economico
in tutto il mondo. Oguna riteneva l'altra un pericolo mortale ed entrambe, in
funzione essenzialmente difensiva come dichiaravano i loro capi, si dotarono di
armi nucleari sempre più potenti e sofisticate. Se usate, esse avrebbero
portato alla distruzione del mondo intero, compresi gli stati che le avevano
lanciate. Per farsi un’idea della situazione dell’epoca si può vedere il film Il
dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la
bomba, del regista Stanley Kubrik, realizzato nel 1964, (in commercio su
DVD ad €7,43) e il romanzo di Nevil Shute, L’ultima spiaggia, del
1957 (disponibile in e-book ad €3,99). Un conflitto globale, mondiale,
con il coinvolgimento di quelle due super-potene divenne impossibile. In
questo una grande anima come Giorgio La Pira vide la manifestazione di un
disegno provvidenziale. In realtà conflitti locali, più limitati, continuarono
ad essere combattuti, anche tra la grandi potenze, come nella guerra in Corea
(1950-1953) e nella lunghissima guerra in Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia),
dal 1955 al 1975. Ma non in Europa, in particolare lungo la frontiera tra
Germania e Francia, al centro dell’Europa, che divideva i sistemi politici dai
quali erano originate le due Guerre mondiali del Novecento. Perché? E’ stato
merito del processo di integrazione e cooperazione europea che ha
progressivamente eliminato le ragioni di conflitto e avvicinato i popoli
europei, fino a rendere inutili i posti di frontiera tra nazioni che si erano
lungamente e strenuamente combattute. Un processo che non ha riguardato le
nazioni integrate nell’analogo organismo di cooperazione europea promosso
nell’area dominata dai sovietici, il COMECON, con la conseguenza
che gli stati che hanno aderito all’Unione Europea dopo essere stata inclusi
dal 1945 nell’area di influenza sovietica appaiono molto meno integrati tra
loro di quanto appaiono le nazioni dell’Europa occidentale. In particolare fra
di essi è ancora molto forte il nazionalismo che il processo di integrazione
europeo ha fortemente contrastato.
Il processo di pacificazione tra i
popoli europei attuato progressivamente nel quadro di politiche internazionali
europeiste ha comportato incisive riforme sociali, nel senso di quelle
auspicate dagli autori del Manifesto di Ventotene, in particolare
nel settore dell’economia, del lavoro e della sicurezza sociale. Esse
erano nel programma politico dei partiti socialisti europei, fin
dall’Ottocento. La Chiesa cattolica inizialmente le contrastò: del resto
la prima enciclicasociale, intitolata Le novità,
diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone
13°, era diretta in primo luogo contro il socialismo. Poi, seguendo in questo
le impostazioni dei partiti popolari democratici europei, ne ha recepito
diversi elementi, tanto che ho letto che al nuovo presidente statunitense il
Papa attuale appare sospetto di socialismo. Ma la giustizia sociale, in
particolare una ragionevole distribuzione delle ricchezze che consenta alle
masse di liberarsi dalla povertà e di condividere il benessere reso possibile
dai moderni mezzi di produzione, quindi ciò che si intende con
l’espressione sicurezza sociale, che significa anche assistenza
nella malattia e negli altri rovesci della vita (come i disastri naturali),
sostegno nella vecchiaia, e protezione del lavoro dagli arbitri di chi
controlla i processi produttivi, trova giustificazione in sé stessa e non dipende
da questa o quella ideologia. Anche ai nostri tempi, nei quali quasi
nessuno osa più definirsi socialista, in particolare in
Italia per il discredito che è legato a questa denominazione per le ultime
vicende storiche del partito che da noi al socialismo si richiamava
espressamente e per le conseguenze disumane del sistema socialista
sovietico, l’idea di giustizia sociale può continuare ad avere corso, in
particolare seguendo ideali umanitari che anche in religione possono trovare
fondamento. Piuttosto è l’idea di lotta di classe, quindi di
conflitti sociali violenti, che appare meno attuale, perché viviamo in società
democratiche in cui, almeno in teoria, le masse hanno gli strumenti per far
valere certe pretese con metodi nonviolenti. E questo anche se il
conflitto è latente in ogni società umana: in democrazia esso può però essere
gestito pacificamente. Da ciò consegue, però, che la crisi dei processi
democratici mette le società a rischio di una ripresa di lotte sociali
violente.
Una delle prime riforme italiane del
Secondo dopoguerra fu quella agraria, che comportò espropriazione dei latifondi
improduttivi e la distribuzione delle terre ai lavoratori. Si arrivò alla
nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, secondo gli auspici
degli autori delManifesto e fu stabilito che a) la proprietà
privata dovesse essere regolata in modo da assicurarne la funzione
sociale e di renderla accessibile a tutti (art.
42 della Costituzione) e che b) l’impresa privata non potesse svolgersi
in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana (art. 41 della Costituzione). Il sistema di
previdenza sociale per la vecchiaia, l’invalidità e la malattia fu esteso a
tutte le categorie di lavoratori, anche autonomi e, con la riforma sanitaria
del 1978, la maggior parte delle cure divenne accessibile a tutti gratuitamente
o a costi molto contenuti. Per il lavoratori dipendenti si stabilirono minimi
salariali e disposizioni che li tutelassero da licenziamenti arbitrari,
prevedendo una valida tutela giudiziaria dei diritti del lavoro. Fu garantita
l’istruzione pubblica, fino ai livelli più elevati, per larghe fasce della
popolazione. Riforme analoghe furono attuate anche negli altri stati europei interessati
dal processo di unificazione sfociato nell’Unione Europea. In sostanza, le
riforme disegnate dagli autori del Manifesto di Ventotene vennero
attuate e questo fu un fattore importante di pacificazione delle società
europee che si stavano integrando economicamente e politicamente. Tutti i
diritti scaturiti da quelle riforme vengono ancora oggi considerati scontati e
irrinunciabili dalla maggior parte della gente, e invece non lo sono nella
maggior parte del mondo. In origine chi ne proponeva l’istituzione veniva
considerato un socialista rivoluzionario. E penso che vi sia ancora chi,
leggendo oggi il brano del Manifesto di Ventotene che ho sopra
trascritto, si scandalizzerà, leggendo di socialismo. IlManifesto è
un documento molto citato ma poco letto e conosciuto in dettaglio. E in esso il
socialismo c’è.
Il mondo della pace sociale e
internazionale europea sta improvvisamente e rapidamente finendo. Questa è la
novità dei nostri tempi. Si stanno nuovamente creando le condizioni per
guerre mondiali ed europee. Ad un bambino delle elementari di oggi non sarei in
grado di garantire che non dovrà combattere una qualche guerra. E anche la
società italiana si è fatta instabile, man mano che le conquiste sociali dei
passati decenni vengono messe in discussione. In una nazione ancora tra le più
ricche del mondo, sembra che non ce ne sia più per tutti. E’ stato osservato
che sono molto aumentate le diseguaglianze sociali, in modo corrispondente e
progressivo al decadere dei meccanismi di perequazione economica tra le classi
e di protezione di quelle più deboli. L’area del benessere si va restringendo,
il lavoro si va facendo insicuro, la protezione per la vecchiaia non è più
certa per coloro che oggi sono giovani e tutti per tutti i servizi sociali, in
particolare per la sanità, le risorse diminuiscono. Le condizioni di lavoro si
vanno avvicinando a quelle dei lavoratori asiatici che finora hanno prodotto le
merci di uso comune che in Europa acquistiamo a bassissimo prezzo. Nonostante
che il costo del lavoro in Italia sia tra i più bassi in Europa, non vi è una
ripresa dell’occupazione, anche per il diffondersi sempre più di processi
produttivi automatizzati. Ma il fattore che sta determinando il cambiamento è
il mutamento radicale di impostazione politica negli Stati Uniti d’America, la
potenza di riferimento per le nazioni europee, finora fortemente integrata
economicamente e politicamente con l’Europa. Negli anni passati gli
statunitensi hanno assecondato il processo di unificazione europea, prima in chiave
antisovietica e successivamente come fattore di stabilizzazione europea
per gestire la dissoluzione del sistema politico dominato dai sovietici. La
riunificazione delle due Germanie, l’assorbimento nell’Unione Europea dei paesi
baltici e di quelli ex comunisti fino alla Polonia e alla Romania sono stati
gestiti in ambito europeo. Dalla crisi Ucraina in avanti, quindi dal
2014, la politica statunitense è cambiata, e ancor più sta cambiando in questi
giorni. Le due super-potenze che avevano determinato l’ordine politico europeo
dal 1945 non sembrano più interessate ad un’Europa unificata e manovrano per
indebolirla. Stati Uniti d’America e Russia in Europa sono in rotta di
collisione, in particolare sulle questioni delle minoranze russe nelle nazioni
baltiche, su quelle dell’Ucraina e su quella del rafforzamento della forza NATO
in Polonia. La crisi Ucraina ha dimostrato che guerre internazionali possono
ancora essere combattute in Europa, senza scatenare un conflitto
autodistruttivo, quindi senza necessariamente impiegare le armi nucleari.
In Europa i politici populisti
addebitano al processo di integrazione europea mali che derivano invece dalla
degenerazione dei sistemi capitalistici. Questo indebolisce ulteriormente la
base politica del processo di unificazione europea. Le masse sono spinte a
sostenere politiche protezionistiche che sono suicide per nazioni di un
continente come quello europeo che ha prosperato solo nelle fasi di
integrazione economica. E a ripudiare la moneta unica, l’Euro, con il rischio di
ricadere nella situazione, ormai sperimentata solo da chi ha sessanta e più, in
cui i risparmi delle famiglie, così come i salari dei lavoratori, venivano
rapidamente erosi da tassi di inflazione altissimi, prodotti da spregiudicate
politiche monetarie dei governi nazionali.
Un quadro di crisi globale che, per la
prima volta, viene realisticamente e sinteticamente esposto in un documento di
un Papa: nell’enciclica Laudato si’. Le soluzioni proposte sono
abbastanza simili a quelle pensate da Spinelli, Rossi e Colorni, quindi da
socialisti critici, consapevoli sia dei mali dei sistemi capitalistici che di
quelli dei sistemi totalitari basati sul comunismo di impronta sovietica.
Ma certamente in quel documento, destinato ad un pubblico globale, l’Europa
non c’è. Del resto è scritto da un americano. Occorre quindi, nel processo di
formazione all’azione sociale dei laici di fede italiani, integrarlo, in
particolare vincendo i sospetti di laicismo che negli ultimi anni hanno
guastato il confronto tra il mondo della nostra fede e quello delle politiche
europeiste.
32. Impegno
religioso e impegno politico: la particolarità italiana
Nell’enciclica Laudato si’, del
2015, vi è un forte appello all’impegno politico delle persone di fede. Non è
un insegnamento nuovo, ma questa volta è inserito in un’analisi realistica di
come va il mondo oggi e delle cause dei principali mali sociali.
E’ dalla metà dell’Ottocento che il
papato romano, principalmente per opporsi al processo di unificazione nazionale
italiana e poi per reagire ad esso, ha attivato politicamente le masse,
costituendo quello che Guido Formigoni, nel libro Alla prova della
democrazia - Chiesa cattolici e modernità nell’Italia del ‘900, Il
Margine, 2008, ha definito movimentoguelfo (nel Medioevo erano guelfi i
Comuni che seguivano la politica del papato romano). A lungo quest’ultimo ebbe
carattere sovversivo, opponendosi ai partiti di governo dell’epoca, tanto da
essere colpito dall’applicazione di leggi sulla sicurezza nazionale.
Quest’azione incise profondamente nell’assimilazione dei principi
democratici da parte dei fedeli e favorì la fusione, più o meno tra il 1930 e
il 1938, tra ideologia fascista e ideologia del cattolicesimo politico. Il
fascismo ebbe in comune con il movimento guelfo il carattere
di opposizione ai principi della politica liberale, l’autoritarismo, il
corporativismo anti-socialista, quindi la visione della società come di un
corpo vivente in cui le singole parti per il bene comune dovessero accettare
una gerarchianaturale di pochi sui molti senza che questi ultimi
potessero influire nelle scelte collettive se non eseguendo direttive
superiori, una concezione della famiglia di tipo patriarcale maschilista
centrata sull’autorità di un padre, modello di tutta
l’organizzazione sociale. Entrambi i movimenti erano iniziati come sovversivi,
ma entrambi vennero poi accettati dalla classe dominante, che in Italia era
costituita da un borghesia imprenditoriale che chiedeva protezione
statale dei propri affari e un trattamento preferenziale nelle
commesse pubbliche, in funzione di stabilizzazione dell’ordine sociale. Alla
caduta del fascismo, nel 1945, il movimento guelfo rimase come attore politico
principale integrandosi con i neo-cattolici democratici di Alcide De Gasperi e
Giuseppe Dossetti, e loro epigoni. Tutte le fasi della politica democratica
italiana dal Secondo dopoguerra fino all’inizio del regno di papa Francesco
furono mediate dal movimento guelfo controllato dal papato romano, anche dopo
la varie metamorfosi del cattolicesimo democratico dovute alla fine dei regimi
di osservanza sovietica nell’Europa orientale, con la contemporanea metamorfosi
del Partito Comunista Italiano, il più grande partito comunista dell’Occidente.
All’importanza del ruolo politico delle
masse dei fedeli in Italia non è corrisposta un’adeguata azione di formazione
alla democrazia. Ci si aspettava, come all’inizio della dottrina
sociale moderna, a fine Ottocento, che i cittadini che
erano anche fedeli seguissero fedelmente le direttive di azione sociale diffuse
dal papato romano attraverso vari tipi di documenti normativi, limitandosi
ad applicarle, con poco margine operativo. I principi del
cattolicesimo democratico erano diversi e questo comportò la persistente
diffidenza verso i suoi esponenti, i quali, definendosi persone di fede adulte,
volevano emanciparsi. Quest’orientamento rimase anche dopo che, a seguito delle
decisioni del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si cercò di sollecitare i
laici di fede ad un impegno più intenso, creativo e autonomo, definendo un loro
specifico campo d’azione nelle cose temporali, intese come ciò che
riguardava la scienza e la politica, nelle quali si riconobbe la necessità di
ragionamenti con un certo margine di autonomia in quanto la teologia era
insufficiente a capirle e ad orientarle. Sviluppare questa autonomia fu il
problema più critico degli anni del dopo-Concilio. Il movimento per il
rinnovamento della catechesi doveva servire anche a questo, ma i risultati
furono incerti. Con la lunga fase del papato di Karol Wojtyla tutto in sostanza
venne sospeso, in attesa di tempi migliori. E questo anche se nel 1991, con
l’enciclica Il Centenario, a cento anni dalla prima enciclica della
dottrina sociale moderna, Le novità, del papa Gioacchino Pecci, il
papato romano propose alla nuova Europa uscita dalla fine del regime comunista
sovietico la via dell’organizzazione democratica. Una neo-democrazia di
osservanza papale per l’Italia? Detta così suona male, ma in effetti è proprio
a questo che si pensò. D’altra parte c’erano dei risultati: il cattolicesimo
italiano sembrava resistere meglio di altri al processo disecolarizzazione europeo,
quello appunto basato sull’autonomia delle cose temporali, per cui per
decidere in politica non si fa appello alla religione né la si considera come
elemento di discriminazione. In realtà questo può essere visto non tanto come
un successo della religione all’italiana, quanto come un portato
della particolare integrazione tra politica e religione che si era prodotta in
Italia per la sua particolare storia, per cui le masse cattoliche erano
state indotte a coalizzarsi intorno al papato romano in un processo
secolare che è partito da metà Ottocento, nell’opposizione al processo di
unificazione nazionale, che è poi proseguito con l’integrazione con il fascismo
e poi, in epoca democratica, sotto le bandiere del cattolicesimo democratico.
Se si scava un po’ a fondo, interrogando le persone, senza distinzione di età,
prova che si è realizzata una tradizione in questo
campo, si può facilmente avere la dimostrazione che l’ideologia sottostante ha
risentito poco del processo di assimilazione alla democrazia che i cattolici
democratici volevano produrre: riemergono idee caratteristiche
dell’integrazione con il fascismo storico. Il modello del buon cattolico in
politica è ancora quello là. Ma influenze sensibili si colgono anche nelle
questioni relative alla famiglia. Quell’integrazione riguarda il fascismo
mussoliniano maturo, appunto quello sviluppatosi tra il 1930 e il 1938, tra
l’epoca in cui le ultime resistenze di parte cattolica ai Trattati Lateranensi
del 1929 vennero sopite e l’inizio della legislazione razzista anti-ebraica,
che segnò il principio di una presa di distanza da parte del papato romano, non
il fascismo rivoluzionario delle origini né quello repubblicano della fine. Le
principali resistenze ad un formazione politica alla democrazia nel quadro
dell’iniziazione religiosa, per preparare i laici di fede al compito che da
loro si attende per promuovere nelle società del loro tempo i valori di fede,
sono motivate con argomenti che ricalcano quelli di quel tipo di fascismo. Oggi
questo tipo di politica sembra addirittura l’unico in grado di salvare l’Italia
dalneo-populismo egoistico che minaccia di dissolverla e che è in
linea con il trumpismo statunitense. E’ venuto a
mancare, però, l’ingrediente principale di ogni movimento guelfo: un
Papa che voglia essere anche un capo politico populista come
lo furono i suoi predecessori. Papa Francesco indica un’altra strada, più
difficile, più impegnativa, che è poi il linea con quel grande manifesto del
cattolicesimo democratico che è la Costituzione La gioia e la
speranza, del Concilio Vaticano 2°.
33. Consapevolezza storica e partecipazione
responsabile
[dal Manifesto di Ventotene,
scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Sugli istituti costituzionali sarebbe
superfluo soffermarci, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui
dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quello che tutti già sanno
sulla necessità di organi rappresentativi per la formazione delle leggi,
dell'indipendenza della magistratura - che prenderà il posto dell'attuale - per
l'applicazione imparziale delle leggi emanate, della libertà di stampa e di
associazione, per illuminare l'opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la
possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole
questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare
importanza in questo momento nel nostro paese, sui rapporti dello stato con la
chiesa e sul carattere della rappresentanza politica:
a. la Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi
unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendole le
armi temporali per imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come
naturale alleata di tutti i regimi reazionari, di cui cerca approfittare per
ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo patrimonio, per stendere
di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull'ordinamento della famiglia. Il
concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l'alleanza col fascismo
andrà senz'altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello
stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita
civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate, ma
lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti, e dovrà riprendere la sua
opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico;
b. la baracca di cartapesta che il fascismo ha costruito con
l'ordinamento corporativo cadrà in frantumi, insieme alle altre parti dello
stato totalitario. C'è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre
il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Nello
stato totalitario le Camere corporative sono la beffa, che corona il controllo
poliziesco sui lavoratori. Se anche però le Camere corporative fossero la
sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di
rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere
qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più
propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie
sindacalmente più potenti.
Ai sindacati spetteranno ampie funzioni
di collaborazione con gli organi statali, incaricati di risolvere i problemi
che più direttamente li riguardano, ma è senz'altro da escludere che ad essi
vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe un'anarchia
feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo
politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del
corporativismo potranno e dovranno essere attratti all'opera di rinnovamento,
ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro
confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella
forma assunta degli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto
funzionari che ne controllano ogni mossa nell'interesse della classe governante.
*****************************************
Gli autori del Manifesto di
Ventotene scrivevano quando ancora l’Italia era dominata dal
regime fascista mussoliniano. Quest’ultimo aveva ancora il consenso largamente
maggioritario, direi quasi totalitario, dei cattolici italiani. Ogni resistenza
era stata vinta non molto dopo la conclusione degli accordi tra il papato
romano e il Regno d’Italia dominato del Mussolini, nel 1929, con i Patti
Lateranensi. Il regime aveva soppresso ogni libertà democratica e, in
particolare, quella sindacale, instaurando, in un processo compiuto tra il 1926
e il 1939, un ordinamento corporativo, nel quale furono istituiti nuovi
sindacati come istituzioni dello stato, che venivano proposti come
rappresentativi delle varie categorie dei lavoratori e dei datori di lavoro,
per eliminare il conflitto sociale. Queste istituzioni era controllate dal
Partito Nazionale Fascista, l’unico partito all’epoca ammesso, dal Ministro
delle Corporazioni e da quello dell’Interno: ogni nomina di dirigente, ad ogni
livello doveva ottenere l’approvazione ministeriale, inoltre l’organizzazione
delle corporazioni era fortemente gerarchica. Nel 1939 la Camera dei deputati
venne sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, con
funzioni solo consultive, nella quale sedevano anche rappresentanti delle
Corporazioni. La fine della libertà sindacale avvantaggiò i datori di lavoro, i
quali erano la parte dominante nei rapporti di lavoro dipendente e
storicamente si erano associati in sindacati principalmente per reagire
al sindacalismo operaio. Nel regime fascista lo sciopero e la serrata, la
chiusura di una fabbrica per reagire a moti operai, erano vietati. Storicamente
l’affermazione del fascismo era stata favorita da industriali e imprenditori agrari
anche come protezione contro il sindacalismo socialista. Il fascismo maturo,
quello che fu veramente totalitario in Italia negli anni ’30, restò legato a
quegli ambienti sociali. La contrattazione sindacale fu fortemente
limitata dalla parte dei lavoratori, che venivano privati del loro principale
strumento di pressione sulle controparti, quello dello sciopero. In contratti
nazionali di lavoro divennero norme dello stato e, pur contenendo gli eccessi
da parte dei datori di lavoro, ma i lavoratori, nell’ordinamento corporativo
fascista, finirono effettivamente, come ricordato nel Manifesto per
“irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllavano ogni
mossa nell'interesse della classe governante.”
Anche la prima dottrina sociale della Chiesa
aveva proposto il corporativismo come regime preferibile nei rapporti di
lavoro, anche se non nella forma attuata dal fascismo, ma come sistema di
intese amichevoli tra lavoratori e datori di lavoro ispirate ad equità e
umanità. Negli anni ’30, comunque, il regime fascista presentò l’ordinamento
corporativo come l’attuazione degli insegnamenti della dottrina sociale, non
venendo smentito, ma anzi trovando apprezzamento nella gerarchia cattolica, nel
nuovo clima di collaborazione instauratosi con il papato romano dopo la
conclusione, nel 1929, dei Patti Lateranensi.
Ecco infatti che cosa si legge
nell’enciclica Il Quarantennale, diffusa nel 1931 dal papa Achille
Ratti, regnante come Pio 11° in occasione dell’anniversario dei quarant’anni
dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le novità,
del papa Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°:
92. Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale
organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa
Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno e anche qualche
opportuna considerazione.
93. Lo Stato riconosce giuridicamente il
sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così
riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso
solo concludere contratti e patti di lavoro. L'iscrizione al sindacato è
facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l'organizzazione sindacale può
dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono
obbligatorie per tutti gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai
o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal
sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il
sindacato giuridico non escluse l'esistenza di associazioni professionali di
fatto.
94. Le Corporazioni sono costituite dai
rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e
professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e
coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune.
95. Lo sciopero è vietato; se le parti non si
possono accordare, interviene il Magistrato.
96. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi
dell'ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione
delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti,
l'azione moderatrice di une speciale magistratura. Per non trascurare nulla in argomento di
tanta importanza, ed in armonia con i principi generali qui sopra richiamati, e
con quello che inibito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare
chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi
alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento
sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico,
e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari
intenti politici piuttosto che all'avviamento ed inizio di un migliore assetto
sociale.
97. Noi crediamo che a raggiungere quest'altro
nobilissimo intento, con vero e stabile beneficio generale, sia necessaria
innanzi e soprattutto la benedizione di Dio e poi la collaborazione di tutte le
buone volontà. Crediamo ancora e per necessaria conseguenza che
l'intento stesso sarà tanto più sicuramente raggiunto quanta più largo sarà il
contributo delle competenze tecniche, professionali e sociali e più ancora dei
principi cattolici e della loro pratica, da parte, non dell'Azione Cattolica
(che non intende svolgere attività strettamente sindacali o politiche), ma da
parte di quei figli Nostri che l'Azione Cattolica squisitamente forma a quei
principi ed al loro apostolato sotto la guida ed il Magistero della Chiesa;
della Chiesa, la quale anche sul terreno più sopra accennato, come dovunque si
agitano e regolano questioni morali, non può dimenticare o negligere il mandato
di custodia e di magistero divinamente conferitole.
98. Se non che, quanto abbiamo detto circa la
restaurazione e il perfezionamento dell'ordine sociale, non potrà essere
attuato in nessun modo, senza una riforma dei costumi come la storia stessa ce
ne dà splendida testimonianza. Vi fu un tempo infatti in cui vigeva un
ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte
irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione,
secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Ora quell'ordinamento è già da
gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col
progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e
in qualche modo venire dilatandosi, ma perché piuttosto gli uomini induriti
dall'egoismo ricusarono di allargare, come avrebbero dovuto, secondo il
crescente numero della moltitudine, i quadri di quell'ordinamento, o perché,
traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi
autorità, si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione.
99. Resta adunque che, dopo aver nuovamente
chiamato in giudizio l'odierno regime economico, e il suo acerrimo accusatore,
il socialismo, e aver dato giusta ed esplicita sentenza sull'uno e sull'altro,
indaghiamo più a fondo la radice di tanti mali e ne indichiamo il primo e più
necessario rimedio, cioè la riforma dei costumi.
Il Papa, quindi, esortò i membri
dell’Azione Cattolica di allora a collaborare con l’ordinamento corporativo
fascista con il “contributo delle competenze tecniche,
professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della loro
pratica”, invito che effettivamente venne accolto.
Quanto ho sopra sintetizzato, spiega
perché gli autori del Manifesto di Ventotene, al confino
nell’isola dopo periodi di detenzione in carcere e nel pieno del regime
fascista, nel pensare la nuova Europa che immaginavano sarebbe seguita ai
nazi-fascismi europei, dedicarono alla Chiesa cattolica e al corporativismo
fascismo quei due periodi che ho sopra trascritto.
Nella formazione alla fede di solito si
sorvola su quei fatti, che oggi sono ritenuti disonorevoli. Si preferisce
ricordare il lavoro di progettazione di una nuova democrazia che si compì
effettivamente tra ristrettissime elite dell’Azione
Cattolica, in particolare tra gli universitari della FUCI e tra i membri
del Movimento Laureati, su impulso di Giovanni Battista
Montini e di altri, l’impegno dei cattolici democratici nella Resistenza tra il
1943 e il 1945, e infine il contributo determinante di questi ultimi,
molti dei quali usciti dalle fila della FUCI e delMovimento Laureati,
nella fondazione politica e nello sviluppo della Repubblica democratica e delle
istituzioni europee. Ma l’integrazione con il fascismo vi fu effettivamente e
fu molto profonda. Ancora oggi se ne risente. Si evidenziano generalmente le
incompatibilità tra i due regimi totalitari del fascismo e del cattolicesimo
romano, che indubbiamente c’erano dal punto di vista ideologico: tuttavia il
fascismo aprì la strada ad un’egemonia della gerarchia cattolica sul popolo
italiano alla quale essa da tempo ambiva e per il fascismo la legittimazione
come regime provvidenziale da parte del papato fu
determinante nel controllo politico totalitario della nazione. In sostanza: due
totalitarismi che si integrarono creando una sorta di dottrina comune che
definì il profilo del benpensante. Che cosa sono dieci anni
nella storia di una nazione? Eppure gli anni ’30 furono nel bene e nel male
fondamentali per ciò che a lungo si produsse dopo. Nel bene perché la
Repubblica democratica deriva da un pensiero che in quegli anni si sviluppò,
sia in ambito cattolico democratico, sia in ambito socialista che in ambito
liberale, le tre componenti di base del nuovo regime democratico post-fascista.
Nel male perché il modello fascista del benpensante creò
una persistente e radicata tradizione popolare, per cui, ad esempio, certe cose
che si sentono dire ai nostri giorni nei confronti di gente di altre etnie e
religioni e su come dovrebbe essere la famiglia risalgono a quel tempo là,
anche se se ne è in genere persa consapevolezza.
C’è infine una importante lezione che
ci viene dalla storia: quella italiana degli ultimi due secoli fu potentemente
influenzata dalla politica espressa dalla Chiesa cattolica. Essa però, in
democrazia, non può più rimanere una faccenda solo da preti. Se ne deve poter
discutere ad ogni livello anche negli ambienti religiosi. Ciò non sempre
è agevole, perché la struttura istituzionale ecclesiale è rimasta
sostanzialmente feudale e totalitaria. In un’associazione come l’Azione
Cattolica si può fare tirocinio di democrazia e, ad esempio, come è ieri è
avvenuto nell’Assemblea diocesana, confrontarsi e votare anche su
singole frasi di un documento programmatico, ma questo in genere non avviene in
una realtà di base come quella parrocchiale, pur essendo prevista qualche sede
rappresentativa. Dove di certe cose non si discute e non si fa tirocinio, non
si acquista una consapevolezza del proprio ruolo sociale e questo impedisce di
resistere alle degenerazioni, di mettere in questione scelte discutibili, di
solidarizzare con coloro che vengono ingiustamente emarginati, di bilanciare
certi eccessi, di mantenere un pluralismo di opzioni, di chiedere a chi
esercita un’autorità di rendere periodicamente e pubblicamente il conto
di ciò che ha fatto e di ciò che progetta di fare. Oggi ci troviamo, in
parrocchia, a dover rimediare a problemi che si sono generati anche per questo
motivo, per cui molta gente del quartiere, non sentendosi il linea con una
certa impostazione, mi pare che si sia allontanata ed ora è tanto faticoso
farle riprendere familiarità tra noi.
34.
Nuove modernità
[da:
Peter Berger, Grace Davie, Effie Fokas, America
religiosa, Europa laica? - Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il
Mulino, 2010, € 18,50]
[pag.192]
[…] se una società desidera fare uso di
certe tecnologie, deve adattare le sue istituzioni e i suoi valori culturali in
maniera tale da formare persone che possano impiegare queste tecnologie. Per
esempio, il pilota di un aereo moderno non può agire sulla base delle
assunzioni metafisiche o degli incantesimi di uno sciamano, almeno finché
siede nella cabina di pilotaggio. Ma quando il pilota torna a casa - per
esempio in un villaggio primitivo - può fare proprie ogni sorta di idee e
pratiche magiche.
La modernità è un fatto culturale, anche se la
parola richiama l’idea di una successione di epoche. Si ha quando una società
ritiene di aver fatto dei progressi rispetto ad una sua forma precedente, per
cui comprende meglio e più realisticamente i fatti della vita, e innanzi tutto
sé stessa, e sviluppa tecnologie più efficaci e potenti. E’ un processo che ha
caratterizzato tutta la storia dell’umanità e la gran parte delle culture
umane, ma solo dall’Ottocento, in Europa, la modernità è divenuta anche
ideologia e non comporta solo una constatazione di come un certo presente si
presenta a confronto con un suo passato ma anche propositi per il futuro.
Dall’Ottocento essere moderni significa anche voler essere sempre più moderni. In questa accezione modernità è strettamente connessa con progresso. L’obiettivo delle società moderne non è più stata la stabilità, ma il miglioramento
incessante sulla via della modernità.
Il processo di modernizzazione ha riguardato anche la religione, che fino
alla metà dell’Ottocento ha preteso di sbarrare la strada all’ideologia
della modernità, appunto perché
comprendeva anche una modifica del ruolo della religione nella società e una
diversa comprensione dei concetti e precetti religiosi. Il Novecento si è
aperto in Europa con l’ultima delle persecuzioni religiose attuate nella nostra
confessione, che è stata quella contro il modernismo.
All’inizio del Novecento, la battaglia della religione contro la modernità scientifica era già persa, ma era ancora in corso quella
contro la modernità sociale, che
riguardava concezione e costumi sociali. Un portato di quest’ultima era la democrazia, contro la quale il papato romano combatté
strenuamente in Italia fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, quando
provò a trovare un accomodamento anche in questo campo. Ma il divieto assoluto
di modernizzare rimase in campo religioso e si dovette
arrivare agli anni Sessanta del secolo scorso per un primo cambiamento. Bisogna
anche dire che la pretesa della modernità di svelare la natura e la
dinamica dei fatti sociali colpiva anche la religione con l’accusa, senz’altro
in genere fondata, di essere stata lo strumento con cui le classi dominanti
avevano asservito le masse popolari, fascinandole con una serie di miti, di fantasiose narrazioni che si
pretendeva descrivessero fedelmente la realtà. Questa prospettazione veniva
fatta sia dai democratici liberali, che dominarono il Regno d’Italia dalla sua
fondazione nel 1861 all’avvento del fascismo mussoliniano nel 1922, sia dai
socialismo, il movimento politico che in Italia si sviluppò nella seconda metà
dell’Ottocento: per il socialismo ottocentesco la liberazione sociale delle
classi di quelli che stavano peggio avrebbe dovuto comportare anche la
liberazione delle masse dai miti religiosi. Quest’ultimo compito fu assunto con
molto impegno e rigore dal comunismo sovietico, regime che nel 1917 si
impadronì dell’impero zarista russo, e dai regimi che ad esso si ispirarono o
da esso comunque vennero imposti.
Nel corso del Concilio Vaticano 2° si venne
ad una nuova sistemazione culturale: la modernità venne accettata ma
essenzialmente con fatto laicale, destinato a rimanere in quello che venne
definito il temporale, nel senso di soggetto a rapidi
cambiamenti e quindi opposto all’eternità
che caratterizza la dimensione
soprannaturale. I laici vennero incoraggiati a trattare degli affari temporali, sviluppando una competenza autonoma, nel senso che, se dovevano
pilotare un aereo di linea, dovevano farlo secondo le regole della fisica e
della tecnologia aeronautica, non confidando sulle proprie concezioni religiose
e prendendo come riferimento i testi di teologia. Nelle questioni relative al soprannaturale ci si propose di introdurre aggiornamenti e, innanzi tutto, di
studiare di più e meglio le Scritture. Questo può sembrare un portato della modernità, e lo è effettivamente, ma,
per non violare certi divieti religiosi che vennero mantenuti (per cui non ci
fu mai un’ammissione di colpe per la persecuzione antimodernista, che oggi a
molti appare veramente sconsiderata), si presentò la cosa come un ritorno alle origini, quindi come un tornare indietro, alla purezza dei primi
tempi, quando si era molto più vicini alla prima predicazione del Maestro, per
cui si supponeva che si fosse anche più vicini alla verità eterna. Questo ha configurato una modernità di tipo religioso,
quindi non ostile e incompatibile con la religione, per cui, ad esempio, in
Vaticano i Papi mantengono dal 1936 un consiglio di scienziati, che dagli anni
’76 possono essere credenti e non credenti, conta solo la competenza nelle cose
temporali.
Ora, l’atteggiamento dei saggi del Concilio
nei confronti della modernità è diventato comune a tutte le culture che
hanno avuto uno sviluppo tecnologico seguendo gli europei. Vale a dire che,
come sostengono i sociologi Berger, Davie e Fokas nel libro che ho sopra
citato, non c’è più solo una modernità, in particolare quella europea di
tipo antireligioso, ma più modernità, alcune delle quali democratiche e
altre democratiche, alcune delle quali religiose e altre secolarizzate, vale a
dire portate a confinare la religione nel privato individuale escludendola
nelle scienze e marginalizzandola in società. I menzionati autori citano ad
esempio una modernità russa ispirata
dall’Ortodossia, una modernità islamica,
una modernità indiana hindu e anche una modernità integralmente cattolica che a loro dire è stata realizzata
con successo dall’Opus Dei.
Bisogna dire che il riparto di competenze stabilito dai saggi dell’ultimo Concilio, un
grande progresso negli anni Sessanta scorsi, non soddisfa più.
Voleva essenzialmente ripartire le competenze tra clero e laici, quando già
però questa distinzione non era più attuale, in particolare in Italia, dove il
clero era stato determinante nei fatti sociali temporali in particolare a
partire dai processi democratici a cavallo tra Ottocento e Novecento, e i laici avevano messo bocca ampiamente
nelle questioni del soprannaturale,
vale a dire anche nella teologia, in particolare contestandone il carattere
arretrato e antidemocratico.
A quale modernità facciamo riferimento in
parrocchia? Ne vedo proposti più di una, ma in genere non esplicitamente
(essere moderni nella nostra confessione induce ancora un
certo sospetto di indisciplina ideologica, se non di vera e propria eresia).
Ognuno pensa che la sua sia quella giusta. E anche questa è una situazione moderna, perché la modernità comprende in
genere (non sempre) anche un certo pluralismo, e comunque la modernità europea nasce come pluralista.
35. Crisi della parrocchia e crisi della politica
La gente viene molto meno in parrocchia
che negli anni ’70 e quando ci viene è restia ad impegnarsi: viene
prevalentemente per consumare servizi religiosi. E’ un
riflesso della crisi della politica, per cui sono spariti i partiti che
vengono considerati tradizionali. Si tratta, in realtà, di
una metamorfosi della società molto profonda che è stata descritta
scientificamente dalla sociologia più recente. La sociologia si propone
di capire la società e di prevederne gli
sviluppi: ai tempi nostri non riesce più a fare bene il secondo lavoro
perché la società evolve in modo molto più caotico di una volta. Mio zio
Achille fu un grande sociologo italiano, insegnava all’università di Bologna in
un corso avanzato e, da scienziato sociale, parlava e scriveva
molto difficile. Cercò anche di essere un divulgatore e in
questo era molto ascoltato. Le sue conferenze erano sempre piene di
gente. Scrisse anche alcuni libri per spiegare ciò che accadeva nella società
del suo tempo e, in particolare, nella Chiesa. I due sicuramente più importanti
furono: Toniolo: il primato della riforma sociale, per ripartire dalla
società civile, del 1978, e Crisi di
governabilità e mondi vitali del 1980, oggi introvabili.
Volevano divulgare, ma rimanevano libri difficili. Mio zio
Achille, quindi, era molto più ascoltato che letto.
Dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni 80, un decennio fondamentale per
la trasformazione della società italiana, fu molto ascoltato in
particolare nel partito principale di governo, la Democrazia
Cristiana(era membro del suo Consiglio nazionale), e dal mondo cattolico.
Alcune strategie tentate all’epoca per rivitalizzare politica e Chiesa furono
sostanzialmente ispirate dal suo insegnamento. Mi pare che l’apice della sua
influenza in entrambi i mondi si toccò nel 1986, quando la Festa
Nazionale dell’Amicizia, la grande festa annuale del partito, si tenne a
Cervia, in Romagna, nella piazza davanti a casa sua. All’epoca consigliava al
partito, ma anche ad esempio alla FUCI, di fare grandi raduni nazionali in
piccoli paesi, per impregnarli totalmente ed evocare così una realtà di mondo
vitale, vale a dire di quella collettività che dà
senso all’esistenza umana. Per lui la crisi di questi mondi
vitali era alla base di quella della società nel suo insieme. La cura
per la società era quindi quella di rivitalizzarli. Poi tutto cambiò molto
velocemente in Italia, in politica e in religione, e iniziò la situazione in
cui ci troviamo adesso e da cui non riusciamo a liberarci, anche se ci causa
tanti problemi. La metamorfosi accadde a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni
’90, come manifestazione acuta di una crisi iniziata nei
vent’anni precedenti e progressivamente aggravatasi. Il partito si dissolse e
la Chiesa cambiò profondamente, seguendo la via proposta da Karol
Wojtyla. Mio zio criticò pubblicamente il vescovo della sua città sulla
questione degli immigrati, che il vescovo preferiva fossero cristiani, e fu
duramente e lungamente emarginato. Non fu più ascoltato né letto dalla
generalità. Fu ancora letto dagli scienziati sociali e
dagli amministratori che si occupavano di sanità e assistenza agli anziani, il
suo campo principale di studio e di azione negli ultimi anni. Per diversi anni
amministrò uno dei principali ospedali ortopedici nazionali, il Rizzoli di
Bologna. Fu lui a ideare il CUP, il Centro Unico di Prenotazione, che
ebbe in Emilia Romagna la prima organica attuazione. Egli, sostanzialmente,
fece poi la fine del grillo parlante nella favola di
Pinocchio. Ma la storia gli ha dato ragione. Ho sempre pensato che la sua sorte
fosse dipesa dal fatto di non riuscire ascrivere nel linguaggio
comune della gente. Ascoltare non basta, per generare
fatti profondi occorre poter leggere. La nostra fede non è, in
fondo, basata su Scritture? In questa prospettiva, potete
capire perché mi addolora tanto la dispersione della biblioteca parrocchiale,
che, per ciò che so, è stata attuata molto velocemente e per motivi che non ci
sono stati spiegati, e mi auguro siano stati buoni motivi. Quando si è
insediato il nuovo parroco, già non c'era più. Probabilmente il fatto
è dipeso da spese indifferibili che occorreva fare o dalla necessità di
venire incontro alle molte famiglie in difficoltà che assistiamo, che in questi
anni sono sempre più aumentate: in questi casi in famiglia ci si priva anche
dei gioielli più cari. Faccio delle ipotesi: in realtà non è stata
fornita alcuna spiegazione.
Il sociologo Zygmun Bauman fu, invece,
molto più letto che ascoltato. Egli non
aveva con una Chiesa e con un partito un rapporto forte come quello di
mio zio Achille. Quindi, se non avesse saputo farsi leggere, non
sarebbe stato inteso, perché pochi erano disposti semplicemente ad ascoltarlo.
Il suo libro divulgativo fondamentale è Modernità liquida, del
2000, in Italia pubblicato da Laterza, €16,00, che si trova anche in e-book. Lo
consiglio come libro di testo ai gruppi di approfondimento dell’impegno
politico e sociale che sorgono nelle parrocchie dopo le esortazioni contenute
nell’enciclica Laudato si'. In quel libro viene spiegato che cosa
sta succedendo nel mondo di oggi e perché sta diventando tanto diverso da
quello che c’è stato fino agli anni ’80. Bauman ha scritto molti altri
interessanti libri divulgativi, che fondamentalmente approfondiscono i temi
di Modernità liquida. Bauman è morto il 9 gennaio di
quest’anno, quando era molto anziano, e ora avremmo bisogno di un altro profeta come
lui.
In un certo senso mio zio Achille
e Bauman svolsero le funzioni che nell’antichità biblica ci si attendeva
dai profeti: spiegavano alla gente il senso ultimo di ciò che stava
accadendo. In mio zio Achille, rispetto a Bauman, la fede religiosa era una
componente fondamentale, in un modo che i suoi discepoli faticano a spiegare,
perché li imbarazza. Si pensa infatti che la sociologia, come le altre scienze,
debba mantenersi neutrale rispetto alle idee religiose, ma
certamente mio zio Achille in materia religiosa neutrale non
era, con riflessi nella sua attività scientifica e nella sua azione politica,
perché egli, oltre che scienziato sociale, fu anche un politico. Questo
gli consentì, per molti anni, dal Secondo dopoguerra, quando qui a Roma, con
Dossetti, partecipò con molti altri ingegni brillanti, all’ideazione della
nuova Repubblica democratica, fino agli anni ’80, quando tutto rapidamente
cambiò, di essere molto ascoltato, ma fu anche all’origine della
sua dura successiva emarginazione. Perché la nostra Chiesa è ancora strutturata
come un sistema totalitario, ed è insofferente del pluralismo e del dissenso,
in particolare quando si traduce in lesa maestà verso la
gerarchia, anche se si sforza di non esserlo (questo va riconosciuto,
soprattutto parlando di papa Francesco), ma proprio non le riesce. Ma quella,
dell'emarginazione o peggio, è appunto, in genere, la sorte deigrilli
parlanti quando parlano in società e alla
società, dicendo ciò che in società non si gradisce udire. Se però il grillo della
storia di Pinocchio si fosse limitato a scrivere, forse non
sarebbe finito acciaccato al muro, perché Pinocchio, incolto e
analfabeta, non lo avrebbe letto, e amen. Si dice
infatti che le parole dette volano, mentre quelle scritte rimangono, ma
se uno non sa, non può o non vuole leggerle, queste ultime diventano inutili.
Però le rivoluzioni, i cambiamenti radicali, sono guidate da quelle scritte.
Bauman sostiene che si sta passando da
una società di cittadini ad una di consumatori e
questo sta sfasciando i rapporti sociali, perché ognuno non solo pensa di poter
fare da sé, ma è anche spinto a farlo: se non lo fa, non merita. In
definitiva era anche l'analisi di mio zio Achille, benché riferita ad una
situazione in cui certi fenomeni erano appena gli esordi. L'ideologia consumista distrugge
i mondi vitali che davano e danno senso alle vite delle
persone. Quelle vite ora frullano qua e là disordinatamente, andando dietro
all'infinita generazione di desideri, mai appagati, come vuole appunto
l'ideologia consumista. Un tempo l'appagamento si trovava
nelle relazioni di mondo vitale, ma anche ora è così e infatti è comune
nei consumatori la sensazione di inappagamento.
Un cittadino non è solo uno che vive in
società, ma è una persona che ha una qualche voce in capitolo in essa e di cui
comunque la società non vuole fare a meno. In una società di cittadini si
cerca di ridurre al minimo gli scarti sociali.
Questo accade sia nelle società democratiche che in quelle totalitarie. Bauman
sostiene che questo era legato con il sistema sociale dell’economia, che aveva
necessità di riserve umane in buona salute, da impiegare
all'occorrenza nella produzione. La prima legislazione sociale in favore dei
lavoratori, quella britannica dell'Ottocento, partì dalle constatazione che la
salute dei lavoratori, nelle grandi città industriali, stava rapidamente
peggiorando.
In una società di consumatori,
sostiene Bauman, conta solo il credito al
consumo che si ha, per cui ci sono molti scarti umani dei
quali non mette conto di prendersi cura perché non hanno credito e
quindi non servono al sistema. La loro sofferenza umana
non conta e li si squalifica perché sono nella condizioni di scarti:
si pensa che sia colpa loro l'essere stati scartati, perché non
hanno meritato abbastanza. Si fossero dati da fare, non
sarebbero diventati scarti. In realtà è la società che decide chi scartare.
Prende dalle persone tutto quello che possono dare, e finché ne hanno;
poi, quando ne rimangono senza, ad esempio perché diventano anziane o malate o
tutte e due, le scarta. I poveri che vengono da fuori, gli immigrati
economici, come vengono definiti, automaticamente vengono inseriti tra
gli scarti. Se si pensa che ognuno debba risolvere da sé i propri
problemi, meritando, la società non deve più occuparsi di
lui, diventa inutile farlo. In un certo senso però
diventa inutile anche la stessa società, in particolare nella
sua dimensione politica, e, per questo motivo, essa si va sfasciando:
perché non serve più a certe cose. I problemi
sociali allora diventano problemi di sicurezza pubblica, da risolvere con la
polizia. Fondamentalmente lo stato, in quest'ordine di idee, un po’ secondo
l’ideologia del liberalismo della seconda metà dell’Ottocento, dovrebbe ridursi
al minimo, occupandosi di diritto, polizia e di protezione dei confini esterni.
Poi ognuno si arrangi come può: meriti.
Questo sviluppo della società del
nostro tempo ha colpito duramente ipartiti.
Si parla di partito tradizionale,
ma in che senso?
Il modello di partito tradizionale,
quello a cui pensiamo istintivamente quando parliamo di partito, è
sorto dopo la Seconda guerra mondiale, ed è stato il Partito Nazionale
Fascista - PNF. Quest’ultimo aveva preso a modello il partito comunista
bolscevico, che nella Russia zarista nel 1917 aveva preso il potere con una
rivoluzione violenta. Si trattava, quest'ultimo, di un partito organizzato come
un esercito, con una struttura gerarchica molto ben definita e rigida, in cui le
direttive scendevano dall’alto. I suoi iscritti erano militanti fortemente
ideologizzati. Il PNF mussoliniano volle essere qualcosa di simile,
comprendendo però, obbligatoriamente, tutta la gente, senza più distinzione di
classi, di fatto cristallizzando la situazione di dominio di classe esistente.
Mussolini si formò politicamente nel socialismo italiano, differenziandosene
sempre più alla vigilia della Prima Guerra Mondiale sulla questione della
partecipazione alla guerra, a cui si manifestò favorevole dopo che prima era
stato di contraria opinione. Egli considerava la partecipazione alla guerra,
quindi la milizia bellica, il fattore per
unificare politicamente e militarmente il popolo italiano, per iniziarlo
velocemente alla milizia politica, e vide giusto. Fu infatti
proprio dai reduci di quella guerra che scaturì la classe dei primi militanti
fascisti.
Il partito comunista bolscevico,
strutturato secondo l’ideologia di Lenin[Lenin, Vladimir
Il′ič. - Pseudonimo del rivoluzionario e statista russo Vladimir Il′ič Ul′janov(
Simbirsk1870 - Gorki, Mosca, 1924 - fonte:
http://www.treccani.it/enciclopedia/vladimir-il-ic-lenin/] era un partito
di classe. In una società, quella russa zarista, dominata da una vasta
classe di nobiltà terriera, quindi in un impero in cui una classe di nobili di
fedeltà zarista dominava su masse di contadini, quel partito si proponeva di
annientare, anche fisicamente, la classe dominante, affidando il potere a una
classe di rivoluzionari di professione che mutasse con la
forza il sistema economico, politico e sociale per metterlo al servizio
dei bisogni della classe dominata e, inoltre, di
costruire l’uomo nuovo vale a dire di fare delle masse un popolo di
militanti ideologicamente consapevoli, quindi con una
coscienza di classe. Questo programma politico comprendeva anche
l’annientamento dell’influenza politica della Chiesa ortodossa, che era
fortemente federata con il sistema zarista. Il PNF era invece un partito corporativo.
La sua ideologia si proponeva di fare del popolo italiano, in tutte le sue
componenti, una massa militante, ma comprendendovi tutte la
classi sociali, sia quelle dominanti che quelle dominate, cristallizzando i
rapporti di forza che vedevano i pochi dominare sui più. Nell’Italia degli anni
’20 le classi dominanti erano la grande borghesia industriale settentrionale e
quella agraria. La nascita del PNF fu appoggiata da entrambe queste componenti.
Il corporativismo però non rientrava nell’ideologia socialista dalla quale
proveniva Mussolini. In particolare, all'origine il fascismo era anti-borghese.
Il corporativismo rientrava invece nell'ideologia della dottrina sociale
moderna della Chiesa cattolica, a partire da quella che viene considerata la
sua prima manifestazione, l’enciclica Le Novità, del 1891,
diffusa del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, in religione Leone 13°. Il
corporativismo della dottrina sociale concepiva la società come un corpo
vivente, in cui ognuno aveva una sua funzione importante, in cui quindi tutte
le classi dovessero collaborare nell’interesse comune, ciascuna persona però
restando al proprio posto, di privilegiata o di non privilegiata, ricca o
povera. Si considerava impossibile eliminare l'ingiustizia sociale: essa
poteva essere solo mitigata (lo si afferma esplicitamente nell'enciclica Le
Novità). Il suo modello era il corporativismo medievale, nel quale
datori di lavoro e lavoratori erano inquadrati in corporazioni di
mestiere e c’era solidarietà nelle singole corporazioni e tra le corporazioni,
nel quadro di un'organizzazione politica cittadina. In questo quadro, nella
prima dottrina sociale, il conflitto sociale veniva dissimulato, il
sindacalismo sconsigliato, lo sciopero vietato. Era una visione premoderna e
irrealistica, come Giuseppe Toniolo cercò incessantemente di far capire ai Papi
della sua epoca, con scarsi risultati. Il fascismo mussoliniano l’adottò come
base della sua rivoluzione sociale. La pace sociale venne imposta dal regime,
non era frutto di accordi sociali. Comportando la cristallizzazione dei
rapporti di classe, venne appoggiata dalla classe dominante, la borghesia
italiana di quel tempo. Ma anche le masse speravano in un tornaconto. Ognuno
doveva rimanere al proprio posto, ordinatamente: se lo faceva il regime
garantiva che ci si sarebbe presi cura di lui, attraverso una vasta rete di
istituzioni sociali che effettivamente vennero costituite. Aderire al
fascismo, prendere la tessera, e impegnarsi pubblicamente a
seguirne l’ideologia, divenne obbligatorio solo per chi volesse impieghi
pubblico, per gli altri era raccomandato come segno di buona condotta sociale.
In un certo senso l'adesione al fascismo era una specie di assicurazione
sociale. Il dissenso, l'eresia, come in religione, venne condannato in quanto
metteva a rischio l'integrità del corpo sociale e il benessere che
esso diffondeva attraverso le sue istituzioni. Negli anni ’30 l’adesione
degli italiani al fascismo divenne quasi totalitaria e nel 1931, il papa
Achille Ratti, regnante come Pio 11°, nell’enciclica sociale Il
Quarantennale, in occasione dei quarant’anni dalla prima enciclica
sociale Le Novità, invitò i membri dell’Azione Cattolica a
collaborare nelle istituzioni corporative fasciste. Si realizzò così, a
quell’epoca, una profonda integrazione tra Chiesa cattolica italiana e regime
fascista, mediante la quale entrambe le istituzioni si rafforzarono nel popolo
italiano. Il PNF divenne il Partito della Nazione, il partito unico
degli italiani, ciò che nessun partito del Regno d’Italia era mai potuto essere
prima per la strenua opposizione politica del papato romano, che ostacolava la
partecipazione dei fedeli cattolici alla politica democratica dello Stato a
causa della conquista del Regno pontificio da parte del Regno d’Italia: la
cosiddetta questione romana. La controversia fu risolta nel 1929
con una serie di accordi, complessivamente denominati Patti Lateranensi,
conclusi dal papa Achille Ratti con il Regno d’Italia rappresentato dal
Mussolini. Questo patto tra Chiesa e Stato, così come il fascismo, sarebbe
potuto durare molto a lungo, come nella Spagna di Francisco Franco (il suo
regime fascista morì con lui, nel 1975) e nel Portogallo di Antonio De Olivera
Salazar (il suo regime fascista gli sopravvisse e durò fino al 1974), se il
Mussolini fosse rimasto neutrale nella Seconda Guerra Mondiale, come Franco e
Salazar. Ma l’ideologia del Mussolini era fortemente bellicista e lo spinse a
seguire la Germania nazista e gli altri regimi fascisti suoi alleati nel
conflitto. Non potendo realizzare una vera giustizia sociale mediante una più
equa redistribuzione di risorse tra gli italiani, il regime si proponeva di
predarle ad altri popoli, come altre nazioni europee facevano da tempo. La
sconfitta bellica ruppe il patto ideologico con il papato e l'incantamento
verso gli italiani. Ma ancora negli anni Cinquanta la gerarchia cattolica
simpatizzava per il franchismo spagnolo: se ne lamentava Lorenzo
Milani.
La Chiesa, con il patto concluso nel 1929, recuperò una potente capacità
di influenza nel popolo italiano, in particolare attraverso il sistema
scolastico. Vide inoltre contrastati duramente i suoi principali nemici
dall'Ottocento: il liberalismo e il socialismo atei e, in Italia, atei
essenzialmente in quanto anticlericali, ritenendo la Chiesa un ostacolo
all'emancipazione delle masse come lo era stata nel processo di unificazione
nazionale.
Nel dopoguerra, una parte
dell’ideologia corporativa fascista, di matrice cattolica, fu inglobata
nell’ideologia del partito cristiano (come lo chiamava lo
storico Gianni Baget Bozzo), la Democrazia Cristiana. Da corporativismo divenne interclassimo:
in ambiente democratico la collaborazione delle classi non fu più imposta, ma
raccomandata e perseguita politicamente, con una serie di riforme sociali e
anche mediante l'intervento pubblico nel sistema economico. La Democrazia
Cristiana, sulla via della dottrina sociale della Chiesa, pensava ad uno stato
che si occupasse dei bisogni di tutti e introducesse norme che prevenissero il
conflitto sociale, impedendo forme estreme di sfruttamento in danno della
classe lavoratrice. Si parlava di stato sociale, perché
l’iniziativa privata e la proprietà dovevano trovare un limite nell’utilità
sociale. Poi, con espressione più moderna, di welfare state, stato
per il benessere collettivo. Il principio che nei rapporti di lavoro dipendente
il lavoratore dovesse avere un’equa retribuzione, non solo proporzionata al
lavoro svolto, ma anche sufficiente per mantenere una vita dignitosa per lui e
per la sua famiglia. divenne una norma costituzionale, all’art.36 della
Costituzione.
A cavallo tra gli anni ’80 e
’90 la concezione della società come di un corpo organico venne
progressivamente abbandonata. Al fondo di ciò c’era l’idea che, nel sistema
economico globalizzato, dove occasioni di profitto potevano trovarsi in tutto
il mondo e non più solo all'interno di un singolo sistema statale, in un mondo
senza più frontiere per il capitale, non tutti erano veramente necessari
per il benessere collettivo. C’era gente di scarto che era solo un peso
sociale. Le pensioni agli anziani e l’assistenza sanitaria gratuita
alla popolazione cominciarono ad essere considerate solo come un costo. Del
resto l’industria dimostrava di poter fare sempre più a meno di mano d’opera e,
comunque, di poterla sostituire rapidamente ed efficacemente, spostando
produzioni e richiamando altre persone. Il sistema economico non aveva più
bisogno di riserve umane in buona salute. Chi merita,
vale a dire trova un modo di cavarsela, ha diritto di sopravvivere, gli altri
no: per loro c’è solo l’assistenza caritativa, lasciata al buon cuore degli
altri. Chi protesta crea un problema di sicurezza pubblica, da risolvere
mediante la polizia. Ma la gente protesta sempre meno: in fondo è convinta della
bontà dell’ideologia meritocratica. Solo, spera di essere nella parte
che merita, e, se non riesce ad esserlo, se ne vergogna, si
colpevolizza. Se lo stato non è più sociale, non assicura più
di occuparsi dei bisogni fondamentali di tutti, perché parteciparvi? La
corporazione sociale si è sciolta, ognuno fa per sé. I conflitti di classe che
sono sempre rimasti attivi, solo mitigati dalla legislazione sociale sul lavoro
che però progressivamente in questi anni si sta cercando di rendere meno
pervasiva e incisiva, esplodono liberamente e allora vince il più forte, come
nella legge della giungla, animale grosso mangia animale piccolo. I rapporti di
lavoro non sono mai paritari: c’è sempre una parte più forte, che è quella dei
datori di lavoro, ed è questa che prevale. La politica, in questa situazione,
diviene inutile, così come la società, e lo è anche
quella, virtuosa, ancora diffusa dalla dottrina sociale, quella che oggi si
vuole approfondire in parrocchia. Ecco perché la gente non viene in parrocchia
quando si parla di questi temi. La soluzione? E’ difficile, impegnativa, e
riguarda la politica come la parrocchia. Occorre innanzi tutto avere una
visione realistica della società e comprendere che los carto è
generato da ristrette classi dominanti; che chi soffre non è che abbia demeritato, ma
soffre perché è vittima della legge della giungla del capitalismo globale; che
quando si va da soli alla guerra secondo la legge della giungla si
è vittima dei più forti; che però una reazione collettiva di massa può ancora
cambiare le cose. E, quindi, innanzi tutto, ripeto: conseguire una visione
realistica delle dinamiche sociali.
Un indizio della causa di ciò che
accade, dei mali sociali, è nella proposta, che viene da più parti, di un reddito
di cittadinanza. Sembra una stranezza, ma molti economisti lo consigliano
per tenere in piedi la società. Non solo funzionerebbe, secondo loro, ma
occorre per mantenere in piedi il sistema consumistico. Un
tempo lo stato si occupava dei bisogni della gente e distribuiva risorse che
poi venivano spese, si traducevano quindi in consumi di
massa; ora che non se ne occupa più perché ci si è trasformati da
cittadini a consumatori e ognuno fa per sé, accade che la platea dei
consumatori si riduca sempre di più, man mano che la legge della giungla fa le
sue vittime e produce i suoi scarti umani. Così però il sistema
rischia di saltare per insufficienza di consumatori: ecco la necessità
di crearne artificialmente recuperando una parte degli scarti.
E' una cosa che nelle politiche di governo degli ultimi anni ha prodotto,
ad esempio, elargizioni più o meno generalizzate degli "80 euro". Che
significa, in fondo? L’attuale sistema economico globalizzato va verso la
rovina se lasciato alle sue dinamiche selvagge; va verso l’autodistruzione,
perché si occupa di porzioni progressivamente sempre più piccole di
popolazione, incrementando le diseguaglianze sociali. Seguendo l’ideologia
della globalizzazione non riusciremo più, a lungo andare, a garantire la
sopravvivenza sul pianeta di sette miliardi di persone, sempre in aumento. Alla
fine il sistema si bloccherà. E’ necessario quindi cambiare, ma non lo si potrà
fare che collettivamente, con movimenti di massa, questa volta però sulla base
di un cambiamento interiore molto più profondo, non solo politico,
ma anche di natura religiosa perché legato al senso
della vita, come appunto quello che viene raccomandato nella Laudato
sì, perché, ed è questa la novità di ciò che accade oggi, ognuno,
ogni consumatore, proprio consumando, si fa carnefice
di una parte dell’umanità, rafforzando il sistema che genera la sofferenza
sociale e che, infine, travolgerà anche lui. Non si può quindi cambiare
il mondo che sta per travolgerci senza cambiare noi stessi,
riscoprendo, così facendo, la cittadinanza.
36.
La religione come problema sociale
Negli anni ’80 si visse in Italia una fase
di riflusso sociale, di disimpegno e ritorno
nell’individualismo personale, fenomeno che coinvolse anche l’aspetto religioso
e il nostro quartiere. Sembrò allora che
il pluralismo avrebbe significato dispersione e avrebbe compromesso la residua
efficacia della proposta religiosa della parrocchia. Si perse fiducia nelle
spiritualità fondate su dialogo e pluralismo: il primo come mezzo per comporre
il secondo in una collettività armoniosa.
Le religioni sono fatti sociali. Servono a dare stabilità
alle società. L’etica che diffondono è molto importante. Per dare
stabilità, inglobano una certa dose di fondamentalismo e
di integralismo. Fondamentalismo è quando si cerca
di mantenere costanti alcune concezioni, integralismo è
quando si cerca di contrastare le tendenza all’assimilazione da parte di altri
gruppi. Il compito di dare stabilità alle società è
fondamentalmente politico, e infatti fin dalle società
primitive le religioni hanno svolto un ruolo politico. Fede e politica sono
state sempre intrecciate strettamente. Una fede impolitica non può essere
considerata una vera religione, ma è essenzialmente magia: quando si crede che
certi riti possano cambiare le cose. Le religioni basate sul soprannaturale
hanno sviluppato in genere una complicata teologia e una raffinata
giurisprudenza, per stabilire ciò che è buono e ciò che non lo è, ma fondandosi
su relazioni con l’invisibile sono anche piuttosto duttili e questo consente un
loro adattamento alle esigenze politiche dei tempi. Chi può smentire certe
affermazioni? Trovano una sponda nell’emotività umana e sono state in un certo
senso l’archetipo di ogni persuasore occulto. Le moderne tecnologie
di marketing vi si richiamano implicitamente, facendo
risaltare la fondamentale irrazionalità delle scelte del consumatore e
proponendo quindi immaginifici miti di consumo, vere proprie religioni del
consumo con proposte salvifiche. Le grandi religioni storiche hanno mantenuto
costanti certi connotati, ma si sono profondamente evolute, e ciò è
particolarmente vero per la nostra. La nostra religione non è assolutamente
quella stessa delle origini. Questo risalta particolarmente se si considerano
le concezioni politiche ad essa correlate. Ora, non è la fantasiosa mitologia
espressa dalle religioni che in genere costituisce un problema sociale, ma la
politica che esse esprimono, e che riguarda, in particolare, le relazioni tra i
fedeli e tra questi ultimi e la società intorno. Dall’ultimo conclave ci è
venuto nel 2013 un capo, un Padre,
dall’altra parte del mondo, che ci ha portato la voce di comunità tanto
diverse da noi, e in particolare di un organismo vivace e innovatore come il
CELAM il Consiglio episcopale latino americana. Ho letto che
l’esortazione La Gioia del Vangelo e l’enciclica Laudato
si’, contengono molto di un documento molto importante prodotto
dal Celam, al termine della Conferenza di Aparecida, nel maggio del
2007. Su suo impulso si è cominciato a
cambiare orientamento negli affari sociali, proponendo una diversa concezione di politica
di ispirazione religiosa, vale a dire quella che non considera più il
pluralismo una minaccia, che spinge a eliminare le dogane che controllano i
flussi con ciò che è all’esterno degli spazi liturgici e, anzi, invita a uscire
fuori delle nostre chiese per intessere nuove relazioni virtuose con la gente
intorno, innanzi tutto per partecipare alla risoluzione dei problemi comuni, a
partire da quelli minimi, come la fontana di quartiere. Siamo
quindi spinti a ridurre la quota di fondamentalismo
e di integralismo delle nostre spiritualità. Ciò non significa
creare un mondo dove le posizioni religiose di prima siano ribaltate, i
dominatori di un tempo ridotti a sconfitti, e gli sconfitti di un tempo nel
ruolo di dominatori, ma creare un’organizzazione dove non vi siano più
dominatori e sconfitti, inclusi ed esclusi. Significa anche essere capaci di
relazioni sociali virtuose, amichevoli e solidali tra diversi orientamenti, non
quindi al modo delle assemblee condominiali in cui si decide insieme pur
detestandosi e aspettando il momento di cancellare l’opinione difforme. Finora
abbiamo diffidato gli uni degli altri, non perdendo occasione per azzannarci e
aspettando il momento in cui ogni presenza diversa dalla nostra cessasse per
estinzione naturale o per ordine dell'autorità; ora, come dice sempre il
parroco qui a San Clemente papa, bisognerebbe cominciare a volerci bene.
Questo però richiede, per cominciare, un atteggiamento che in genere è
molto difficile da ottenere, in particolare da chi a lungo si è abituato ad
avere mano libera: l’autocritica. Senza di questo non si inizia neppure. Senza
di questo gli egemoni di un tempo saranno solo gli sconfitti di oggi,
aspettando la rivincita al prossimo conclave. Ci si continuerà
francamente a detestare e su questo non può crescere nulla di buono. Il seme
cadrà tra le pietre e le spine e il seminatore sprecherà il suo tempo e la sua
fatica.
37. Prepararsi a lavorare in società
Il modello di pratica religiosa che a
lungo è prevalso in Italia è stato quello della fede come medicina dell’anima.
Ci si metteva a scuola di spiritualità per sanare ferite invisibili. Questa
esigenza ha conformato le comunità orientandole verso l’interno. Poiché la
dottrina era stata ideata per altri scopi, la si è integrata: analogamente si è
fatto con la liturgia. E’ una tendenza molto diffusa nel mondo e, anzi, la
possiamo considerare al centro della de-secolarizzazione che è in corso a
livello globale. Si riprende ad avere fiducia nelle spiegazioni delle
religioni, ma più che altro nelle questioni più personali e nelle relazioni di
prossimità.
In questo quadro irrompe il pensiero di
Bergoglio/Francesco che è situato su un altro livello e chiama alla grande
politica, a livello globale. La gente in Italia è impreparata a questo, ma non
solo in religione, più in generale a livello di cittadinanza. La crisi delle
istituzioni statali è proceduta parallela a quella delle istituzioni religiose.
Lo ha notato, ad esempio, lo storico Paolo Prodi, morto recentemente, in un
articolo dal titolo Senza Stato né Chiesa - L’Europa a cinquecento anni
dalla Riforma, pubblicato sull’ultimo numero della rivista bolognese Il
Mulino. A questo problema si è cercato di rimediare in Italia con il Progetto
culturale della Conferenza Episcopale Italiana (informazioni su
http://www.progettoculturale.it/), per recuperare una capacità di intervento
sulle ideologie-guida della società e della politica italiane. Si è cercato
anche di recuperare una certa unità tra le visioni di fede correnti nelle
nostre collettività, al sevizio dell’universalità delle proposte, e questo ha
depresso il dialogo, per cui è sembrato che si preferisse far cadere certe idee
dall’alto.
Nella nostra parrocchia, con il
nuovo corso, inaugurato nell’ottobre 2015 con l’arrivo di un nuovo parroco e di
una nuova squadra di preti, si è avviato un processo di formazione
all’intervento sociale, inaugurato da un incontro con don Luigi Ciotti e
proseguito sistematicamente con l’approfondimento di temi della dottrina
sociale, innanzi tutto per spiegarne i principi fondamentali. Questa attività
ha però coinvolto in prevalenza coloro che, fin da giovani, erano stati
abituati a cose come queste, vale a dire persone che oggi sono
ultracinquantenni. E, nonostante la vivace animazione degli amici del
ciclo Immischiati, quegli incontri sono stati vissuti
prevalentemente come conferenze. Non si è potuto verificare il punto di
partenza culturale degli uditori, né verificare quanto e come avessero recepito
di ciò che era stato loro proposto. Quindi quest’anno si stanno utilizzando
tecniche di laboratorio culturale per stimolare la
partecipazione. Ma i più giovani? Innanzi tutto i genitori dei bambini che ci
portano i loro figli al catechismo per la prima formazione religiosa? Si tratta
delle classi di età più attive, impegnate sul lavoro e in famiglia, quelle che
contano di più nell’immagine della società, quelle che hanno ancora le forze
per occuparsi dei più giovani e la pazienza per relazionarsi positivamente con
i più anziani, insomma le generazioni panino, strette
tra i doveri verso i più giovani e quelli verso i più anziani, i
trenta/quarantenni che mandano avanti le cose in società. Sono molto impegnati.
La religione come medicina dell’anima, in genere, non è loro utile. Quando si
corre tutto il giorno, spesso non si ha tempo per porsi certi problemi. Vivono
in una società in cui certi grandi ideali umanitari e le corrispondenti
politiche sono a rischio. C’è un senso religioso e politico di tutto questo e
in un documento come l’enciclica Laudato si’, del 2015, esso viene
sintetizzato. Si tratta di un testo che, in questo, è veramente molto diverso
dalla precedente letteratura pontificia. Ma richiede approfondimenti e
impegni di vita: si tratta di risanare la società, e a livello mondiale,
non le singole persone.
La religione come medicina dell’anima
si è sentita accusare, fondatamente, di essere solo un anestetico locale, una
droga dello spirito, per consolare artificialmente persone in catene sociali,
e, in questo senso, di essere, come gli stupefacenti, una specie di veleno. Ma
si tratta di una evoluzione piuttosto recente, una manifestazione della
crisi che ha coinvolto anche altre istituzioni pubbliche. Storicamente la
religione non si è mai concentrata solo sul privato e sul micro-mondo, tanto è
vero che ha cambiato profondamente, non sempre in bene, le società in cui si è
immersa. E’ a questo che, in particolare, ci si riferisce quando si parla
di radici religiose dell’Europa.
Il nostro problema è quello di
riavvicinare le classi più giovani al lavoro che si fa in parrocchia in vista
dell’impegno in società. Bisogna dire che, per un tempo lunghissimo, non c’è
stato più nulla che potesse veramente interessarle. Si riparte quasi da zero.
E, innanzi tutto, occorrerebbe organizzare spazi accoglienti per accogliere
quella gente. Sotto un certo punto di vista le attrezzature che servono per la
pratica religiosa - medicina dell’anima sono molto più semplici e meno costose.
Infatti in questo settore si lavora molto di fantasia. Se invece si vuole
proporre visioni realistiche della società, per iniziare a lavorarci sopra,
occorre di più. Gli strumenti e i luoghi vanno protetti, occorre stabilire
un’organizzazione, che sarebbe meglio fosse auto-organizzazione, e delle
regole. Sotto questo profilo in parrocchia si è ancora piuttosto disordinati, e
la conformazione delle stanze in cui si svolgono attività collettive cambia
continuamente. Abbiamo vissuto una sorta di privatizzazione delle
attività parrocchiali, che è stata corrispondente all’impostazione privatistica della
proposta religiosa, tutta centrata sul micro-personale.
38. I guai politici delle religioni tradizionali
E’ facilmente dimostrabile che i
problemi che le religioni tradizionali incontrano nelle società contemporanee
sono essenzialmente politici, quindi relativi alle questioni di governo
pubblico. Infatti la gente non manifesta alcun problema nei confronti di ogni
tipo di soprannaturale e di ogni sorta di immaginifica spiegazione in merito,
ma resiste a chi le vuole imporre che pensare, che dire, che fare, come
relazionarsi con gli altri.
Quello della laicità è
un problema essenzialmente politico e riguarda i rapporti tra una gerarchia e
un popolo che le è semplicemente soggetto. Non si manifesta solo in religione.
E’ stato osservato che esso si è prodotto anche nelle società post-comuniste
dell’Europa orientale.
Spesso si considera il termine laico come
equivalente a non credente, ma non è questo il punto. Storicamente,
negli ordinamenti religiosi della nostra fede, il laico è
stato costituito dalla presenza di un potere gerarchico esercitato da un clero.
Tra il popolo dei persuasi nella fede religiosa si è
prima enucleato un clero, a cui si è attribuito il governo,
la profezia, il sacerdozio, praticamente tutto in religione, e per sottrazione
sono risultati i laici, che progressivamente sono stati
assimilati al popolo intero, come se il clero non
ne facesse più parte.Popolo erano coloro che erano sudditi del
clero, al mondo in cui lo erano verso i signori feudali. In questo
l’organizzazione delle nostre collettività ha imitato quella delle società
civili sue contemporanee lungo i quasi due millenni del suo potere religioso.
Il problema dellaverità è venuto a coincidere con
quello dei gerarchi della verità: la verità era ritenuta tale
perché proclamata da un’autorità religiosa, dal clero. E’
quest’ultimo che non vuole essere relativizzato, che pretende di
rimanere sempre sul campo come assoluto. Quindi il problema del laicato non
riguarda tanto la libertà dalla verità, ma da gerarchi assoluti della verità.
L’impegno sociale ispirato dalla fede,
ciò che si fa rientrare nell’idea didottrina sociale, venne proclamato
inizialmente come verità di origine gerarchica, al modo degli altri
dogmi. In questo campo si è assistito ad una democratizzazione della
produzione di verità sociali, non senza persistenti frizioni: problemi,
appunto, politici.
La scelta religiosa che
l’Azione Cattolica fece negli anni ’60, dopo il Concilio Vaticano 2°
(1962-1965) viene presentata spesso come una presa di distanza dalla politica
espressa dal partito cristiano dell’epoca, dalla Democrazia
Cristiana. In realtà si è trattato di un processo molto più profondo. Si scelse
di liberare il pensiero sociale, e la conseguente politica, dal potere assoluto
della gerarchia, che era abituata a organizzare le masse di fedeli a sostegno
delle proprie istanze politiche e a richiederne l’obbedienza politica
senza tanti complimenti e discussioni. Al centro di questa processo fu l’autonomia del
laicato, che doveva essere conquistata attraverso un’impegnativa opera di
auto-formazione. Era questo un modo di vedere che fino ad allora era stato
proprio solo delle organizzazioni intellettuali di Azione
Cattolica, FUCI, Laureati, Insegnanti cattolici, medici e giuristi cattolici.
E’ stato difficile farne un’esperienza di massa, anche per le resistenze della
gerarchia, che si fecero sempre più pressanti sotto il lunghissimo regno
religioso del Wojtyla.
Si tratta di problemi che vediamo
ben rappresentati nell’organizzazione della nostra parrocchia. La gerarchia è
rappresentata dal parroco e dai preti suoi collaboratori e detiene tutto il
potere di tipo amministrativo, che si manifesta nel lavoro della parrocchia
come ASL spirituale, e civile, che riguarda, ad esempio, il patrimonio
parrocchiale. Il laicato è rappresentato da vari gruppi che
convivono ignorandosi, in una situazione di precario condominio, che, a ben
vedere, riguarda solo le questioni delle loro relazioni reciproche e poco di
più. Ma questi gruppi sono interessati quasi
esclusivamente a ciò che accade al loro interno e qui l’autonomia della persona
di fede ha poco campo per esprimersi. Si seguono metodi e orientamenti
predefiniti: ogni gruppo ha sviluppato una propria gerarchia, che a
volte ricalca quella del clero. Si ripropongono all’interno dei gruppi i
problemi dello sviluppo dell’autonomia laicale che caratterizzarono gli anni
Sessanta e Settanta su scala più vasta. Allora si trattò di suscitare
l’autonomia laicale delle masse verso la gerarchia, ora di tratta di suscitarla
nei gruppi, che, dal canto loro, hanno sviluppato un assetto
piuttosto rigido senza il quale si sentono persi.
In questa situazione non esiste
una vera comunità parrocchiale, come ideologicamente ce se la raffigura.
Andrebbe creata avanzando delle pretese verso le formazioni che attualmente
dominano la vita parrocchiale. E creando un’organizzazione parrocchiale che
consenta una vera partecipazione laicale. Si tratterebbe di suscitarla
pazientemente, perché la gente ha perso familiarità al lavoro collettivo e,
senza una formazione sufficiente, tutto decade ad assemblea di condominio. In
prospettiva dovrebbe potersi riunire un’assemblea parrocchiale, come quella che
dovrebbe eleggere alcuni componenti del consiglio pastorale. La gestione
patrimoniale della parrocchia dovrebbe essere spiegata ai parrocchiani in una
qualche forma, in modo da avere consapevolezza dei relativi problemi. Le offertedovrebbero
diventare contributi e dovrebbe essere spiegato come
questi ultimi sono impiegati. Le strutture parrocchiali sono utilizzate con
troppa libertà dai gruppi. Bisognerebbe dare delle regole più
stringenti e stabilire una cabina di regia in merito.
Il tutto è complicato dalla
circostanza che si stanno cambiando costumi che si erano cristallizzati in un
tempo lunghissimo, trent’anni, corrispondenti addirittura ad una
generazione.
Al fondo rimane il problema politico:
l’impegno sociale che si inizia nuovamente a pretendere pressantemente dai
fedeli deve farsi su base di autonomia laicale, per avere una visione
realistica della società e per radunare le competenze che occorrono per
intervenire. Questo richiedere di imparare a lavorare collettivamente, E
la religione da sola, e particolarmente certe sue immaginifiche
semplificazioni, non basta.
39.
Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica
Una volta raggiunta la consapevolezza che la
crisi religiosa e quella politica sono espressione di un medesimo
processo, ci si può anche convincere che le possibili soluzioni siano
comuni ad entrambe e che, quindi, lavorando sull’aspetto religioso si possa
contribuire anche a migliorare quello politico e viceversa. Questa convinzione
è al centro del pensiero espresso nell’enciclica Laudato si’.
I problemi della nostra organizzazione
comunitaria di fede sono analoghi a quelli degli stati. Del resto la nostra è
una confessione che ha voluto farsi stato. Viviamo in una situazione di
sostanziale anarchia, in cui religioni e stati faticano a mantenere il
controllo e, soprattutto, e qui mi riporto al pensiero di Zygmunt Bauman, sono
realtà confinate in limiti sempre più ristretti: si sta riducendo di molto la
competenza loro riconosciuta negli affari sociali. Ognuno è spinto a fare da
sé, a risolvere da sé i propri guai. Vengono progressivamente meno i correttivi
sociali agli abusi di posizioni dominanti. Si sta riproponendo una divisione in
classi della società: quella di chi domina il nuovo corso e quella, che
comprende la grande maggioranza della popolazione della terra, che è dominata.
Per chi riesce a entrare nella prima non vi sono più frontiere, per gli altri
le frontiere diventano sempre più impenetrabili.
Bauman osserva che in un regime di
interdipendenza globale, la mobilità, il poter andare dove ci sono le occasioni
più favorevoli, diventa una risorsa quanto mai preziosa ed ambita. La
desideriamo per i nostri figli e siamo orgogliosi quando riescono ad andare a
studiare o a lavorare all’estero, perché non ci vanno nelle condizioni dei
nostri migranti dell’Ottocento, ma come partecipi di una classe privilegiata.
Ma il 98% della popolazione mondiale, osserva Bauman, non si trasferisce mai
dal luogo di residenza: deve vivere e lavorare dove la sorte l’ha piazzata,
accettando quello che c’è. E questo contribuisce al nostro benessere, di
privilegiati che vivono in Occidente. Ci consente di acquistare a prezzi molto
bassi beni di consumo quotidiano, praticamente tutti.
Scrive Bauman in La società
sotto assedio, del 2002, pubblicato in Italiano da Editori Laterza:
“Allo smantellamento di tutte le
barriere che ostacolano il libero movimento del capitale e dei suoi agenti si
abbina l’erezione di nuove barriere, sempre più alte e scoraggianti , contro la
massa di persone desiderose di adeguarsi e andare là dove spuntano le
opportunità. Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per
sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti
di «immigrati illegali» e a dispetto di occasionali ed effimere
ondata di orrore e di indignazione provocate dalla vista
di «emigranti economici» finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di
raggiungere la terra in grado di sfamarli. Il mondo globalizzato è un luogo
accogliente e amichevole per i turisti, ma inospitale e ostile per i
senzatetto. Ai secondo è vietato seguire il modello instaurato dai primi, che
però, in fondo, non ea mai stato progettato per loro. Inoltre, qualora fosse un
modello liberamente perseguibile dalle grandi masse anziché un privilegio
esclusivo di una ristretta cerchia di persona ben protette, non
arrecherebbe certo quei vantaggi per i quali è stato vantato dai suoi
fautori e beneficiari”(pag.77-78).
E’ evidente la rilevanza anche religiosa della situazione.
C’è però difficoltà a capire che, quando
insorgiamo contro i migranti economici e vorremmo rispedirli a casa
loro, alla fine condanniamo anche noi stessi alla loro sorte, e in
particolare i nostri figli. I problemi della gran parte di noi hanno la stessa
causa di quelli di quei migranti. Sotto certi aspetti in Occidente beneficiamo
dell’economia globalizzata, che infierisce senza più freni pubblici sui
lavoratori che producono la gran parte delle cose di nostro uso comune,
ma questo comporta che anche da noi si segua la stessa linea
liberista e che, anzi, una delle residue funzioni degli stati sia proprio
questa. “Un obiettivo”, scrive Bauman in quel libro, “probabilmente
raggiungibile mediante costanti riduzioni fiscali, riducendo al minimo
indispensabile la regolamentazione delle condizioni di lavoro, pacificando o
imbavagliando le organizzazioni di difesa dei lavoratori, e soprattutto
non applicando alcuna restrizione al libero movimento in entrate e in uscita
del capitale. Nel complesso, la conditio sine qua [=la condizione
senza la quale = indispensabile] per rendere felici
gli «investitori globali» e indurli a cercare profitti nel proprio paese
anziché in un altro è rendere la condizione dei produttori e consumatori
locali il più precaria possibile” (pag.75).
Che c’entra la parrocchia con tutto
questo? C’entra se si riprende contatto con il quartiere, perché in
quest’ultimo sono presenti, su scala locale, tutti i problemi che si presentano
su scala globale. La dimensione locale fa sì però che li si possa affrontare
con una qualche efficacia tentando soluzioni di prossimità, ad esempio creando
o potenziando iniziative solidali, ricreando quella rete sociale di resistenza
che in passato ha funzionato molto bene e che ancora si intravvede nel vasto
fenomeno del volontariato. Se però la religione viene vissuta prevalentemente
come un gioco di ruolo, in comunità confinate e con pretesa di autosufficienza,
alla lunga diventa inutile.
In questi giorni nel gruppo
parrocchiale di AC stiamo meditando sulla beatitudine dei poveri
in spirito. I più ritengono che si debba fare uno sforzo per
diventare poveri in spirito, in quanto pensano di aver raggiunto un
certo benessere e, essendosi affrancati dalla povertà materiale, di essere
soggetti alla tentazione dell’arrogante autosufficienza. Abbiamo letto il
messaggio del Papa del 2014 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù
di quell’anno, che trattava di quel tema e invitava a una conversione
verso i poveri, per rimettere al centro della cultura umana la solidarietà.
Se riuscissimo a capire che, in realtà, la nostra condizione si sta
progressivamente avvicinando a quella di coloro che ci appaiono realmente poveri,
e che in definitiva, lasciando le cose andare avanti così, non ci sarà più
tanto difficile ammettere di dover mendicare tante cose
che oggi sono ancora affermate come diritti, questa conversione ci
verrebbe più facile.
Mi pare che in
parrocchia ci siano due distinte visioni religiose dei problemi che stiamo
vivendo collettivamente, a cui corrispondono distinte e divergenti soluzioni.
Comporle non sarà facile. Autosufficienza religiosa o espansione solidale nello
spirito dellaLaudato si’?
40. La radice politica dei
problemi religiosi
Riporto in fondo il testo delle omelie del Papa nella
Veglia Pasquale e nella Messa nel Giorno nella solennità di Pasqua.
Eccone alcuni brani su cui vorrei iniziare una riflessione:
“[…] se facciamo uno sforzo con la nostra
immaginazione, nel volto di queste donne [Maria di Magdala e l’altra Maria nel
racconto della scoperta del Sepolcro vuoto in Mt 28,1-8] possiamo trovare i
volti di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che
sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia.
Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città,
sentono il dolore della miseria, il dolore per lo sfruttamento e la
tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il
disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i
volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani
troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che
piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della
corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo
quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la
burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel
loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città,
vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste donne ci sono molti volti,
forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci spinti a
camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così.
[…]
Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi
senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro, a
convivere con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che
questa è la legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non
fanno altro che spegnere la speranza posta da Dio nelle nostre mani.
[…]
Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come
orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e che
ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come fermento
di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente
ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le
barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati
mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate
ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la
dignità altrui.
[…]
Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad
annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive!
E la Chiesa non cessa di dire alle nostre
sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è risorto”.
Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? […] a nessuno di noi viene chiesto:
“Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a portare avanti
questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.
[…]
In questa cultura dello scarto dove quello che non serve prende la
strada dell’usa e getta, dove quello che non serve viene scartato, quella
pietra – Gesù - è scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per
terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto
abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità.
[…]
La pietra scartata non risulta veramente scartata. I sassolini che
credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno un senso e con
questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”.
Nel proporvi queste meditazioni faccio riferimento anche ad
idee che sono diffuse in parrocchia. In sintesi: viene rivisitato l’antico
ebraismo e in qualche modo ce se ne appropria con una certa disinvoltura. La
Pasqua ebraica racconta la storia di una emigrazione di molta gente di una
certa etnia: se ne andò perché stava male nell’Egitto dominato dalle dinastie
dei Faraoni. Il problema erano le condizioni di lavoro, è scritto,
che si erano fatte molto dure. Usciti dall’Egitto gli antichi israeliti si
trovarono a lungo nella condizioni degli attuali migranti economici:
infatti, stando a quel racconto, erano essenzialmente questo. Non avevano
patria, né cittadinanza. Riuscirono a rimanere un gruppo coeso, al modo dei
nomadi, che da quelle parti ancora ci sono. Questa condizione durò, secondo la
narrazione biblica, fino a quando non si introdussero nella terra di Canaan, dove
oggi ci sono lo stato di Israele e l’autorità palestinese, non la terra
santa da noi immaginata, e si conquistarono militarmente
un regno, poi frammentatosi in diverse entità politiche, che dovettero
difendere da molti invasori, infine soccombendo definitivamente ai Romani.
Nello sforzo di organizzare regni giusti gli antichi israeliti
colsero chiaramente la rilevanza religiosa dei problemi politici e viceversa.
Questo è ancora molto attuale, in particolare nel nuovo ordine religioso della
nostra fede. Il nostro problema di oggi, politico, non è organizzare uno nostro stato
da qualche parte, ma di riorganizzare addirittura l’ordine politico
mondiale su basi di giustizia: esso ha valenza specificamente
religiosa perché riguarda la stessa sopravvivenza dell’umanità. Gran parte dei
dominatori del mondo sono ancora oggi della nostra fede. Questo significa che
gran parte degli sfruttatori sono gente che segue la nostra religione.
L’Italia, una delle maggiori potenze industriali, è tra i dominatori del
mondo. Questo comporta una evidente responsabilità morale verso coloro che
stanno peggio, dei quali il Papa ha fatto un elenco nelle omelie che ho citato.
Quelli che stanno peggio sono gli scarti di un
sistema che noi dominiamo. In religione questo è un peccato, ma noi ci
autoassolviamo sostenendo che non ci possiamo fare nulla. E, anzi, inventandoci
di sana pianta una sorta di neo-identità ebraica, immaginiamo di essere,
collettivamente, tra gli sfruttati, tra quelli che stanno peggio e invochiamo
la liberazione. Immaginiamo di essere tra gli oppressi perché minacciati
dalla contaminazione del mondo di fuori: quindi ci barrichiamo culturalmente
per respingere l’attacco. In questo modo effettivamente lasciamo fuori quelli
che stanno realmente peggio e che vengono tra noi
chiedendo aiuto. Il Papa allora, e fa semplicemente il suo mestiere, ci
rimprovera e noi, convinti sinceramente di essere quello che non siamo,
diventiamo insofferenti delle sue tirate d’orecchi e lo invitiamo a non
impicciarsi nelle cose della nostra politica. E’ questo
il succo di un discorso fatto in Francia da un’importante personalità. Non
abbiamo forse il diritto di difenderci? Ma il Papa ci ricorda
che le migrazioni di quelli che vorremmo respingere, innanzi tutto privandoli
della loro dignità umana, e ciò mentre paradossalmente vorremmo immaginarci una
dignità degli animali simile a quella umana che neghiamo agli umani, sono
un sottoprodotto, uno scarto, del sistema
economico e politico di cui noi siamo i dominatori e principali beneficiari.
Riteniamo in ciò di esercitare il nostro buon diritto e siamo
disposti a far guerra a chi minaccia questo nostro stile di vita.
Il Papa parla di nostre ossessionate ricerche di sicurezza e di
smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui e le
critica.
Ma non è solo il Papa a farci questo discorso. Abbiamo da
confrontarci con sempre più grilli parlanti che si rivolgono a
noi, pinocchietti presuntuosi.
Uno di essi è, ad esempio, Vladimiro Zagrebelsky, nel
suo Diritti per forza, Einaudi, uscito quest’anno, anche in
e-book, che vi consiglio.
Scrive Zagrebelsky, nel capitolo Stili di vita:
“Se non si prenderà coscienza della valenza aggressiva dei diritti
accampati da chi può nei confronti di chi non può, nel mondo che ha un
solo confine che cinge l’intera umanità, ci si disporrà ad annichilire quanti,
vivendo con noi e vicino a noi, ci sottraggono dall’interno quello che
consideriamo il nostro spazio vitale e minacciano il nostro «stile di vita». La
guerra che un tempo si faceva da parte di eserciti schierati sulle linee delle
frontiere esterne, gli uni di fronte agli altri, oggi si trasferisce
all’interno, gli uni mescolati con gli altri. Nuove frontiere si creano
ormai dentro un unico spazio globale in cui non esiste più una «casa del
tutto nostra» e una «casa del tutto loro», ma tutti siamo tenuti a
regolarci come in una grande casa comune. Il motto «padroni a casa propria»,
con il quale si vuole negare l’evidenza delle interdipendenza che ci avvolgono
da ogni parte e si vuol respingere al di fuori dei nostri pretesi confini
esterni, restaurati con muri, filo spinato, cannoniere e divieti legali, i
fattori di con-fusione che caratterizzano il tempo presente, è solo un patetico
ricordo d’un tempo che non c’è più.”
Scrive anche, Zagrebelsky, che il mondo globalizzato è
paradossalmente divenuto più piccolo, non ha più spazi vuoti, come per certi
versi fu il West nel Nord-America, dove fuggire per
sottrarsi all’oppressione e a condizioni di vita troppo dure, come fecero gli
antichi israeliti, spingendosi nel deserto, abbandonando la civiltà egiziana.
L’esercizio di ogni nostro diritto ha
un’influenza, spesso negativa, da qualche altra parte e la globalizzazione
dell’informazioni che lo fa capire chiaramente: nessuno può dirsi
all’oscuro. Gli oppressi rivendicano come diritto la giustizia, i
dominatori il loro piacere: è chiaro che noi, nell’Italia di oggi, consumatori innanzi
tutto, siamo poco sensibili alla giustizia, perché siamo parte dei dominatori
del mondo, gelosi innanzi tutto del nostro piacere. Che ci importa, infatti,
come sono prodotti, con quale sofferenza umana, le merci e i servizi che
ci danno piacere e che vogliamo sempre nuovi, pronti all’uso, rapidamente
consegnati (le cronache segnalano che nei servizi di logistica, di
consegna merci, talvolta si notano ritmi di lavoro particolarmente duri a
fronte di paghe molto basse)? C’è un’etica da ricostruire, anche a livello
personale. Il nostro peccato sociale si manifesta
innanzi tutto nel modo in cui siamo consumatori. E’ un tema
che mi pare piuttosto trascurato nella formazione religiosa, specialmente in
quella dei più giovani, in cui, ad un certo punto, ci si sfianca (inutilmente)
sulle faccende del sesso.
Un altro dei grilli parlanti di cui
dicevo è stato il sociologo Zygmunt Bauman, che ci ha lasciato
tanti testi interessanti, scritti con un linguaggio accessibile ai più e che
spiegano realisticamente ciò che dobbiamo fronteggiare.
In La società sotto assedio, del 2002, edito da
Laterza, un altro testo che vi consiglio, scrive (pag.223-235):
“La «negazione» è la risposta a domande inquietanti quali «come
reagiamo alla nostra consapevolezza dell’altrui sofferenza e cosa implica per
noi tale consapevolezza?» - le domanda che sorgono ogni qual
volta «persone, organizzazioni o intere società acquisiscono informazioni
troppo inquietanti, minacciose o astruse per essere pienamente assorbite o
apertamente riconosciute. Questa informazioni vengono quindi in qualche modo
represse, ripudiate, accantonate o reinterpretate» [cita Stanley Cohen].
[…] colui che perpetra il male e colui che lo vede, lo
sente, ma non muove un dito, si trovano […] entrambi esposti alla
possibilità che le loro azioni (o la loro passività) gli si possano
rivoltare contro, essendo state dichiarate inique, esecrabili e punibili […]
avvertono quindi il pressante e perenne bisogno di negare in modo
enfatico e perentorio. […] Esistono molte forme di negazione della colpa
(o di rivendicazione d’innocenza, che è la stessa cosa), ma gli argomenti
impiegati sono straordinariamente simili […] Ridotti all’osso, tutti gli
argomenti rivelano l’uno o l’altro dei due modelli: «Non sapevo», o «Non potevo
farci niente». […] Nell’epoca delle autostrade informatiche, le
argomentazioni sull’ignoranza vanno rapidamente perdendo di credibilità […] E
così, l’unica scusa che ci resta è «non potevo farci niente» o «non potevo fare
di più». […] Lo stratagemma del «non potevo fare di più di quanto ho fatto»
dissolve la colpa - penalmente perseguibile- associata alla perpetrazione di un
misfatto nella universale e quindi esecrabile ma non punibile
condizione dell’«essere spettatore». In un mondo fatto d’interdipendenza
globale, la differenza tra spettatore e co-esecutore, complice o favoreggiatore
dell’azione malvagia diventa sempre più tenue. La responsabilità per le
disgrazie umane, per quanto distanti possano essere da chi ne è testimone, non
può assolutamente essere negata, almeno in modo convincente. Mai, quindi, la
domanda di varianti sempre nuove e più raffinate di negazione di responsabilità
del tipo «non potevo farci niente» è stata così grande e in forte espansione
come oggi.
[…]
Praticamente nessuna azione umana, per quanto localmente
confinata e compressa, può essere certa che non avrà conseguenze sul destino
del resto dell’umanità, così come qualsiasi segmento dell’umanità non può
limitarsi a se stesso e dipendere totalmente solo dalle azioni dei suoi membri.
Nel commentare il memorabile intervento del 1979 di Edward
Lorenz, il cui titolo è da allora diventato una delle frasi più note del secolo
scorso («il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado
nel Texas”), Roberto Toscano afferma che «oggi la realtà dell’interconnessione
globale impone, nelle relazioni internazionali, standard etici che vanno ben
oltre un concetto di responsabilità strettamente legalistico. La farfalla
non conosce le conseguenze di un suo battito d’ali; essa
tuttavia non può escludere quella conseguenza. Passiamo così dalla nozione di
responsabilità a un concetto simile, ma più restrittivo, quello di
precauzione».
[…]
La sofferenza «come appare in TV» è nella gran parte dei
casi trasmessa attraverso le immagini dei corpi emaciati degli affamati e dai
volti sfigurati dal dolore dei malati. […] Nulla si sa e niente viene
detto sulle cause della carestie e delle malattie
croniche. Non un minimo accenno alla costante distruzioni dei mezzi di
sussistenza causata dal commercio senza frontiere, allo
smantellamento delle reti di sicurezza sociale sotto la pressione della
finanza senza frontiere, o alla devastazione di terreni e comunità
da parte di monoculture imposte dai mercanti di semi geneticamente modificati
in stretta collaborazione con i missionari delle motivazioni economiche della
Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale. Piuttosto, un pervasivo e
persuasivo suggerimento che «ciò che appare in TV» sia un disastro
autoinflitto abbattutosi su tribù distanti, esotiche e «molto diverse da
noi» che si sono colpevolmente alienate una decente vita umana. E che - grazie
a Dio (o alla nostra prudenza) esistono persone fortunate e di buon cuore come
noi, fortunate perché sensibili e industriose, pronte a salvare lo sventurato
dalle raccapriccianti conseguenze della sua sfortuna e della sua condotta
insensata causata da ignoranza e indolenza.”
Alla luce delle parole di
Bauman, acquista un senso sinistro l’invito, che talvolta si fa in religione,
a non pretendere troppo da sé stessi, perché in fin dei conti siamo
peccatori ma lassù siamo amati lo stesso così come siamo, perché richiama
l’argomento «non potevo farci niente» o «non potevo fare di più». Il
punto non sta nell’amore soprannaturale incondizionato, nonostante
la condizione di peccato, ma nel non voler pretendere
troppo (abbastanza?) da noi stessi, quindi in questa
autolimitazione tutto sommato arbitraria, ingiustificata, nello sforzo di
essere migliori, per cui poi, in definitiva, possiamo
finire per «abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la
frustrazione» e «di più, possiamo arrivare a convincerci che
questa è la legge della vita». Dovremmo proprio, invece,
pretendere un po’ di più da noi stessi. Ad esempio come consumatori:
ci sono modi sbagliati di esserlo. Bisogna prestare più attenzione a come
viene prodotto quello che compriamo, a quanto sofferenza ingloba.
Animati dal «palpito del Risorto» occorre
invece, secondo l’esortazione del Papa, divenire “forza trasformatrice, come
fermento di nuova umanità” e “far saltare tutte le
barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati
mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate
ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la
dignità altrui”. Non è cosa che si consegue magicamente, senza
un nostro impegno collettivo. Se non ci spendiamo in questo, e innanzi tutto
non ci formiamo a questo, la religione diventa inutile, “la croce va avanti,
e la fede in Gesù viene giù.” Dobbiamo lavorare per trasformare
la realtà, con un impegno politico che ha anche un senso per la fede, non
cercare di immedesimarci in un qualche immaginifico gioco di ruolo
a sfondo religioso.
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Veglia Pasquale nella Notte santa
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Sabato Santo, 15 aprile 2017
«Dopo il sabato, all’alba del primo
giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il
sepolcro» (Mt 28,1). Possiamo immaginare quei passi…: il tipico
passo di chi va al cimitero, passo stanco di confusione, passo debilitato di
chi non si convince che tutto sia finito in quel modo… Possiamo immaginare i
loro volti pallidi, bagnati dalle lacrime… E la domanda: come può essere che
l’Amore sia morto?
A differenza dei discepoli, loro sono lì
– come hanno accompagnato l’ultimo respiro del Maestro sulla croce e poi
Giuseppe di Arimatea nel dargli sepoltura –; due donne capaci di non fuggire,
capaci di resistere, di affrontare la vita così come si presenta e di
sopportare il sapore amaro delle ingiustizie. Ed eccole lì, davanti al
sepolcro, tra il dolore e l’incapacità di rassegnarsi, di accettare che tutto
debba sempre finire così.
E se facciamo uno sforzo con la
nostra immaginazione, nel volto di queste donne possiamo trovare i volti di
tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il
dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di tutti
quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore
per lo sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che
sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di
famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché
hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che
piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della
corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo
quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la
burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel
loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città,
vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste donne ci sono
molti volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci
spinti a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così. E’
vero, portiamo dentro una promessa e la certezza della fedeltà di Dio. Ma anche
i nostri volti parlano di ferite, parlano di tante infedeltà – nostre e degli
altri –, parlano di tentativi e di battaglie perse. Il nostro cuore sa
che le cose possono essere diverse, però, quasi senza accorgercene, possiamo
abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione. Di più,
possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della vita
anestetizzandoci con evasioni che non fanno altro che spegnere la speranza
posta da Dio nelle nostre mani. Così sono, tante volte, i nostri
passi, così è il nostro andare, come quello di queste donne, un andare tra il
desiderio di Dio e una triste rassegnazione. Non muore solo il Maestro: con Lui
muore la nostra speranza.
«Ed ecco, ci fu un gran terremoto» (Mt 28,2).
All’improvviso, quelle donne ricevettero una forte scossa, qualcosa e qualcuno
fece tremare il suolo sotto i loro piedi. Qualcuno, ancora una volta, venne
loro incontro a dire: «Non temete», però questa volta aggiungendo: «E’
risorto come aveva detto!» (Mt 28,6). E tale è l’annuncio che,
di generazione in generazione, questa Notte santa ci regala: Non
temiamo, fratelli, è risorto come aveva detto! Quella stessa vita
strappata, distrutta, annichilita sulla croce si è risvegliata e torna a
palpitare di nuovo (cfr R. Guardini, Il Signore, Milano 1984,
501). Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come
orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e
che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come
fermento di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente
ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le barriere
che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi
concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche
di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità
altrui.
Quando il Sommo Sacerdote, i capi
religiosi in complicità con i romani avevano creduto di poter calcolare tutto,
quando avevano creduto che l’ultima parola era detta e che spettava a loro
stabilirla, Dio irrompe per sconvolgere tutti i criteri e offrire così una
nuova possibilità. Dio, ancora una volta, ci viene incontro per stabilire e
consolidare un tempo nuovo, il tempo della misericordia. Questa è la promessa
riservata da sempre, questa è la sorpresa di Dio per il suo popolo fedele:
rallegrati, perché la tua vita nasconde un germe di risurrezione, un’offerta di
vita che attende il risveglio.
Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad
annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive! Ed è ciò che cambiò il passo di Maria
Maddalena e dell’altra Maria: è ciò che le fa ripartire in fretta e correre a
dare la notizia (cfr Mt 28,8); è ciò che le fa tornare sui
loro passi e sui loro sguardi; ritornano in città a incontrarsi con gli altri.
Come con loro siamo entrati nel sepolcro,
così con loro vi invito ad andare, a ritornare in città, a tornare sui nostri
passi, sui nostri sguardi. Andiamo con loro ad annunciare la notizia, andiamo…
In tutti quei luoghi dove sembra che il sepolcro abbia avuto l’ultima parola e
dove sembra che la morte sia stata l’unica soluzione. Andiamo ad annunciare, a
condividere, a rivelare che è vero: il Signore è Vivo. E’ vivo e vuole
risorgere in tanti volti che hanno seppellito la speranza, hanno seppellito i
sogni, hanno seppellito la dignità. E se non siamo capaci di lasciare che lo
Spirito ci conduca per questa strada, allora non siamo cristiani.
Andiamo e lasciamoci sorprendere da quest’alba
diversa, lasciamoci sorprendere dalla novità che solo Cristo può dare. Lasciamo
che la sua tenerezza e il suo amore muovano i nostri passi, lasciamo che il
battito del suo cuore trasformi il nostro debole palpito.
Domenica di Pasqua della Resurrezione del
Signore
SANTA MESSA DEL GIORNO
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica di Pasqua, 16 aprile 2017
Oggi la Chiesa ripete, canta, grida:
“Gesù è risorto!”. Ma come mai? Pietro, Giovanni, le donne sono andate al
Sepolcro ed era vuoto, Lui non c’era. Sono andati col cuore chiuso dalla
tristezza, la tristezza di una sconfitta: il Maestro, il loro Maestro,
quello che amavano tanto è stato giustiziato, è morto. E dalla morte non si
torna. Questa è la sconfitta, questa è la strada della sconfitta, la strada
verso il sepolcro. Ma l’Angelo dice loro: “Non è qui, è risorto”. E’ il primo
annuncio: “E’ risorto”. E poi la confusione, il cuore chiuso, le apparizioni.
Ma i discepoli restano chiusi tutta la giornata nel Cenacolo, perché avevano
paura che accadesse a loro lo stesso che accadde a Gesù.
E la Chiesa non cessa di dire
alle nostre sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore
è risorto”. Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? Come
mai succedono tante disgrazie, malattie, traffico di persone, tratte di
persone, guerre, distruzioni, mutilazioni, vendette, odio? Ma dov’è il Signore?
Ieri ho telefonato a un ragazzo con una malattia grave, un ragazzo colto, un
ingegnere e parlando, per dare un segno di fede, gli ho detto: “Non ci sono
spiegazioni per quello che succede a te. Guarda Gesù in Croce, Dio ha fatto
questo col suo Figlio, e non c’è un’altra spiegazione”. E lui mi ha risposto:
“Sì, ma ha domandato al Figlio e il Figlio ha detto di sì. A me non è stato
chiesto se volevo questo”. Questo ci commuove, a nessuno di noi viene
chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a
portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene
giù.
Oggi la Chiesa continua a dire:
“Fermati, Gesù è risorto”. E questa non è una fantasia, la Risurrezione di
Cristo non è una festa con tanti fiori. Questo è bello, ma non è questo è di
più; è il mistero della pietra scartata che finisce per essere il fondamento
della nostra esistenza. Cristo è risorto, questo significa. In questa
cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada dell’usa e
getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è
scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per terra, in
questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un
senso, in mezzo a tante calamità. Il senso di guardare oltre, il senso
di dire: “Guarda non c’è un muro; c’è un orizzonte, c’è la vita, c’è la gioia,
c’è la croce con questa ambivalenza. Guarda avanti, non chiuderti. Tu
sassolino, hai un senso nella vita perché sei un sassolino presso quel sasso,
quella pietra che la malvagità del peccato ha scartato”.
Cosa ci dice la Chiesa oggi davanti a
tante tragedie? Questo, semplicemente. La pietra scartata non risulta
veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella pietra non
sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa ripete dal
profondo del cuore: “Cristo è risorto”. Pensiamo un po’, ognuno di noi
pensi, ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto o che qualcuno
dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane e,
semplicemente, con voce umile, senza fiori, soli, davanti a Dio, davanti a noi
diciamo “Non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto e io ho
scommesso su questo”. Fratelli e sorelle, questo è quello che ho voluto dirvi.
Tornate a casa oggi, ripetendo nel vostro cuore: “Cristo è risorto”.
41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno
Una comunità può essere rivolta al proprio interno o verso
l’esterno, verso il mondo intorno. Le sette sono prevalentemente del primo
tipo, le religioni prevalentemente del secondo. Una setta religiosa ha quindi,
in genere, al suo interno una contraddizione. Di solito quest’ultima viene
risolta con l’immaginazione, costruendo un contesto esterno
compatibile con l’ideologia di chiusura praticata. L’uscita da una setta
religiosa viene spesso vissuta come un ritorno alla realtà.
Perché si aderisce a una setta? Vengono
riconosciuti vari moventi. Le sette propongono, in genere, visioni semplificate
ma immaginifiche, quindi accattivanti e coinvolgenti, della realtà: chi ha
difficoltà con una società complessa vi può trovare conforto. Inoltre esse
sembrano dare protezione a chi vi aderisce, anche se solo fino a che vi
aderisce, e l’adesione in genere comporta l’esigenza di sottomissione acritica
ad un gruppo di comando, che può essere anche una singola figura dominante o,
più spesso e nelle realtà più vaste, una gerarchia più complessa. In una setta
si è in genere sottoposti a continue prove di fedeltà. Una setta religiosa
della nostra fede sarà, ad esempio, particolarmente legata al racconto biblico
del (mancato) sacrificio di Isacco, che inscena appunto una prova di fedeltà,
arrivando addirittura (forzando abbastanza il testo biblico) a immedesimarsi in
Isacco, piuttosto che in Abramo.
Esperienze di setta sono state vissute
ciclicamente anche nelle nostre collettività di fede. In genere l’educazione
alla fede conduce a non dipenderne, perché la nostra religiosità ha una forte
connotazione missionaria e dunque rivolta verso l’esterno. Non ci si appaga
veramente di esperienze chiuse.
In un’esperienza aperta è
centrale la partecipazione, che consente il dialogo e
quindi l’interazione e il coinvolgimento di
gente nuova. Non è sufficiente la fedeltà, occorre collaborare
per capire ciò in mezzo a cui ci si trova. Più si
è, meglio si capisce, perché si guarda il mondo da diversi punti di vista; ma
senza il dialogo le visioni parziali rimangono
tali. Si cerca di essere più aderenti alla realtà, acquisendo competenze spendibili
in società; si fanno progetti per migliorare la
convivenza. Aprirsi comporta il rischio, e la fatica, di
confrontarsi con la complessità. Solo nelle fantasie la realtà si adatta
perfettamente alle concezioni ideali. Una religiosità che si propone come cattolica, quindi
universale, vive senz’altro nella modalità dell’apertura. Questo
comporta di rinunciare al monopolio del bene, che è un intento
tipico della religiosità di setta, secondo la quale non vi è vero bene al di
fuori di essa.
In una modalità aperta si
può riconoscere, ad esempio, il valore religioso di una importante conquista
civile, come quella del nostroParco delle Valli, evolutosi dal
semplice pratone delle origini a parco pubblico mediante
quella che viene definita cittadinanza attiva, quindi una
mobilitazione popolare di lungo periodo di cui la gente della parrocchia è
stata componente fondamentale. Questo modo di vedere le cose è al centro
delle argomentazioni che troviamo nell’enciclica Laudato si’.
Una setta può abitare un
luogo senza essere veramente interessata a ciò che c’è intorno, tanto più se è
fatta di gente che viene da fuori. Una parrocchia, inviata a gente di un certo
posto, non può organizzarsi così, è necessariamente una struttura aperta,
interessata alla vita del quartiere. Molti tipi di impegni insieme civili e
religiosi sono vissuti, ad esempio, nelle esperienze che si riconoscono
in Libera, di cui ci ha parlato l’anno scorso don Ciotti. Un
impegno così richiede una presenza molto più costante di quella di un gruppo
con connotati di setta, in cui si va solo per i periodici appuntamenti
programmati, ad orari fissi, nel quadro di un certo metodo e
per le prove di fedeltà e verifiche relative. La parrocchia dovrebbe essere una
struttura abitata molto più a lungo che, ad esempio, una sede
periferica di un’associazione. Dovrebbe promuovere una partecipazione attiva,
non da semplici utenti o spettatori. Dovrebbe poter funzionare anche senza copioni da
seguire pedissequamente e senza una vera e propria regia. Ad
esempio, ciò che gli studenti apprendono a scuola dovrebbe poter arricchire la
vita parrocchiale e viceversa. Non si dovrebbe entrare in parrocchia come in
un parco a tema, un po’ come quando si va nella vicina chiesona
vaticana con tutti i suoi pittoreschi personaggi e relative scenografie.
Entrando in parrocchia non ci dovrebbe trovare in un altro mondo,
ad esempio in un fantasioso neo-mondo a sfondo biblico,
una realtà totalmente ricostruita al modo in cui a lungo lo si è fatto a Cinecittà,
ai tempi d’oro del nostro cinema, ma nella realtà verae, in
particolare, in una specie di officina in cui si lavora
sulla realtà vera e su gente vera, non con
persone che fanno qualcun altro, immaginando di
esserlo, almeno durante l’incanto.
Occorre riflettere su queste idealità
che ci sono state proposte dai saggi dell’ultimo Concilio:
1. Intima unione della Chiesa con l'intera
famiglia umana.
Le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che
soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore.
La loro comunità, infatti, è composta di
uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo
nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un
messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò la comunità dei cristiani si sente
realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
[dalla Costituzione pastorale La
gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]
42. L’immaginazione al
potere?
L’immaginazione
al potere fu un’idea diffusa negli
anni Sessanta del secolo scorso per reagire contro un sistema sociale che trasformava,
e riduceva, l’essere umano ad
ingranaggio. Bisognava immaginarsi
un altro modo di vita sociale e
renderlo possibile in concreto con l’impegno politico. Era una concezione
fondata sull’ideologia del filosofo tedesco Herbert Marcuse, stabilitosi negli
Stati Uniti d’America negli anni Trenta. Fu appunto la realtà statunitense al
centro della sua critica sociale:
quest’ultima però si adatta bene al modo di vivere dell’intero Occidente, anche
di quello attuale, ma in fondo anche dell’intera civiltà globalizzata contemporanea
nelle sue manifestazioni sociali più evolute. Quella critica sociale portava ad
organizzare azioni di contrasto, di opposizione, contro sistemi sociali che
erano oppressivi in un modo diverso da come lo erano stati storicamente e lo
erano i totalitarismi, essenzialmente riducendo l’essere umano a una
sola dimensione, quella appunto che ne faceva un ingranaggio sociale. Quindi un’immaginazione come forza di cambiamento sociale. L’accusa che si fa ai giovani degli anni
Sessanta e Settanta che seguirono l’idea dell’immaginazione al potere è in
genere quella di aver troppo immaginato e di aver poco realizzato, ma si tratta di un addebito ingeneroso, perché
effettivamente moltissimo cambiò in
Occidente e i problemi vennero quando, dagli anni ’80, l’immaginazione come critica sociale ebbe sempre meno potere.
In religione si fa un certo uso
dell’immaginazione. Chi lo può negare. I nostri scritti sacri sono pieni di
cose del genere. Li abbiamo ricevuti dall’antichità, in cui si ragionava così. E questo è un punto molto importante: ragionare per visioni è comunque un ragionare. La nostra più grande
teologia si basa su quelle visioni.
Ma è cosa che vediamo anche nell’esperienza ebraica, dove lo studio è centrale e ha prodotto luminose scuole di
pensiero su base religiosa, quindi fondate su quel tipo di visioni, che troviamo espresse nella letteratura talmudica (da Talmud,
il testo in cui è raccolto il frutto di
quelle riflessioni, che significa appunto studio).
Ma immaginando
si può anche prendere congedo dalla
realtà e allora non si ragiona più, ma solamente ci si emoziona. La critica più
seria alla religione, seria in quanto fondata, è di essere stata una sorta di immaginifica droga per il controllo sociale delle moltitudini di
chi stava peggio, dei dominati sociali. Quindi di essere stata al servizio dei
dominatori. Un’immaginazione che
perpetua una condizione di servaggio è cattiva anche dal punto di vista
religioso. Se ragioniamo sulle visioni proposte dai nostri testi sacri possiamo
arrivare a convincercene. E’ passata da poco la nostra Pasqua, in cui abbiamo
fatto memoria della liberazione degli antichi israeliti dal dominio degli
antichi egiziani, che li opprimevano con condizioni di lavoro molto dure.
Grandi maestri della nostra spiritualità, come
Ignazio di Lojola e Giovanni della Croce, insegnano ad imparare a fare a meno
dell’immaginazione approfondendo la propria esperienza religiosa. Progredire
nella fede, allora, è come sbucciare gli strati di una cipolla, togliendo ciò
che non è essenziale. Si arriva in una notte oscura, dove si intuisce
misticamente il fondamento di tutto. Rimane la convinzione che si tratti di
misericordia, compassione, benevolenza universale: questa la grande novità
della nostra fede rispetto alle antiche religioni politeistiche.
Woody Allen, nel suo film Crimini e misfatti, che vi consiglio di acquistare e vedere in DVD,
fa dire ad un personaggio che gli antichi ebrei immaginarono un fondamento
amorevole, ma anche con l’immaginazione non riuscirono a concepirlo totalmente benevolente, tanto che troviamo l’episodio del
(mancato) sacrificio di Isacco. Eppure anche nelle scritture troviamo una
progressione nella riflessione sul fondamento e in essa la misericordia ha un
posto sempre più importante. C’è un’immaginazione che stronca l’inimicizia e le
guerre e che possiamo considerare buona, perché
è anche fonte di liberazione.
Gli antichi greci svalutarono molto l’immaginazione e il sogno. Consigliavano di rimanere aderenti alla realtà. l’essere
umano sognante lo vedevano incatenato in fondo ad una caverna, con il volto
rivolto verso il fondo, potendo vedere solo ombre della realtà come proiettate sul muro. Vi è chi vi ha visto l’anticipazione
della nostra civiltà dell’immagine.
L’immaginazione
comunitaria è la più potente di
tutte. Insieme si arriva a convincersi dell’inverosimile, si attenua il
controllo sulla realtà. Le comunità dispotiche usano l’immaginazione per
tenersi stette i propri adepti. Questa non è la via della nostra religione. Lo
vediamo, ad esempio, nelle comunità monastiche, dove le regole dei fondatori sono
molto rigide nel cercare di impedire che la comunità prenda il sopravvento. Non
tutto ciò che è comunitario, infatti, è conforme alla fede. Ne parlano a lungo
le scritture. Bisogna sempre vedere se l’immaginazione conduce a ragionare
sulla realtà per modificarla in meglio, per distaccarsene in ciò che in essa
non va, per convincersi che un mondo migliore è possibile, o se serve a legare
la gente ad un ordine ingiusto.
A volte le comunità, anche molto coese, non
sono un bello spettacolo, soprattutto quando prendono congedo dalla realtà e
dalla gente intorno e diventano un universo concentrato solo su sé stesso.
Stimolano l’emotività collettiva per separare ed escludere ciò che c’è fuori.
Ciò che viene escluso non cambia e il cambiamento che si vive nelle comunità
dispotiche è solo immaginario nel senso di apparente.
Se si vuole lavorare con efficacia sulla
realtà, come oggi siamo spinti a fare anche in religione, occorre in primo
luogo esercitarsi sulla critica dell’immaginario
che si impiega. E’ buono o cattivo?
43. Scuola popolare di pensiero sociale
L’enciclica Laudato si’ può essere
utilizzata come libro di testo di una scuola popolare di pensiero e di azione
sociale. E’ infatti un documento molto diverso dalla letteratura pontificia
precedente del genere dichiarato dal suo autore, l’enciclica appunto. Riassume
idee correnti sulle cause delle sofferenze sociali contemporanee,
accreditandone alcune. Si rivolge alle masse ed è scritta in lingua corrente.
E’ materiale che è naturalmente soggetto a verifica. Non basta che venga da
fonte autorevole per condividerne l’impostazione. Quest’ultima non deriva per
via di deduzione logica da una dottrina teologica, dalle cose della fede. La
fede non ha la soluzione dei mali sociali di oggi, ma può individuarli perché
fanno soffrire. La sofferenza è una produzione sociale e può essere corretta.
Per capire la via migliore bisogna rifletterci molto su, insieme, collettivamente,
in ogni realtà sociale. Questo benché molti pensino che non ci si possa fare
nulla perché si tratta di fenomeni su scala troppo grande, addirittura
mondiale. E’ appunto la scala su cui ragiona l’autore dell’enciclica.
Nella Laudato si’ non
ci si estenua su polemiche dottrinali che erano ancora piuttosto evidenti
in un altro recente documento del nostro pensiero sociale, l’enciclica Carità
nella verità, del 2009. Non si fa una lezione di etica ai governanti.
C’è un appello alla mobilitazione popolare, di massa, per cambiare una società
che, a livello mondiale, causa sofferenza e mette a rischio la sopravvivenza
dell’umanità. Siamo tutti invitati a cambiare i nostri stili di vita, ma non
tanto per meritare sul piano religioso, quanto per
esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico,
economico e sociale, e, così facendo, salvare il mondo, visto come casa
comune. Ecco dove se ne parla, un punto molto importante del documento:
206.
Un cambiamento negli stili di vita potrebbe arrivare ad esercitare una sana
pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. È
ciò che accade quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si
smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il
comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i
modelli di produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i
profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo
ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. «Acquistare è sempre un
atto morale, oltre che economico». Per questo oggi «il tema del degrado ambientale chiama in
causa i comportamenti di ognuno di noi».
Riesce difficile alla gente comune
capire chi comanda il mondo e, dunque, con chi ce
la si debba prendere per ciò che genera sofferenza. Si scrive di potere
globale, di multinazionali, da noi di Europa,
insomma qualcosa di impersonale che domina le nostre vite senza che si possa
fare nulla per reagire, se non tentare di scamparla volta per volta.
Scoppia la rabbia, si scende in piazza per manifestarla, ma nessuno dei potenti
che vorremmo trascinare davanti ad una specie di tribunale del popolo accetta
di venire a rispondere. Tutti si dicono nelle nostre stesse condizioni. Da
ultimo il maligno viene indicato nel mercato, che
dispoticamente può distruggere in un attimo le nostre vite, o, al contrario,
trasformarle in meglio a livelli inimmaginabili. Ma il mercato non
ha nulla di soprannaturale. E’ fatto di norme giuridiche e di una massa di
attori che si scambia dei beni. Chi compra e chi vende. Anche il lavoro di
ciascuno di noi. Sono le norme giuridiche che consentono lo scambio: sono il
frutto di accordi internazionali. Negli scambi ci sono parti forti e parti
deboli e le parti forti fanno il prezzo. Sono forti le parti che hanno il
potere di negare agli altri beni molto ambiti, perché molto necessari o per
alti motivi. Questo potere è assegnato dalle norme giuridiche. Ci sono due modi
di incidere sulle dinamiche di mercato: cambiare le norme giuridiche e
fronteggiare le parti forti con un’azione di massa. Sono le strategie che nella
seconda metà del Novecento hanno molto migliorato le posizioni dei lavoratori
dipendenti in Occidente. Funzionerebbero certamente anche per correggere il
mercato. Ma ci sono due nuovi problemi. Noi stessi, masse di consumatori
Occidentali, siamo le parti forti. Dunque dovremmo fare autocritica e cambiare
le nostre abitudini di vita, sentirci responsabili per le sofferenze che
generiamo. Ma tra le nostre condotte sul mercato e quelle delle multinazionali
non ci sono vere differenze; abbiamo interessi comuni e resistiamo nello stesso
modo e per gli stessi motivi al cambiamento; rifiutiamo di sentirci responsabili
delle sofferenze altrui che generano vantaggi per noi, ad esempio consentendoci
di acquistare a prezzi molto bassi merci di uso quotidiano. Inoltre,
poiché i problemi sono globali, dovremmo muoverci su scala globale. Invece
pensiamo di risolvere i nostri guai rinchiudendoci, serrandoci dietro antiquate
frontiere, in sistemi politici che non hanno la forza di cambiare le norme
giuridiche che regolano il mercato.
Quelli a cui ho accennato sono problemi
che hanno un valore anche religioso, perché riguardano la sopravvivenza
dell’umanità e la sofferenze di immense moltitudini. Questo richiede di
occuparsene anche nelle nostre collettività di fede, arricchendo di molto il
nostro pensiero sociale, per comprendere meglio le società del nostro tempo, e
ponendo al centro delle nostre attività. Adesso la dottrina
sociale è un settore complementare, non ritenuto essenziale
nella formazione alla fede, in cui infatti se ne parla poco e quindi se ne sa
poco. In parrocchia tutto ruota intorno a liturgia, catechesi, carità, i
classici settori dell’impegno religioso. Il ramo “Presenza nel
mondo” è poco curato, in particolare dove si teme molto di
esserne contaminati. “Grande è la posta in gioco”, scrive l’autore
della Laudato si’, “ e abbiamo bisogno di controllarci e di
educarci l’un l’altro” [n.214]. E anche: “Tutte le
comunità cristiane hanno un ruolo importante da compiere in questa educazione”.
Quando cominciare? Da molto presto e
dai molto piccoli. La realtà del mercato globale irrompe
veramente precocemente nella vita delle persone: quando a un bimbo capita tra
le mani il suo primo telefono cellulare egli inizia ad essere un attore nel
mercato globale. La prima educazione è quella di capire quanta sofferenza
generano le nostre azioni quotidiane e quanta sofferenza inglobano le cose che
sono sul mercato ed averne compassione. Sembra facile, ma non lo è, perché ad
un certo punto sono necessarie delle rinunce. E’ il nostro stile di vita di
Occidentali che va mutato. E’ qualcosa per cui tutti i presidenti statunitensi,
senza eccezione, si sono detti disposti a far guerra. In Europa è un po’
diverso perché la classe dirigente della politica europea in genere di certe
cose ad un certo punto si è cominciata a vergognare, questo perché in Europa ci
si è tanto combattuti per difendere stili di vita contrastanti che divenivano
incompatibili perché tenuti a poche distanze gli uni dagli altri, per cui, ad
un certo punto, non si poteva proprio fare a meno di eliminare gli altri. Le
due guerre mondiali del Novecento ci hanno molto cambiato in Europa, si è
iniziato ad avere orrore di tutta quella violenza. Il processo di
unificazione europea è stata l’espressione della concreta volontà di cambiare
le cose. Quando lo si è voluto, e finché lo si è voluto, ci si è riusciti.
L’Europa, una politica continentale, ha le dimensioni giuste per incidere
sul mercato globale.
Di seguito incollo un brano molto
importante della Laudato si’. Lavoriamoci un po’ su in questo lungo
ponte primaverile che si conclude con la festa della Liberazione, un compito
sempre attuale, di generazione in generazione.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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IV. POLITICA ED ECONOMIA IN DIALOGO PER LA
PIENEZZA UMANA
189. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve
sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi,
pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e
l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita,
specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche,
facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere
e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che
non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e
apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per
sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova
regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza
virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri
obsoleti che continuano a governare il mondo. La produzione non è sempre
razionale, e spesso è legata a variabili economiche che attribuiscono ai
prodotti un valore che non corrisponde al loro valore reale. Questo determina
molte volte una sovrapproduzione di alcune merci, con un impatto ambientale non
necessario, che al tempo stesso danneggia molte economie regionali. La
bolla finanziaria di solito è anche una bolla produttiva. In definitiva, ciò
che non si affronta con decisione è il problema dell’economia reale, la quale
rende possibile che si diversifichi e si migliori la produzione, che le imprese
funzionino adeguatamente, che le piccole e medie imprese si sviluppino e creino
occupazione, e così via.
190. In questo contesto bisogna sempre
ricordare che «la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla
base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni
che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere
adeguatamente». Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica
del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la
crescita dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico aspettarsi
che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare
agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni? All’interno
dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai
suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli
ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano.
Inoltre, quando si parla di biodiversità, al massimo la si pensa come una
riserva di risorse economiche che potrebbe essere sfruttata, ma non si
considerano seriamente il valore reale delle cose, il loro significato per le
persone e le culture, gli interessi e le necessità dei poveri.
191. Quando si pongono tali questioni,
alcuni reagiscono accusando gli altri di pretendere di fermare irrazionalmente
il progresso e lo sviluppo umano. Ma dobbiamo convincerci che rallentare un
determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità
di progresso e di sviluppo. Gli sforzi per un uso sostenibile delle risorse
naturali non sono una spesa inutile, bensì un investimento che potrà offrire
altri benefici economici a medio termine. Se non abbiamo ristrettezze di
vedute, possiamo scoprire che la diversificazione di una produzione più
innovativa e con minore impatto ambientale, può essere molto redditizia. Si
tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di
fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di
incanalare tale energia in modo nuovo.
192. Per esempio, un percorso di sviluppo
produttivo più creativo e meglio orientato potrebbe correggere la disparità tra
l’eccessivo investimento tecnologico per il consumo e quello scarso per
risolvere i problemi urgenti dell’umanità; potrebbe generare forme intelligenti
e redditizie di riutilizzo, di recupero funzionale e di riciclo; potrebbe
migliorare l’efficienza energetica delle città; e così via. La diversificazione
produttiva offre larghissime possibilità all’intelligenza umana per creare e
innovare, mentre protegge l’ambiente e crea più opportunità di lavoro. Questa
sarebbe una creatività capace di far fiorire nuovamente la nobiltà dell’essere
umano, perché è più dignitoso usare l’intelligenza, con audacia e
responsabilità, per trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo, nel quadro
di una concezione più ampia della qualità della vita. Viceversa, è meno
dignitoso e creativo e più superficiale insistere nel creare forme di
saccheggio della natura solo per offrire nuove possibilità di consumo e di
rendita immediata.
193. In ogni modo, se in alcuni casi lo
sviluppo sostenibile comporterà nuove modalità per crescere, in altri casi, di
fronte alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti
decenni, occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni
limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi. Sappiamo
che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono
sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla
propria dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa
decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa
crescere in modo sano in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario
che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire
comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di
energia e migliorando le condizioni del suo uso».
194. Affinché sorgano nuovi modelli di
progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo
globale», la qual cosa implica riflettere responsabilmente «sul
senso dell’economia e sulla sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e
distorsioni». Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la
natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il
progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel
disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo
tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita
integralmente superiore, non può considerarsi progresso. D’altra parte, molte
volte la qualità reale della vita delle persone diminuisce – per il
deteriorarsi dell’ambiente, la bassa qualità dei prodotti alimentari o
l’esaurimento di alcune risorse – nel contesto di una crescita dell’economia.
In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un
diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista
all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità
sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni
di marketing e di immagine.
195. Il principio della massimizzazione
del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una
distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco
che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il
taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo
la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità
o aumentare l’inquinamento. Vale a dire che le imprese ottengono profitti
calcolando e pagando una parte infima dei costi. Si potrebbe considerare etico
solo un comportamento in cui «i costi economici e sociali derivanti dall’uso
delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e
siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre
popolazioni o dalle generazioni future». La razionalità strumentale, che
apporta solo un’analisi statica della realtà in funzione delle necessità del
momento, è presente sia quando ad assegnare le risorse è il mercato, sia quando
lo fa uno Stato pianificatore.
196. Qual è il posto della politica?
Ricordiamo il principio di sussidiarietà, che conferisce libertà per lo
sviluppo delle capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige
più responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere. È
vero che oggi alcuni settori economici esercitano più potere degli Stati
stessi. Ma non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe
incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti
della crisi attuale. La logica che non lascia spazio a una sincera
preoccupazione per l’ambiente è la stessa in cui non trova spazio la
preoccupazione per integrare i più fragili, perché «nel vigente modello “di
successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché quelli che
rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita».
197. Abbiamo bisogno di una politica che
pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale,
includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Molte
volte la stessa politica è responsabile del proprio discredito, a causa della
corruzione e della mancanza di buone politiche pubbliche. Se lo Stato non
adempie il proprio ruolo in una regione, alcuni gruppi economici possono apparire
come benefattori e detenere il potere reale, sentendosi autorizzati a non
osservare certe norme, fino a dar luogo a diverse forme di criminalità
organizzata, tratta delle persone, narcotraffico e violenza molto difficili da
sradicare. Se la politica non è capace di rompere una logica perversa, e
inoltre resta inglobata in discorsi inconsistenti, continueremo a non
affrontare i grandi problemi dell’umanità. Una strategia di cambiamento reale
esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire
considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la
logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere
capace di assumere questa sfida.
198. La politica e l’economia tendono a
incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado
ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e
trovino forme di interazione orientate al bene comune. Mentre gli uni si
affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal
conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o accordi
ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e
avere cura dei più deboli. Anche qui vale il principio che «l’unità è superiore
al conflitto».
44. Ribelli
La Preghiera
del ribelle
di Teresio Olivelli, resistente e ribelle
italiano (1916-1945)
Signore, che fra gli uomini drizzasti la Tua
Croce segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli
interessi dominanti, la sordità inerte della massa,
a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha
calpestato Te fonte di libera vita,
dà la forza della ribellione.
Dio che sei Verità e Libertà, facci liberi e
intensi:
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre
forze, vestici della Tua armatura.
Noi ti preghiamo, Signore.
Tu che fosti respinto, vituperato, tradito,
perseguitato, crocifisso, nell'ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria:
sii nell'indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell'amarezza.
Quanto più s'addensa e incupisce l'avversario,
facci limpidi e diritti.
Nella tortura serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa' che il nostro sangue si unisca al
Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e
carità.
Tu che dicesti: ``Io sono la resurrezione e la
vita'' rendi nel dolore all'Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu
sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,
dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai
dare.
Signore della pace e degli eserciti, Signore che
porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.
********************************************************************************
Il 23 aprile scorso, a Milano, sono
stati presentati i due libri con tutti gli scritti di Lorenzo Milani,
pubblicati dall’editrice Mondadori nella collana I Meridiani. Chi fu Lorenzo
Milani? Potrete saperne di più leggendo la sua biografia sul Web a questo
indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzo-milani-comparetti_(Dizionario-Biografico)/ .
Il Papa, in occasione dell’evento, ha
inviato un videomessaggio che trovate trascritto qui sotto.
E’ importante che un Papa ci abbia
invitato ad accostarci al pensiero di Lorenzo Milani con affetto,
come a quello di un testimone di Cristo e del Vangelo. Tenendo conto che
la Chiesa fu la prima persecutrice di Milani, in sostanza emarginandolo proprio
per ciò per cui oggi lo addita come testimone di Cristo e del Vangelo.
Le si accodarono anche altri. Milani fu processato dalla giustizia penale
italiana per un articolo scritto in risposta all'ordine del giorno dei
cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato dalla Nazione del 12
febbraio 1965 (p.11), in cui era scritto che essi consideravano «un insulto
alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che,
estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà». Lo
trovate sul Web a questo indirizzo:
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm
Successivamente scrisse anche al Tribunale
penale che lo giudicava. Potete trovare sul Web il testo della sua lettera
all’indirizzo:
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_e.htm
Perché è importante l'invito del Papa?
Perché un Papa impersona la Chiesa di sempre. E’ tradizione che un Papa non ne
smentisca esplicitamente un altro, in particolare trattando di personalità
religiose e quindi di temi che implicano questioni di fede. Quindi il suo
giudizio rimarrà stabile.
Il Papa, all’inizio del suo videomessaggio,
ha ricordato che Milani scrisse di non volersi mai ribellare alla Chiesa. E ha
tenuto a precisare che la sua inquietudine non fu frutto di ribellione. Ed
effettivamente Milani accettò di essere confinato in una piccolissima
parrocchia di montagna dal suo vescovo. Anche da lassù la sua luce di grande
anima continuò a brillare, ispirando molti nell’indifferenza dei
più.
Nella Chiesa non si è fatti santi se ci
si ribella alla gerarchia. Dunque, il fatto che il Papa abbia attestato che
Milani non era ribelle è un buon inizio.
Ma è tanto grave ribellarsi?
Oggi è la festa della Liberazione in cui
si celebra la Resistenza storica al fascismo italiano e agli occupanti nazisti.
Eventi che si produssero come fatti di massa tra il 1943 e il 1945. Anche prima
vi furono resistenti, ma erano molto di meno. Gli italiani furono in massa
fascisti, guidati a ciò dalla loro Chiesa.
Oggi chiamiamo partigiani quei
resistenti di allora, ma loro in genere si definivano ribelli. Qui
sopra ho trascritto la Preghiera del ribelle di uno di loro, il
resistente cristiano Teresio Olivelli. Ho incollato anche la pagina di una
pubblicazione promossa dall’Olivelli e dai suoi compagni di lotta, intitolata
Il ribelle. “Non lasciarci piegare … dà la forza della
ribellione ... ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”, così pregava
Olivelli. Celebrando la Resistenza, noi celebriamo una ribellione. Da essa è
sorta la nostra Repubblica democratica. La ribellione non era solo
rivolta, ma affermazione di principi umanitari che poi sono stati scritti nella
nostra Costituzione, come quello che il lavoro è al centro del moto di
liberazione delle masse e quindi del nostro sistema politico e
istituzionale. Celebrando la Resistenza storica, facciamo anche autocritica
perché per gli italiani il fascismo è sempre stato, ed è ancora, una forte
tentazione. Il Papato romano non ne è mai stato capace, anche se,
oggettivamente, essendosi storicamente federato con il regime fascista ed
avendo recepito parti importanti della sua ideologia, doveva considerarsi tra
gli sconfitti della guerra di resistenza. Il culmine di questo processo si
raggiunse con Achille Ratti e con la sua enciclica Il quarantennale,
del 1931, in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dal primo documento
della moderna dottrina sociale, l’enciclica Le novità, del 1891. In
essa troviamo l’apprezzamento dell’ordinamento corporativo fascista in
particolare per “la repressione delle organizzazioni e dei conati
socialisti”.
C’è un’evidente continuità tra la politica
dei clerico-fascisti degli anni Trenta e la persecuzione di Milani trent’anni
dopo. Ma nemmeno un Papa, giuridicamente al vertice di tutto, riesce a
concedersi un’autocritica in merito. Egli, al tempo della repressione contro
Milani, era trentenne e gesuita: ha quindi l’età per farla e i gesuiti
dell'epoca furono tra i più duri e implacabili critici del Milani.
La persecuzione contro Milani fu uno
spreco umano e religioso enorme, del resto nella linea di tanti altri casi come
il suo prima di lui. Dobbiamo seguirlo nella sua mansuetudine verso coloro che
uno come Aldo Capitini, anche luigrande anima, chiamava,
ribellandosi, gerarchi religiosi? Se si fosse ribellato, non gli
sarebbe più stato consentito di fare il prete e quindi avrebbe perso i suoi ragazzi.
Sarebbe stato un insegnante senza più scolari. Nessuna grande anima deve
essere più posta in questo dilemma. Penso che occorra avere la forza di
ribellarsi a cose come queste.
“L’obbedienza non è più una virtù, ma la più
subdola delle tentazioni” scrisse però Milani ai sui giudici:
A Norimberga e a Gerusalemme
son stati condannati uomini che avevano obbedito.
L'umanità intera consente che essi non
dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora
ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte
dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della
Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che
un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.
Condannare la nostra lettera equivale a
dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che
devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà
comandati.
E invece bisogna dir loro che Claude
Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che
bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol
dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era «un bravo ragazzo,
un soldato disciplinato» (secondo la definizione dei suoi superiori) «un povero
imbecille irresponsabile» (secondo la definizione che dà lui di sé ora).
(carteggio di Claude Eatherly e Günter Anders
- Einaudi 1962).
Ho poi studiato a teologia morale un
vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della
responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio:
«Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco».
Quando si tratta di due persone che
compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario, voi gli date
un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non si divide per
due.
Un delitto come quello di Hiroshima ha
richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati,
tecnici, operai, aviatori.
Ognuno di essi ha tacitato la propria
coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un
rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi.
E così siamo giunti a quest'assurdo che
l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva.
L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo
disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente.
A dar retta ai teorici dell'obbedienza
e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei
risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel
delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C'è un modo solo per uscire da questo
macabro gioco di parole.
Avere il coraggio di dire ai giovani
che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma
la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né
davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico
responsabile di tutto.
A questo patto l'umanità potrà dire di
aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al
suo progresso tecnico.
Si fa un esame di coscienza e ci
si avvede del tanto conformismo che impronta le nostre vite. Quante cose
sarebbero potute andare diversamente se ci fossimo veramente ribellati,
non solo a parole. E invece per quieto vivere spesso ci si fa da parte. Così,
grandi anime come il Milani finiscono emarginate. Che sarebbe stato se si
fosse insorti in massa, in religione, per il trattamento che gli fu riservato?
“Dacci la forza della ribellione!”, bisognerebbe pregare in certi casi.
45. Il Cielo in una stanza
Il
cielo in una stanza [di Gino Paoli]
Quando sei qui con me
questa stanza non ha più
pareti
ma alberi, alberi
infiniti:
quando sei qui vicino a
me
questo soffitto viola
no, non esiste più.
Io vedo il cielo sopra
noi
che restiamo qui
abbandonati
come se non ci fosse più
niente, più niente al
mondo.
Suona un'armonica:
mi sembra un organo
che vibra per te e per
me
su nell'immensità del
cielo.
Per te, per me:
nel cielo, nel cielo.
La visione
del Cielo è strettamente legata alle comunità in cui si vive. La religione è
stata sempre un fatto sociale. Comunità chiuse pensano Cieli piccoli, a
misura loro, e questo anche se cercano di comprendervi l’infinito, tutta la
storia umana e la produzione e destino dell’Universo, di tutto ciò che esiste.
La cultura aiuta
a spingersi più in là, nel tempo e nello spazio. Anche le religioni hanno loro
culture e, anzi, da un certo punto di vista sono culture. Questo può preoccuparci perché le culture
evolvono e ad un certo punto finiscono. Finirà anche la nostra religione?
Attualmente è in grande ripresa in tutto il mondo, fuorché in Europa, dove si è
raggiunta una visione più realistica delle cose, essenzialmente riuscendosi a
fare memoria sincera di una storia più lunga. La nostra religione ha avuto un
inizio e poi è divenuta dominante intorno al Mediterraneo e anche un po' più in
là in Europa, nel Quarto secolo, quando le religioni più antiche furono vietate
per decreto imperiale. Si è sviluppata con molta violenza. Ad un certo punto è
divenuta la religione dei dominatori del mondo, deicolonizzatori: si è diffusa nel mondo seguendo il dominio degli
Europei. C’è stata un momento in cui non ha avuto bisogno della violenza
per affermarsi? Le prime nostre collettività di fede, che ai tempi nostri si
vuole idealizzare abbastanza, erano piuttosto bellicose, per ciò che ne
sappiamo, e non ne sappiamo molto, a parte le aspre controversie ideologiche
che le caratterizzarono fortemente. E poi non è che sia andata molto meglio. La
nostra religione però si sta attualmente trasformando in una sua versione più
pacifica, che vorrebbe pacificare il mondo e in questo incontra coloro che,
anche al di fuori di concezioni religiose, ritengono che questa sia l’unica via
della sopravvivenza del genere umano. Del resto questa evoluzione si accorda
con la dottrina secondo cui il fondamento di tutto è agàpe, la benevolenza che fa posto a tutti.
Ma al
dunque, nella pratica corrente delle nostre vite, non ci è veramente utile
spingere tanto in là, in avanti e indietro, il pensiero, se non per ciò che ci
serve per non ripetere errori del passato. Più utile, ed anzi
imprescindibile, è cercare di capire il mondo in cui viviamo, e ciò richiede
di arrivare con lo sforzo di conoscenza molto al di là dei confini del
nostro ambiente sociale quotidiano, fino ad abbracciare tutto il globo. La
nostra organizzazione religiosa è divenuta veramente mondiale e ci può aiutare
in questo. Nelle università pontificie romane c'è gente di tutta la Terra.
Basta che guardiamo le scritte “made in…” che sono impresse negli oggetti di uso
quotidiano per convincerci che comprendere il mondo ci è divenuto
indispensabile. Questo significa un particolare impegno di apertura,
perché, in un certo senso, il mondo sta arrivando molto vicino a noi,
addirittura tra noi nel
grande rimescolamento di popoli che stiamo vivendo, un fenomeno epocale e molto
significativo. Avere a che fare con persone vere a volte ci sorprende, perché
gli altri spesso non sono come ce li immaginiamo, anche in religione. In un certo senso, con gli
altri che vengono tra noi, il cielo, il mondo, la storia, l’umanità nel suo
complesso, vengono veramente nelle nostre stanze domestiche. Così il nostro mondo cambia e noi con
esso. Se si studia la storia si capisce che è sempre stato così e, allora, può
prevedersi che così sarà sempre, finché l’umanità avrà una storia. Nulla di
nuovo sotto il sole, si dice, ed è anche scritto in un libro biblico: è
sapienza molto antica, anche se, facendone personale esperienza, sembra nuova.
Ma c’è qualcosa che non cambia, che resterà? Le Scritture ci dicono che sarà l’agàpe: una buona prospettiva per una
fede come la nostra che vorrebbe essere fondata sull’agape. Il Cielo, in definitiva, è agàpe. E tutta la nostra religione ha come scopo di
fare entrare il Cielo nelle nostre stanze, quindi molto vicino a noi. E’
immaginifica illusione? Vivendo la
religione (non accostandola nella realtà virtuale) si può fare l’esperienza che non lo è. In Italia è più
comodo che da altre parti nel mondo. Si esce di casa e c'è la parrocchia.
Bastano pochi passi e si è dentro. Venite
e vedete.
46. La
“Politica” con la maiuscola
Nel discorso del Papa all’Azione Cattolica del
30 aprile scorso i commentatori hanno notato l’invito a fare Politica con la maiuscola. Non sorprende, perché la Chiesa
cattolica è il principale agente politico del momento. In passato lo è stato il
Papato, e non è la stessa cosa. La differenza sta nella collaborazione dei
laici. L’Azione cattolica, dalle sue origini, si è specializzata nel fare
proprio questo. Ma, è importante ricordarlo, l’Azione Cattolica non ha 150
anni. Essa non deriva dalle organizzazioni di azione sociale ispirata
dall’ideologia del papato sorta da metà Ottocento e confluite dell’Opera dei
Congressi, anzi sorge, per così, dire sulle loro ceneri. Nasce infatti per
iniziativa del papato romano nel 1905, dopo lo scioglimento d’autorità di
quelle, per emergere di correnti democratiche, in particolare di quella di democrazia cristiana che ebbe tra i suoi principali esponenti il
prete Romolo Murri, successivamente scomunicato. Si era nel pieno della
persecuzione anti-modernista. Il modernismo era un movimento religioso che, a livello europeo, proponeva un aggiornamento nelle concezioni religiose. In Italia le
correnti democratiche di azione sociale ispirate dalla fede furono
sbrigativamente assimilate al modernismo
e con essa condannate. Questo perché, all’epoca, in principi dell’azione
sociale erano ritenuti integralmente compresi nella dottrina, quindi negli
insegnamenti normativi, del papato romano, senza alcuna autonomia dei laici.
Chi la manifestava era considerato eretico. L’Azione Cattolica nacque quando il
papato romano intese che la politica fino ad allora seguita, di intransigente rifiuto del sistema politico democratico
liberale che reggeva il Regno d’Italia, non aveva futuro. Organizzò quindi una
propria forza politica e sociale profondamente integrata, e quindi controllata,
dalla gerarchia. Di un’organizzazione simile non vi sono procedenti.
Naturalmente non c’era solo questo nell’Azione cattolica, perché in essa è
stata molto importante la formazione alla fede e il suo approfondimento. Ma l’azione dell’Azione Cattolica era fondamentalmente
sociale e politica. Essa seguì sempre gli orientamenti politici del papato
romano, sia nella compromissione con il fascismo, sia nello sviluppo
democratico. Dal 1945, con la mediazione di Alcide De Gasperi, l’Azione
Cattolica si integrò profondamente con il partito
cristiano, la Democrazia Cristiana. La politica di quest’ultima risultava
da un compromesso tra il papato romano e il movimento dei cattolico democratici
italiani, che aveva partecipato al rovesciamento del regime fascista con cui il
papato romano si era federato, con i Patti Lateranensi conclusi nel 1929 con il
Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano. La Democrazia Cristiana ebbe
necessità delle masse cattoliche organizzate nell’Azione Cattolica per
affermare la sua egemonia nel sistema politico democratico italiano. Ma
l’Azione Cattolica era anche la sua principale scuola di formazione alla
politica. In questa stagione, ai politici
cattolici venne riconosciuta dal
papato romano un maggiore autonomia nell’applicazione
delle soluzioni che il papato romano
riteneva giuste per l’Italia. Questo assetto terminò a seguito del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), quando i laici, riconosciuti come competenti nelle vicende
sociali e politiche, indicate con l’espressione temporali, vale a dire soggette a continui mutamenti con i
progredire del tempo, distinte da quelle spirituali,
ritenute eterne, vennero sollecitati
a collaborare alla definizione dei principi
di azione sociale. Questo lavoro avrebbe richiesto di trasformare le
strutture sociali di base della Chiesa anche il laboratorio di pensiero e
azione politica, dove i diversi orientamenti potessero confrontarsi. L’Azione
Cattolica, verso la fine degli anni ’60 e sotto la presidenza di Vittorio Bachelet,
rivide la propria organizzazione per svolgere al meglio questa opera sociale.
Il nuovo corso durò circa dieci anni. L’autonomia riconosciuta al
laicato ne comportò la frammentazione, in particolare tra le correnti
democratiche e quelle neo-intransigenti.
Non si riuscì mai a far posto, nell’organizzazione ecclesiastica ancora di tipo
feudale, a laici autonomi. Tutto fu sospeso, come congelato, e cominciò quella
che ho definito era glaciale. Fu il
tempo in cui il papato romano si federò sostanzialmente con l’Occidente
capitalista. Stavano crollando i regimi comunisti che dominavano nell’Europa
orientale: si ritenne che questa fosse la scelta migliore. Il papato romano
ebbe una svolta neo-intransigente per quanto riguarda la politica specificamente
italiana, che stava manifestando di dirigersi in direzione contraria. Il papato
si avvalse maggiormente delle componenti neo-intransigenti
del laicato, piuttosto che
dell’Azione Cattolica. Quest’ultima ha resistito fino all’ultima svolta del
papato romano, nel 2013, perché profondamente radicata nella società italiana,
in particolare tra i ceti colti. Ha continuato ad essere una delle principali
scuole italiane di politica e di azione
sociale in genere e ad esprimere un ceto politico ai vertici dello Stato.
Con il regno di papa Francesco, iniziato nel 2013, i fedeli laici, senza
più considerare principalmente quelli italiani, sono stati esortati ad una
nuova azione politica per salvare l’intero mondo dalla rovina. E’ questa la Politica con la maiuscola, i cui principi sono
sintetizzati nell’enciclica Laudato si’
del 2015. Quest’ultimo documento recepisce le conclusioni di diverse scienze
contemporanee, sull’ecologia, sull’economia e sulla politica. Non si tratta
propriamente più di una dottrina, ma di una prospettazione che,
innanzi tutto, deve essere confermata dall’analisi, perché la situazione
mondiale è in continua e rapida evoluzione, e poi sviluppata. Questo sviluppo,
che comprende anche i principi di azione sociale, è il campo proprio dei laici. Le componenti neo-intransigenti, mondi chiusi e in lotta ciò che è al loro
esterno, non sono adatte a questo lavoro. Solo l’Azione Cattolica e altre
componenti laicali che seguono il suo metodo, il dialogo e la mediazione
culturale, lo sono. Questo il senso dell’appello del Papa.
47. La questione democratica
Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va trovando pur troppo
ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione da ogni giogo di
legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare cristiana. Non
già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé riprovevole o porti
di sua natura al disprezzo dell'autorità; ma perché non pochi, fraintendendone
la natura, si sono volontariamente allontanati dalle norme che a rettamente
promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro d'immortale memoria [il papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone
13°]
[…]
Del resto, Venerabili Fratelli, a
porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a questo dilatarsi di
spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo d'oggi innanzi
assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a qualsiasi
società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale, nominatamente,
proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli Ordini sacri e
pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di
iscriversi alla Lega democratica nazionale, il cui programma fu
dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome
dell'autore, fu nell'anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione
provvisoria.
[dall’enciclica Con animo pieno (di salutare timore) diffusa nel 1906 dal
papa Giuseppe Sarto - Pio 10°]
Quando
si parla di “150 anni di storia dell’Azione Cattolica” non si fa
memoria fedele, e quindi purificata, di quella storia: se ne fa una
versione emendata dei tratti più duri. L’Azione cattolica
nasce nel 1905 nel mezzo della persecuzione antimodernista, che oggi stupisce
per la sua indiscriminata violenza. Il modernismo fu essenzialmente un movimento
intellettuale che proponeva un aggiornamento della cultura religiosa. Fu
colpito perché violava il monopolio che in questo campo era rivendicato dal
papato romano nelle cose spirituali. In Italia venne confuso con le correnti
democratiche del movimento cattolico, che contrastavano invece il monopolio
politico all’epoca rivendicato dal papato romano. Esse avevano una forte
impronta sociale, per venire incontro alle classi lavoratrici, in particolare
nel settore dell’agricoltura in Emilia Romagna, ed erano animate da molti
giovani preti. Uno di essi fu Romolo Murri, fondatore nel 1896 della
Federazione Universitaria Cattolica Italiana - FUCI, poi integrata nell’Azione
Cattolica pur mantenendo autonomia organizzativa, e nel 1905 della Lega
Democratica Nazionale, che può essere considerato il primo partito politico
di ispirazione religiosa. La reazione disciplinare del papato romano colpì
aspramente le correnti democratiche del movimento cattolico assimilandole al
modernismo, quindi ad un movimento considerato come eretico. Ma l’eresia dei
cattolico-democratici era fondamentalmente la loro pretesa di indipendenza dal
papato romano nelle questioni politiche e il loro parteggiare per le classi più
umili della società.
La diffidenza del
papato romano per i processi democratici lo portò poi, in Italia, a
compromettersi con il fascismo, dopo aver consentito, molto cautamente, con
molte riserve e vietando denominazioni come democrazia cristiana e
simili, esperimenti di politica democratica tra il 1912 e il 1926. La
disfatta del fascismo lo costrinse ad accettare la collaborazione dei
cattolico-democratici, i quali, formatisi in buona parte nelle organizzazioni
intellettuali dell’Azione Cattolica, la FUCI e il Movimento Laureati, avevano
partecipato alla guerra di Resistenza. Esso quindi accettò, non senza riserve,
la proposta politica di Alcide De Gasperi.
Negli anni ’60, la
svolta impressa dal Concilio Vaticano 2° nei rapporti con le società civili,
consentì lo sviluppo di processi democratici nel movimento cattolico nazionale,
in particolare nell’Azione Cattolica, la quale, con il nuovo statuto del 1969,
sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, volle definirsi palestra
di democrazia. L’accettazione senza riserve della democrazia politica da
parte del papato romano risale però solo al 1991, con l’enciclica Il
Centenario, di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Non vi sono però molte
sedi, in religione, per fare pratica di democrazia, al di fuori dell’Azione
Cattolica. In particolare, non la si fa, in genere, nelle parrocchie. L’impegno
politico richiesto oggi del papato romano, la richiederebbe. Infatti non si
tratta più di preservare il potere politico del papato in Italia, ma,
addirittura, di salvare il mondo, progettando un nuovo modello di sviluppo economico.
Questo esige di collaborare con altre componenti sociali e lo si può fare solo
con metodo democratico, quello basato sul dialogo. E l’esortazione al dialogo è
stata al centro del recente messaggio di papa Francesco all’Azione Cattolica.
Dal papato romano non è
mai venuta alcuna autocritica per la lunga persecuzione antidemocratica, ma
essa è necessaria per chi voglia procedere con metodo democratico. L’idea di
democrazia non deve più essere accostata a quella di indisciplina e addirittura
di eresia. Questo comporta un processo di riforma, che non verrà dall’alto per
i limiti intrinseci all’organizzazione feudale delle nostre organizzazioni
religiose. Esso può invece cominciare ad essere sperimentato dal basso,
su scala più piccola, per diffondersi ed estendersi in ciò che di buono
produrrà. Il primo passo è di fare tirocinio di democrazia nelle decisioni
delle esperienze sociali di prossimità, a tutte le età, fin da molto piccoli.
48. Informazioni sulla
democrazia.
48.1. La democrazia è una forma di organizzazione
della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione alle decisioni
comuni.
Democrazia è una
parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos, che
significa popolo, e cràtos, che significa potere.
Dunque significa il potere del popolo.
Gli antichi greci furono tra i primi a
ragionare sul potere sociale.
Contrapponevano la democrazia,
il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e
alla oligarchia, il potere di pochi.
Anche in democrazia i capi sono pochi,
ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e possono essere
periodicamente sostituiti.
Ciò che distingue una democrazia da una
oligarchia è dunque la possibilità di critica sociale e
l’esistenza di regole che limitino il
potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che
coinvolgano i più.
Schematicamente: in una democrazia il
potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i pochi che
saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto, perché i
pochi che comandano scelgono i loro successori e quelli che comanda ai
livelli inferiori.
Ogni democrazia, degenerando, tende a
diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai processi
democratici, così come ogni monarchia.
Nelle società complesse non esistono
vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle oligarchie
dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere supremo
rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.
Un altro tipo di oligarchia è la ierocrazia
(un'altra parola greca composta da ieròs, che significa sacro,
e da cràtos): in essa i capi ritengono di essere stati scelti in
modo soprannaturale per fare da tramite tra il Cielo e il mondo umano.
Attualmente la nostra Chiesa è, dal
punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia in cui
si stanno sviluppando processi democratici.
La Repubblica italiana è invece
attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi oligarchici:
questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che in pochi
stati.
Paradossalmente le monarchie
dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi
democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è
segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di
quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei
capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio
della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni, e
dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici
supremi.
Le monarchie e le oligarchie in genere
cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le democrazie
possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.
Queste informazioni vengono date di
solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e
Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i
cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari
i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati
nell’enciclica Laudato si’.
48.2 Ogni forma di organizzazione
sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che ci viene dallo studio dei
fatti umani, fin da quelli più antichi.
Possiamo farci un’idea di come si era in
tempi molto lontani studiando le società umane meno evolute che ancora ci sono
e che verosimilmente vivono come i primitivi.
L’evoluzione delle società umane è stata
favorita dalla conquista del linguaggio e soprattutto da quella della
scrittura. Con la produzione di documenti scritti inizia la storia umana. A quel punto le società
erano già piuttosto complesse.
Dal punto di vista biologico discendiamo da
esseri viventi sociali. Come erano i nostri progenitori non umani? Si pensa che
fossero simili alle scimmie antropomorfe (parola che significa: con aspetti fisici e movenze simili a quelle
umane) che vivono in gruppi sociali dominati da un maschio che si accoppia con
molte femmine e al quale altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è
sociale ha reso possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie
di maschi o, più raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di
più i cacciatori e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano
come andavano le cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle
società primitive contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità.
Fin dalle origini probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere
dominati da potenze non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le
deificavano. Per rendersele propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie
simboliche, che avevano bisogno di chi compisse le azioni prescritte: questo
era il compito dei sacerdoti. I re, le figure dominanti tra gli oligarchi,
erano in genere sacerdoti. Fin dalle origini troviamo quindi il potere connesso
con la religione. Uno dei compiti degli oligarchi, e i particolare dei re, era
quello di risolvere le controversie civili e religiose: questo produsse una
giurisprudenza, vale a dire una tradizione nelle decisioni con cui si
risolvevano le liti, connotata religiosamente. C’era un ordine nell’universo, di
carattere sacro perché non in dominio umano, e, nel caso
venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione e il diritto servivano a questo e venivano
somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane
anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una
costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.
Ai tempi nostri si ha talvolta l’idea che le
società umani siano radicate in certi posti. Questo è uno sviluppo politico relativamente
recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo
dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle
origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime
migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i
progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.
Il radicamento
politico su un territorio sviluppò
molto la concezione giuridica della proprietà,
sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e
anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come
figure paterne, come padri
del loro popolo, iniziarono ad agire
come proprietari di esso. Cercarono a lungo un’investitura
divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani
assumessero anche la carica di pontefice
massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice è uno dei
nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo
collegato all’ordine universale, cosmico (cosmo
è una parola del greco antico che significa universo).
Si ebbe così una sacralizzazione del potere, che significa appunto collegare il
potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei soprannaturali. Ciò che riguardava le cose
soprannaturali era sacro, nel senso
di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi
conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano
accostare il sacro. Sacralizzare il potere significò volerlo sottrarre alle
contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era
accentrato in chi deteneva il potere politico
e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche
re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere
considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione del potere è ancora molto forte nella nostra
organizzazione religiosa.
48.3. La sacralizzazione del potere politico
spiega perché i processi democratici siano stati considerati anche delle eresie e
l’importanza che ha per la loro affermazione il principio della laicità delle
istituzioni pubbliche.
Secondo il principio
della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche non devono far
ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni
discriminazione su base religiosa.
La sacralizzazione del potere si è
sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla
democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da
europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi
italiani siamo europei.
Dal Quarto secolo della nostra
era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la teologia della
nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette in
questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici che
scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio, nella
regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella
sacralizzazione: di là dominarono l’imperoromano, ridottosi
poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,
procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel
meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei
cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i
Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici, vale
a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della
nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti
dagli imperatori di Bisanzio. In questo modello c’era
un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era
un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la
parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della
nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro
Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra
fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del
potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa
sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia,
piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e
legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa
Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante
Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo
dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della
Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti
legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità
si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.
La sacralizzazione giustifica il
potere assoluto, vale a dire senza limiti, del
sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del delegato
terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel mondo. La
sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è, secondo
il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un sovrano
assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un processo che
si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era originario
nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era stato
politicamente subordinato all’imperatore romano, in realtà al
potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne
politicamente un feudatario (che significa principe di
livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli
imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel
secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso,
come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un
potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga
di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra
queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi
la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che,
tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione del
potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi
democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale del
potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo
quadro, un potere assoluto, per di più attribuito a una sola
persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle
monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione
del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi
analoghi nella nostra organizzazione religiosa.
48.4.
Gli esseri umani,
nella loro biologia e nella loro psicologia, quindi nel corpo e nella
mente, e le loro organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto,
mutano continuamente. Se non se ne è convinti, è inutile procedere
con i ragionamenti sulla democrazia, in particolare sulla democrazia come la si
concepisce dalla metà del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di democrazia
serve a far cambiare la società pacificamente, ma a farla cambiare. La sacralizzazione del
potere politico serve invece a contrastare la tendenza delle società a
cambiare, travolgendo che le domina. In una società dominata da un potere sacralizzato un
cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato quando
lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si
istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che
si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro si
ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di
punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina
concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà autorizzato
a irrogarle per conto della potenza celeste che
l’ha delegato. Tutte le società europee in cui si svilupparono, dalla
metà del Settecento, processi democratici erano dominate da regimi
assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i sovrani di
volta in volta da esse espressi, governavano“per grazia di Dio”.
Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.
Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione
del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro
continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto
molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno
stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere
romano di Borgo. Lo definisce stato in modo non del
tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano,
regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima
Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,
con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del
Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato si
legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di
tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati
dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle
istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione del
potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati
dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei
regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi
pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle
istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in
genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità
dello Stato.
Il principio giuridico, e
addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa
prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di governare “per
grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità
di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi
democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra religione, ma la
sua strumentalizzazione politica, per lasacralizzazione del
potere politico.
Storicamente il processo di desacralizzazione del
potere politico iniziò con il finire dell’era storia che definiamo Medioevo europeo,
nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di
pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di
libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni
commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come
nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelleuniversità europee
cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.
Dal Duecento in Europa si
svilupparono università degli studi, istituzioni di studi
superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione del
potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine
naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di
una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra
i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più
potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia
politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il
secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni
campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un
esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina
Commedia di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento
essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le
concezioni dell’epoca sull’universo.
Il primo regno ad essere colpito dal
processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo in questione
nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento, il papato
romano, con la Riforma promossa del monaco agostiniano
Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg, nella
regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo processo,
originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti politici,
manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione del
potere politico, anche se ad essere contestata era la sacralizzazione del
papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero
processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti
bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria
sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel
1648 nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della
Germania.
Il papato romano, fino ad epoca
recente, reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare il
suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu
l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)],
del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento
culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in
realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge
(testo integrale su
https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html )
Il "laicismo"
La peste della età nostra è il così detto
laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili
Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava
nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su
tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di
Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i
popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione
cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata
al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata
quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora:
vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un
certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di
poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel
disprezzo di Dio stesso.
In seguito il papato romano usò toni più
sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito essenzialmente
spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici in Italia, e lo
è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma operando attraverso la
mediazione prima di un partito cristiano desacralizzato, vale
a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato da
poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate,
presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.
A conclusione di questo discorso, tengo
a precisare che bisogna convincersi di questo: non sono le religioni
che minacciano la pace politica, come talvolta sento sostenere, ma
la sacralizzazione del potere politico. Se il potere politico è sacralizzato,
allora viene a dipendere per la propria stabilità
da una, e una sola, religione. Per questo diventerà
intollerante della altre e queste ultime lo avverseranno per affermare il
proprio diritto civico ad esistere o per affermare un potere politico
sacralizzato basato sulle proprie convizioni di fede. Se invece lo
si desacralizza, quindi se trova giustificazioni non
religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società in cui si
manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche. Un esempio
di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti
d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato regge una
società complessivamente molto religiosa, secondo diverse confessioni.
48.5. L’evoluzione degli organismi e delle società lascia tracce di
ciò che c’era prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché, ragionando sul
futuro, è importante conoscere la storia, quindi gli eventi passati. Sotto
certi profili il passato non è sempre veramente passato. Lo
vediamo, ad esempio, nelle lingue umane. Dico “lingua” e parlo
latino, la lingua della Roma di duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di
oggi.
La Questione romana ha
travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni
politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi
cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del
suo piccolo stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò
ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato
mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali,
sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un
Regno che nel suo Statuto proclamava: “La Religione
Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!).
Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici
nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori di
fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia
cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a
quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il
Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel
quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava
gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora
erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri
fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente il
conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il Quarantennale,
del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando di apprezzarne
l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma anche l’azione
repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna autocritica è
mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il riconoscere, come
fece il papa Montini, la natura provvidenziale della
fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica
deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza
negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia
nazionale.
La lunghissima sacralizzazione dei
poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro a
sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un
proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra
mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere
supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra
di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei
manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente,
dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun
potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse
indispensabile possedere uno stato. Nel mondo di oggi
non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale,
quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi
ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella
nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per
deporre dittatori o per far cessare crudeltà e guerre. Un potere
che possieda uno stato non può più essere considerato
solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno
di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di
controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora
gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.
Ecco come la rivista Panorama ha
sintetizzato quella vicenda in un articolo del gennaio 2013:
I bancomat funzionano in tutta la Capitale, ma non in quei 44
ettari che stando alle leggi (umane e anche divine) proprio Roma non sono: si
tratta del perimetro della Città del Vaticano.
È così dal primo gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al
distributore, al supermercato, al magazzino abbigliamento, al tabacchi ed
elettronica, alla posta e in farmacia, si paga come una volta: solo in contanti
o al massimo tramite il bancomat interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di
Religione , che però i numerosi turisti e italiani che
frequentano i Sacri Palazzi non hanno.
Colpa di Bankitalia, che non ha
poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia,
braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San
Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.
E per farlo Via Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non
può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché - secondo la normativa
antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non
equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .
San Pietro, in altre parole, trattato come la peggiore isola
caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank Italia, infatti, è un
soggetto di diritto italiano e quindi controllato da Bankitalia. Quindici anni
fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la necessaria autorizzazione.
La storia ci ha lasciato in eredità il piccolo regno di
quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un impaccio da chi lo
governa. Sotto certi aspetti è un po’ un parco a tema, come Disneyland,
con tanti pittoreschi figuranti. Non è come capi di stato che
i papi contano nel mondo, ma come capi spirituali di circa un miliardo di
fedeli. Possedere uno stato è anche sotto certi altri aspetti
controproducente per il papato romano, come segnalarono ai tempi del
compromesso con il fascismo gli studiosi di diritto ecclesiastico: i fedeli
infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si potrebbe tornare indietro? Il Papa
è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno, certo che potrebbe farlo, ma, in
realtà, non può. Quella storia di cui parlavo lo condiziona, lo
limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in tante cose e, in particolare,
nella questione della democrazia. Questo perché il cedimento al fascismo,
avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce profonde in noi, nella
cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo e religione si
compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando pensiamo al
modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello clerico-fascista.
In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a sufficienza la memoria
storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con l’ebraismo o con le genti
che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni sulla famiglia. Su quella del
Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte altre. Quando si sostiene
superficialmente che la Chiesa non è una democrazia si
ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la Chiesa non è uno stato e
non dovrebbe nemmeno possederne uno. Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio
le parole del Maestro quando disse che il suo Regno non era di questo
mondo? Se però, nel mondo, si costituiscono delle
istituzioni per vivere collettivamente la religione, come possono essere un
ente caritativo, un’università, o una parrocchia, perché non si dovrebbe
praticarvi il metodo democratico, che oggi è generalmente riconosciuto come
migliore di quello feudale di tanti secoli fa? Perché, si sostiene,
altrimenti i valori di fede sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene,
su questo si può discutere. Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa
intendiamo, ai tempi nostri, per democrazia.
48.6. Per chi scrivo queste brevi note sulla
democrazia? Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato Legge, Scienze
politiche e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in
Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo
conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La
democrazia infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire
il futuro. L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una
formazione per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’
di più? Ho studiato Legge e ho approfondito un po’.
La democrazia, più o meno come noi
ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò nell’antica
Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento anni prima che
si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi greci
produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era legato
ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita umana
e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo
parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono
molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i
criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché
coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento,
si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota
degli adulti maschi liberi. Liberi da
che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva
considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di
quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne,
e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.
La schiavitù non venne posta in questione
dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù dell’affermarsi dei
processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per abolirla vennero
trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto che riteniamo di
essere stati creati e di essere all'origine figli di
un unico Padre. Da qui l’idea che si sia creati uguali.
Quindi i processi democratici contemporanei sorsero in Europa, nel
Settecento, sulla base di concezioni che intendevano liberare gli
esseri umani dalle schiavitù sociali perché li si considerava uguali per
natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro,
ma come ogni figlio è diverso dal fratello.
Il padre tra loro fa parti uguali.
Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella
degli schiavi.
Benché dette con le parole della
teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad
affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di
solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia
civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica
convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo
2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in
Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della
Rivoluzione francese. In fondo sono idee cristiane ». Che
progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come eretica,
solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con
l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento
anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità,
del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla
piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di
argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano
l’accettazione della democrazia una degenerazione del magistero e
giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno
detto cose diverse dai papi di un tempo.
Certo, ai tempi in cui si formarono le
nostre collettività delle origini, gli antichi processi democratici si erano da
tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme politiche dominanti. E negli
scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle collettività non troviamo
dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo politico. Parlò di un Regno,
ma non di questo mondo. Il detto che gli è attribuito “Date
a Cesare quel che è di Cesare…”, non va inteso, naturalmente, come una
sorta di regolamento di condominio tra poteri nel mondo, quello
di Cesare, il nome a cui si richiamarono tutti gli imperatori
romani, e quello Celeste, ma nel senso che su tutto prevalgono
le esigenze della fede. Così appunto lo intesero i primi nostri fedeli che si
fecero ammazzare in forme in genere particolarmente crudeli, quando non
poterono procurarsi carte false attestanti l’adempimento dell’obbligo di
compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur di non riconoscere, con un
atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che le nostre prime
organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto monarchico, come piccoli
regni federati tra loro con intese di comunione: si riconoscevano
reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci si attestava di
andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica, e piuttosto
frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale venne posta
fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un processo ancora
piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come propria forma
di sacralizzazione politica, e quindi come ideologia dei
proprio regno politico, nel Quarto secolo della nostra era.
48.7. Gli antichi filosofi greci, ragionando sulle
esperienze politiche dei loro tempi, diffidarono della democrazia. Vi
partecipava una minoranza della popolazione che praticamente non doveva
occuparsi d’altro, ma anche questa gente si lasciava trascinare dall’emotività,
non aveva la pazienza d’approfondire, seguiva quelli che meglio mostravano di
saper agitare le collettività divenendone guide. I
più decidevano secondo i propri interessi privati o di gruppo, premiando le
guide che mostravano di voleri favorire, ma chi arrivava al potere promettendo di
farlo spesso ne abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare,
per cui occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide
politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il
bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi
come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad
esserlo. Al massimo furonoconsiglieri di chi comandava di
volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di
forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che
ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua corte,
un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri.
Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a
sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura.
Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.
In fondo è storia anche dei nostri giorni.
In un mondo fatto di tanti servi
abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di pochi, sembrava
inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle cose della
politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si manifestarono processi
democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel dominio di
imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica, nell’età
d’oro dei Comuni europei, le esperienze di libertà delle
industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e fino al
Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti che si
riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare il
proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi
dal lavoro, non avevano la capacità di occuparsi della politica, in
particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se
non fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una
situazione naturale e che la ribellione fosse un grave
delitto. I poteri assoluti proposero diverse
giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La
loro sacralizzazione li aiutò in questo: si presentarono
come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società
sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa
situazione di temuta anarchia fu assimilata alla democrazia,
dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria.
Quello che ho cercato di sintetizzare
spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere tutti nei
processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare
il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento.
Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama
l’Italia come una repubblica democratica fondata
sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha
iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici
sono entrati in crisi.
48.8. Fare memoria del passato serve a organizzare il presente e a
progettare il futuro. Parliamo della storia dei processi democratici
e, quando costruiamo un nuovo gruppo sociale, ci troviamo di fronte a tutti i
problemi che si sono presentati in quella evoluzione. E’ come se, per arrivare
là dove ci si propone, occorresse ripetere, sintetizzandola, tutta quella lunga
e complessa storia, tutti i suoi processi: la si rivive e i
problemi vengono superati se si seguono la vie che in passato hanno avuto successo.
La democrazia è quindi una conquista culturale che va raggiunta di generazione
in generazione e così si consolida nella società. Tutti i fatti umani, la vita
biologica come le società, sono così: sono processi, sia a
livello collettivo che individuale. Un processo è una serie di eventi che si
sviluppa nel tempo e in cui i precedenti influiscono sui successivi. Poiché la
vita degli esseri umani è limitata nel tempo, in un certo senso di generazione
in generazione si deve ripartire sempre da capo. Le generazioni però coesistono
per una parte della loro storia, per cui quelle più anziane istruiscono le più
giovani. Ma, in definitiva, il futuro è nelle mani di quelle più giovani. Le
culture delle società umane si tramandano e questo processo viene chiamato tradizione.
Essa è molto importante, in particolare, nelle questioni di fede. La tradizione
culturale consente di mantenere certe conquiste sociali,
scientifiche, culturali in genere, ma ostacola il cambiamento. C’è una tendenza
a ripetere, nelle cose sociali, perché quando si presentano problemi si cercano
soluzioni nell’esperienza passata. Così, come in tutte le cose umane, il nuovo
reca tracce dell’antico e questo accade anche nel caso di cambiamenti sociali
molto veloci, a carattere rivoluzionario, quando tutto
improvvisamente sembra essere messo sottosopra. I cambiamenti più rivoluzionari
sono avvenuti, nell’ultimo secolo, nel mondo della scienza. Lì il patrimonio
culturale si è talmente ampliato che al problema di tramandarlo si è aggiunto
quello di dominarlo nel presente: nessun individuo è in grado di farlo, ci si
riesce solo in comunità molto vaste di specialisti, ciascuno dei
quali controlla un settore molto limitato e dialoga con
gli altri integrando le proprie conoscenze con quelle altrui. E’ un processo
che ha interessato anche i fatti sociali: l’umanità è diventata tanto numerosa,
le società umane tanto complesse e interconnesse a livello mondiale, che
nessun imperatore potrebbe governare da sovrano assoluto; la
politica è, ai tempi nostri, necessariamente un fatto condiviso da molti, se si
vuole che consenta la sopravvivenza dei più. Questo significa che la via
dell’umanità sarà necessariamente quella della democrazia o quella della
catastrofe. Ma la democrazia che ci salverà non sarà quella delle origini,
quella che aveva come problema principale il conquistare spazi di libertà verso
oligarchie dinastiche, perché avrà davanti come problema principale quello di
realizzare una pace stabile a livello globale.
Fare pace è
tanto difficile anche nelle realtà di prossimità, lo possiamo toccare con mano.
Costruiamo un piccolo gruppo e subito sorgono dissapori, gelosie, liti sul da
farsi. Qualcuno riesce a tirarsi dietro i più, diventa loro capo e poi li
tiranneggia. Ci sono quelli che hanno successo e gli umiliati. Ognuno pensa per
sé e cerca di accaparrarsi il meglio. Si allea con altri, salvo poi tradirli
appena non gli conviene più stare dalla loro parte. Ogni autorità tende ad
espandersi e a liberarsi dai limiti. Nelle riunioni tendono a parlare sempre
gli stessi e, in genere, chi ha la parola la tiene troppo a lungo. Il tempo
passa veloce e si ha la sensazione di non aver concluso nulla. Alla fine si
finisce per seguire i più svelti di lingua e di mano, quelli che si fanno
meno scrupoli. Attorno a loro e, in genere, a chi comanda si creano
piccole corti. Ecco che, allora, si rivive il passato, la
monarchia, l’oligarchia, varie forme di democrazia e anche l’anarchia, quando
si cerca di fare a meno di regole e di autorità per dare il massimo spazio alla
vita degli individui. La società fa soffrire, ma presto si capisce che ci è
indispensabile per vivere. Si vorrebbe essere più liberi, ma allo stesso tempo
si ci lega agli altri: la vita sembra non avere senso senza di loro. Un tempo
lo si capiva fin da piccoli, giocando in cortile con torme di ragazzini: oggi i
più piccoli vivono come piccoli monaci e questa esperienza viene ritardata. Ma
alle medie, quando si comincia a uscire da soli, ci si accorge che senza gli
altri non si sa che fare. Ma anche che, se con si dà ordine alle proprie
esperienze sociali, non si arriva a nulla e ci si limita ad aspettare, con gli
altri, che il tempo passi: si è ragazzi del muretto, come
diceva il titolo di un serie televisiva di qualche tempo fa.
La democrazia si impara, non è innata
nelle persone: è stata un conquista culturale per l’umanità e lo è, di
generazione in generazione, per gli individui. Non basta leggerne sui libri,
occorre farne tirocinio, metterla in pratica. Gli esseri umani imparano dagli
errori: è anche così che evolvono i fatti sociali e, in particolare, è così che
evolvono le scienze contemporanee. Io ho imparato la democrazia in FUCI, tra
gli universitari cattolici. Può sembrare paradossale, tenendo conto che in
religione la si è tanto a lungo avversata. Ad un certo punto, però, si è
capito che era l’unica via per influire sulla società e la si è cominciata a
insegnare, consentendone il tirocinio. E’ in FUCI che, ad esempio, ho imparato
come si lavora in un’assemblea in cui bisogna prendere delle decisioni, il
lavoro che deve fare la presidenza, come si propongono le deliberazioni su cui
votare, come si propongono modifiche, gli emendamenti, come si vota, come si
scrive un testo unificato delle decisioni prese. Alcuni di quelli che vidi in
FUCI da ragazzo oggi sono parlamentari che fanno un lavoro molto importante in
società, sono diventati dei protagonisti della politica italiana. E comunque
tutti, in posti diversi, lavoriamo mettendo a frutto quella pratica di
democrazia che si fece da giovani. Estendere questo tirocinio a realtà più
ampie di ristretti settori di intellettuali, farne un fatto di massa, è
la sfida di oggi, ma in fondo quella di sempre da quando si sono sviluppati i
processi democratici contemporanei ed essi sono diventati indispensabili per la
sopravvivenza dell’umanità.
Nei processi democratici gli individui
non sono legati solo da rapporti di forza, come avviene nei fatti sociali
elementari. In un certo senso ci si sceglie, come accade tra amici. In
religione si è cominciato a parlare di democrazia come di un’amicizia
sociale (si è ancora piuttosto cauti a nominarla esplicitamente in
dottrina, e questo è qualcosa del passato che rimane). Le società umane sono
quindi caratterizzate da qualcosa di comune che si pensa
esserci tra gente che vuole andare d’accordo e che storicamente è stato
riassunto, ad esempio, in un mito, una storia leggendaria su
origini comuni, o in certo modo di vivere e di pensare che si pensa scaturire
dalle persone come le piante dalla terra. Quindi le società umane nascono come
esperienze definite, con dei confini, con
un dentro e un fuori, gli
amici dentro, i nemici fuori. Le democrazie
nascono per consentire i più ampi spazi di libertà dentro una
società: ce li si deve riconoscere reciprocamente e quindi ci si deve
riconoscere uguali in questo. Si è sperimentato che in società
più libere si vive meglio perché le risorse sono meglio distribuite. Per
essere liberi in molti occorre però condividere delle
regole, porre dei limiti ad ogni autorità e ad ogni arbitrio individuale, dentro
la società. Alle origini le democrazie riguardavano, in ogni società, una
minoranza di gente che si riconosceva l’uguaglianza reciproca.
Poi, più recentemente, si vollero includere nei processi
democratici tutti gli adulti di una società, quelli che
stavano dentro una società. Si scoprì, però, che
l’uguaglianza doveva essere realizzata, costruita, perché, a quel punto, non
era più originaria. Lo si fece potenziando la solidarietà sociale all’interno delle
società. Ora la sfida è di realizzarlaglobalmente, lì dove prima non si
ammettevano limiti all’arbitrio umano e alla violenza (di chi era fuori si
poteva fare ciò che si voleva: le guerre europee di conquista dell’intero mondo
furono fondate su questo principio). Questo perché servono processi
democratici a livello mondiale per salvare l’umanità. E allora serve anche
solidarietà a livello globale. E’ una realtà che ci si impone, anche a voler
chiudere gli occhi su di essa: ad esempio attraverso i fenomeni delle migrazioni
di popoli dai posti dove si sta peggio a quelli dove si sta meglio. Ma che cosa
ci lega a livello globale per cui si debba essere solidali a
quel livello invece di massacrarci e rapinarci, a livello globale, come è
sempre avvenuto?
Oggi pensiamo che democrazia e pace vadano
d’accordo: pensiamo ad un ordine democratico come a un ordine pacifico. Non è
sempre stato così. E’, anzi, uno sviluppo piuttosto recente dei processi
democratici. Storicamente le democrazie sono state piuttosto bellicose. Lo è
stata, dall’origine, la prima democrazia contemporanea, gli Stati Uniti
d’America, che hanno vissuto pochi periodi di vera pace. Sono stati l’unica
potenza mondiale ad usare l’arma nucleare in una guerra, non una ma addirittura
due volte, distruggendo due città giapponesi, durante la Seconda Guerra
mondiale! La storia d’Italia, ai tempi in cui si realizzò l’unità nazionale,
nell’Ottocento, vide processi democratici e conflitti bellici strettamente
connessi. In questo le democrazie a lungo non si distinsero dai
regimi assolutistici che vollero sostituire.
I nostri orientamenti religiosi
oggi prevalenti ci propongono un impegno per una pace globale che
può servire a sorreggere processi democratici pacifici a livello mondiale:
questo tema è al centro della predicazione di papa Francesco e si trova
sintetizzato molto efficacemente nell’enciclica Laudato si’, del
2015. Ecco dunque che l’esperienza sociale che si fa ai tempi nostri in
religione può avere, e anzi dovrebbe avere, questo significato anche civico a
livello molto ampio. In un certo senso, a cominciare dalle realtà di
prossimità, come è quella della parrocchia, si può cominciare a cambiare
il mondo. Si tratta di avviare nuovi processi democratici.
48.9. Qui si ragiona di democrazia per metterla in pratica. Non
dobbiamo mai perdere di vista questo obiettivo. Secondo le idee oggi correnti
in religione, questo ha un significato anche per la vita di fede. Questo perché
la democrazia, come ai tempi nostri la si pensa e la si vive, è legata a valori,
vale a dire a principi di azione sociale, che sono condivisi dalla
fede e, anzi, in buona parte originano da essa, anche se non sempre se ne è
mantenuta consapevolezza. Quando la si è persa, la democrazia viene pensata
come la sede dell’arbitrio delle maggioranze in danno di quei
valori. A maggioranza si potrebbe decidere tutto. Sarebbe meglio, allora,
mettere i valori nelle mani di oligarchie illuminate: sono i reazionari a
pensarla così, quelli che vorrebbero che la storia umana tornasse sui suoi
passi. Non è impossibile che accada: nella storia osserviamo civiltà che sono
regredite. Ogni conquista culturale va rinnovata di generazione in generazione,
altrimenti può essere perduta. L’umanità, quindi, potrebbe ancora tornare nelle
mani di sovrani assoluti e, in effetti, di questi tempi si
osservano processi sociali che vanno in questo senso. Rimane sempre nell’aria
l’idea che alle controversie e alla violenze possa porsi rimedio solo con
un’autorità superiore che imponga la pacificazione:
nella dottrina sociale la si vorrebbe a livello mondiale e talvolta sembra che
il modello siano, in fondo, gli antichi imperatori dei primi tempi, quelli
che sacralizzarono il proprio potere politico secondo la
nostra fede. Non si tiene conto che una simile concentrazione di potere
fatalmente annienterebbe le libertà civili se non governata con metodi
democratici ancora da pensare a livello globale, mondiale, di democrazia universale.
Produrrebbe proprie corti, che degenererebbero in oligarchie,
le quali, non limitate da processi democratici, si impadronirebbero delle
cose e delle persone e inizierebbero a farsi guerra. Se si riporta indietro la
storia, si è condannati a riviverla. In un mondo che si avvia agli otto
miliardi di persone, molto complesso e interconnesso, attuare progetti
reazionari porterebbe alla catastrofe, agli incubi sociali proposti in
tanti film di fantascienza, che presentano le conseguenze di una crisi di
regressione della civiltà.
Opporre democrazia e valori, come fanno
i reazionari, anche quelli che abbiamo in religione, non è corretto, perché
nelle democrazie contemporanee i principi di azione sociali più importanti sono
sottratti alla volontà delle maggioranze. Fin dalle origini dei processi
democratici contemporanei, nel Settecento, si ebbe chiara consapevolezza che le
democrazie degenerano se cadono in mano atirannie di maggioranze. Quando
i reazionari accusano la democrazia di indifferenza ai
valori, la diffamano. Da quale parte stanno? Dalla parte dei valori?
A ben vedere la loro critica si riversa contro i più. Questo fa
sospettare che siano dalla parte di una qualche oligarchia, di gruppi di
pochi che vogliono acquisire il controllo sociale liberandosi da
limiti dal basso, per poi distribuire il potere sociale a loro discrezione,
dall’alto verso il basso, secondo i costumi di sempre delle oligarchie. In
religione, a volte, mimano, l’organizzazione del clero, che funziona ancora più
o meno così: oggi però la sua struttura feudale non
fa più gran danno perché è un’oligarchia prevalentemente solo spirituale
ed esercita la propria influenza politica, che rimane comunque rilevante, con
la mediazione di un laicato che agisce secondo principi e metodi democratici,
in contesto che relativizza ogni autorità pubblica. Nei movimenti reazionari
laicali, e in genere politici, questa mediazione salta: in fondo essi
sono l’immagine di come diverrebbe la società se prevalessero.
Se consideriamo la nostra Costituzione,
un documento che contiene regole che possono essere cambiate solo con
maggioranze molto vaste e alcuni principi che non possono essere
cambiati, vediamo che è piena di valori, di principi di azione
sociale che vengono imposti anche al legislatore, come ad ogni autorità
pubblica. Ci sono , ad esempio, quelli della libertà religiosa e quello della
laicità dello stato: in Italia non sono mai stati completamente attuati. C’è
quello di uguaglianza, che oggi è a rischio. C’è quello di solidarietà sociale,
anche questo oggi a rischio. Si tratta di principi che nessuna
maggioranza potrebbe abolire: ragionandoci sopra lo ha stabilito la Corte
Costituzionale, il collegio di giuristi ai quali è affidata l’interpretazione
autentica della Costituzione per stabilire se le altre leggi la rispettano. I
valori costituzionali in Italia si sono affermati prima tra la gente che nelle
assemblee legislative. Scaturirono dalla disfatta del fascismo storico,
all’inizio degli scorsi anni ’40: si ebbe un processo di conversione popolare,
partito dal rifiuto della guerra e dalla presa di coscienza che ci si era
trovati in mezzo ad essa a causa delle idee del fascismo, un regime oligarchico
che proponeva la disparità sociale a fondamento della gerarchia pubblica, la
violenza come via per la risoluzione dei conflitti sociali, l’aggressione
internazionale come via per la ricchezza nazionale, la guerra come igiene della
razza. Era un regime che metteva le armi in mano ai più piccoli, spingeva la
gente alla violenza e alla guerra. Mantenne ciò che prometteva. Gli italiani
ebbero la guerra. La disfatta del fascismo fu prima culturale che bellica. La
gente non gli credette più, ammaestrata dal dolore: non fu una svolta
opportunistica, come taluni sostengono. E infatti fu duratura. Ancora oggi i
valori democratici sono vivi tra la gente, in particolare nei più giovani.
Vivono, ma spesso se ne è perduta consapevolezza, non li si chiama con il loro
nome. A volte li si vive, ma ce se ne vergogna, perché sono diffamati da gente
potente.
Negli anni passati, si sono considerati
i quartieri romani, e anche il nostro, come terra di missione. Non
sono mai stato d’accordo con questa visione delle cose. L’ho sempre considerata
piuttosto clericale. Mi offendeva. Se le Valli fossero
veramente terra di missione significherebbe che tra la nostra gente i fedeli
sono diventati minoranza, e minoranza esigua. Non è così, ancora. In una
prospettiva clericale si è insoddisfatti della gente e allora si
fa come se non fosse più della nostra fede. Una scomunica di fatto che
è un vero arbitrio. E perché poi? La gente non segue la vita
buona raccomandata, dicono. Questa però è stata più o meno la
condizione di sempre della gente della nostra fede: che cosa è cambiato? Ci si
sforza di essere migliori, ma in genere ci si approssima solo
a quella vita buona idealizzata. E’ quello che accade
anche tra il clero, dove sono molti di quelli che ci fanno la predica. Non
sempre possono proporsi come esempi di moralità, in particolare ai livelli più
alti. Lo ha detto il Papa ed è persona che penso di certe cose se ne intenda.
Del resto: la vita buona raccomandata è veramente praticabile?
In religione si ragiona di famiglia, ad esempio, e della famiglia non si ha una
visione realistica. Del resto chi legifera in materia non ne ha esperienza se
non da figlio e zio. E così va nelle cose del sesso, ma lì è anche peggio
perché chi legifera se lo vieta come peccato. I nostri capi religiosi sono
scontenti delle nostre famiglie e di come facciamo sesso, ma in che cosa si è
veramente peggiori dal passato? Le nostre famiglie di oggi sono molto meno
violente e dispotiche che nel passato, nei rapporti tra i sessi è lo stesso.
Non è un progresso? Le società del passato, permeate di religiosità tradizionale,
esprimevano incubi famigliari. Intorno all'anno Mille gli stessi papi
condussero vita sessuale dissoluta: si parlò, a proposito del loro potere,
di pornocrazia. In seguito ciclicamente ci ricaddero, assumendo i
costumi dei principi del loro tempo. Ed erano anche dei capi violenti. E' dal
Settecento che la qualità dei papi cambiò: non è un caso che ciò avvenne con lo
sviluppo di processi democratici che li sottoposero a critiche serrate. Ai
tempi nostri sono dei sant'uomini. A ben vedere, dietro
l'insoddisfazione dei nostri capi religiosi per le nostre vite, c’è la
politica, si è scontenti di noi perché non assecondiamo più certi disegni
politici nella società e siamo molto più coinvolti nei processi democratici.
Pretendiamo di avere voce nella formulazione dei principi di azione sociale,
del resto secondo la prospettiva dell’ultimo Concilio. Non accettiamo più certe
discriminazioni, certe umiliazioni, di essere solo gregge condotto
qua e là da certi pastori. Siamo insofferenti di autorità che si propongono
come assolute. Questo, anche se non sempre se ne è
consapevoli, è frutto di una compiuta assimilazione interiore dei valori
democratici.
Le Valli all’ultimo censimento
avevano circa ventimila residenti: circa quindicimila di loro, secondo le
statistiche nazionali, dovrebbero prendere come riferimento morale la nostra
fede, anche se non vengono spesso in parrocchia o non ci vengono più. E’ tra
questa gente che dobbiamo sviluppare processi democratici per poi parlare di
valori e metterli in pratica. Si tratta di popolo vero, non dell’immagine
clericale che se ne ha di solito quando se ne parla tra addetti ai lavori: c’è
il buono e c’è il cattivo, e anche il molto cattivo. Ogni persona però è un
processo: può cambiare, in meglio o in peggio. E così è per la società. Creare
le condizioni per un miglioramento collettivo e individuale è il lavoro
delle democrazia come oggi la si concepisce, piena di valori dei
quali le maggioranze non sono arbitre. Non interveniamo sul quartiere da fuori,
da colonizzatori, da missionari. Ne siamo parte,
nel bene e nel male. Viviamo in famiglia, ci prendiamo cura di altri, dei più
giovani, dei più anziani, molte ore al giorno siamo al lavoro e come tutti
soffriamo dei mali sociali. Queste nostre vite hanno un significato sia civile
che religioso. Non è senza valore religioso ciò che facciamo in società, ma
anche vero l'inverso: non è senza valore civile ciò che facciamo in religione.
Migliorando in religione possiamo divenire anche cittadini migliori e divenendo
cittadini migliori possiamo anche migliorare la nostra vita di fede, personale
e collettiva. Ma come migliorare? Bisogna innanzi tutto riprendere a
incontrarsi: la parrocchia è un’opportunità perché ha le strutture per farlo.
Ed è uno spazio in un certo senso pubblico, perché pagato anche con
soldi pubblici, con una parte dei proventi dei nostri tributi che confluiscono
in presa diretta nelle casse della nostra organizzazione religiosa. La
società si migliora solo lavorando insieme, di generazione in generazione.
Non si tratta divenire in chiesa come spettatori. Già proporsi che
i più giovani abbiano in parrocchia un posto loro dove crescere insieme è
importante: non ve ne sono altri nel quartiere, per quanto ne so. Accoglierli
richiede la collaborazione degli adulti e si collabora efficacemente solo
sviluppando processi democratici, imparando la
democrazia, che è potere condiviso, in cui si condividono innanzi tutto grandi
principi umanitari, come quello che nessuno è meno degno di vivere di
altri. Nella pratica, ad esempio, questo significa che, in un’assemblea, si
cerca di ascoltare e capire gli altri, si rispetta il tempo loro concesso
per parlare, non li si zittisce e non li si sovrasta gridando. Nessuno
umilia, nessuno esclude, c’è un posto per tutti, nessuna autorità senza
limiti. Si pratica la democrazia e in essa si può scoprire l’agàpe della
fede, specialmente quando non la si affronta con spirito di circolo, ma
cercando di espanderla per includervi nuovi amici.
48.10. E’ evidente quello che
non ha bisogno di essere dimostrato, sul quale, quindi, non è necessario dare
spiegazioni o anche giustificazioni. Lo vedono e lo capiscono tutti che è così,
e basta.
Il Sole sorge e tramonta:
è evidente. Che però giri intorno
alla Terra può sembrare, solo sembrare, evidente,
ma poi abbiamo scoperto che è falso. Sono state necessarie, però, complicate
dimostrazioni per convincersene. Per nulla evidente è che sia la Terra a girare intorno
al Sole. Se ne sono date spiegazioni, ma a lungo la si è ritenuta un’enormità
impossibile da credere, addirittura un’eresia. Come anche che la Terra e poi il
Sole non fossero al centro dell’Universo. Nel secolo scorso, mandando macchine
e astronauti nello spazio cosmico è emerso che il Sole è in posizione
piuttosto decentrata in una tra le tantissime galassie dell’Universo, che non è
ben chiaro come e dove evolva e che fine farà, se poi una fine ci sarà
mai ad un certo punto.
In religione quasi nulla è
evidente, anche se qualcosa talvolta sembra esserlo,
perché la fede religiosa tratta di potenze invisibili. Sono
invece evidenti l’empatia e la compassione: realtà interiori, in un certo
senso invisibili, ma di cui facciamo esperienza. Siamo capaci
di immedesimarci negli altri, nelle loro gioie e nei loro
dolori, e ci sentiamo spinti ad andare in loro soccorso quanto soffrono. La
psicologia, le neuroscienze e l’antropologia ne danno spiegazioni, certo, ma si
tratta di realtà evidenti, e, innanzi tutto, proprio di realtà,
appunto perché ne facciamo esperienza quotidiana, tutti, almeno quando in noi
non prevale la natura di antiche belve. In religione questo si chiama misericordia e
il Papa ci torna spesso sopra. Si tratta quindi di realtà che hanno significato
per la fede e sono al fondo della concezione religiosa dell’agàpe,
del pensare di poter riunire tutti in un lieto convito in cui ce ne sia per
tutti, nessuno escluso.
Al di fuori della misericordia, che
è evidente nel senso che ho precisato, mi pare che tutto in
religione necessiti di complicate, e anzi complicatissime, spiegazioni, delle
quali si occupa la teologia. Trattando dell’invisibile, è assai raro che
i teologi siano d’accordo tra loro, quindi poi ci sono, più o meno, tante
teologie quanti sono i teologi. Questo però non ci deve scoraggiare, perché
quasi tutto, nella vita umana, va così. La scienza, in particolare, funziona
così, e per certi versi, nel suo argomentare razionale, conseguente, cercando
di accordare conclusioni e premesse, la stessa teologia si è fatta scienza.
Questo non significa che non si cerchino accordi, intese. Ci si incontra, si
ragiona insieme, e talvolta si riesce ad arrivare a soluzioni condivise. Ma spesso
in politica e nella religione che si fa politica, come anche nella
politica sacralizzata, quella che strumentalizza la religione, si
va per le spicce, non si ha tanto tempo da perdere. Allora si stabilisce che
la verità esce da una certa fonte, sia proclamata da una
certa autorità, e che si sia obbligati a convincersene. Storicamente la
faccenda della verità appare strettamente connessa con
l’autorità. Che cosa è la verità? E’ un problema filosofico, ma
anche politico. La domanda risuona nei racconti della Passione e venne
attribuita a Ponzio Pilato, il Procuratore della Giudea, funzionario di medio
livello dell’imperatore romano, quindi, tutto sommato, a un politico.
Egli la pose, ma non stette ad attendere la risposta del Maestro. In politica
appare inutile discutere di verità: e se poi ci
fosse sfavorevole? Nessun politico di solito è disposto a lasciare il campo per
questioni di verità. Preferisce quindi aggiustarsela. E gli
argomenti non mancano mai. Quindi sceglie, tra le opinioni correnti, quelle che
gli servono meglio e le impone agli altri con la forza del diritto, facendone
norme giuridiche. Una verità vale quanto gli argomenti che si
portano a suo sostegno, a meno che non sia evidente; un verità
normativa, invece, è una legge e vale quanto l’autorità
di chi l’ha imposta e, in politica, quanto la forza del potere che ha
legiferato, militare, poliziesca, giudiziaria e via dicendo. Anche le religioni
impongono verità normative, in particolare nelle società dove i poteri pubblici
sono sacralizzati e quindi inglobano la religione nella
propria giustificazione sociale. In esse poteri pubblici e verità
normative si rafforzano a vicenda. Che accade però quando, in
società con poteri sacralizzati, una verità normativa viene
posta in questione dai fatti, da argomenti seri? Il potere che l’ha imposta fa
in genere resistenza, porta i dissenzienti davanti ai suoi tribunali e, se non
cambiano idea, li condanna. Dal Cinquecento e per circa trecento anni è stato
questo il dramma delle scienze tra gli europei. Dalla fine del Settecento
è toccato alla democrazia subire lo stesso travaglio. La faccenda è di solito,
superficialmente, presentata come conflitto tra scienza e fede, ma, in realtà,
si è trattato di un conflitto tra scienza e poteri sacralizzati e poi tra
concezioni democratiche e poteri assolutistici sacralizzati.
In democrazia si è tratto insegnamento
dalla tremenda nostra storia del passato e si ripudia ogni sacralizzazione del
potere: è questo il senso del principio della laicità dei
poteri pubblici. E’ uno di quei principi inderogabili, che non
dipendono da questa o quella maggioranza. Se non lo si applica non c’è, o non
c’è più, democrazia. Ma, allora, nei regimi democratici, non è che quel
principio della laicità dei poteri pubblici sta virando
in fondo verso la verità normativa, e finisce per rientrare in
quelle idee sul mondo che non possono essere messe in questione solo perché
sono divenute legge e si rischia forte ponendo dei dubbi? E’ la contestazione
di sempre di ogni specie di reazionari. Si ribatte, di solito, che è cosa che
ha a che fare con la morale. Non è come quando in religione si sosteneva che il
Sole girasse intorno alla Terra e si voleva imporre questa idea per legge,
altrimenti, si pensava, l’Universo e con esso tutti i poteri politici e
religiosi legati al Cielo sarebbero stati rovesciati. Teniamo conto
degli altri e ci poniamo dei limiti. Per questo
rinunciamo a sacralizzare, quindi ad assolutizzare rendendolo illimitato, il
potere politico che esercitiamo. E’ necessario se si vuole che quel potere sia
condiviso e che, quindi, ognuno se ne senta responsabile. Capiamo
che non possiamo fare degli altri tutto ciò che ci piace o ci conviene. Non
sono nostro trastullo, ha detto il Papa criticando la prostituzione, né nostro
strumento. Dobbiamo tener conto delle loro vite, ci sono, esistono, se pongono
questioni ci sentiamo obbligati ad ascoltarli. Non abbiamo cuore di
annientarli: questo ha a che fare con la misericordia e l’agàpe.
Che cosa resta al dunque? Questo
resta: è scritto. La democrazia, in fondo, come oggi la si intende, è un
sistema di limiti che ciascuno pone al proprio arbitrio, per
questioni di cuore, di misericordia, sulla base di esperienze
interiori evidenti. E’ evidente, a questo punto,
anche il collegamento con la nostra fede.
49.
Pensare il popolo
AVERE CORAGGIO
E AUDACIA PROFETICA»
Dialogo di
papa Francesco con i gesuiti riuniti nella 36a Congregazione Generale (ottobre
2016)
[…]
Dopo
la 35a Congregazione Generale la Compagnia ha percorso un cammino nella
comprensione delle sfide ambientali. Abbiamo accolto con gioia l’enciclica
«Laudato si’». Sentiamo che il Papa ci ha aperto porte per il dialogo con le
istituzioni. Che cosa possiamo fare per continuare a sentirci coinvolti in
questo tema?
La Laudato si’ è un’enciclica a cui hanno
lavorato in molti, ed era stato chiesto agli scienziati che ci hanno lavorato
di dire cose ben fondate e non semplici ipotesi. Ci hanno lavorato molte
persone. Il mio lavoro in effetti è stato quello di dare gli orientamenti, fare
questa o quella correzione e poi elaborare la redazione conclusiva: questo sì,
con il mio stile e riprendendo alcune cose. E credo che bisogna continuare a
lavorare, attraverso movimenti, accademicamente e anche politicamente. Infatti
è evidente che il mondo sta soffrendo, non soltanto per il surriscaldamento
globale, ma per il cattivo uso delle cose e perché la natura viene maltrattata…
Bisogna anche tenere presente, nell’interpretazione della Laudato si’, che non
è un’«enciclica verde». È un’enciclica sociale. Parte dalla realtà di questo
momento, che è ecologica, ma è un’enciclica sociale. È evidente che a soffrirne
le conseguenze sono i più poveri, quelli che vengono scartati. È un’enciclica
che affronta questa cultura dello scarto delle persone. Bisogna lavorare molto
sulla parte sociale dell’enciclica, perché i teologi che ci hanno lavorato si
sono preoccupati molto nel vedere quanta ripercussione sociale hanno i fatti
ecologici. E questo è di grande aiuto: va vista come un’enciclica sociale.
[testo integrale in
http://www.laciviltacattolica.it/wp-content/uploads/2016/11/Q.-3995-3-DIALOGO-PAPA-FRANCESCO-PP.-417-431.pdf
Lunedì scorso, al termine della discussione al termine degli incontri di
approfondimento sull’enciclica Laudato
si’, è stato proiettato il testo che ho trascritto sopra, che è la
trascrizione di una parte del dialogo avuto dal papa Francesco con i gesuiti, nella
loro 36° Congregazione generale, svoltasi nell’ottobre 2016.
Fin dal primo momento il Papa, nel 2015 quando l’enciclica fu diffusa,
ha tenuto a precisare che non si trattava solo di un’enciclica che si occupava
di ambiente naturale, ma che riguardava la società e il suo sviluppo.
Leggendola lo si capisce bene, ma ad uno sguardo frettoloso, come quello che di
solito si riserva a quel tipo di letteratura religiosa, non è proprio evidente.
Il significato sociale del documento è stato bene inteso, ad esempio, negli
Stati Uniti d’America, dai settori della destra politica che rappresentano
politicamente le grandi imprese che guadagnano dal modello di sviluppo
criticato nell’enciclica: infatti hanno subito intimato al Papa di rimanere nel
campo spirituale e, quindi, di farsi gli affari propri, non turbando quelli
altrui.
E’ sempre stato noto che le encicliche
sociali erano state frutto di un lavoro
collettivo, e questo fin dalla prima dei tempi moderni, la Le Novità, nel 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone
13°.
Si legge in Gabriele De Rosa. De Rosa, Il
Movimento cattolico in Italia,Bari,Laterza, 1979:
“La
redazione dell’enciclica leoniana fu affidata a uomini di forte
preparazione filosofica,
come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara,
autori rispettivamente del primo e del secondo schema”.
Tuttavia la particolarità dell’enciclica Laudato si’ è che la cultura religiosa che c’è dentro si è
sforzata di non essere auto-referenziale, quindi di fare riferimento a quella
scientifica, sia con riferimento alle scienze naturali che a quelle sociali. Si
sono volute dire “cose ben fondate e non
semplici ipotesi”. Non si tratta quindi della solita invettiva contro lo spirito dei tempi e i mali sociali derivati da non seguire la
morale religiosa prescritta, ma di una visione della storia e della società
attuale che vuole essere realistica. Un modello di sviluppo basato su un
intenso consumo delle risorse naturali sta conducendo il mondo ad una crisi
globale. La competizione lo anima, ma anche lo minaccia. Si compete per
avere la parte più grossa della torta e per molti è lotta per la vita, perché a
loro non tocca nemmeno ciò che è indispensabile per sopravvivere. Per molti
altri la vita torna ad essere solo fatica, come nell’Ottocento, ai tempi della
rivoluzione industriale. A quell’epoca la condizione di chi stava peggio
migliorò con lotte sociali di massa, nel confronto tra le classi, che in
Occidente portò nella seconda metà del Novecento allo stato sociale, in cui le istituzioni pubbliche, rette
democraticamente, si assunsero il compito di riequilibrare le parti. Dal 1990,
con lo sviluppo della globalizzazione dell’economia mondiale, sorretta da una rete
giuridica di accordi internazionali, quel modello è stato superato. Questo
perché la forza esprimibile nello scontro sociale da chi sta peggio è molto
diminuita: l’azione di massa per i diritti civili e sociali si è fatta meno
efficace. Era basata su masse di produttori, essenzialmente di operai, che
rivendicavano parti più giuste. Chi controllava le imprese ne aveva bisogno,
non poteva farne a meno nella produzione, e quindi, alla fine, veniva a patti. Nel mondo di oggi può limitarsi a
produrre da un’altra parte del mondo, dove le lotte sono meno efficaci o
addirittura vietate, come nella Repubblica popolare di Cina di oggi, da cui
proviene molta parte dei nostri oggetti di uso quotidiano. In Occidente ormai
si conta di più come consumatori che come lavoratori, ha osservato il sociologo
Zygmunt Bauman. Il lavoro si è molto svalutato
e infatti viene retribuito sempre
meno. Come consumatori si è però fascinati dalle tecniche di psicologia di
massa utilizzate nella pubblicità commerciale, e il pubblico dei consumatori,
sotto certi aspetti, assomiglia sempre di più a quel gregge docile vagheggiato
dal clero come modello ideale di popolo.
Che cosa è e soprattutto chi è il popolo?
Non è facile rispondere, in religione, ma ormai anche da altri punti di
vista, quello giuridico e quello sociologico, ad esempio.
E’ importante stabilirlo perché, secondo la fede, ci proponiamo di fare
di tutte le genti della terra un unico
popolo. Fino a non molto tempo fa questo appariva un obiettivo destinato alla
fine dei tempi. Oggi è una prospettiva resa concretamente possibile dalla globalizzazione dell’economia e del diritto. Ma anche
indispensabile per consentire la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta. Il
secolo scorso essa appariva minacciata dal conflitto nucleare globale, oggi
dagli stessi costumi consumistici quotidiani, banali.
Da un certo punto di vista ci siamo uniti, nella fitta rete di relazioni
commerciali, ma anche di altro genere, ad esempio nell’informazione e nella
cultura, che ci connette a livello mondiale, ma da altri punti di vista ci
stiamo dividendo e schierando. I sistemi politici non sono integrati e lungo le
linee di contatto territoriali si generano frizioni e motivi di conflitto.
Nell’era della globalizzazione si è ricominciato a credere possibili e utili
guerre locali per risolverli e gravi conflitti, per ora a bassa intensità, sono
ormai endemici ai confini orientali e meridionali dell’Unione Europea.
I
popoli sembrano, come sempre, avere scarsa voce nella politica mondiale. Ci
siamo abituati a considerare principalmente le personalità che le dominano,
giunte ai vertici delle più grandi confederazioni di potere politico. Eppure le
oligarchie che li dominano ne sono influenzate molto più che in passato,
quando, organizzate in sistemi dinastici, li dominavano e basta. Mutamenti di
massa di stili di vita possono cambiare le cose. Essi sono possibili anche a
partire da realtà di prossimità. In un sistema globale basato sull’accaparramento
del consenso dei consumatori, nelle grandi guerre
commerciali, un mutamento delle propensione al consumo può fare la differenza.
Questo è sperimentale anche su piccola scala. Nel nostro quartiere si tentò di
fascinare commercialmente la gente, cercando di farle vedere i benefici di
un’edificazione intensiva sul pratone.
Ci fu, anni fa, un’intensa attività di pubblicità in quel senso, forse alcuni
lo ricordano. La gente la respinse ed avemmo il pratone e poi il Parco delle Valli. Ma fui il consenso
dei consumatori a consentire lo sviluppo del mercatino ad capo del parco, alla fine di via Conca d’Oro. I
consumatori del quartiere, ad un certo punto, decisero di non essere più solo gregge.
Quando i dirigenti delle nostre collettività religiose, anche in AC,
iniziano a progettare l’azione sociale, non si sa bene dove vogliano andare a
parare. Iniziano a parlare in ecclesialese,
il gergo di quegli ambienti, e chi li capisce più? Si mantengono sul vago, in
genere limitandosi all’analisi della situazione. Al dunque sembra che non
sappiano che pesci pigliare. Sembrano stretti in limiti invisibili, timorosi di
allargarsi. In realtà, anche se non
credo se ne rendano conto, si tengono ancora nei limiti fissati all’azione
sociale in religione dal vecchio Concordato concluso nel 1929 con il Mussolini,
che vietava la politica alle istituzioni religiose. Ma quel Concordato è stato
quasi completamente abrogato dagli accordi di revisione del 1984. Ora sono
stati riconosciuti come campo proprio delle istituzioni religiose la promozione dell’uomo e il bene del Paese, vale a dire la politica
(art.1 dell’Accordo di revisione 1984).
Non bisogna illudersi: anche dialogando,
non si resisterà al degrado senza azioni di lotta, e non solo di lotta interiore. La politica è anche questo. Ma nella nostra tradizione
religiosa la lotta è stata prevalentemente intesa come resistenza passiva. E la passività del papato nel corso del fascismo storico gli
è stata imputata come grave colpa, ma la sentenza dovrebbe estendersi a tutto
il popolo italiano di quell’epoca, salvo che per i tempi dopo quella
conversione di massa che consentì la Resistenza tra il ’43 e il ’45 e l’avvio
di processi democratici. La dottrina sociale, fino dall’enciclica Le novità, è stata avversa alle agitazioni di massa. Del
resto essa è espressa da sovrani assoluti. Pensare la politica di popolo è la sfida di
oggi anche in religione, ora che ci si propone di salvare il mondo (è appunto
questa la grande politica, quella con la P maiuscola.
50.
Costruire il popolo
Una volta ci si ritrovava nel dominio della
nostra Chiesa come ci si trovava in quello dello Stato e i due poteri erano
collegati: entrambi erano sacralizzati,
vale a dire assolutizzati secondo la nostra fede, e si sostenevano a vicenda
nel dominio sulla gente. Non c’era nulla da decidere per le persone e nelle
statistiche nazionali si veniva contati come cittadini e credenti religiosi in quanto
italiani. Il principio liberale “libera
Chiesa in libero Stato” era una
specie di regolamento di condominio tra oligarchie politiche. Questa era la
situazione alla caduta del fascismo storico italiano, nel 1945. E’ continuata a
lungo più o meno tale e quale anche in democrazia, durante il dominio del
partito cristiano, la Democrazia Cristiana. E’ cambiata a cominciare dagli scorsi anni
Sessanta, fondamentalmente per la de-sacralizzazione
del potere politico indotta dai
nuovi principi enunciati dai saggi del Concilio Vaticano 2°. Quella religiosa
fu presentata sempre più come una scelta,
che richiedeva un’adesione. Negli
anni ’80 si produsse una grave crisi della politica, che si sentì e fu
analizzata dagli studiosi come delegittimata, in crisi di consenso
popolare. Fu un processo causato dall’aumento del potere auto-referenziale di
oligarchie collegate ad un nuovo dominio di classe, della classe che riusciva
ad avvantaggiarsi dei processi economici globalizzati. I politici nazionali
iniziarono ad imitarne i costumi, così come taluni principi regnanti delle
residue monarchie occidentali assumevano quelli dei più ricchi. Sia in
religione che in politica la maggior parte della gente finì per essere tagliata fuori:
in religione perché non rispondente ai criteri più selettivi proposti per
ottenere il riconoscimento come credenti (l’asticella
era stata molto alzata, la religione
non era più a buon mercato); in
politica perché ritenuta incapace di capire il nuovo mondo e di interagirvi positivamente.
Dagli anni ’90 la politica, sia quella religiosa che quella civile, si separò dal popolo. Si rese autoreferenziale
dal suo consenso. Bastò accattivarsene periodicamente i consenso plebiscitario con tecniche di marketing, quelle che servono a fascinare il pubblico dei consumatori. In
religione si impiegarono i grandi eventi costruiti intorno ai papi, ingenerando un
neo-papismo di tipo personalistico che mai c’era stato prima di allora.
Il popolo ridotto a pubblico non è però
sufficiente per sostenere le politiche che servono per contrastare le minacce
che vengono da uno sviluppo economico e sociale scompensato. Le relazioni tra
le persone sono troppo labili, tendono a sfaldarsi rapidamente e
capricciosamente. Le oligarchie politiche hanno voluto assumere l’immagine di
referenti di consumatori, fascinando la
gente, e si trovano a subire il contrappasso,
una punizione corrispondente alla loro colpa, perché è una colpa aver ridotto
in quel modo i processi democratici, per cui hanno solo il credito che può
essere ottenuto con quel tipo di fascinazione,
a brevissima scadenza: si sono fatte estremamente precarie e navigano a vista.
Gli studiosi, pensando all’origine dello stato, vi videro o il risultato
di un dominio ottenuto con un atto di
forza di un’oligarchia, a cui gli
altri si assoggettano per quieto vivere, cedendo
il proprio potere sociale per desiderio
di protezione, o un patto sociale. In entrambi i casi, a partire dagli
anni ’80, il potere in Italia divenne il risultato precario di uno scambio, potere contro favori di
categoria (fenomeno che viene definito consociativismo), e poi, con l’emergere di
oligarchie di potere consumistico, il risultato ancora più precario, perché non
fondato nemmeno su un labile accordo commerciale, di una combinazione episodica
tra potere e fascinazione, per cui,
ad un certo punto, si riesce a convincere un adulto a tracciare un segno sulla
scheda elettorale, senza troppo pensarci. In questa situazione le promesse
politiche possono tranquillamente non essere mantenute e nessuno se ne adombra.
La sfida dell’oggi è quindi quella di una
nuova democratizzazione della società, costruendo relazioni forti,
una nuova trama di popolo, generando
una nuova metamorfosi da pubblico/folla a popolo
democratico.
51. Processi democratici nella costruzione di un
popolo: la festa
Nelle nostre collettività religiose lo
sviluppo di processi democratici è ostacolato dall’ingombrante gerarchia
feudale del clero. Occorre trovarle un posto e non è facile. Fatto sta che,
quando si parla di organizzarsi per fare qualcosa,
si finisce di solito per andare molto sul vago, non trattando veramente
di come si è e di come si dovrebbe o
vorrebbe essere, ma di qualche obiettivo che sta fuori di
un certo gruppo di riferimento. Si cerca sempre di mostrarsi nella
condizione di gregge, pronto a seguire pastori.
Ma che di che parlano gli esseri umani/gregge quando stanno
tra loro? Si parla in ecclesialese, il gergo/chiacchiericcio
infarcito di parole della teologia, che serve a parlare senza dire nulla, per
fare bella figura senza rischiare. Ogni decisione collettiva è frutto di
un difficile compromesso con il clero, che di solito viene raggiunto in
mediazioni riservate. Le assemblee servono solo per ratificare.
Nell’organizzarsi collettivamente gli
esseri umani sono ostacolati dai loro naturali limiti cognitivi. Secondo gli
antropologi non siamo capaci di relazioni profonde, stabili, con più di circa
centocinquanta persone. E’ chiaro però che le nostre società sono organizzate per
collettività molto, molto più vaste, e addirittura a livello mondiale. La gente
allora fa come gli uccelli nello stormo: prende le misure su quelli che sono
intorno più vicini e su chi sta avanti a tutti. Vi è poi un modo di comportarsi
in società che dipende dalle culture e consiste nel far riferimento ad un
sistema di miti e di idee: è la via delle religioni e del diritto. La cultura
allora è come una cartina topografica che ognuno tiene in tasca e dice come
fare per raggiungere un certo posto
Di solito non abbiamo bisogno di
contatti profondi con tutti quelli che incontriamo. Circolando per strada incrociamo migliaia
di persone senza mai incontrarle. Ognuno sa come comportarsi in
questi rapporti fugaci, istantanei e labili. Se dovessimo approfondire, la vita
sociale si bloccherebbe. Ora, è importante discutere di un tema che è diventato
particolarmente critico nella nostra civiltà: i rapporti che si hanno
interagendo sul WEB, su “internet”, sono di questo tipo, anche se
chi interagisce vi investe molta emotività, come per rapporti profondi. In
realtà non si creano relazioni stabili e profonde tra le persone. Questo
significa che chi sta molto su “internet” è un isolato, anche se sembra
interagire tutto il tempo con altri. E’ una condizione che spiega perché
“internet” abbia fallito nella costruzione di processi democratici, ad esempio
nelle “primavere arabe” degli anni scorsi, ma anche da noi in
politica. Che cosa corre tra le persone quando stanno su “internet”? Corre solo
la cultura altamente formalizzata, quella delle piattaforme, dei portali,
organizzata e diretta da altri (quelli che hanno il potere di ammettere e
di escludere e fissano le regole
dell'interazione), quella che consente i contatti tra utenti.
“Internet” non è quindi il regno della libertà e della spontaneità, ma il suo
contrario.
Se si considerano solo le persone più
vicine, le realtà di prossimità, si costruiscono solo gruppi molto piccoli e
dalla vita breve. Se ci si orienta sui capi, si perdono le realtà di
prossimità. Ogni potere tende ad assolutizzarsi, su grande e piccola scala, e a
togliere spazio alle altre persone. Anche nell’associazionismo religioso. Lo ha
detto anche l’attuale Papa ed è sorprendente, perché l’ingenuo papismo
mediatico e personalistico inaugurato dal Wojtyla consiste
proprio in questo. La scarsa familiarità con rapporti collettivi profondi fa
perdere senso alle culture condivise, sfascia le tradizioni. Questi,
riassumendo, sono alcuni tra i problemi principali delle società
occidentali contemporanee nell'organizzarsi collettivamente. Nell’ecclesialese corrente
sono cose risapute. Quando poi si tratta di passare dall’analisi critica alla
costruzione del cambiamento le cose si imbrogliano e ci si arresta, rimandando
alla prossima settimana sociale o assemblea.
L’altro giorno abbiamo fatto una
festa in parrocchia e abbiamo visto che le molte persone che sono venute sono
rimaste sostanzialmente estranee tra loro. E questo anche se si era organizzato
un ricco rinfresco. Di solito il mangiare insieme è una delle basi naturali degli
incontri. Era però un rinfresco in piedi, e in
occasioni del genere si tende a ruotare intorno ai
tavoli per poi trovare un posto laterale per mangiare.
Nessuno ha un proprio posto e ogni posto in cui ci si
ferma un attimo di solito non è quello che si riuscirà a conquistare
nella fase successiva. Nella socialità del party secondo il
modello statunitense (party nell’angloamericano significa
sia festa che partito), che è appunto
l’incontro di i un gruppo per un rinfresco in piedi, le persone girano
presentandosi le une alle altre, intrattenendo brevi conversazioni con molti dei
partecipanti nel corso delle quali programmano incontri
più ravvicinati e profondi, ad esempio per questioni di lavoro. Al centro
dell’evento c’è l’incontrarsi per conoscersi.
Una festa in società dovrebbe avere questo obiettivo. E’
diversa dalla festa parentale in cui ci si conosce già
tutti. Spesso le assemblee che si fanno nelle collettività religiose hanno il
tono delle feste parentali. Occorre trasformarle in feste
per conoscersi, che chiamerei feste/partito, in
angloamericano “party/party”, quelle che fanno movimento. Un
processo democratico parte da occasioni come queste. Si deve proporre un minimo
di formalità, vale a dire un rito, perché ognuno senta
di avere un posto; ci deve essere una persona di
riferimento, ma non ingombrante come un capo, quindi un potere non sacralizzato;
infine deve essere proposto il metodo, e l’etica, dell’incontro,
per cui ci si deve presentare, parlare con più persone di volta in volta per
averne un’idea più precisa, senza però monopolizzare gli altri perché questo
riduce il numero degli incontri possibili. Liturgie troppo pervasive e
formalizzate impediscono gli incontri personali. Lo stesso accade con capi
troppo ingombranti. Negli incontri personali occorre garantire una certa
libertà con l’avvertenza che è sconveniente aprirsi troppo o chiedere troppo
agli altri. Il rapporto con gli altri va costruito progressivamente, di tappa
in tappa, conoscendoli meglio. Avvicinandoli più spesso si ha occasione di
farlo. Relazionandosi su “internet” se ne ha solo l’impressione (falsa), ma si
rimane sempre allo stesso punto.
Le feste/partito sono
alla base dei processi democratici, anche di quelli popolari, di massa. Quando
i lavoratori contarono di più in società organizzarono la Festa dei
lavoratori (non del lavoro, come talvolta, sbagliando, si
dice). Un politico come Giorgio La Pira ne fu ben consapevole. Inaugurando
da sindaco, il quartiere di case popolari dell'Isolotto, a Firenze, consigliò
ai sacerdoti che erano stati inviati nella nuova parrocchia di fare
molte feste.
52. Un
lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà
[da Z.Bauman - E. Mauro, Babel, Laterza, 2015, pag.147-148]
Z.Bauman
Per noi ci sono voluti millenni perché mettessimo nell’agenda pubblica
l’abolizione della pena capitale. Per
noi ci sono voluti millenni perché vietassimo la schiavitù. E ci sono voluti
millenni perché promuovessimo l’uguaglianza dei sessi. E chi sarà tanto
arrogante da sostenere che abbiamo effettivamente raggiunto tutti questi obiettivi un volta per tutte?
Noi possiamo sperare (io lo spero quanto te) che la nostra verità si imporrà
alla fine sul pianete che abbiamo in comune, così com’è accaduto (quasi) nella
«nostra» parte del globo. Ma abbiamo comunque
bisogno di attrezzarci per la estenuante lunghezza del cammino, per la
scabrosità della strada e per la limitata affidabilità dei veicoli a nostra
disposizione. Quello che abbiamo davanti a noi da affrontare è quello che i francesi chiamano un travail de longue haleine [un lavoro di
lungo respiro, trad. mia].
In ogni caso, continuo a ripetere che fra i
veicoli disponibili per percorrere questa strada c’è il serio dialogo fondato
sulla buona volontà (informale, aperto, cooperativo, per citare di nuovo le
qualificazioni di Richard Sennet), che miri alla comprensione reciproca e al
mutuo beneficio, che meriti la massima fiducia (anche se non certo assoluta e
incondizionata). Un dialogo di questo tipo non è compito facile né -diciamolo
pure- allegro; richiede una determinazione solida e costante, capace di
resistere a ripetuti e anche molto negativi risultati, un forte senso
dell’obiettivo finale, una grande arte, e la disponibilità ad ammettere i
propri errori insieme con l’arduo e faticoso dovere di porre riparo ad essi; e
soprattutto tanta pacatezza, equilibrio e pazienza.
53. Imparare la democrazia
La democrazia non è un fatto innato, si impara. Nella società
italiana di oggi mancano gli insegnanti. Storicamente l’Azione Cattolica è
stata una delle principali scuole di democrazia in Italia: prima però ha dovuto
essa stessa impararla e, innanzi tutto, convincersi del fatto che fede e
democrazia potessero andare d’accordo. All’inizio del Novecento questa idea
veniva considerata parte dell’eresia modernista. Questo significa
che, all’origine, la dottrina sociale, le idee dei papi
sulla riforma sociale, non comprendeva la democrazia. Infatti si riteneva che i
progetti di miglioramento sociale dovessero discendere dall’alto,
dedotti con ragionamenti teologici e proclamati con autorità. Progettare il bene
veniva considerato monopolio dei papi. L’osservazione e la comprensione
realistica della società in religione vennero progressivamente, in particolare,
in Italia, con il lavoro che si fece in Azione Cattolica, dopo la sua
fondazione, che risale al 1905, e per la sua organica collegamento con la
gerarchia del clero.
La democrazia non è solo un metodo per
prendere decisioni a maggioranza, ma un sistema di valori.
Principio fondamentale della democrazia è di considerare tutti uguali
in dignità. L’uguaglianza, però, va costruita in ciascuno. Lo si fa
rendendo libere le persone, che non significa lasciarle
alle loro passioni, ma fare in modo che possano decidere consapevolmente. Senza
vera libertà, ciascuno cade preda dei più forti. Il motto del primo partito
di ispirazione religiosa, il Partito popolare italiano,
fondato nel 1919 dal prete Luigi Sturzo e da altri suoi amici, fu Liberi
e forti. Ma nessuno è veramente libero da solo. E’ la società nel suo
insieme che va liberata. Chi la libererà? “Non esistono liberatori, ma
persone che si liberano”, fu il motto di un gruppo resistenziale milanese
di cui fecero parte il prete Giovanni Barbareschi e Teresio Olivelli. La
liberazione è un compito collettivo che richiede di essere solidali, di
considerare anche gli altri, di tener conto di loro e, in particolare, di chi
sta peggio, perché non ci sono persone che abbiano più urgenza di liberazione
di quelle che stanno peggio, e di solito si sta così quando si finisce in mani
altrui. Libertà, uguaglianza, fraternità sono valori assoluti
in democrazia, sottratti all’arbitrio di qualsiasi maggioranza. Nella
nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004),
a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di
fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di
Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980
durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza,
fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione francese. In fondo sono
idee cristiane ». Quando quelle parole furono pronunciate la
democrazia non era ancora completamente una conquista culturale nella
nostra fede: lo divenne solo circa dieci anni dopo, nel 1991, con una storica
enciclica del medesimo papa, Il Centenario, in occasione dai cento
anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna. C’è voluto quindi un
secolo perché, in religione, l’idea di riforma sociale fosse abbinata a
processi democratici. Ma si tratta di un conquista che va rinnovata di generazione
in generazione.
L’idea che proprio la Chiesa insegni la
democrazia appare ancora oggi un po’ strana. E’ il residuo, in genere
inconsapevole, del passato. Chi parla di democrazia in religione a volte viene
collegato con i comunisti. La bestia nera della prima
dottrina sociale fu il socialismo. Urtava pensare che le masse dovessero
liberarsi con un proprio movimento sociale e non attendere la giustizia sociale
da chi dall’affermarsi della giustizia sociale avrebbe subito solo un danno
patrimoniale. In effetti socialisti e comunisti, e in particolare questi
ultimi, dovettero imparare la democrazia negli stessi anni, e con le stesse
difficoltà, in cui lo si fece in religione. Imparandola, la
trasformarono. La innervarono di idee di giustizia sociale molto più che alle
origini. A lungo i comunisti ritennero la democrazia un imbroglio borghese, in
particolare constatando che, anche dopo l’introduzione del suffragio
universale, le masse davano credito elettorale a chi non faceva, o non
faceva del tutto i loro interessi. Come può succedere? Successe perché, in
ambito democratico, si temperarono le asprezze sociali, venendo incontro a chi
stava peggio. Si raggiunsero accordi che convennero a tutti. La crisi di quegli
accordi è all’origine di quella della società di oggi. Non è un caso che si
accompagni ad una crisi dei processi democratici: la gente non ha fiducia nella
democrazia e chi comanda cerca di avere il consenso fascinando i
singoli, più che coinvolgendoli nelle decisioni collettive.
54. Democrazia
e virtù
C’è in giro l’idea che la democrazia sia politica debole e corrotta. Ci
è rimasta dal fascismo, tramandata di generazione in generazione.
In realtà vediamo come dalla Seconda Guerra Mondiale, finita nel 1945,
più della metà del mondo è stata dominato da grandi democrazie piuttosto
bellicose, quindi forti. E la
democrazia si regge su un sistema di virtù
personali e collettive, senza le
quali non può esistere. Una delle principali è la giustizia: non ci arrende
alle prepotenze. In democrazia il potere è condiviso, ma non lo si può fare
senza essere giusti, perché, altrimenti, l’arbitrio di pochi sarà legge. In
democrazia non si impiegano le potenti polizie politiche costruite dai
principali totalitarismi suoi avversari. Ciascuno osserva le leggi per poter
essere liberi: è cosa che si è capita fin dall’antichità sulla democrazia. La
violazione della legge è vista come arbitrio e prepotenza. Può accadere che,
ragionando seriamente e nell’interesse comune, collettivo, si finisca per
ritenere una legge ingiusta e quindi non degna di una democrazia: ma non è decisione che si prende a cuor leggero. Chi
viola una legge di solito lo fa di nascosto e non vuole essere scoperto. Chi,
in circostanze eccezionali, non osserva una legge perché ingiusta, e quindi
indegna, lo fa apertamente, subendone le conseguenze. Questo rientra nel metodo della non-violenza
praticato e insegnato dal politico indiano Mohandas Karamchand Gandhi, Mahatma
cioè grande anima, (1869-1948).
In un sistema politico non democratico viene
insegnata la virtù dell’obbedienza incondizionata. In democrazia l’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola
delle tentazioni, come scrisse Lorenzo Milani. In democrazia non si
osservano le leggi per obbedienza, ma
perché è giusto fare così. Le singole leggi possono essere
anche imperfette, quindi ingiuste, ma sono frutto di procedure
condivise e possono essere cambiate nello stesso modo: non sono nelle mani
dell’arbitrio di nessuno. Se lo fossero, non ci sarebbe più la democrazia.
Ripeto questo insegnamento che ci viene dall’antichità: la democrazia è un
sistema in cui ciascuno pone dei limiti al proprio arbitrio, non per obbedienza o peggio per paura, ma perché tutti si possa
essere liberi. E’ per questo che il grande filosofo greco Socrate, vissuto
nell’Atene del 5° secolo dell’era antica, decise di assoggettarsi alla condanna
capitale che gli era stata inflitta, benché, a suo avviso, ingiusta.
Senza virtù personali e collettive le democrazie muoiono, finiscono. Le
democrazie che appaiono corrotte e deboli sono democrazie che stanno morendo.
E’ in fondo questa la causa della crisi anche della nostra democrazia. Si tiene
troppo poco conto degli altri, delle loro sofferenza, in particolare quando
agiamo da consumatori. Così ci facciamo complici dei carnefici di chi sta
peggio nel mondo.
Per insegnare la democrazia bisogna innanzi
tutto far riscoprire le virtù democratiche. Si vedrà che in questo modo la
società funziona meglio. Lo si può fare fin da bambini: mai umiliare, mai far
soffrire, mai escludere, dividere ciò che si ha, mai tradire la fiducia degli
altri, resistere all’arbitrio e alla violenza. E’ cosa che un tempo si imparava
nei giochi collettivi: ora i ragazzini fanno vita da piccoli monaci. Il primo
passo potrebbe essere questo: fare bei giochi di gruppo in parrocchia.
55. La salvezza dell’umanità come problema
religioso e politico
La salvezza dell’umanità in questo
mondo non è stata sempre un problema religioso: lo è diventata, anzi, molto di
recente. Da quando si è cominciato a ragionare in grande. Si è iniziato a farlo
da metà Ottocento, ma è dalla metà dello scorso secolo che si è cominciato
progressivamente a capire che l'intera umanità era minacciata
di annientamento. Quindi è molto importante conoscere la storia degli ultimi
due secoli. Sono quelli in cui tante prospettive religiose sono cambiate,
appunto perché si è cominciato a pensare in grande, oggi si dice su
scala globale, tenendo conto, appunto, di tutta l’umanità.
Questo pone un problema che riguarda la teologia dei secoli precedenti, la
quale si è sviluppata in una prospettiva diversa. Le questioni che trattava non
erano quelle che sono oggi al centro della nostra attenzione. Con la teologia è
in questione anche l’intera formazione religiosa, che consente di tramandare
una tradizione di generazione in generazione.
A lungo, molto a lungo, le questioni
di salvezza erano trattate a partire dall’anima.
La morte è un fatto umano ineludibile, lo tocchiamo con mano, letteralmente. In
religione si è convinti che l’essenziale di noi sopravviva, che si vada
incontro a un giudizio dopo la morte, e che alla fine dei tempi tutto ciò che
siamo risorga, anima e corpo, per il premio eterno o la dannazione
eterna. Quali saranno i criteri del giudizio? Si sarà giudicati da come ci si è
comportati nella vita fisica, terrena. La vita religiosa dovrebbe essere quella
che porta al premio eterno. Questo è stato, dalle origini e praticamente fino
all’altro ieri della storia, il principale problema della religione. Il
miglioramento della società veniva considerato in questa prospettiva, che, per
la verità, è ancora quella di molti, specialmente dei più anziani, perché la
formazione personale puntava a quello, e allora aveva molto importanza, ad
esempio, la devozione personale. La persona pia si sforza di essere buona e
questo impegno, se si diffonde in una società, la migliora. C’era ad esempio, e
c’è ancora naturalmente, la questione della penitenza, quella mortificazione
che ci si impone perché si sa di aver agito male, per correggersi ma anche per
dimostrare concretamente di volerlo fare, e quindi poi per non essere esclusi
dalla salvezza eterna. Ma la salvezza dell’anima,
nell'aldilà, non è la stessa cosa della salvezza
dell’umanità qui in questo mondo, che significa creare, oggi, durante
questa vita, società migliori, non solo persone pie, e ciò per diminuire la
sofferenza e fare di tutta l’umanità una sola famiglia (così si
espressero i saggi dell’ultimo Concilio). Se si prende questa via, se ci si
propone questo tipo di salvezza, allora si pongono questioni
specificamente politiche, perché la politica è l’azione collettiva
per organizzare le società. In religione si è sempre fatta politica, anche
molto prima che la nostra fede divenisse anche ideologia politica dell'impero
mediterraneo in cui si diffuse, dal Quarto secolo della nostra era. Non sarebbe
potuta diventarlo se non si fosse ragionato di politica già prima.
Del resto la condanna del Maestro fu motivata come punizione di un
crimine politico: l’aver voluto farsi re. Questo anche se egli non
fu certamente un capo politico. La politica venne dopo, quando si trattò di
dare un’organizzazione a collettività sempre più vaste. Ma troviamo traccia di
questo pensiero politico già negli scritti sacri nella nostra fede, in
particolare nell’ultimo libro che li compone, dove, dopo la prefigurazione di
una serie di immani tragedie della storia umana, in cui si criticano aspramente
le prassi politiche del dominio romano, c’è la visione di una nuova
città che scende dall’alto, perché tutto quello che c’era prima
non c’è più, e allora sarà asciugata ogni lacrima. La politica è parte
importante del pensiero del teologo e vescovo nord-africano Agostino d’Ippona,
vissuto tra Quarto e il Quinto secolo della nostra era: ne trattò in un libro
intitolato La Città di Dio, nel quale si contrappongono due
concezioni della politica viste come in conflitto insanabile.
Presto le nostre organizzazioni
religiose si diedero struttura politica e iniziarono a fare politica
trattando con i sovrani civili. Più o meno dall’Ottavo secolo il vertice
religioso ebbe un piccolo regno nell’Italia centrale e fu anche un
sovrano civile. Si ritenne che questo fosse indispensabile per trattare da pari
con gli altri sovrani. Due secoli dopo quel vertice volle farsi impero e
quindi dominare tutti gli altri sovrani, dettare
loro legge da un trono religioso. La giustificazione di questo potere
rivendicato come supremo, e talvolta anche riconosciuto effettivamente come
tale, era che consentiva di ammaestrare le genti, per farne collettività devote
e in tal modo per condurle alla vita eterna. La salvezza terrena dell’umanità
era fuori del campo d’azione praticato: per questo non si mise in questione che
potessero esserci guerre, anche molte sanguinose, alcune delle quali promosse
direttamente o comunque assentite dai capi religiosi. Né, in genere, costituì
un problema religioso il genocidio degli amerindi, delle popolazioni di antica
origine asiatica che i colonizzatori europei trovarono scoprendo le
Americhe, attuato da potenze europee sacralizzate secondo la
nostra religione. Né, più vicino a noi e a riguardo della politica italiana, lo
costituirono le sanguinose guerre coloniali attuate dal Regno d’Italia in
Eritrea ed Etiopia, abitate da genti della nostra fede benché di altra
confessione, e in Libia. In Etiopia ci fu un fatto di sterminio di religiosi,
come vendetta militare. Si consideravano tutti questi eventi come fatti umani
fisiologici dal punto di vista sociale e, in definitiva,
insuperabili, se non alla fine dei tempi. L’importante è che ai morituri e
morenti fosse aperta la via per la vita eterna, attraverso l’ammaestramento
religioso. A tal fine occorreva garantire immunità al clero, ai religiosi (gli
appartenenti a congregazioni di frati, e suore, monaci e monache) e ai loro
beni. Raggiunta questa, in particolare mediante concordati e
altri accordi, conclusi e formalizzati al modo di quelli che si
concludevano tra potenze civili, non si considerava che occorresse fare molto
altro, dal punto di vista politico, e, anzi, si accordava di buon grado
la sacralizzazione al potere civile con cui ci si era,
sostanzialmente, federati. L’essere anche un potere civile al
modo di uno stato, più che la sua maestà religiosa,
sottraeva il papato al dominio degli altri sovrani civili. Il papato fu
concepito molto presto come un potere assoluto e questo lo espose al degrado
etico a cui sono soggetti i poteri politici senza limiti. Questo fu
particolarmente sensibile intorno all’anno Mille, ma la situazione non migliorò
sostanzialmente fino al Cinquecento, secolo in cui, stimolati dalla Riforma
luterana, si diede un migliore profilo etico ai poteri ecclesiastici.
Fino a quell’epoca, come per le dinastie politiche sacralizzate non
si esigeva che i regnanti fossero personalmente e in
tutto rispettosi dei precetti religiosi, si adottarono gli stessi
criteri per determinare la coerenza morale dei poteri religiosi, che si fecero
lecito una parte di ciò che vietavano ai fedeli comuni e che rientrava nelle
abitudini correnti dei regnanti. Quindi, a lungo non ci furono molte differenze
tra un principe civile e uno religioso, in particolare nel modo in cui si
relazionavano con i loro sudditi. L’attuazione della
giustizia sociale come oggi la intendiamo non era considerata
indispensabile per i regnanti, i quali se ne occupavano molto poco.
La situazione iniziò a mutare con
l’emergere dei processi democratici di massa, nell’Ottocento e in Europa e
nelle parti del mondo colonizzate dagli europei. Inizialmente fu in questione
la libertà, che presto in teologia si diffamò come arbitrio,
licenza immorale e insubordinazione. Poi, con lo
strutturarsi di movimenti di massa, in particolare di quelli socialisti,
cominciò ad essere rivendicata la giustizia sociale, sulla base di eguaglianza
in dignità e di solidarietà civile. Tutti i
poteri assoluti furono minacciati e dovettero venire a patti politici,
fondamentalmente ponendo dei limiti al proprio potere, in particolare
concedendo statuti. Il papato non vi fu costretto perché, nel
processo di unificazione nazionale, nel 1870 perse il suo piccolo regno
italiano, rimanendo solo una potenza religiosa. Si sentì menomato. Reagì
politicamente cercando di suscitare un movimento di massa ostile ai movimenti
liberali e nazionalisti che dominavano la politica dell’invasore, del Regno
d’Italia, e che lo avevano spinto contro il piccolo regno del papato. Utilizzò
ciò che c’era già, vale a dire il vasto e multiforme mondo dell’associazionismo
solidale che si era formato in Italia su ispirazione religiosa, animato dal
clero di base, e i ceti colti che avevano suscitato. dal Settecento, la
polemica religiosa contro l’Illuminismo. Volle animare il
popolo minuto, in particolare quello del mondo contadino, ritenuto ancora
fedele al suo potere, a differenza della borghesia liberale. Per farlo costruì
una dottrina di giustizia sociale, quella che viene definita dottrina
sociale, che è parte del magistero, quindi della teologia insegnata
d’autorità dal papato. Questo generò un pensiero sociale e correnti
democratiche: si pensava anche a una democrazia animata dai valori
sociali della fede. A cavallo tra Ottocento e Novecento si venne a una
resa dei conti tra esse e quelle, dette intransigenti (verso
lo stato liberale), che ponevano al centro di tutto i diritti politici violati
del papato e i suoi interessi patrimoniali colpiti pesantemente dalla prima
legislazione del Regno d’Italia (il clero e gli ordini religiosi erano, e sono,
tra i maggiori proprietari immobiliari). Intervenne il papato d’autorità, tra
il 1902 e il 1906, scomunicando, nel vero senso della parola, le correnti democratico
cristiane, e costruendo l’Azione Cattolica, come
movimento di indottrinamento di massa secondo la dottrina sociale. Questa
organizzazione ebbe uno straordinario successo popolare, in particolare fra le
donne. Fu la maggiore scuola di politica di massa fino agli scorsi anni ’70.
Era organicamente collegata alla gerarchia del clero, che ne nominava i capi.
Quando il papato romano si compromise con il regime fascista, nel 1929, risolvendo
la questione romana con i Patti Lateranensi, ritornando
sovrano politico nel quartiere romano di Borgo e ricevendo ingenti indennizzi
patrimoniali, fu spinta a fascistizzarsi politicamente, ma le sue
organizzazioni intellettuali, FUCI(gli universitari) e Movimento
Laureati Cattolici, resistettero, svilupparono un pensiero politico sociale
autonomo sulle suggestioni del personalismo francese dei filosofi Jacques
Maritain ed Emmanuel Mounier e formarono la classe politica che, dopo aver
partecipato alla guerra di Resistenza contro il regime fascista e l’occupante
tedesco combattuta tra il 1943 e il 1945, dominò poi la politica democratica
italiana fino al 1994, sostenuta dalle masse di Azione Cattolica.
A partire dalla Prima Guerra Mondiale
(1914-1918) nella dottrina sociale comparì il tema della pace.
Non si arrivò ancora a contestare il diritto dei poteri civili di fare
guerra, ad esempio liberando i militari dall’obbligo di fedeltà ai governi
che la proclamavano. Ma si iniziarono a qualificare come inutili le
stragi belliche. Inutili perché? Così furono definite da un
papa verso la fine di quella guerra, nel 1917. Sembrava che le controversie
potessero essere risolte con accordi:
“un giusto accordo di tutti
nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e
garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento
dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi,
l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme
da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di
sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la
decisione.” [dalla lettera del papa
Giacomo della Chiesa - Benedetto 15° ai capi delle nazioni belligeranti, del
1-8-1917].
E, allora, perché la guerra?
In primo piano, però,
non apparivano le stragi, ma il disordine politico conseguente
ai conflitti. Per progredire nell’ideologia di pace occorse altro tempo e
un’altra guerra mondiale.
Dalla Prima Guerra Mondiale
l’Europa uscì molto cambiata e in modo del tutto inaspettato per i più. I
movimenti politici di massa emersero con particolare forza, perché le
masse erano stato molto ideologizzate per spingerle verso il conflitto (è solo
così che si convince la gente ad andare a farsi ammazzare): in diverse nazioni
europee finirono nel dominio di organizzazioni fasciste e in Russia dei
bolscevichi comunisti. Vent’anni dopo si combatté un’altra guerra mondiale, che
viene considerata un po’ come una prosecuzione della prima. L’Europa orientale
finì sotto il dominio dell’Unione Sovietica e nell’altra si svilupparono
movimenti democratici di massa, salvo che in Spagna e Portogallo, rimasti nel
dominio di regimi di tipo nazionalista e fascista non colpiti dalla guerra in
quanto non vi avevano preso parte. Il mondo si divise in due: la parte con
economia capitalista e l’altra con economia comunista. Entrambe le potenze
egemoni nei due schieramenti avevano l’arma nucleare e si constatò che una
guerra nucleare, con l’impiego di quelle armi, avrebbe portato alla fine
dell’umanità, per la ricaduta di particelle radioattive derivate dalle
esplosioni. Fu proprio a quel tempo che il problema della salvezza
dell’umanità in questo mondo cominciò a diventare un problema anche
religioso. Quest’ultimo fu al centro di uno dei documenti più
importanti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), la costituzione La
gioia e la speranza.
L’appello
alla Politica con la “P” maiuscola che
ci è venuto recentemente dal Papa si inserisce in quel filone ideologico.
E' tale infatti la politica che si propone la salvezza dell’umanità, in
questo mondo, mediante la riforma sociale. Essa ha anche un valore
religioso, perché senza umanità non ci sarebbe più fede e
si ritiene che la fede venga pregiudicata dalla distruzione massiva delle
collettività umane. Dagli anni ’90, dopo la fine della contrapposizione
armata tra blocchi e quindi della possibilità concreta
dello scoppio di un conflitto nucleare terminale, al centro delle
preoccupazioni vi è lo sviluppo economico globale basato
sulla competizione aggressiva, disordinata, insofferente dei
limiti e riluttante alla solidarietà: è questo che, secondo molti osservatori,
minaccia la sopravvivenza degli umani, portando al rapido degrado degli
ambienti naturali e sociali. Questo tema è al centro dell’enciclica Laudato
si’, del 2015, ma era stato già trattato in precedenti documenti
del genere. La novità sta nell’appello all’azione politica, e anche alla lotta,
di massa per evitare la catastrofe naturale e sociale. In un certo senso da noi
cade nel momento sbagliato, perché in Europa la politica è in crisi, sia quella
di governo che quella di massa. Occorre riproporne i fondamenti e, innanzi
tutto, riprendere ad educare alla politica. L’educazione alla
politica comincia facendone tirocinio. Lo si dice, ma raramente si
riescono a fare progetti in materia. E se poi la situazione ci sfuggisse di
mano? E se, invece, la situazione ci fosse già sfuggita di mano e, in
definitiva, imparare la politica fosse l’unico modo per cambiare una situazione
che va rapidamente degenerando?
56. Educare alla
democrazia globale
Il mondo è diventato interconnesso su
scala globale. Che significa?
Ieri sono stato al grande magazzino che
c’è vicino casa mia è ho comprato: un cappello, due cravatte, una cintura. Ho
guardato le etichette: tutti sono stati fatti in Cina, dall’altra parte della
Terra. E così è per la gran parte degli abiti che indossiamo e degli oggetti di
uso quotidiano. Ma anche di ciò che mangiamo. E’ una situazione che ci
conviene, come consumatori, perché i prodotti hanno prezzi bassi, alla portato
delle masse, in Europa. Lo sono perché i lavoratori, nei posti dove vengono
prodotti, vengono pagati meno che da noi. Ma anche perché da quelle parti è
arrivata l’automazione e il lavoro produce di più. E’ un fenomeno che è
iniziato più o meno negli anni ’80 del secolo scorso. All’inizio era le
imprese occidentali che organizzavano stabilimenti dove il lavoro veniva pagato
di meno, per aumentare i propri profitti. Ora, però, comincia ad essere
diverso. Anche lì dove si andava a produrre perché il lavoro costava meno si
stanno organizzando grandi imprese locali che si stanno rendendo autonome dagli
occidentali: anche se questi ultimi riportassero in Occidente le produzioni, la
situazione, quindi, non cambierebbe; fallirebbero presto sotto la concorrenza
dell’estero, a meno che il lavoro iniziasse a costare molto meno o i processi
di automazione progredissero molto di più. Quello che sembra incomprimibile è
il profitto, l’utile netto che viene a chi possiede le imprese, detratti
costi di produzione. Ma anche se le imprese che producono le merci di uso
quotidiano decidessero di accettare di ridurne l’entità, non potrebbero farlo,
perché le imprese di produzione sono sempre in debito verso che presta loro
il denaro per produrre. Quando vanno in crisi e falliscono il loro tesoro ha
già da tempo preso il volo, sotto forma di restituzione di prestiti.
Quando i lavoratori reagiscono occupando le fabbriche scoprono che sono sono di
proprietà dei datori di lavoro, erano tutte in prestito.
Non ci sono norme che consenta di coinvolgere la responsabilità di chi ci
ha tanto guadagnato, finché le cose andavano bene. La legge stabilisce una limitazione
di responsabilità. Chi controlla l'economia opera in gran parte in
regime di limitazione di responsabilità. Ad occuparsi delle macerie
sociali che lascia sono le istituzioni pubbliche, alle quali però, per varie
ragioni, mancano le risorse per farlo.
Il denaro è una merce come le altre. Chi
commercia il denaro controlla l’economia. Non produce, non ha nazionalità, né
stabilimenti: il denaro, nel mondo di oggi, può viaggiare velocemente e
rapidamente, sulle reti telematiche che avvolgono il globo. E’ al sicuro dalle
crisi economiche appunto perché può spostarsi in quel modo ed è diventato un
bene immateriale, essenzialmente un fatto contabile. Tutto questo è consentito
da una fitta rete di accordi internazionali, da una realtà giuridica a livello
mondiale che non era pensabile fino agli anni ’80, con il mondo diviso in due
blocchi contrapposti, con sistemi giuridici profondamente diversi. Non ci sono
strumenti giuridici per collegare i grandi profitti che, anche in tempi di
crisi, derivano dal commercio del denaro a responsabilità sociali quando le
cose agli altri vanno male. Il capitale, il denaro impiegato in attività
d'impresa, si può sganciare molto rapidamente da qualsiasi
crisi: tutto coopera a questo, il diritto e la tecnologia.
E’ appunto negli anni ’80 che tutto è cambiato, perché, in definitiva,
si è scelto di produrre e commerciare secondo le stesse norme giuridiche, che
consentono al capitale quella grande libertà. L’effetto sociale, a
livello globale, è che chi è coinvolto in vari modi nel commercio del denaro,
come proprietario di denaro o come collaboratori dei proprietari di denaro,
come i dirigenti d’impresa, gli avvocati, i commercialisti, i proprietari di
brevetti industriali per le nuove invenzioni che servono nella produzione e che
danno diritto a compensi se sfruttate, è emerso, sta molto meglio di tutti gli
altri, mentre i lavoratori, a livello mondiale, si stanno allineando su livelli
di reddito più bassi, molto più bassi. Per gli occidentali questo ha
significato una riduzione dei redditi. In Oriente e in altre parti del mondo è
stato diverso, perché, rispetto alla situazione di prima, i redditi sono
aumentati. I consumatori sono in maggior parte lavoratori. Per loro, come
consumatori va ancora bene, perché le merci costano poco. Per farle costare
poco bisogna pagare meno i lavoratori, i quali, quindi, progressivamente hanno
meno denaro da impiegare nei consumi. Per favorire i consumi si riducono le
retribuzione dei lavoratori, o si cerca di produrre dove le retribuzioni sono
più basse o si riducono i lavoratori impiegando l’automazione. A livello
mondiale, le norme che consentono al sistema di funzionare, non pongono limiti.
La solidarietà funziona, e sempre meno, solo all’interno di
ogni singola nazione, o, al più, all’interno di ogni
singola federazione di nazione. Tutto ciò è all’origine dei problemi
sociali che affrontiamo oggi.
Se un problema è di
dimensioni globali, può essere affrontato a livello locale?
Evidentemente no. Eppure spesso è questa la soluzione che viene proposta dalle
politiche nazionali e non solo in Italia. E’ in questione la giustizia
sociale. Ma lo è su dimensione globale e non ci sono
soluzioni valide che non comprendano anche di farsi carico di genti lontane,
dove si producono le cose di nostro uso quotidiano. Ecco perché oggi la sfida è
quella di creare una democrazia globale per ottenere che nei
fatti dell’economia si tenga conto anche della maggioranza della gente che
produce e consuma e non solo della piccola minoranza della finanza che
controlla il mercato del denaro. L’impegno è questo, per ciascuno di noi,
perché la democrazia è basata su ciascuno di noi: bisogna convincersi innanzi
tutto che di questa situazione siamo tutti responsabili,
in quanto in qualche modo complici di chi l'ha determinata, e
che, insieme, si può cercare di cambiarla. Non è infatti un evento della
natura, come i temporali e i terremoti, o un prodotto di volontà
soprannaturale, ma solo una costruzione umana. E' stata fatta e la si può
cambiare.
57. Il contributo della religione ad una nuova
democrazia globale
Pensare in termini di
sopravvivenza dell’umanità è un’esigenza nuova e infatti riesce difficile ai
grandi come ai piccoli. In religione si hanno le risorse per imparare a farlo.
Ma solo da pochi decenni la teologia ha cominciato a ragionarci sopra e quindi
questo suo lavoro, ancora troppo recente, non si è tradotto effettivamente in
processi formativi delle masse dei fedeli. In passato si è in genere ragionato
il termini dipopoli di fedeli contrapposti alle potenze infedeli che
si opponevano alla religione. Nelle guerre ci si sforzava di convincersi che il
Cielo stesse dalla propria parte. La guerra, in definitiva, veniva considerata
come un fatto umano insuperabile se non alla fine dei tempi, un flagello come
gli eventi naturali avversi, una catastrofe come un terremoto o un ciclone o un
stagione di forte siccità. Nel mondo globalizzato di oggi si ricomincia a
pensarla così, non si esclude la possibilità di conflitti anche di grande
entità: è la cultura internazionale, quella praticata da chi domina il mondo, a
spingere verso questo modo di ragionare. Sembra che la sopravvivenza
dell’umanità non si più legata ad un ordine pacifico mondiale. Quello su cui
tutti concordano è un ordine giuridico mondiale che consenta la massima libertà ai
capitali, sia di movimento che di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. Un
pensiero che va in direzione contraria è quello espresso nell’enciclica Laudato
si’, del 2015, nella quale sono sintetizzate le idee critiche sulla
situazione globale.
Di solito nei conflitti chi sta
meglio in società ha più probabilità di scamparla. A rimetterci sono di solito
le masse, e questo anche se sono spinte le une contro le altre con la
prospettiva di rapinare le ricchezze altrui e di guadagnarci, come fecero i
fascismi europei. Chi predicava, da noi, la guerra come igiene nel
mondo, non pensava a sé stesso come sporco da eliminare,
ma alle masse, che trovava imbelli e troppo attaccate alle loro misere cose. E’
una situazione che fatalmente si ripropone tutte le volte che si ricomincia a
pensare al conflitto come via di risoluzione delle controversie tra i popoli.
La nostra Costituzione lo vieta, ma questo finora non ha costituito un serio
problema, quando i capi politici hanno deciso che era il momento di fare di
nuovo guerra. L’Italia è infatti impegnata su diversi fronti di guerra. Nella
Costituzione c’è anche il collegamento tra lavoro e democrazia e il divieto di
umiliare il lavoro, lo ha ricordato il Papa l’altro giorno a Genova. “E’
anticostituzionale”, ha detto. E’ così: un ordine che umilia il lavoro vacontro la
Costituzione vigente in Italia, è quindi eversivo. E’ significativo
che sia rimasto quasi solo un Papa a proclamarlo alle masse, e per di più un
Papa americano, venuto veramente da un altro mondo. Da noi con molta disinvoltura
si passa sopra alla volontà delle masse, anche quando si è espressa
formalmente, ad esempio con la richiesta di referendum sui tagliandi-lavoro,
quella forma di retribuzione veramente poco impegnativa per chi utilizza il
lavoro, senza ferie, senza sicurezza nella malattia e in gravidanza, senza
limiti d’orario di lavoro, senza garanzie di qualifica, insomma senza
vera responsabilità sociale. Si era chiesto un
referendum sulla legge che li prevedeva. Si sono raccolte le firme sufficienti
perché fosse indetto. Allora si è cambiata la legge e si sono aboliti i tagliandi-lavoro.
Il referendum, così, non si farà più. Ma dopo poco tempo, mesi addirittura, li
si vuole reintrodurre con un'altra legge. Così per ottenere che la questione
venga sottoposta al voto popolare bisognerebbe raccogliere le firme non una, ma
due volte.
Si parla di queste cose e si viene
presi per agitatori sociali. Ma in effetti è proprio questo che occorre
diventare. Il quieto vivere non ripara le masse nei conflitti. Se non si agitano
soccomberanno, avranno la peggio. E’ sempre andata così. Nei conflitti vengono
strumentalizzate, ideologizzandole, perché le guerre devono pur essere
combattute da qualcuno, qualcuno deve rischiare la pelle e tutto ciò che ha e
che è, ma di solito le combatte veramente chi ha solo da rimetterci,
comunque vadano le cose. La storia ce lo insegna. Così la Festa della
Repubblica, che si celebra il 2 Giugno, non dovrebbe essere centrata su una
parata militare. Si celebra la scelta del popolo italiano, il 2 giugno 1946, di
essere una repubblica, da regno che era. Questa scelta fu possibile solo con il
ritorno della pace, che era avvenuto circa un anno prima. Fu allora che,
finalmente, il popolo fu ascoltato. Si era conquistato il diritto ad esserlo,
cambiando profondamente, in un processo che era stato propriamente una
conversione di massa. Non era scontato che ci si riuscisse dopo decenni di
indottrinamento in senso contrario. In Germania, ad esempio, il processo fu
molto più lento. In Italia, però, c’erano le premesse per riuscirci più
rapidamente. Non fu un caso che dal 1946 al 1994 la politica italiana sia stata
dominata da un partito cristiano, ispirato alla dottrina sociale.
Di solito la democrazia viene
inquadrata in un orizzonte di tipo nazionalista: da noi quello, richiamato
nell’inno nazionale, dei fratelli d’Italia. E’ già molto,
naturalmente, in una nazione che a lungo fu divisa in tanti staterelli e che
solo di recente ha conquistato una lingua comune. Si capì che divisi si
contava di meno in campo internazionale. Ma ora questo non basta più. Si deve
ragionare su scala globale e in questo si è favoriti dal fatto che i costumi
dell’umanità si sono molto ravvicinati negli ultimi cinquant’anni. Viaggiamo di
più, sappiamo di più. Il problema è quello di incontrarsi veramente
per suscitare un movimento mondiale che potremmo definire della pace e
del lavoro. Una potenza così c’è già ed è appunto, attualmente, la nostra
Chiesa. Nella quale tuttavia le dinamiche democratiche sono solo allo stato
embrionale. C’è molto da fare. E si può cominciare da realtà locali, come
quella della parrocchia.
Fare tirocinio di democrazia globale richiede
una visione religiosa, che consenta di pensare in grande. Essa permette di
porsi dal punto di vista del Cielo. Ma richiede anche la pratica dei valori democratici,
prima ancora che dei metodi democratici. In parrocchia
sembra che la gente conti poco, che ci sia o non ci sia in fondo non è
così importante, le cose vanno avanti lo stesso, e infatti partecipa poco. Viene
più che altro da spettatrice. Invece la democrazia esige quel tipo di giustizia
che viene definita giustizia partecipativa: occorre fare qualcosa,
impegnarsi, contribuire al lavoro collettivo, non si tratta solo di alzare la
mano o di infilare una scheda in una scatola per votare. E’ partecipando che
si conquista il diritto ad essere considerati, a contare veramente. In una
dinamica così, l’autorità del parroco virerà progressivamente, di fatto, da
quella di un funzionario locale di un principato religioso a quella di un
presidente di assemblea. A partire dal tirocinio locale di democrazia globale
le cose possono cambiare. E’ da realtà così che sono emersi molti dei
capi politici democratici di oggi in Europa occidentale. Non è come negli Stati
Uniti d’America, in cui di solito si riesce a salire al vertice
solo se si è molto ricchi e, in genere, da diverse generazioni. Si tratta di
riprendere quel lavoro di formazione che in una realtà come l’Azione Cattolica
si è sempre fatto, dalla sua fondazione, ripensandolo, tuttavia, per la realtà
globalizzata di oggi.
58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare
i mondi vitali
Negli anni ’70, in Italia
si visse un periodo di crisi sociale, politica e religiosa, ma non si era
d’accordo nell’individuarne le cause e nel prevederne le prospettive. Si
chiedeva consiglio ai sociologi, i profeti dei tempi moderni, e loro
rispondevano. Mio zio Achille era uno di loro. C’era chi si aspettava molto dal
nuovo capitalismo che cominciava ad essere osservato, quello che oggi domina il
mondo; c’era invece chi confidava ancora di poter trasformare la nostra società
secondo i principi del socialismo; c’era chi voleva innanzi tutto liberare le
persone dalle costrizioni sociali: mio zio sviluppò una teoria che vedeva nella
crisi dei mondi vitali, i luoghi sociali in cui si produce il senso
personale e collettivo della vita, l’origine dei problemi. In questa visione la
dimensione giusta per ripartire era a livello locale, di prossimità.
Oggi tutti sono d’accordo sulle cause della
crisi e sui suoi sviluppi. Si sa come andranno a finire le cose. Ci si divide
tra chi ritiene questo processo ineluttabile, come lo sono i terremoti e le
eruzioni vulcaniche, e pensa che non resti che cercare di adattarvicisi, e chi
ancora vorrebbe reagire per cambiare il corso degli eventi. Alcuni, e tra essi
gli autori dell’enciclica Laudato si’, pensano che sia in questione
la sopravvivenza dell’umanità, che quindi, procedendo così come si sta facendo,
si andrà a finire molto male; altri prevedono solo la fine di forme sociali che
sembravano molto radicate e che invece si stanno rapidamente sfaldando. Le fini
dei mondi sociali non sono mai indolori. Negli scorsi anni ’70 si era però
ottimisti sulle prospettive: dalla fine del Settecento i cambiamenti sociali
avevano prodotto, sia pure attraverso percorsi piuttosto travagliati e in
particolare conflitti accesi, miglioramenti di massa, un aumento del benessere,
almeno tra gli europei, quelli del nostro continente e quelli della
colonizzazione delle altri parti del globo. Le previsioni di oggi non vanno in
quel senso. In particolare, si è convinti che, se anche si sopravvivrà, ci sarà
molta meno libertà. Si costruiranno ingranaggi sociali e giuridici che
incastreranno gli individui in ruoli molto definiti; le società saranno
dominate da oligarchie molto ristrette, che accentreranno il controllo della
gran parte delle ricchezze e che troveranno sempre minori limiti. Già oggi è
sensibile questa nuova situazione. I sociologi osservano che il nostro profilo prevalente
è quello di consumatori: le nostre scelte sono in gran parte orientate da
tecnologie su base psicologica, da persuasori che ci fanno
sentire a disagio, strani, se non seguiamo certe abitudini.
La progressiva mancanza di libertà
incide sulla tradizione religiosa e questo benché storicamente la religione sia
apparsa spesso in antitesi con la libertà delle persone, come un sistema molto
costrittivo di limiti sociali controllato da oligarchie gerarchiche con
molte pretese. La modernità è stata quindi vista come un processo
di liberazione da questo giogo. In realtà la possiamo
concepire come un processo di sostituzione di un ordine con
un altro, anch’esso molto pervasivo. Ma al fondo delle esigenze religiose c’è
un’esigenza di libertà: si pensa infatti che ci sia una verità sulle
persone e la loro vita che rende liberi. Essa è stata all’origine
di tutti i movimenti di riforma religiosa. Ed anche
all’origine delle democrazie contemporanee, che si basano sull’idea religiosa
che si sia tutti creati uguali. Essa risultava evidente
ai rivoluzionari statunitense i quali nel 1776 proclamarono:
“Riteniamo verità evidenti che tutti gli
esseri umani sono stati creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi
inalienabili Diritti, e tra questi quello alla Vita, alla Libertà e alla
ricerca della Felicità”.
Questi principi giustificavano, secondo loro, non solo
la secessione dalla monarchia europea di origine, ma anche
una rivoluzione sociale.
Evidente significa che
non ha bisogno di essere provato. Quelle verità lo sono ancora? Fino agli
scorsi anni ’70 lo sembravano ancora. Ma la cultura sociale è molto cambiata. E
certe convinzioni sono messe a dura prova della realtà contemporanea, in
particolare dai rimescolamenti di popoli prodotti dalle migrazioni
caratteristiche della globalizzazione, per cui dall’altra parte del
mondo non ci vengono sono le merci di uso comune, ma anche altre vite umane.
Una realtà che, alla fine del Settecento, quando iniziarono i processi
democratici contemporanei, con difficoltà si poteva immaginare e prevedere in
tutti i suoi sviluppi. I rivoluzionari statunitensi che ho ricordato non
avevano difficoltà, ad esempio, ad importare e impiegare manodopera schiava
nelle loro aziende agricole.
In definitiva la nostra fede fa
resistenza agli sviluppi della globalizzazione che tutti più o
meno prevedono. La prospettiva di un’umanità ridotta a un formicaio non
soddisfa da un punto di vista religioso. Si pensava di farne un’unica
famiglia. Ecco quindi che nell’enciclica Laudato
si’ troviamo espresse idee che hanno una portata rivoluzionaria
rispetto alla mentalità corrente. Si va be’, rivoluzione, ma chi la
farà poi? Non si vede all’opera un agente rivoluzionario. Le nostre
collettività, in genere, sono state dalla parte di chi dominava, hanno cercato
accordi, accomodamenti, hanno sacralizzato più o meno tutti i
poteri che ambivano ad esserlo. Va a finire che anche adesso finirà così. Ma
non sarà così semplice farlo. Perché si dovrebbe rinunciare a cose essenziali,
ribaltare la dottrina. Ci si sta pensando? L’altro giorno, su Avvenire,
è sorta una polemica sul personalismo, che è la via alla
democrazia e alla libertà originata nell’ambito della nostra fede e che gente
della nostra fede ha inserito tra i principi fondamentali della Costituzione
vigente: c’è chi vorrebbe abbandonarlo e chi invece replica che occorre
praticarlo fino a tutte le sue conseguenze. Fa difficoltà attribuire i diritti delle persone proprio
a tutti gli esseri umani; non potendo negarglieli, perché
questo modo di fare è ancora vissuto come sconveniente, si pensa di
abbandonare l’idea di persona e il personalismo.
Mio zio Achille, quando gli chiedevano che
fare, dava ricette concrete. Suggeriva, ad esempio, di fare i congressi di
partito e delle grandi associazioni in piccoli paesi, in modo da pervaderli
totalmente suscitando o rafforzando realtà di mondo vitale. Nel
1986 il congresso nazionale del partito cristiano, all’epoca ancora
egemone, si tenne a Cervia, in Romagna, proprio nella piazza davanti casa sua.
Oggi gli esperti che ci chiariscono con molta precisione le cause della crisi,
al dunque non ci sono utili per definire vie di resistenza e di cambiamento. E’
il neocapitalismo all’origine di tutto, ma loro, in sostanza, ci dicono di
insistere su quella strada, quella della competizione e dello sfruttamento.
Alcuni pensano di reagire chiudendosi in comunità corazzate:
è questa la via che molto a lungo, fino all’ottobre del 2015, si è seguita in
parrocchia. Ora la gente è molto sospettosa, teme di venire catturata,
ha ripreso a venire numerosa, ma, a qualsiasi proposta di impegno, risponde in
genere come Trump al Papa durante la visita di qualche giorno fa, che ci
penserà tra qualche giorno. Rivitalizzare le realtà di mondo
vitale del quartiere può essere una buona prospettiva. Se la gente
ritrova il senso della vita si impegnerà nuovamente in un lavoro comune. Non va
sottovalutato l’impatto che un quartiere può avere nella vita cittadina.
Migliaia di persone sono una massa critica, vale a dire sufficiente
per innescare una reazione sociale significativa, ad esempio a influenzare
l’offerta di mercato, quindi l’economia locale, orientando i consumi. In
definitiva si apre la prospettiva di una vita più bella. In particolare per i
più giovani. Quando i genitori chiedono loro se vogliono proseguire sulla via
della Cresima, spesso i bambini tentennano. Non sanno di che si privano. Del
resto sono bambini. E i genitori lo sanno?
La prima cosa su cui riflettere, in
un’ottica di rivitalizzazione di mondi vitali, è quella che viene
definita giustizia partecipativa. E’ molto importante nei processi
democratici. Chi si riconosce, oggi, in debito di
partecipazione? Eppure, a pensarci bene, è chiaro che siamo addirittura
insolventi in questo campo. Ognuno se ne sta un po’ sulle sue. E’ il consumismo
che ci spinge a questo. Un consumatore isolato è indifeso, malleabile: è questo
l’ideale per i tecnologi persuasori. Non c’è critica sociale se si
rimane isolati. E’ questo il limite gravissimo della democrazia
digitale che si vorrebbe sostituire a quella formale, basata
sulla tradizione democratica. La sensazione di libertà che ciascuno ha
digitando avanti al proprio pc è falsa. E’ solo incontrandosi che
ci si libera. Questa è appunto la via della religione. Ancora oggi, nel
nostro quartiere, il suono della campane chiama alla vita comune.
59. Festa della Repubblica
Il 2 Giugno è una festa civile: la Festa
della Repubblica. Si fa memoria di un evento storico accaduto il 2 giugno
1946: gli italiani, e per la prima volta anche le donne, votarono per scegliere
se l’Italia dovesse essere un regno, sotto la dinastia Savoia, o una repubblica
ed elessero i componenti di un’Assemblea Costituente, che dovevano scrivere una
nuova costituzione dello stato, sostituendo lo Statuto entrato in vigore nel
1848. Le ultime elezioni libere si erano svolte nel 1924, ventidue anni prima,
gli anni del regime fascista mussoliniano. L’Azione Cattolica aveva svolto un
ruolo molto importante nella formazione politica delle masse, in particolare
delle donne. Dal voto popolare uscì la scelta per la repubblica e per un regime
istituzionale di democrazia popolare, in quanto prevalsero i partiti che si
proponevano di realizzarlo.
Ma non si festeggia solo un evento
storico, accaduto ormai tanti anni fa. Le persone ancora viventi che vi
parteciparono hanno oggi dai 92 anni in su (la maggiore età e quindi il diritto
al voto erano fissati all’epoca a 21 anni). Si festeggia, in fondo come per i
compleanni delle persone, che la repubblica democratica sia ancora in vita e
vitale. Essa è affidata al popolo, che si rinnova di generazione in
generazione: vanno tramandati principi e procedure, nel tempo in cui le
generazioni più anziane coesistono con le più giovani, prima di sparire. I
regimi politici sono parte della cultura di un popolo, del sistema di costumi,
concezioni e regole che rendono possibile l’organizzazione della vita
collettiva. Le culture cambiano, di generazione in generazione, e così i
sistemi politici. Chi è al potere cerca di solito di resistere al cambiamento:
è stato l’assillo di tutte le dinastie regnanti, ma anche di ogni altro gruppo
egemone nei regimi politici. Se si è convinti della bontà del regime
politico democratico repubblicano, allora c’è da festeggiare constatando che è
durato fino ad oggi. Non si è mantenuto sulla forza delle armi. Per questo la
Repubblica non dovrebbe essere festeggiata con una parata militare, ma con una
grande evento gioioso di massa in cui ci sia spazio per la riflessione
politica. Dovrebbe sfilare il popolo. La repubblica in Italia è sorta con il
ritorno della pace e, fino ad oggi, non ha mai dovuto essere difesa con le
armi. Questo perché ha scelto la via della pace e ha sviluppato politiche di
pace, all'interno di grandi organizzazioni internazionali che avevano il
medesimo obiettivo, in questo distinguendosi nettamente sia dalla politica del
regime fascista, ma anche da quella dei governi del Regno d’Italia dall’Unità
nazionale all’avvento del regime fascista, che si fa risalire al 1922.
Attualmente l’Italia è impegnata con proprie forze militari in diversi fronti
di guerra, ma non per ragioni di difesa. Il più sanguinoso è quello
dell’Afghanistan, con 59 morti e oltre 600 feriti. La motivazione di questi
impegni militari è il mantenimento della pace nel quadro dell’azione di
organismi internazionale.
Oggi repubblica e democrazia sembrano
strettamente collegati e addirittura sinonimi, come se volessero dire la stessa
cosa, ma non è così.
Democrazia è quando il potere viene
condiviso tra molti secondo regole che consentono la partecipazione
collettiva, limitando i poteri di ciascuno e stabilendo
principi giuridici di giustizia sociale per contenere
gli arbitri dei potenti. Cominciò ad essere praticata e teorizzata nell’antica
Atene, in Grecia, nel Sesto secolo dell’era antica.
La repubblica, termine che deriva
dal latino e che in quella lingua significava “cosa pubblica”, è invece
un’invenzione culturale dei romani. All'inizio equivaleva a “stato” e
significava la separazione giuridica, stabilita quindi da norme pubbliche
formali, tra i poteri, gli interessi e i patrimoni della classe politica
egemone e quelli destinati all’uso pubblico nell'interesse della collettività.
Fu un notevole progresso culturale. Nelle monarchie arcaiche, dei tempi
molto antichi, che in genere si erano sviluppate come estensione del potere di
un maschio adulto sulle persone della propria famiglia a lui soggette e sui
suoi beni, tutto apparteneva al sovrano, persone e cose, non c’era distinzione
tra le cose “sue” e quelle della collettività. Nell'antica civiltà romana
continuò ad esserci uno stato, quindi una “repubblica” in quel senso, anche
quando in essa si svilupparono degli imperi di tipo dinastico, nei quali quindi
la successione al vertice poltico avveniva tra generazioni di un’unica
famiglia.
Qual è la distinzione fondamentale tra
repubblica e monarchia? In una repubblica chi domina lo stato lo fa
nell'interesse pubblico, non nel proprio interesse o in quello della sua
famiglia. Pensa di aver ricevuto un mandato, un incarico, in tal senso. In una
monarchia, invece, il sovrano pensa di avere personalmente, o come membro di
una dinastia, il diritto di supremazia politica, come cosa che
gli appartiene. Si è visto che all'origine di ogni monarchia vi è un atto di
forza, di violenza. Stabilizzandosi, ogni monarchia cerca una giustificazione
sacrale del proprio dominio, per collegarlo a una volontà divina e renderlo più
stabile.
In una monarchia dinastica, come era
quella dei Savoia nel Regno d’Italia, il diritto politico del
sovrano passa di genitore in figlio, secondo regole giuridiche, quindi formali.
Ma, all'inizio di ogni dinastia monarchica, vi è sempre un capostipite che non
ha giustificato in tal modo il suo potere: è il caso di Napoleone Bonaparte,
quando dal 1804 divenne imperatore dei francesi, cambiando
la forma di stato da repubblica democratica a monarchia assoluta.
Chi ci assicura che il figlio del
monarca sia all'altezza, o migliore, del suo genitore? Nessuno. Spesso, anzi, è
accaduto proprio il contrario. Questo è il limite delle monarchie dinastiche. E
comunque il potere monarchico tende a degradarsi nel tempo, perché è legato
alla persona, anche fisica, del monarca, che con l'invecchiamento degrada, e
non di rado degenera al modo in cui accade ai poteri assoluti o con pochi
limiti. Nelle repubbliche democratiche si cerca di mandare al potere supremo i
migliori, e comunque se ne prevede la periodica sostituzione: non vi sono
poteri a vita. Nell’Italia della repubblica democratica questo in
genere è accaduto, se si considerano i Presidenti della Repubblica, che hanno
preso il posto dei re.
Storicamente ci furono repubbliche, nel
senso di sistemi politici non dominati da un sovrano, dinastico o non, non
democratiche. Non fu democratica, ad esempio, la Repubblica Sociale Italiana
mussoliniana, che controllò l’Italia del Centro-Nord, con capitale a Salò sul
lago di Garda, tra il 1943 e il 1945. Né lo fu lo stato repubblicano
franchista, che dominò la Spagna tra il 1939 e il 1975 (paradossalmente in
Spagna il ritorno della democrazia coincise con la restaurazione di una
monarchia dinastica). Non fu, di fatto, democratica l’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche, durata dal 1917 al 1991, perché dominata da
un’oligarchia di partito. Non furono democratiche, in parte della loro storia,
diverse repubbliche Latino-Americane, quando caddero nel dominio di oligarchie
dispotiche, in genere di origine militare, che si sottrassero al controllo
politico attuato mediante libere periodiche elezioni politiche. La democrazia
di popolo, come oggi la intendiamo e pratichiamo, è stata un’importante
conquista culturale anche per le repubbliche.
Vi sono state e vi sono monarchie che
incorporano principi repubblicani e democratici. Sono così tutte le attuali
monarchie europee, a seguito di un processo politico iniziato nel Settecento
(ma in Inghilterra addirittura nel Duecento). Attraverso statuti,
che significa sostanzialmente costituzioni, si stabilirono
dei limiti ai poteri delle dinastie regnanti e questo fece spazio alla politica
democratica. Nello stesso tempo furono giuridicamente distinti patrimoni,
poteri e interessi delle dinastie regnanti da quelli degli stati.
Storicamente si è pensato che le
monarchie producessero un ordine sociale migliore e più stabile. In realtà la
storia non conferma questa opinione. E’ un’idea che deriva dalla
sacralizzazione del potere monarchico e quindi da una cultura indotta per
stabilizzarlo, sottraendolo al cambiamento sociale. La realtà è che le
monarchie hanno sempre teso ad assolutizzarsi, ad estendere il loro potere, e
questo le ha poste in conflitto con gli altri poteri sociali compresenti: sono
state quindi sempre impegnate, in genere e fino ad epoca piuttosto
recente, in congiure di palazzo violente e sanguinose. Le democrazie vennero
diffamate dalle monarchie come poteri disordinati e arbitrari: nell'epoca
moderna si sono manifestate tutto l’opposto, quando e finché sono rimaste tali.
Questo perché le democrazie moderne sono non solo un sistema di limiti a poteri
arbitrari, ma anche di principi di giustizia sociale.
In un sistema repubblicano nessuno deve
arrogarsi il potere di appropriarsi della cosa pubblica e di identificare i
propri interessi con quelli dello stato. Questo significa che si deve
combattere la corruzione della politica, che consiste appunto in quello. In un
sistema democratico nessun potere è senza limiti, sia in durata che in
estensione, e si attivano procedure di controllo di come il potere pubblico
viene esercitato. Tutto questo richiede una intensa e costante partecipazione
popolare. L’idea che il popolo entri in ballo solo al momento delle elezioni
politiche non è né repubblicana né democratica, ma da aspiranti oligarchi,
futuri monarchi assoluti. In un sistema realmente democratico, chi vince alle
elezioni, e governa, deve sopportare il costante controllo popolare. Lo dice la
nostra Costituzione repubblicana all’art.49, dove si riconosce il diritto
dei cittadini di associarsi liberamente per concorrere a determinare la
politica nazionale. Il primo indice della degenerazione di un potere
democratico è quando chi comanda vuole mani libere fino alle elezioni
successive.
Il papato domina da sovrano
assoluto la Città del Vaticano, l’entità indipendente che ha contrattato con il
Mussolini, nel 1929 concludendo i Patti Lateranensi. E’ un simulacro di stato
stabilito nel quartiere Borgo di Roma (nel Trattato che lo istituisce non viene
mai definito stato). Il regno papale sulla Città del Vaticano
è un regime politico arcaico che non è indispensabile né per motivi religiosi,
per difendere e propagare la fede, né per motivi politici, per garantire
l’indipendenza del papato: infatti nessuno stato oggi è
veramente sovrano, tutti devono soggiacere a limiti internazionali,
compresa la Città del Vaticano e il suo monarca. Anche la nostra Chiesa, che è
cosa distinta dalla Città del Vaticano anche se ha lo stesso re, è organizzata
come una monarchia assoluta. Anche in questo caso non ve n’è una necessità
teologica o politica.Primato non significa
necessariamente impero. All'interno della nostra
organizzazione religiosa si stanno sviluppando, dagli scorsi anni Sessanta,
processi democratici. L’organizzazione monarchica assoluta, al modo di un
impero, è un portato storico, in particolare dell’epoca feudale, dall’Ottavo
secolo, in cui il papato acquistò una indipendenza politica via via sempre più
estesa e intensa. Che ne dobbiamo fare? Non è necessario fare una rivoluzione
per cambiare le cose, perché comunque stanno già cambiando. I connotati
politici di quel potere si sono infatti molto affievoliti. Le altre monarchie
ancora vigenti non sentono più la necessità di una loro sacralizzazione secondo
la nostra fede: in Europa la stabilità del loro ruolo è garantita dalle norme
costituzionali. Anche nel papato si comincia a ragionare in questo modo per
quanto riguarda la politica ecclesiastica: la politica del papato si va
anch'essa desacralizzando. I principi repubblicani e
democratici mettono la gente al riparto dagli eccessi che nel passato i nostri
sovrani religiosi hanno manifestato. Dal 1991 il papato ha accreditato la
democrazia come regime politico preferibile, in quanto rispondente alla dignità
degli esseri umani. Questo, nel lungo periodo naturalmente, produrrà delle
conseguenze. Innanzi tutto possiamo fin da ora cogliere l’occasione per
approfondire la riflessione personale e collettiva sulla democrazia e per farne
pratica. Teniamo conto che la Costituzione vigente è piena di principi
che sono originati dalla nostra dottrina sociale e che, addirittura, uno dei
principi fondamentali che regola il funzionamento dell’Unione Europea, quello
di sussidiarietà, ha la stessa fonte. I principi repubblicani e democratici non
ci possono più rimanere estranei. Gente nostra è stata protagonista nel loro
sviluppo e nella loro affermazione. Anche da persone di fede, benché ancora
sudditi di una monarchia religiosa assoluta, possiamo quindi fare festa oggi.
60. Il lavoro dell’istituzione
Le collettività umane nascono e
muoiono, così come gli esseri umani. Le istituzioni, queste invenzioni delle
culture umane fatte di storie, tradizioni e norme, danno loro continuità,
consentendo loro di rigenerarsi: in questo modo si cerca di tramandare ai più
giovani il patrimonio di concezioni, conoscenze, costumi acquisito dalle
generazioni più anziane. Ogni istituzione vale se fa questo lavoro senza
impedire il progresso dell’umanità. Di solito chi comanda in una società cerca,
in misura maggiore o minore, di strumentalizzare le sue istituzioni per rendere
più stabile il proprio potere. E’ cosa che si produsse con effetti spettacolari
nelle monarchie sacralizzate europee. Sacralizzare, vale a dire collegarle a
una volontà soprannaturale, le istituzioni della politica ha consentito di
proiettarle molto avanti nel futuro e di conservarne molto efficacemente
l’ordine. Ma si è trattato pur sempre di una strumentalizzazione, perché rimane
vero che ilregno immaginato nella fede non è di
questo mondo. Sono le istituzioni che dovrebbero rimanere strumento,
non la fede. Se avviene l’inverso, e nella nostra confessione è accaduto nei
due millenni della sua storia, la fede ne risulta impoverita, quanto le
istituzioni in tal modo sacralizzate vengono esaltate immaginificamente.
Una parrocchia è anche un’istituzione,
ha dimostrato di saper dare continuità alla socialità umana, e lavora nel campo
dell’integrazione tra vita personale e sociale e la fede religiosa, ma non è
sacralizzata, non strumentalizza la fede, la serve. Nel 2015 la nostra
parrocchia era sostanzialmente morta come corpo sociale, aveva esaurito
un suo ciclo storico, ma continuava a rimanere come istituzione. Questo ha
consentito di attivarne una rigenerazione sociale. Non è più tanto importante
capire il perché della crisi, perché si tratta del passato e del resto le sue
cause sono molto chiare: ora è importante partecipare alla rigenerazione.
Possiamo riconoscere che, come istituzione, la parrocchia ha fatto ciò che ci
si attendeva, quello per cui era stata costruita. Ora deve rigenerarsi come
collettività.
Quello che è successo nella nostra
parrocchia è accaduto molte volte, storicamente, ed anche su scala molto
maggiore, nelle nostre collettività sociali. Si osserva una continuità nei
secoli, che è in gran parte di istituzioni e di cultura, ma le società dei
fedeli sono morte e si sono rigenerate molte volte. A volte si pensa,
sbagliando, di poter riproporre il passato. Ma i morti non ritornano. La via
reazionaria non è mai quella giusta.
La nostra fede non c’è stata da sempre,
ha avuto un inizio, dal punto di vista sociale. Prima c’erano altre religioni,
molto antiche. Non bisogna mai pensare che gli antichi non fossero religiosi.
Per convincersi del contrario basta osservare i ruderi dei grandi templi
dell’antichità. Anche le religioni che c’erano prima della nostra avevano delle
istituzioni. Quand'è che quelle fedi si sono dissolte? Quando sono mutate le
istituzioni che le sorreggevano. In particolare quanto non servirono più per
sacralizzare la politica. Questo dimostra che erano piuttosto strumentalizzate.
Ma la gente comune vi faceva affidamento ed è proprio per questo che le si
strumentalizzava: servivano a chi dominava le società di allora a rafforzare la
propria egemonia politica.
Perché la nostra fede è sopravvissuta
alla desacralizzazione delle politica che si è prodotta in Europa e nelle parti
del mondo che seguivano i costumi degli europei tra il Settecento e
l’Ottocento? Fondamentalmente perché ha prodotto un sistema di valori che si è
tradotto in un codice di diritti umani che è al fondo della
nostra civiltà e che orienta anche la politica, indipendentemente da questo o
quel gruppo egemone e da qualsiasi strumentalizzazione. Le istituzioni sociali,
animate da quei valori, cooperano a mantenere la fede come un’opzione sensata
nella società. Ma la desacralizzazione dei poteri politici impedisce di
strumentalizzarla: è l’applicazione del principio della laicità
dei poteri pubblici e della politica.
In un’istituzione come la parrocchia
viene custodito anche il patrimonio culturale di quei valori, ma esso può
sopravvivere senza apporto sociale fino ad un certo punto, non indefinitamente.
Ecco perché è urgente impegnarsi nella rigenerazione sociale della parrocchia.
Non si tratta più tanto di seguire un capo o delle regole: la parrocchia è
istituzione ormai desacralizzata, questo
non basta. I valori che propone devono rivivere nella gente, in particolare
nelle nuove generazioni. Riviverli, di vita in vita, significa anche
attualizzarli, reinterpretarli: le generazioni si riproducono ma non sono mai
la copia identica le une delle altre. In chiesa non si mette in scena sempre lo
stesso spettacolo, come certe volte accade a teatro, e allora ci sono una serie
infinite di repliche, anche per anni, che però, ad un certo punto,
finiscono. Se uno viene in chiesa da
spettatore, solo da spettatore, ad un certo punto vedrà lo spettacolo
liturgico-religioso tolto dal cartellone. E' accaduto. Tante chiese sono state
riciclate come certi cinema sono diventati grandi magazzini, quando molto
a lungo sono stati disertati dal pubblico. Però, ciò che si mette in
scena in parrocchia è in realtà il valore dei
valori, l’agàpe, che è incontrarsi gioiosamente facendo spazio a tutti:
essa non morirà mai, è scritto. Riuscire a farlo dipende da come ciascuno e
tutti collettivamente viviamo, oggi, i valori della
nostra fede.
61. Politica e conflitti sociali
Le società umane si manifestano sempre in
tensione, tra individui, gruppi più o meno estesi, aspiranti al dominio. Uno
degli scopi della politica è di impedire che i conflitti distruggano la
società. A questo serve, in particolare, il diritto, lo si è capito fin
dall’antichità: si vuole evitare che le persone corrano alle armi, era proprio
questa l’espressione usata dagli antichi giuristi. Chi fa le leggi? Chi riesce
a dominare la società in un certo tempo. Cambiando questa situazione, cambiano
anche le leggi. C’entra qualcosa la giustizia? Bisogna intendersi, innanzi
tutto, su che cosa essa sia.
Nel Sesto secolo, in Grecia,
l’imperatore romano Giustiniano, in una monarchia
imperiale ormai sacralizzata secondo la nostra fede, comandò di creare una
grande raccolta di leggi e opere giuridiche e vi fece inserire anche un manuale
di diritto. Quest’ultimo si apriva con una definizione di giustizia: la
costante e perpetua volontà di dare a ciascuno il suo, non
fare male agli altri, vivere onestamente. Ci basta? Su piccola scala, nei
rapporti tra privati, sì, ma quando si parla di fatti sociali, della
dimensione pubblica, non basta più, bisogna ragionarci sopra ancora, ma
fondamentalmente le idee di base rimangono quelle.
Se in una società aumentano molto le
diseguaglianze sarà necessaria una violenza sempre maggiore per mantenerla
pacifica, vale a dire per impedire che insorgano conflitti che ne mettano in
pericolo l’integrità. Se non si è disposti a organizzare e sviluppare la
violenza che è necessaria, occorre cambiarla rendendola meno diseguale. Non è
cosa molto lontana da noi. E’ il problema sociale che ci assilla proprio di
questi tempi, anche in Italia.
Rendere meno diseguale la società ha a
che fare con la giustizia? Alcuni dicono che ognuno ha ciò che si
merita. Ha meritato nel senso che non ha rubato ciò
che ha, lo ha guadagnato in modo legale. Perché dovrebbe
privarsene per darne una parte agli altri? E’ l’argomento che si utilizza di
solito per chiedere una riduzione delletasse. In democrazia le tasse
servono appunto anche a rendere la società meno diseguale: in passato venivano
considerate come uno strumento di giustizia sociale, ai tempi nostri vengono al
contrario considerate come un arbitrio ingiusto. Perché poi si dovrebbe tassare
maggiormente chi è più ricco, come stabilisce la nostra Costituzione
all’art.53? Non sarebbe più giusto stabilire una percentuale
di tassazione uguale per tutti, per i grandi ricchi come per i meno ricchi? E perché
tassare ciò che si lascia in eredità?
In realtà si può argomentare che
nessuno ha poi veramente meritato tutto ciò che gli è capitato
di ottenere in società. L’ha ottenuto perché ne ha avuto
l’opportunità sociale. La ricchezza, nella complesse civiltà contemporanee, è
sempre un fatto sociale, a cui tutti collaborano, e dipende dalle regole che ci
sono in un certo momento, fatte da chi la società riesce a dominare, la parte
che spetta ai singoli. Ciascuno, naturalmente, collabora in maniera diversa,
ma tutti collaborano. Sono le regole sociali che danno
un valore alla collaborazione di ciascuno, a distribuire le parti. E, allora,
se tutti collaborano, non è giusto che
alcuni siano esclusi dal benessere che quella ricchezza sociale dà.Dare
a ciascuno il suo. Ricordate? E’ uno dei criteri di giustizia stabiliti
dagli antichi. Perché, poi, se la ricchezza è un prodotto sociale, ma in
definitiva viene privatizzata a beneficio di troppo pochi, alla fine le masse
di chi sta peggio, organizzandosi, possono anche decidere di farla finita con
regole sociali che le umiliano e le escludono e lottare per
averne di diverse. Per mantenere soggette le masse allora occorrerà una
violenza sempre più estesa e intensa, ma essa richiederà anche molta gente che
vi collabori, molta polizia e sempre più violenta, e ad un certo punto,
peggiorando molto le cose, perché l'ingiustizia tende a moltiplicarsi, ad
espandersi, generando sempre maggiore sofferenza sociale, essa non basterà più.
E comunque, a quel punto, la politica avrà fallito in uno dei suoi scopi
principali: evitare che la gente corra alle armi.
Se uno eredita un patrimonio,
come ha meritato? Chi glielo ha lasciato ha avuto
l’opportunità sociale di metterlo insieme e la società,
alla sua morte, non ha veramente alcun diritto? E, soprattutto, la regola per
cui il patrimonio passa agli eredi è una costruzione sociale, conferisce agli
eredi una opportunità sociale veramente privilegiata. Grandi patrimoni
significano anche maggior potere sociale. un tempo anche gli stati passavano di
genitore in figlio, tra generazioni di monarchi di una dinastia, ma ora si sono
posti dei limiti sociali, le regole sono cambiate, e anche nelle
monarchie ancora regnanti il potere che passa da una generazione
all'altra è molto meno, la società ha preteso il suo. Sono i processi
democratici che lo hanno reso possibile: essi infatti sono anche un sistema di
limiti ai poteri che si esercitano in società. Si è visto che i poteri
condivisi stabilizzano meglio la società, funzionano meglio nel creare
opportunità sociali di benessere, richiedono meno violenza per essere
mantenuti. Nella stessa linea è razionale stabilire dei limiti anche alle
successioni ereditarie tra privati (lo si è fatto nel grande e non lo si
dovrebbe fare nel piccolo?), restituendo alla società ciò che in definitiva da
essa proviene, una parte dei patrimoni lasciati da chi muore: lo si fa non
arbitrariamente, ma secondo regole precise, che stabiliscono delletasse.
E’ onesto questo
modo di pensare, o è voler rapinare i patrimoni privati?
La dottrina sociale ci dice che è onesto, perché i beni della
creazione sono destinati a tutto il genere umano. Ma ci si può arrivare
anche a prescindere da argomentazioni religiose. La ricchezza è un fatto
sociale e la società quindi deve avere il suo.
Si parla di pace, ma
da ciò che ho scritto è evidente che ci può essere una pace giusta e una
ingiusta. La pace giusta è di solito condivisa da più persone di quella
ingiusta, che di solito è imposta con la violenza e genera risentimento e
voglia di rivalsa. La pace giusta deve essere difesa dall’arbitrio dei gruppi
più potenti, ma è più stabile perché è condivisa da molti; quella
ingiusta è sempre precaria, perché esposta alla reazione dei più. La pace
giusta è quella che dà alla società il suo.
Si sostiene che la politica ha un valore
religioso, ma naturalmente ci si riferisce, oggi, alla politica
volta ad una pace giusta. Non è sempre stato così, ne dobbiamo essere
consapevoli. Tutto sommato ci è andata bene, per il tempo e il posto in cui
siamo nati e viviamo. Ad altri storicamente, e anche nei nostri stessi tempi, è
andata molto peggio. Ma che accade quando l’ordine giusto è minacciato? Bisogna
difenderlo con coraggio. I conflitti insorgono: occorre affrontarli. Spesso in
religione si è tentato solo di sopirli o di negarli, quando addirittura non si
è parteggiato per un ordine ingiusto ma conveniente per l'organizzazione
religiosa. Questa è la religione che è stata definita come un anestetico per
chi sta peggio. Oggi è diverso, certo. C'è unadottrina sociale che
insegna autorevolmente i principi della pace giusta.
Come affrontare i conflitti sociali
avendo come obiettivo una pace giusta, che comprende anche riconoscere agli
altri, anche nei conflitti, il bene fondamentale, quello della vita, per cui
non si ammette con leggerezza di farli fuori a fini di pace sociale?
Nel secolo scorso c’è chi ha escogitato
una via veramente nuova: lateoria e la pratica della nonviolenza,
che è metodo di lotta sociale basato sull’idea di non fare del
male agli altri (un altro dei principi di giustizia formulati dagli
antichi).
62. La giustizia come
metro dei sistemi sociali
Ci sono diversi metodi per misurare gli
effetti dei sistemi sociali.
Si possono valutare, ad esempio, secondo
i morti che producono.
Se una potenza regionale cambia
politica, si potranno contare i morti in più che ci saranno, specialmente se
diventa meno sensibile al valore della giustizia. Se lo fa una potenza globale
le conseguenze saranno molto maggiori. Ma accade anche su scala molto più
piccola ed anche molto piccola. Si è osservato, ad esempio, che una
classe scolastica in cui prende piede il bullismo tra ragazzi può fare morti e
che quindi questa non è più una cosa da ragazzi, ma veramente
molto seria. In Italia da poco ci hanno fatto addirittura una legge sopra, per
combattere il bullismo informatico, quello praticato mediante i
telefonini, in danno dei minori.
Un metro abbastanza efficiente per
valutare i fatti sociali, in particolare le organizzazioni, è quello della
giustizia. Anche in questo caso può essere impiegato su piccola scala, ad
esempio nel caso di una parrocchia.
La giustizia è un valore sociale e ha a
che fare con l’etica, vale a dire con i criteri che in società si scelgono per
definire il bene e il male e per orientare al bene. Ma vi possono essere etiche
ingiuste, come avviene nei regimi politici totalitari, classisti o in quelli
schiavisti. La giustizia è un valore meno malleabile dell’etica. Finché gli
altri esistono, sorge un problema etico, che consiste nel decidere come
comportarsi con loro, che può essere risolto in modo giusto o ingiusto.
Un’etica ingiusta suona come paradossale. Se però
consideriamo che una delle esigenze della giustizia è il non
fare male agli altri, come ritenevano gli antichi giuristi, allora un’etica
come quella proposta dal fascismo storico, che si proponeva la guerra,
risulta ingiusta, perché fa male agli altri. Se l’ambiente
naturale, che serve a tutti per vivere, è minacciato dalle attività umane e una
grande potenza decide di ignorarlo perché fare diversamente comporterebbe una
riduzione del suo benessere sociale, questo è ingiusto perché
fa male agli altri, propone un'etica ingiusta come quella che dice la
"mia nazione viene prima di tutto". Ragionare in questo modo, in
un mondo interconnesso su scala globale come il nostro, rende impossibile la
sopravvivenza di tutti. E quelli che sopravvivono, perché riescono con la forza
a mettere sotto i piedi gli altri, si ritrovano in ambiente degradato, che fa male
anche a loro.
In una parrocchia
bisognerebbe praticare la giustizia, perché quest'ultima è anche un valore
religioso. Uno dei principi della giustizia è dare a ciascuno il suo.
Se comprate l’Osservatore romano, il quotidiano edito dal papato, nell’intestazione
trovate scritto, in latino, proprio quel principio, “unicuique suum”,
a ciascuno il suo. Ma se troppa gente non trova più in una parrocchia quello
che avrebbe dirittodi trovare, vale a dire il
suo in questo senso, allora significa che qualche cosa non va.
Non è giusto. Una parrocchia dovrebbe essere un sistema
sociale inclusivo fondato sulla giustizia. A lungo abbiamo avuto problemi in
questo campo, da noi alle Valli, e dall'ottobre 2015, con l'arrivo di un nuovo
pastore, si sta cercando di cambiare. Lediversità che c’erano
ancora negli anni ’80 sono state ritenute ad un certo punto come cattive e
si è cercato di ridurle, costruendo una certa etica piuttosto esigente. L’etica
non dovrebbe esserlo? Dipende da che cosa esige. L’altro giorno, qui a
Roma, al raduno di un movimento religioso che ha molto successo in
società, si è proposto il modello delle diversità riconciliate.
Ci si riconcilia quando si dialoga e si trova un modo di convivenza, che è
anzitutto coesistenza. L'etica dell'uniformità,
mediante riduzione della diversità, e quella dellariconciliazione delle
diversità possono essere entrambe esigenti, vale a dire
molto impegnative, ma, innanzi tutto sono diverse e
hanno effetti sociali diversi. Ma non solo sono diverse,
sono anche incompatibili,alternative, o l'una o l'altra.
Bisogna scegliere. E non basta essere in buona fede, quasi sempre lo si è
in religione, perché la scelta siagiusta; occorre anche tenere
conto realisticamente degli effetti sociali che vengono prodotti, come dovrebbero
fare i politici di governo quando scelgono una certa politica e allora
dovrebbero tener conto dei morti in più che faranno.
Ogni etica sociale è collegata ad un
assetto politico, perché è chi comanda in società che fa le regole. Questo
accade nel grande come nel piccolo. Se si vuole che la riconciliazione prenda
piede in una società, occorre aumentare il livello di giustizia conformandovi
l’etica.
Nelle
scritture sacre vi sono delle storie di tremenda violenza. La violenza è un
fatto umano. Ad un certo punto i profeti immaginarono che dall’Alto si
sarebbero stroncate le guerre, ma questo non è mai
diventato realtà, se non per breve tempo. Se uno immagina di essere,oggi,
alle porte di Gerico e che il Cielo gli ordini di urlarle e di cantarle contro,
contro la città pagana e infedele, perché
poi le sue mura crolleranno e si potrà, e anzi si dovrà, sterminare (nel senso
di rendere uniforme o escludere) tutto ciò che di vivente c’è dentro, e ci
costruisce un’etica sopra sviluppando una politica corrispondente, poi avrà più
o meno ciò che ha immaginato, più o meno, intanto però
avrà una situazione di conflitto insanabile, in cui lui urla contro gli altri,
che rimangono a guardarlo dietro le mura. Il fascismo volle la guerra, l’ebbe,
ma non andò come immaginava dovesse andare. Così va la storia
umana. Si miete ciò che si è seminato, ma non sempre si raccoglie ciò che si
immaginava di ricavare.
Adesso si sta cercando di rendere
la parrocchia un ambiente molto più accogliente per gli altri, cambiando
atteggiamento verso di loro. E’ una scelta etica, naturalmente, che è in linea
con le regole dettate da chi comanda ora nelle nostre collettività religiose e
che ci spinge a una diversità riconciliata. Ma è cosa che ha a che
fare con la giustizia, perché accogliendo, quindi includendo,
dà a ciascuno il suo, una parte del bene che si può trarre dalla vita religiosa
e che non è giusto riservare ad una piccola minoranza: non è per questo che
pensiamo di essere stati mandati al mondo intorno. Ma
durerà poco, forse quanto il tempo assegnato al nuovo pastore che ci è
stato mandato, nove anni, dei quali è trascorso già un anno e mezzo, se a
questa esigenza di giustizia non corrisponderà una nuova organizzazione
sociale, per metterla al riparo della volubilità umana. E’ a questo che servono
le istituzioni, anche una come la parrocchia: a dare continuità alle società
umane consentendo loro di rigenerarsi periodicamente. Da
qui l’esigenza di attivare processi democratici, gli unici a poter produrre
questo risultato includendo. Le carenze in questo campo hanno
consentito che, all’inizio degli anni ’80, tutto cambiasse piuttosto
rapidamente quando cambiò il pastore. All’epoca c’era molta partecipazione in
parrocchia, i più anziani ne parlano e nelle interviste raccolte nel
libro di Bonomo sul quartiere risulta molto chiaramente, ma non c’era una
tradizione democratica che consentisse di fare resistenza, quando
sarebbe stata necessario farla, per dialogare in condizione di pari dignità e
impedire i problemi che poi si produssero. Si determinò un conflitto latente
che venne risolto non apertamente, ma con il ritiro dei dissenzienti, e che
quindi venne deciso secondo il principio d’autorità, obbedendo. L’obbedienza:
la più subdola delle tentazioni, nelle cose sociali. L’obbedienza, in
religione, è dovuta solo al Cielo. Per tutto il resto vale la libertà
di figli.
63.
Non rassegnarsi
Un tempo la religione venne accusata di
spingere alla rassegnazione, alla rinuncia all’impegno sociale per il
cambiamento. L’accusa era vera: la religione è stata anche questo. Una fede
così non merita di essere mantenuta, giustamente la si è combattuta. Non fa
bene la gente. E’ facilmente strumentalizzabile da oligarchie che riescano a
conquistare il dominio della società: quando pochi fanno prepotenza ai più e
non accettano di essere messi i questione. Tutto ciò che fa male, abitudini,
concezioni, movimenti, partiti, religioni, ma anche modi di consumare, di agire
sul mercato, di sfruttare l’ambiente va combattuto per cambiarlo. Non sono convinto
che ogni religione faccia bene alla società. Si dice che ne è necessaria
l’incessante riforma, se si vuole che orienti al bene. Non basta la buona fede,
la convinzione sincera di mirare al bene. Occorre valutarne realisticamente gli
effetti. In ciò che fa male va cambiata: nella nostra lo si è fatto molte volte, niente è più esattamente
come era alle origini e ciò ha fatto bene alla nostra religione. Recentemente,
intorno all’anno 2000 e in occasione del Grande Giubileo di fine millennio,
questo processo ha preso il nome di purificazione
della memoria, a cui siamo stati spinti da san Karol Wojtyla, ed è
sostanzialmente un processo di riforma: significa valutare criticamente il male
che s’è fatto in religione, ma non per condannare coloro che lo fecero e che
non ci sono più, ma per non farcene incauti discepoli.
La storia della nostra fede deve convincerci che la religione può anche
non spingere alla rassegnazione. Viviamo una fase storica in cui essa ci spinge
all’impegno sociale e cerca di convincerci che c’è da fare e che la nostra
azione sociale può cambiare il mondo. In passato questa fu la convinzione di
minoranza di gente di fede, ora lo si vorrebbe sentire comune. Insomma, questo
non è il tempo del dopolavoro religioso, che è
quando si va in chiesa terminato tutto ciò di altro in cui si è coinvolti e
allora si vuole solo avere un po’ di tregua da tutti gli affanni, stare con gli
amici più cari per passare qualche ora lieta immaginando un mondo diverso.
E’ proprio tutto ciò che facciamo nel mondo, a
partire dallo studio e dal lavoro, ma anche come agenti nel mercato, che si
vorrebbe fosse coinvolto nel nostro impegno sociale: siamo spinti a non
dimenticare il mondo, ma a conoscerlo molto meglio, per fare resistenza al male
e creare il bene sociale, quello che nella dottrina, sull’insegnamento di una
tradizione molto antica, viene definito bene
comune. Si veniva accusati di somministrare droghe sociali a gente in
catene, per far dimenticare la loro condizione; si agisce invece proprio nel
senso opposto. Si è spinti all’azione solidale, per venire incontro ai
sofferenti e sollevarli. E’ l’esempio che ci viene dato dai tanti religiosi
impegnati nelle parti più disperate del mondo. Ma è un lavoro di tutti e, in
particolare, di noi che viviamo inseriti nella società che (ancora) domina il
mondo, l’Occidente che fa ciò che vuole, con le buone o con le cattive. E che
ora è spinto emotivamente ad usare le cattive, la forza delle armi, anche in
Europa.
Ma per fare ciò che oggi si vorrebbe da noi, in particolare da noi
laici, occorre un impegno molto più intenso e costante di quello della
religione dopolavoro. Come orientarsi in società se
non facciamo uno sforzo per capirla realisticamente, a partire dal quartiere in
cui viviamo. Non si resiste da soli, occorre organizzare una forza sociale,
perché è dalla società che viene il male che ci minaccia.
La religione può divenire
rapidamente inutile quando si decide che
capire non è più importante e ci si barrica in una
serra religiosa, rassegnandosi al male che c’è fuori e illudendosi, così
facendo, di immunizzarsene. Prendere in mano un libro, ad esempio un libro di
storia, e provare a rendersi conto di ciò che sta succedendo, e in particolare
dell’origine dei mali sociali e dei risultati dei tentativi che in passato si
sono fatti per rimediare, è molto più
impegnativo che rispondere SI’ o NO a certe offerte
commerciali che talvolta ci vengono
da chi oggi comanda in società e ha interesse prevalentemente ad indurci a
tracciare un segno sul suo simbolo in una scheda elettorale, proponendoci uno scambio tra consenso e favori sociali alla categoria.
Richiede uno studio, che per essere efficace deve essere
collettivo, per considerare le cose da diversi punti di vista ed averne quindi
una visione più affidabile e innanzi tutto realistica, e la disponibilità a
mettersi in gioco partecipando, innanzi tutto riconoscendo
che, di fronte ai mali sociali, siamo sempre in debito di partecipazione verso
gli altri. Che abbiamo fatto, ad esempio, per
la parrocchia nell’ultimo anno?
64.
Dignità
L’idea che l’essere umano abbia un particolare valore tra i viventi, per
cui gli debba essere riconosciuta una dignità, è molto importante nella cultura
democratica contemporanea e ha origine religiosa secondo la nostra fede. La si
esprime anche dicendo che l’essere umano è una persona. Su di essa nel secolo scorso, negli anni bui
dei totalitarismi fascisti europei, è stata costruita una ideologia politica
che è stata sviluppata in modo originale dai cristiano-democratici europei e
che, nella Nuova Europa sorta dopo i rivolgimenti politici e costituzionali
prodottisi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, è chiaramente avvertibile
in alcune nuove costituzioni, quindi nelle leggi fondamentali, di alcuni stati,
tra le quali quella italiana, e in
quella dell’Unione Europea. Ai tempi nostri questo personalismo contrasta
nettamente con l’impostazione competitiva,
secondo le leggi di mercato, dell’economia capitalista globale alla quale si è
consentita mano libera nel mondo, secondo la quale ognuno e ogni cosa hanno un prezzo, non c’è alcun valore a prescindere dal mercato in cui
si vende e si compra, e tutti lottano egoisticamente per spuntare i prezzi
migliori secondo il proprio interesse, chi vende i prezzi più alti e chi compra
i prezzi più bassi e alla fine pesce grosso mangia pesce piccolo. In passato,
quando si sviluppò, tra le due Guerre mondiali del secolo scorso, contrastava
anche con ogni ideologia di tipo totalitarista, sia politica che religiosa,
secondo la quale si pensasse che una qualche autorità fosse autorizzata a fare
dell’essere umano ciò che voleva assegnandogli valore. Per questo motivo essa
inizialmente fu vista con sospetto nella nostra confessione religiosa,
organizzata come una specie di impero religioso assoluto, e ancora oggi
ciclicamente si levano al suo interno voci contrarie nei nostri ambienti
religiosi. Proprio recentemente si è sviluppata una polemica del genere sul
quotidiano Avvenire.
Il movimento democratico moderno partì dall’idea che gli esseri umani
fossero creati uguali: essa fu espressa nella Dichiarazione di indipendenza dei rivoluzionari nord americani, nel 1776,
dalla quale nacquero gli Stati Uniti d’America, che si apre con questa frase:
Riteniamo verità evidenti che tutti gli esseri
umani sono stati creati uguali,
dotati dal loro Creatore di certi inalienabili Diritti, e tra questi quello
alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità”.
Tutta la storia successiva di quel movimento è consistita in uno sviluppo
di quell’idea e, in particolare, in
una lunga serie di lotte sociali con tutte le strutture ideologiche e
politiche che vi si opponevano. Dal punto di vista degli esseri umani che
volevano conquistare la dignità di
persone, questo processo sociale appare come una liberazione, connotato quindi da principi di libertà. Quest’ultima è
stata una difficile conquista nella nostra confessione religiosa.
L’altro giorno su una rivista che ricevo ho trovato notizia di un saggio
di prossima pubblicazione del prof. Alberto Monticone, storico esponente del
laicato di fede italiano, dal titolo Essere
laici. Quale spiritualità laicale?. Secondo Monticone questo spiritualità
è una devozione-programma che si
affida alla libertà interiore, alla libertà spirituale, alla libertà di coscienza e di intelligenza delle
persone.
C’è chi prega “Fa di me ciò che vuoi, sono tua proprietà”:
io mai e poi mai lo farò. Non è vero che siamo stati chiamati amici, non servi o peggio schiavi? E che
seguiamo una verità che ci farà liberi? Sono cose che vanno prese
sul serio.
L’idea che ogni essere umano sia persona e che abbia una propria dignità inviolabile è un principio rivoluzionario, nel vero senso
della parola, capace di cambiare il mondo. Viene messa alla prova ogni giorno,
nella nostra vita quotidiana: non sempre si è all’altezza dei grandi principi
proclamati. Arriva gente dall’Africa sui barconi: che ne facciamo? “Rimandiamoli a casa loro”, dicono
alcuni. Se
però riconosciamo ai nuovi arrivati la dignità di persona, questa è anche casa loro.
Quella dignità dissolve infatti la condizione di straniero. Possiamo rimandarli a casa loro, una casa che in realtà non hanno più altrimenti non
sarebbero mai partiti, solo non riconoscendo loro la dignità di persona. Ma lo
stesso problema si ripropone ogni volta che, profittando di condizioni sociali
che ci sono favorevoli, facciamo degli altri ciò che vogliamo, ad esempio ci
serviamo del loro lavoro pagandolo secondo certe condizioni di mercato loro
avverse, vale a dire troppo poco. “Il
lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla quantità
e qualità del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare a sé e alla
famiglia una esistenza libera e dignitosa” è scritto nell’art.36 della nostra
Costituzione. E’ chiaro che l’economia italiana
non funziona secondo questo principio: chi crede ancora nella nostra
Costituzione lotterà per cambiare l’economia, chi non vi crede brigherà per
cambiare la Costituzione. Dico brigherà perché
cose come quelle vanno fatte senza troppo clamore, sotto traccia, sotto-sotto,
pezzetto per pezzetto, perché contrastano con gli interessi dei più: li si deve
far trovare davanti al fatto compiuto e far loro capire che la resistenza è
inutile e impossibile, che ogni procedura democratica può essere aggirata,
perché il mercato è il mercato ed esso è l’unico vero dio e le sue leggi sono
le uniche veramente inviolabili, non possono essere sottoposte a referendum
popolare e anche se si sono raccolte le firme necessarie per indirlo bisognerà
sempre ricominciare da capo, e comunque sarà sempre tutto inutile. Le lotte
sociali democratiche esigono invece di essere fatte apertamente e con
cognizione di causa, dopo avere capito bene le questioni che si pongono, perché
devono coinvolgere quei più, le masse. Pagare con giustizia il lavoro è anche
un principio religioso: violarlo rientra nei peccati più gravi, quelli di cui
si insegna che gridano. Il grido degli oppressi sale al
Cielo e viene ascoltato, è scritto. Ma, come è stato detto durante la nostra
Resistenza storica, dal gruppo di Barbareschi e Olivelli, non ci sono liberatori, ma persone che si liberano.
Fede e politica a volte sono viste come cose distinte. Ma è attraverso
la politica che si trasforma la società e questo ha anche un valore religioso,
perché è nella società che ci vive e manifesta la dignità di persone che la
fede invoca. Occorre quindi anche costruire una specifica spiritualità, come
sostiene il prof. Monticone. E’ cosa di cui si dovrebbero occupare i laici in
una parrocchia, con l’aiuto dei preti. Innanzi tutto cercando di capire: non è scontato che si abbia una
visione realistica della società e dei
suoi moti sociali. E poi cercando di cambiare, a partire dalle realtà di
prossimità. Quando ci si tiene sui massimi sistemi le cose, paradossalmente, si
fanno più facili. Se si volesse, ad
esempio rivoluzionare l’urbanistica della nostra via Val Padana, per
renderla conforme alla dignità di persona di chi abita nel quartiere, le cose
si farebbero più difficili. Perché l’ovale davanti dello slargo avanti alla
chiesa parrocchiale deve essere sequestrato dalle autovettura private, usandolo
come parcheggio? Non potrebbe farsene
una piazza costruendo una continuità urbanistica con il vicino giardino al
centro del viale? Però una ventina di persone dovrebbero parcheggiare un po’
più lontano da casa. Provate a proporre
una cosa simile e le avrete accanitamente contro. Non c’è nessuna conquista
sociale senza una lotta. Questo è vero,
ad esempio, per i principi di civiltà proclamati nell’enciclica Laudato si’. Ma se anche quelli che
parcheggiano nell’ovale si convincessero che loro stessi e le loro famiglie
vivrebbero meglio? Convincere è una parte importante di ogni programma
realmente democratico. Si contrappone al fascinare,
al modo dell’industria commerciale, che è invece la strategia generalmente
seguita da chi comanda oggi in politica, e consiste nel procedere per comunicati commerciali che cercano di far leva sulla pancia della gente, invece che sulla testa. Come quando si sostiene,
spregiando i principi di quell’enciclica, “la
mia nazione prima di tutto” e i più vengono indotti a credere che da questo
ne avranno un vantaggio perché saranno abbandonati solo gli altri, salvo poi a dovere prendere atto che loro stessi e i
loro figli stanno facendo la stessa
fine. Accade nell’Italia di oggi. Abbiamo occhi preoccupati solo per chi arriva
sui barconi e non per i nostri figli che, anche loro, stanno partendo verso
settentrione, e c’è chi non li sopporta più e vorrebbe rimandarli a casa loro.
65.Non siamo formiche
Da ragazzo mi piaceva osservare le formiche. Costruiscono delle
società complesse. Hanno precisi ruoli sociali a cui corrispondono
caratteristiche fisiche e fisiologiche. La maggior parte sono operaie
e fanno la spola tra l’ambiente e il formicaio portando qualcosa. Ci sono
quelle che fanno la guardia al formicaio e hanno testa e tenaglie più grosse.
Dentro il formicaio ce n’è una che produce le uova. I maschi durano pochissimo,
giusto il tempo per fare quello che devono. Le femmine vanno a rinchiudersi nel
fondo di un formicaio e trascorrono tutta la vita producendo uova, assistite
dalle altre formiche. Femmine e maschi nascono con le ali. Quando una femmina
inizia a fare uova e diventa regina nel formicaio se le
strappa, non le servono più. La maggior parte delle formiche non sono né maschi
né femmine: non serve loro esserlo per fare ciò che devono. Dicono che le
formiche usino poco gli occhi: è la chimica che le guida nel mondo circostante.
Le formiche sono sempre in attività, dentro e fuori il formicaio, non oziano
mai. Tengono nei formicai degli altri insetti, gli afidi, dai quali ricavano
una sostanza nutriente, e questo richiama un po’ le nostre abitudini di
allevatori. Le formiche nascono e muoiono e sono sempre in giro a fare
qualcosa. A volte ci danno fastidio e le combattiamo. Dentro casa ci riesce di
averne ragione, fuori è molto più difficile, come ben sa chi ci ha provato. La
strategia è quella di trovare e bloccare tutte le uscite di un formicaio.
All’aperto è lavoro quasi impossibile. Poi, in una certa stagione, nascono le
regine, volano via e fondano nuovi formicai.
Ad un certo punto, dopo aver guardato
per un po’ le formiche, mi chiedevo: ma a che serve tutto questo? Il
mondo animale è organizzato un po’ tutto come il formicaio. Gli animali
superiori conoscono il gioco e l’ozio. I carnivori sono quelli che sembrano
avere più tempo libero. Mangiano cose, gli altri animali, che nutrono
velocemente. Da un certo punto di vista sembra che tutto sia organizzato in
modo che tutti mangino tutti. C’è questa catena alimentare che fa risparmiare
energia. Tutti cercano di non farsi mangiare, con diverse strategie, o che,
comunque, di loro ne sopravviva sempre a sufficienza perché la specie continui.
Questo continuo cercarsi per mangiarsi rende la natura piuttosto violenta, su
piccola e su grande scala. Anche le formiche lo sono. Alcune specie fanno
schiavi. Tutte attaccano e smembrano altri insetti. La visione idilliaca che
abbiamo della natura è un po’ irrealistica. E quando guardo i gigli del
campo e gli uccelli del cielo, secondo
l’esortazione evangelica, non sono mica poi tanto tranquillizzato, appunto per
tutta questa violenza che vedo nella natura e che coinvolge anche loro. Le
società umane sono organizzate in modo da porvi in qualche modo rimedio e
questo le distingue nettamente da tutte le altre società dei viventi. Questo
però ha un costo in termini ambientali. Le nostre società sono molto meno
violente, ma consumano molta più energia e, soprattutto, molto più ambiente.
Dove vivono di solito gli altri primati, vale a dire i viventi che dal punto di
vista biologico ci sono più simili? Non hanno tutte le nostre
pretese. Ma le nostre non sono solo velleità. Sperimentiamo la gioia
del vivere che negli altri viventi, tutti impegnati a mangiarsi tra
loro e a non farsi mangiare, non è particolarmente evidente. Chi ci indica la
strada del ritorno verso la natura ci vuole ricacciare in quello che, da un
punto di vista umano, è un inferno in terra.
Questo sforzo di ridurre la violenza della
vita sociale è una invenzione specificamente umana. In natura nessun vivente ci
ha mai pensato e ci pensa. Ci si mangia a vicenda senza tanti problemi, senza
remore morali: la morale della natura è appunto quella di mangiarsi gli uni gli
altri. I carnivori diventano vegetariani solo per estrema necessità, se non c’è
nient’altro di meglio da mangiare, e i vegetariani rimangono sempre tali, per
ciò che so. Del resto di vegetali c’è n’è tanti in giro. Ognuno rimane ciò che
è e non si preoccupa della sofferenza degli altri che ammazza. Gli umani
vorrebbero essere diversi.
Tutta la nostra ingegneria sociale è
volta a questo: a ridurre la violenza tra gli umani. E le guerre? Ci sono
sempre, ma si cerca di regolarle, di contenerle. C’è anche un diritto di
guerra. Anche i guerrieri più accaniti della storia dell’umanità, i mongoli, ad
un certo punto crearono una società globalizzata, veramente
molto estesa, pacificata. Nel Duecento ci capitò dentro Marco Polo e ne rimase
meravigliato.
C’è però un settore della nostra
organizzazione sociale che si vuole regolato dalla legge della giungla, quella
per la quale tutti mangiano tutti e cercano di non farsi mangiare: è
l’economia. Dicono che questo ordine sia razionale, fa risparmiare energia. Ma
dà gioia? Non la dà. Ci spinge a farci come le formiche. Provate a vedere la
cosa sotto questo punto di vista: non è che in tante cose, nelle nostre vite,
ci siamo fatti formiche? E non parlo delle virtù proposte dall’apologo
della formica e della cicala. Dico proprio formiche,
con quella vita che ho descritto sopra. Tutti incastrati in un’organizzazione
sociale, nei propri ruoli strumentali alla produzione, in cui la vista, che ci
dà tanta gioia, conta poco e molto di più la chimica.
La gioia è fondamentale nella
vita religiosa. La religione attira ancora perché dà gioia, e la gioia dà senso
alla vita. Questa importanza che dà alla gioia della vita la pone in rotta di
collisione con l’economia basata sulla legge della giungla. Era scuro in volto
il nostro Francesco quando ha incontrato il potente signore d’oltre oceano che
gli ha detto che guiderà il suo popolo secondo la legge della giungla. Dicono
che quest’ultimo non sia un appassionato lettore di libri. Francesco gliene ha
regalati alcuni. Parlano della necessità di non seguire la legge delle giungla
nelle faccende umane, se non si vuole la catastrofe ambientale e sociale. L’americano ha
detto “li leggeremo”, ma non credo che sia un plurale di maestà, come
quelli che una volta usavano i sovrani. Ha poco tempo uno come lui, dominatore
del mondo. Beh, spero che chi li leggerà gliene faccia un sunto affidabile che
poi lo invogli alla lettura personale.
Sotto certi aspetti una parrocchia
potrebbe essere vista come un formicaio: tante persone operose che vanno e
vengono in un posto con tante stanze, e ciascuna ha il suo da fare. Ma non è
governata secondo la crudele legge della natura. Risuonano canti e campane e
non è come accade agli uccelli, che cantano per sfidarsi e marcare il loro
spazio, anche se a noi sembrano tanto carini: è la gioia della vita che si
vorrebbe evocare e suscitare. Un prete che fu tra noi diversi anni fa,
osservava sconsolato che la gente usciva dalla Messa ingrugnata, scura in
volto. Voleva migliorare la situazione, ma, come ho detto, alla fine vidi anche
lui scuro in volto è se ne andò. Tutto il lavoro religioso, a ben pensarci, è
volto a diffondere quella che il nostro Francesco ha chiamato la gioia
del Vangelo, scrivendoci sopra anche un’esortazione, che non sarebbe male
tenere a mente.
66. Magistero
costituzionale
Qualche giorno fa a Genova e sabato scorso a Roma, in visita al
Presidente della Repubblica, papa Francesco ha sviluppato un magistero
costituzionale, ricordandoci alcuni dei valori più importanti della nostra Costituzione,
in particolare quello del lavoro come fondamento della dignità sociale e della
laicità delle istituzioni pubbliche, e l’importanza di collaborare alla
costruzione della democrazia politica rafforzando i legami tra la gente e le istituzioni, perché da questa tenace tessitura e da questo
impegno corale si sviluppa la vera democrazia. Riporto di seguito il testo
dell’intervento del Papa. Lo storico Alberto Melloni ha segnalato la grande
rilevanza di quel magistero per la vita pubblica italiana e ha ricordaro come in altre occasioni critiche per l’Italia
vi siano stati interventi simili. Aggiungo che, a mia memoria, mai i papi hanno
sviluppato un magistero centrato sui valori democratici repubblicani. E, quanto
alla laicità, si sono sempre mostrati piuttosto diffidenti e sospettosi, in
quanto essa è un limite interno anche al loro potere religioso, non solo a
quello che esercitano di fatto nella società civile: mai hanno parlato, a mia
memoria, di laicità addirittura amichevole.
Di solito subivano la laicità,
cercando di delimitarla puntigliosamente, specialmente all’interno
dell’organizzazione religiosa e si capiva bene che avrebbero preferito gente
più docile, mentre secondo il
principio di laicità ci si propone di non esserlo.
VISITA UFFICIALE DEL SANTO PADRE AL PRESIDENTE
DELLA REPUBBLICA ITALIANA
SERGIO MATTARELLA
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Palazzo del Quirinale
Sabato, 10 giugno 2017
[da
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170610_visita-quirinale.html]
Signor Presidente,
La ringrazio per le cordiali espressioni di
benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome dell’intero popolo italiano. Questa mia
visita si inserisce nel quadro delle relazioni tra la Santa Sede e l’Italia e
vuole ricambiare quella da Lei compiuta in Vaticano il 18 aprile 2015, poco
tempo dopo la Sua elezione alla più alta carica dello Stato.
Guardo all’Italia con speranza.
Una speranza che è radicata nella memoria grata verso
i padri e i nonni, che sono anche i miei, perché le mie radici sono in questo
Paese. Memoria grata verso le generazioni che ci hanno preceduto e che, con
l’aiuto di Dio, hanno portato avanti i valori fondamentali: la dignità della
persona, la famiglia, il lavoro… E questi valori li hanno posti anche al centro
della Costituzione repubblicana, che ha offerto e offre uno stabile quadro di
riferimento per la vita democratica del popolo. Una speranza, dunque, fondata
sulla memoria, una memoria grata.
Viviamo tuttavia un tempo nel quale l’Italia e
l’insieme dell’Europa sono chiamate a confrontarsi con problemi e rischi di
varia natura, quali il terrorismo internazionale, che trova alimento nel
fondamentalismo; il fenomeno migratorio, accresciuto dalle guerre e dai gravi e
persistenti squilibri sociali ed economici di molte aree del mondo; e la
difficoltà delle giovani generazioni di accedere a un lavoro stabile e
dignitoso, ciò che contribuisce ad aumentare la sfiducia nel futuro e non
favorisce la nascita di nuove famiglie e di figli.
Mi rallegra però rilevare che l’Italia,
mediante l’operosa generosità dei suoi cittadini e l’impegno delle sue
istituzioni e facendo appello alle sue abbondanti risorse spirituali, si
adopera per trasformare queste sfide in occasioni di crescita e in
nuove opportunità.
Ne sono prova, tra l’altro, l’accoglienza ai
numerosi profughi che sbarcano sulle sue coste, l’opera di primo soccorso
garantita dalle sue navi nel Mediterraneo e l’impegno di schiere di volontari,
tra i quali si distinguono associazioni ed enti ecclesiali e la capillare rete
delle parrocchie. Ne è prova anche l’oneroso impegno dell’Italia in ambito
internazionale a favore della pace, del mantenimento della sicurezza e della
cooperazione tra gli Stati.
Vorrei anche ricordare la fortezza animata
dalla fede con la quale le popolazioni del Centro Italia colpite dal terremoto
hanno vissuto quella drammatica esperienza, con tanti esempi di proficua
collaborazione tra la comunità ecclesiale e quella civile.
Il modo col quale lo Stato e il popolo
italiano stanno affrontando la crisi migratoria, insieme allo sforzo compiuto
per assistere doverosamente le popolazioni colpite dal sisma, sono espressione
di sentimenti e di atteggiamenti che trovano la loro fonte più genuina nella
fede cristiana, che ha plasmato il carattere degli italiani e che nei momenti
drammatici risplende maggiormente.
Per quanto riguarda il vasto e complesso
fenomeno migratorio, è chiaro che poche Nazioni non possono farsene carico
interamente, assicurando un’ordinata integrazione dei nuovi arrivati nel proprio
tessuto sociale. Per tale ragione, è indispensabile e urgente che si sviluppi
un’ampia e incisiva cooperazione internazionale.
Tra le questioni che oggi maggiormente
interpellano chi ha a cuore il bene comune, e in modo particolare i pubblici
poteri, gli imprenditori e i sindacati dei lavoratori, vi è quella del lavoro.
Ho avuto modo di toccarla non teoricamente, ma a diretto contatto con la gente,
lavoratori e disoccupati, nelle mie visite in Italia, anche in quella
recentissima a Genova. Ribadisco l’appello a generare e accompagnare processi
che diano luogo a nuove opportunità di lavoro dignitoso. Il disagio giovanile,
le sacche di povertà, la difficoltà che i giovani incontrano nel formare una
famiglia e nel mettere al mondo figli trovano un denominatore comune
nell’insufficienza dell’offerta di lavoro, a volte talmente precario o poco
retribuito da non consentire una seria progettualità.
È necessaria un’alleanza di sinergie e di
iniziative perché le risorse finanziarie siano poste al servizio di questo obiettivo
di grande respiro e valore sociale e non siano invece distolte e disperse in
investimenti prevalentemente speculativi, che denotano la mancanza di un
disegno di lungo periodo, l’insufficiente considerazione del vero ruolo di chi
fa impresa e, in ultima analisi, debolezza e istinto di fuga davanti alle sfide
del nostro tempo.
Il lavoro stabile, insieme a
una politica fattivamente impegnata in favore della famiglia, primo
e principale luogo in cui si forma la persona-in-relazione, sono le condizioni
dell’autentico sviluppo sostenibile e di una crescita armoniosa della società.
Sono due pilastri che danno sostegno alla casa comune e che la irrobustiscono
per affrontare il futuro con spirito non rassegnato e timoroso, ma creativo e
fiducioso. Le nuove generazioni hanno il diritto di poter camminare verso mete
importanti e alla portata del loro destino, in modo che, spinti da nobili
ideali, trovino la forza e il coraggio di compiere a loro volta i sacrifici
necessari per giungere al traguardo, per costruire un avvenire degno dell’uomo,
nelle relazioni, nel lavoro, nella famiglia e nella società.
A tale scopo, da tutti coloro che hanno
responsabilità in campo politico e amministrativo ci si attende un paziente e
umile lavoro per il bene comune, che cerchi di rafforzare i legami tra
la gente e le istituzioni, perché da questa tenace tessitura e da questo
impegno corale si sviluppa la vera democrazia e si avviano a soluzione
questioni che, a causa della loro complessità, nessuno può pretendere di
risolvere da solo.
La Chiesa in Italia è una
realtà vitale, fortemente unita all’anima del Paese, al sentire della sua
popolazione. Ne vive le gioie e i dolori, e cerca, secondo le sue possibilità,
di alleviarne le sofferenze, di rafforzare il legame sociale, di aiutare tutti
a costruire il bene comune. Anche in questo, la Chiesa si ispira
all’insegnamento della Costituzione pastorale Gaudium et spes del
Concilio Vaticano II, che auspica la collaborazione tra comunità ecclesiale e
comunità politica in quanto sono, entrambe, a servizio delle stesse persone
umane. Un insegnamento che è stato consacrato, nella revisione del Concordato
del 1984, nell’articolo primo dell’Accordo, dove è formulato l’impegno di Stato
e Chiesa «alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene
del Paese».
Questo impegno, col richiamo al principio
della distinzione fissato nell’art. 7 della Costituzione, esprime e ha promosso
al tempo stesso una peculiare forma di laicità, non ostile e
conflittuale, ma amichevole e collaborativa, seppure nella rigorosa distinzione
delle competenze proprie delle istituzioni politiche da un lato e di quelle
religiose dall’altro. Una laicità che il mio predecessore Benedetto XVI definì
“positiva”. E non si può fare a meno di osservare come, grazie ad essa, sia
eccellente lo stato dei rapporti nella collaborazione tra Chiesa e Stato in
Italia, con vantaggio per i singoli e l’intera comunità nazionale.
L’Italia ha poi il singolare onere ed onore di
avere, nel proprio ambito, la sede del governo universale della Chiesa
Cattolica. È evidente che, nonostante le garanzie offerte con il Trattato del
1929, la missione del Successore di Pietro non sarebbe facilitata senza la
cordiale e generosa disponibilità e collaborazione dello Stato italiano. Se ne
è potuta avere una ulteriore dimostrazione nel corso del recente Giubileo
straordinario, che ha visto tanti fedeli venire a Roma, presso le tombe degli
Apostoli Pietro e Paolo, nello spirito della riconciliazione e della
misericordia. Nonostante l’insicurezza dei tempi che stiamo vivendo, le
celebrazioni giubilari hanno potuto svolgersi in maniera tranquilla e con
grande vantaggio spirituale. Del grande impegno assicurato dall’Italia al
riguardo la Santa Sede è pienamente consapevole e sentitamente grata.
Signor Presidente,
sono certo che, se l’Italia saprà avvalersi di
tutte le sue risorse spirituali e materiali in spirito di collaborazione tra le
sue diverse componenti civili, troverà la via giusta per un ordinato sviluppo e
per governare nel modo più appropriato i fenomeni e le problematiche che le
stanno di fronte.
La Santa Sede, la Chiesa Cattolica e le sue
istituzioni assicurano, nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità, la
loro fattiva collaborazione in vista del bene comune. Nella Chiesa Cattolica e
nei principi del Cristianesimo, di cui è plasmata la sua ricca e millenaria
storia, l’Italia troverà sempre il migliore alleato per la crescita della
società, per la sua concordia e per il suo vero progresso.
Che Dio benedica e protegga l’Italia!
Parole a braccio del Papa rivolte ai bambini
nei Giardini del Quirinale
Cari ragazzi e ragazze, grazie tante di essere
qui. Grazie tante per il vostro canto e anche per il vostro coraggio. Andate
avanti con coraggio, sempre su, sempre su! E’ un’arte salire sempre. E’ vero
che nella vita ci sono difficoltà - voi avete sofferto tanto con questo
terremoto - ci sono cadute, ma mi viene in mente quella bella canzone che
cantano gli alpini: “Nell’arte di salire il successo non sta nel non cadere ma
nel non rimanere caduto”. Sempre su, sempre quella parola “alzati”, e su! Che
il Signore vi benedica!
67. Religione e democrazia da poco sono tra loro
contemporanee
Religione e democrazia possono essere viste
come forme di organizzazioni sociali fondate su determinati valori. L’attrito
tra di esse è determinato dal fatto che solo di recente sono divenute
contemporanee, da poco più di due secoli. Prima è nata la religione e poi la
democrazia come noi la intendiamo. Per di più quest’ultima ha subito rapidi
cambiamenti, cercando includere sempre più persone. Anticamente era basata
sull’idea di cittadinanza, vale a dire sulla particolare dignità riconosciuta a
certe persone nel contesto civile e ciò significava escludere chi cittadino non veniva riconosciuto, vale
a dire gli stranieri, gli schiavi, e, in genere, le donne. L’idea di democrazia
contemporanea propone una democrazia universale, che include tutti. In questa universalità si è
avvicinata ad alcune concezioni religiose.
In religione si pensa spesso che l’antichità
sia una conferma di autenticità, valore ed efficacia. Questo è paradossale,
perché sappiamo che il progresso è andato in genere dal passato al futuro, non
all’indietro. Così appunto la pensano i democratici, che hanno alle spalle
sistemi politici non democratici dai quali la democrazia è emersa combattendo.
Le religioni appaiono in genere strutturate
per sistemi politici del passato. E’ il caso della nostra confessione
religiosa, organizzata come un impero feudale. Le democrazie vorrebbero
religioni più adatte ai loro ideali. E’ cosa che si tentò di fare durante i
processi democratici che si produssero nella Francia di fine Settecento, ma non
funzionò. Attraverso le religioni ci colleghiamo agli avi e vorremmo che i
nostri posteri pensassero a noi come noi pensiamo a chi ci ha preceduto. E’
esperienza comune aver appreso gran parte di ciò che si sa e che è utile in
società dai genitori, ma è anche l’identità sociale che è legata a loro. Parliamo
di patria e richiamiamo l’idea di un padre. L’archetipo, il modello più
antico, di società civile è la tribù,
piuttosto vicina alle esperienze sociali che osserviamo in altri primati, i
viventi che dal punto di vista biologico ci somigliano di più. Nelle società
tribali sono sorte le più antiche religioni.
L’idea che le potenze soprannaturali alle quali si rivolgono le
religioni fossero compassionevoli verso l’umanità è uno sviluppo tutto sommato
piuttosto recente. Le religioni più antiche si affannavano a accattivarsi il
favore di potenze capricciose e crudeli. Nelle religioni compassionevoli
troviamo l’origine delle idee di base delle democrazie. Ecco il collegamento
ancora vitale.
Accordare religioni compassionevoli e
democrazia ha creato problemi per la politica che c’era in mezzo. Infatti la
politica si era sacralizzata secondo quelle religioni, vale a dire che
proponeva il proprio potere come assoluto,
quindi insindacabile, come le potenze soprannaturali alle quali le religioni si
rivolgevano. E la politica sacralizzata non era democratica: dominavano
dinastie di sovrani. In democrazia si vorrebbe che tutti divenissero sovrani. E’ questo quello che si
propone proclamando che la democrazia appartiene al popolo.
Agli inizi del Novecento l’idea che
democrazia e religione potessero andare d’accordo fu considerata eretica in
Italia. Ma non era considerata tale, ad esempio, in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti d’America. Non c’è una incompatibilità assoluta, ma tutto dipende da che
politica tenta la mediazione.
Sabato scorso, visitando il Quirinale, il
Papa ha parlato di collaborazione e amicizia tra religione e repubblica
democratica. Occorre costruire relazioni virtuose, ha detto. Quella è la via
che va seguita anche in realtà sociali come le parrcchie, sperimentando una
democrazia che abbia nella religione una risorsa, non un problema.
68. Dialogo come metodo e mentalità
E’ da un bel po’ che non partecipo ad
assemblee di istituzioni di partecipazione della Diocesi, quelle in cui i laici
dovrebbero dare una mano come consulenti. Devo dire che quelle esperienze non
furono esaltanti. Ci si convergeva da estranei e si stringevano alleanze per le
nomine. Non c’era molto altro. Mi parevano dominate dai gruppi. Del resto le
parrocchie tendono a diventare piccoli mondi isolati e nel lavoro collettivo
gli isolati contano poco o nulla.
Ci sono istituzioni da cui partono
direttive d’azione e i gruppi maggiori vogliono avervi voce, mandare gente
propria. Per farlo bisogna accordarsi con gli altri, se non si ha la forza
sufficiente. Il tempo quindi viene impiegato in queste trattative. Lo si fa in
cenacoli riservati, mentre sul palco parla qualche esperto. Ai tempi nostri di
solito gli esperti spiegano come vanno le cose, e ognuno più o meno lo sa già,
ma non danno soluzioni. Sembra che la cultura non se ne senta più responsabile,
lo osservò Zygmunt Bauman, ma anche lui fu piuttosto sintetico nelle proposte
operative, anche se ne fece.
Il problema è che, quando ci si incontra
per quelle faccende, si è e si rimane estranei, perché il tempo è poco e, per
di più, non si è veramente interessati agli altri. In religione, da noi, si
preferisce passare il tempo tra gli amici propri. Non conoscendosi, riesce
difficile sviluppare il dialogo, che è un modo di mettere in relazione i punti
di vista e le storie delle persone. Presuppone una mentalità, quella di
essere interessati agli altri. Spesso si è impegnati, invece, a fare
proselitismo, che significa aggregare gli altri al proprio gruppo,
assimilandoli. Nel dialogo gli altri rimangono tali, ma è possibile farsene
degli amici. Il lavoro collettivo è più produttivo se collaborano amici, se si
collabora da amici. Allora non prevale la logica dello scambio, per cui si è
disposti a dare esattamente quanto si riceve o si prevede di ricevere.
Si potrebbe pensare che, in
religione, con tutto il parlare di amore che si fa, sia più
facile intendersi, ma non è così. In religione, in genere, ci si odia
ferocemente. Del resto la lunga storia della nostra fede ce lo conferma.
La pace è diventata un valore realistico, da
perseguire anche nella vita reale, molto di recente nelle nostre concezioni
religiose. A che cosa è dovuto tutto questo odio? In parte viene
naturale, è il nostro istinto di antiche belve che si fa sentire. In questo ci
manifestiamo simili agli altri viventi, come lo siamo nella biologia e nella
fisiologia. In parte è dovuto proprio alla religione, quando si pensa di avere
un filo diretto con il Cielo e si sacralizzano le
proprie concezioni, vale a dire che non si accetta che vengano poste in
discussione. L’idea che, in società, vi siano valori non
negoziabili è espressione di questo modo di pensare. Se non si negozia
si va allo scontro frontale. In una mentalità di dialogo non vi sono valori non
negoziabili, perché è ammessa la discussione su tutto. Ma il dialogo è
possibile quando ci si accorda su questo principio: che tutti siano uguali in
dignità. L’altro va rispettato in questa dignità che ci si riconosce
reciprocamente. Questo poi comporta dei limiti sia nella dialettica, sia nelle
relazioni concrete, in ciò che si fa agli altri. Nel pensiero di Ghandi [Mohandas Karamchand Gandhi, mahatma, grande
anima, capo spirituale e politico indiano vissuto tra il 1869 e
il 1948], i primi rientrano nell’idea di nonmenzogna, gli altri
nella nonviolenza.
In religione ci si propone, in linea di
principio, una grande apertura verso gli altri. Vorremmo fare dell’intera
umanità un’unica famiglia. Bello. Poi però qualche volta si parte male,
pensando di inaugurare una sorta di casting, di selezione per
scegliere chi può partecipare ai nostri eventi religiosi. E’ questo che succede
quando si sbotta che non si vuole “abbassare l’asticella” (l’ho
sentito dire da un esponente in un nostro gruppo) o “fare un
compromesso al ribasso” (l’ho sentito dire da un’esponente di un
gruppo che a quell’altro si oppone). Poiché queste espressioni, simili
nel contenuto, sono venute da gente di opposti schieramenti
ecclesiastici, credo che si tratti di una mentalità piuttosto diffusa. Chi l’ha
detto che la religione deve essere, per la gente comune, una gara di salto in
alto? E che cos’è poi questo snobistico disprezzo per gli altri, come se ci
fosse un basso in cui far rimanere confinati quelli che non
saltano abbastanza in alto? Uno come Ignazio di Loyola [vissuto nel
Cinquecento; è il fondatore dei Gesuiti] consigliava invece di abbassarsi il
più possibile e di far mostra di ritenere gli altri sempre migliori di sé
stessi, tacendo di ciò di cui di loro non si poteva parlar bene. Il nostro
padre Francesco ci dà ogni giorno degli esempi di questo modo di fare con gli
altri. Non sarebbe male prendere lezione da lui, che, in definitiva, è quello
che è. Invece vedo che alcuni storcono il naso e, a mezza voce, dicono di
rimpiangere quelli di prima. Ma non è che questi ultimi poi la pensassero
diversamente. Perché: gli umili saranno innalzati. È scritto.
E’ umile chi vuole alzare l’asticella e
rifiutare di trattare con gli altri se sono troppo in basso?
Tutti questi problemi che ho
descritto fatalmente si ripropongono anche in realtà di prossimità come i
consigli pastorali parrocchiali. E questo anche se ci si dovrebbe conoscere
molto meglio, perché si hanno più occasioni per frequentarsi. Ma questo non
accade anche nei condomini? Eppure sappiamo che le assemblee di condominio non
sono, di solito, esattamente un modello di dialogo e di rispetto della dignità
degli altri. La prossimità aiuta, ma occorre un cambio di mentalità.
C’è una difficoltà a sviluppare un
dialogo costruttivo e deriva in particolare dai confusi concetti teologici che
noi laici spesso abbiamo in testa. La teologia è una cosa seria. Raramente però
un laico ha la possibilità di una sufficiente formazione teologica, ma, in
definitiva, non gli è nemmeno necessaria. Uno come Giuseppe Dossetti la
riteneva addirittura controproducente. Viviamo in un mondo plasmato
dall’ingegneria (delle costruzioni, meccanica, idraulica, elettronica,
telematica, biologica ecc.), ma non abbiamo bisogno di prendere una laurea in
ingegneria per viverci. In religione è indispensabile una buona spiritualità,
che si acquisisce con la pratica liturgica, la frequenza al magistero e la
meditazione personale sulle Scrittura. Dovremmo concentrarci su questa faccenda
dell’amore, che è agàpe, il lieto convito a cui tutti devono
trovare posto. Questa è una buona base per una convivenza religiosa.
Dal pensiero religioso ho sintetizzato
alcune regole che mi porto sempre dietro:
Fuggi il male
Segui con fermezza il
bene
Ama gli altri come
fratelli
Sii premuroso nello
stimare gli altri
Sii impegnato e non
pigro
Allegro nella speranza
Paziente nelle
tribolazioni
Perseverante nella
preghiera
Sii pronto ad aiutare
i tuoi fratelli quando hanno bisogno
Fai di tutto per
essere ospitale
Chiedi a Dio di
benedire quelli che ti perseguitano; di perdonarli non di castigarli;
Sii felice con chi e’
nella gioia, piangi con chi piange;
Vai d’accordo con gli
altri
Evita le discussioni
sulle parole e le chiacchiere inutili
Non inseguire desideri
di grandezza, volgiti piuttosto verso le cose umili
Non ti stimare
sapiente da te stesso
Non rendere a nessuno
male per male
Preoccupati di fare il
bene dinanzi a tutti
Se possibile, per
quanto dipende da te, vivi in pace con tutti
Non vendicarti
Non lasciarti vincere
dal male, ma vinci il male con il bene
Sii paziente e
generoso
Non essere invidioso
Non vantarti
Non gonfiarti di
orgoglio
Non cercare il tuo
interesse
Non cedere alla
collera
Dimentica i torti
Non godere
dell’ingiustizia
La verità sia la tua
gioia
Tutto scusa
Di tutti abbi fiducia
Tutto sopporta
Non perdere mai la
speranza.
Con Google
potrete trovare da dove le ho prese: è anche questo un esercizio spirituale.
Vedete che non
ci sono i comandamenti “Non abbassare l’asticella”,“Non fare
compromessi al ribasso”.
Spesso si ha l’idea che sia in atto un
conflitto all’ultimo sangue tra ortodossi, quelli della propria parte, ed
eretici, quelli dell’altra. Si preferirebbe che questi ultimi sparissero.
Abbiamo la scomunica facile, noi laici, e questo anche se i nostri capi
religiosi fanno diversamente. Ora si vorrebbe scomunicare i corrotti, ho letto,
ma non si è presa la cosa tanto alla leggera, pubblicando presto presto
la bolla, il decreto che la commina: ci si è fatta una
commissione sopra, che sta studiando la cosa. Noi, per faccende infinitamente
meno importanti, andiamo invece per le spicce. Ma chi siamo noi per
scomunicare? No, lo dico sul serio, non come fa il nostro padre Francesco,
che, se volesse, potrebbe scomunicare chi crede debba esserlo! Chi siamo noi
per alzare le asticelle, far saltare i compromessi, indicare agli altri la
porta in uscita e via dicendo?
In un consiglio
pastorale parrocchiale ci si dovrebbe riconoscere amici, volerlo
veramente essere, cercare di esserlo, sforzarsi in questo. Ricordiamo ciò che
ci ha diviso solo per proporci di non dividerci più. Dobbiamo fare
memoria delle esperienze di divisione per imparare l'unità tra
noi. Questa è memoria purificata, secondo l'insegnamento di san
Karol Wojtyla. La nostra miserella teologia da incolti teniamola da
parte e piantiamola con l’ecclesialese di cui ci riempiamo la bocca
per non dire nulla.
In parrocchia
abbiamo un problema: includere. Chi? Tutta la gente del
quartiere che si riconosce nella nostra fede. Ma perché non pensare addirittura
più in grande? Perché non pensare addirittura a chi non si è mai riconosciuto o
non si riconosce più nella nostra fede? Questo è il nostro dovere, ce lo dicono
chiaramente i nostri maestri. Ma se non riusciamo a includere nemmeno tutti
quelli che vivono la nostra fede, come possiamo pensare di andare oltre?
Cominciamo a fare pratica di inclusione e di dialogo, il resto verrà, e non
sarà nemmeno tutta opera nostra, perché il Cielo, in definitiva, c’è.
69. Interpretare il mondo contemporaneo
Il mondo in cui viviamo può essere
letto e capito, come un libro. I buoni lettori hanno quindi più risorse per
viverci dentro perché a questo sono abituati. Ma a leggere si impara, non
è un’abilità innata. Chi insegna a leggere il mondo, oggi? Questo è
appunto il nostro problema principale.
Le religioni sono state storicamente
chiavi di lettura dei mondi sociali. Insegnavano alla gente a leggerli e quindi
a viverci meglio. Con la modernità, diciamo negli ultimi cinquecento anni, lo
hanno fatto sempre peggio. Questa è stata una vera tragedia perché, in questo
modo, i mondi sociali sono cominciati a divenire incomprensibili a molti. Le
esperienze religiose hanno iniziato a distaccarsi dalla realtà e a rifugiarsi
nell'immaginazione. Da esperienze sociali hanno preso a trasformarsi in esperienze
psicologiche, interiori. E’ l’idea della religione come medicina dell’anima.
Ogni religione, e in particolare quelle maggiori, quelle storiche, molto
antiche, ha avuto un suo modo per trasformarsi così. Nella nostra è stata la
sua antica organizzazione feudale a spingere verso quel modello: la politica
diventava democratica e minacciava la stabilità del potere religioso, così si è
assecondata l’interiorizzazione per bloccare quell’evoluzione sociale. Si è
puntato sullo star bene piuttosto che sul vivere bene.
Una volta che il risultato che ci si attende è prevalentemente interiore si può
dar libero sfogo al sogno. Si costruiscono mondi immaginifici al modo in cui lo
si fa nei videogiochi. Ci si pensa onnipotenti come le potenze celesti. Il
confronto con la realtà non c’è più. Quello della religione diventa un mondo
separato in cui si entra sognando. Si possono fare belle esperienze, dicono, ma
è quello che succede anche assumendo stupefacenti. La religione così intesa è
veramente una droga sociale, assimilabile ad esempio all’LSD, lo stupefacente
dei sogni formidabili, che si diffuse tra gli occidentali a partire dagli anni
Sessanta. Questa è una religione psichedelica, vale a
dire che induce stati di coscienza alterati e che introduce in un mondo fantastico,
in cui si sta bene. Ma questo, come sempre accade con le droghe,
non è veramente vivere. Si vive solo nel mondo
vero, reale. Altrimenti si sogna.
Il mondo così come veramente è non teme
la religione psichedelica. Teme invece la nostra religione se si presenta come
interpretazione realistica della società, se insegna a leggere il mondo. E’
appunto quello che sta accadendo tra noi, ora. Un’enciclica come la Laudato
si’, del 2015, ne è un esempio molto chiaro. Questo tipo di religione non
spinge verso mondi psichedelici, ma verso la realtà sociale così com’è, per
cambiarla e vivere meglio.
Un tempo i nostri capi religiosi
vollero farsi imperatori e prìncipi al modo di quelli civili. Ora, invece, è
all’organizzazione delle Nazioni Unite che si ispirano. Nella nostra
organizzazione religiosa c’è tutto il mondo: è per questo che può capirlo
realisticamente. Vedete che il nostro padre Francesco ci è venuto
dall’altro capo della Terra? Basta entrare in una delle tante università
religiose di Roma per incontrarsi con gente di tutto il mondo. Anche i docenti
vengono da ogni parte dell’umanità.
Di fronte ai grandi fenomeni sociali
che hanno modificato il nostro vivere sociale molti si trovano impauriti e non
capiscono. Perché non posso chiudere le porte della mia nazione come chiudo con
le mandate le porte di casa mia, la sera? E, magari, se provassero a immaginare
da dove sono venuti i loro avi, scoprirebbero che sono venuti da molto, molto
lontano. L’umanità ha sempre girato molto: tutti sono stati spinti dalle
circostanze a uscire da casa propria. Noi tutti che abitiamo oggi
l’Europa siamo originari dell’Africa, ci dicono gli antropologi confortati dai
genetisti. Il sanscrito, l’antica lingua dell’India, ha radici comuni con
l’italiano: come è accaduto?
Si pensa, ad esempio, che più gente
arriva da noi, meno lavoro c’è, perché i nuovi arrivati rubano il
lavoro a quelli che c’erano prima. Ma non è così che funziona. Ce lo confermano
le scienze sociali. Più gente lavora, più lavoro c’è. E i sistemi sociali più
potenti della Terra sono oggi anche i più popolosi. La carenza di lavoro non
dipende dalla gente che arriva, ma dallo sfruttamento ingiusto del lavoro. E’
cosa che non potrebbe essere realizzata senza la nostra collaborazione, di noi
consumatori. Il lavoro non c’è perché noi consumiamo male. E la stessa cosa che
accade con il voto. Com’è, è scritto in un libro che sto leggendo, che la
grande maggioranza della popolazione vota secondo gli intessi dell’1% più ricco
che detiene quote molto rilevanti della ricchezza sociale, tra il 30 e quasi il
50% di quella totale, a seconda delle nazioni? Consumare meglio aiuterebbe a
vivere meglio, perché ci sarebbe più lavoro, ed essendovi più lavoro, più gente
lavorerebbe e allora ci sarebbe ancora più lavoro. Queste argomentazioni le
potete leggere nell’enciclica Laudato si’.
Così, venire in parrocchia non
significa rifugiarsi in un mondo di sogno, come quando
si entra in un posto come Disneyland. Significa non accontentarsi
dei mondi psichedelici in cui l’economia che sfrutta
e ruba lavoro e anche le fedi di tipo psichedelico vorrebbero
rinchiuderci per dominarci meglio. Significa capire che non basta stare
meglio, ma che occorre vivere meglio, e che per farlo bisogna
imparare a leggere il mondo così com’è, per cambiare quello che non
va. Capire>criticare>cambiare: questo è il percorso della liberazione
sociale. Alla critica sociale non siamo più tanto abituati in religione. I
nostri capi l’hanno temuta, ora però ci spingono verso quell’impegno. Che è una
via di laicità perché comporta di desacralizzare ogni
oggetto sociale di conoscenza: non c’è alcun mondo sociale che può invocare
l’esenzione alla critica. Perché, come si dice, la società deve sempre essere
riformata, che significa cambiata per migliorarla. Questo vale anche per la
stessa parrocchia. A volte si concepiscono le organizzazioni sociali come
stampelle per le psicologie individuali e allora le si sacralizza,
cercando di sottrarle ad ogni critica. Ma la società funziona solo se viene
costantemente riformata, altrimenti delude. Non riesce a mantenere le sue
promesse e allora, per resistere al cambiamento, spinge verso mondi
psichedelici. Le religioni del miracolo e delle esperienze
psichiche aumentate sono un po’ questo. D’altra parte è così facile
lasciarsi andare! Ma dove è scritto che si debba
fare così? Non è per esperienze psichedeliche che siamo stati mandati fino
ai più lontani confini.
70. Giustizia sociale come conversione. Papa
Francesco: lottare nei luoghi dei “diritti
del non ancora”. Note sul
discorso di Papa Francesco ai sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017
Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato.
Sindacato è una bella parola che proviene dal
greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è
insieme agli esclusi di oggi.
Non c’è una buona società senza un buon
sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle
periferie; non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se
vigila soltanto su coloro che sono dentro,
se protegge solo i diritti di chi
lavora già o è in pensione.
Lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati
del lavoro.
Convertirsi: cioè fare un passo in meglio.
Il 28-6-17 il nostro Padre Francesco,
incontrando a Roma i sindacalisti della CISL, ha parlato di economia e società,
di giustizia sociale, di sindacalismo buono e corrotto, della necessità di un
sindacalismo buono per cambiare in meglio la società attraverso lotte sociali,
della necessità di lottare anche per chi i diritti civili non li ha ancora, in
primo luogo per i giovani senza lavoro, del legame tra lavoro e democrazia e di
un capitalismo che induce in peccato, e in uno dei più grossi, perché
disconosce la natura sociale dell’economia e dell’impresa.
Vedremo come i giornali
riporteranno le sue parole oggi. Ieri quelli che pubblicano su internet e
quelli televisivi sono stati un po’ superficiali, si sono concentrati sulla sua
critica alle pensioni d’oro, che sono quelle troppo alte, che
perpetuano una ingiusta diseguaglianza sociale. Ognuno di noi, naturalmente, ha
pensato a quelle degli altri e tutti, in definitiva, a quelle dei parlamentari.
Ma, tutto sommato, questo tema non era al centro delle argomentazioni di quel
discorso.
Persona e lavoro devono sempre
andare insieme, ha sostenuto Francesco all’inizio, nel senso che il lavoro
non deve diventare disumano e che ogni persona deve avere un lavoro. Il lavoro
è importante perché l’individuo si faccia persona.
Nel lavoro si coopera con gli altri, ci si apre alla
società. Ma il lavoro non è tutto. Anche il riposo è importante. Ricordiamocelo
ora che cominciamo a vedere esercizi commerciali aperti giorno e notte, senza
giorni di festa, senza mai interruzioni. Il nostro Padre Francesco ha parlato
addirittura disana cultura dell’ozio. Ma oltre al riposo c’è
lo studio: lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei
ragazzi, ha detto Ma non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo
da vecchi, e anche questo è un diritto. Ci sono le pensioni, per quelli che
sono malati o troppo vecchi per lavorare. Ma devono essere pensioni giuste.
Altrimenti si perpetuano le diseguaglianze sociali, diventano perenni. E’ a
questo punto che ha criticato le pensioni d’oro, che creano
scandalo in un tempo in cui c’è tanta gente che la pensione non l’ha o ce l’ha
insufficiente. Le pensioni troppo alte, come quelle troppo povere, sono un’offesa
al lavoro, proprio perché perpetuano le diseguaglianze del
lavoro. Il lavoro, quindi, nella concezione del nostro Padre Francesco,
dovrebbe avere la funzione anche di ridurre le diseguaglianze sociali, in
particolare elevando quelli che stanno peggio. E ha anche ricordato che, a
volte, per i malati, che tendono ad essere scartati dal mondo del lavoro,
lavorare è parte della terapia: si guarisce lavorando con gli altri,
insieme agli altri, per gli altri.
Non è ragionevole, sostiene il nostro Padre Francesco, che
in una società gli anziani siano costretti a lavorare troppo a lungo, mentre i
giovani rimangono disoccupati. Quando i giovani sono fuori dal mondo
del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di
vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita
economica e la pubblica felicità, ha detto. Il lavoro dei giovani non fa
bene solo ai giovani stessi, ma a tutta la società. Occorrerebbe, quindi, ha
proposto, un nuovo patto sociale che riduca le ore di
lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i
giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare.
Il lavoro rientra nei fatti economici e
in quelli dell’impresa. E’ il mercato che deve dominare tutto? No!, sostiene il
nostro Padre Francesco. Economia di mercato, no! Economia sociale di
mercato, invece. Il capitalismo del nostro tempo ha
dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa, è
per questo che disprezza il sindacato. L’economia ha dimenticato la natura
sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei
legami e dei patti. E’ per questo che occorre un lotta per
affermarla: questo è il compito del sindacato. La sua azione, se fa bene il suo
lavoro, migliora la società. Non c’è una buona società senza un buon
sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle
periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in
pietre angolari. Non si tratta di scontri tra interessi privati, dei
datori di lavoro e dei lavoratori, ma di una questione di giustizia
sociale. Lo si capisce pensano da dove viene la parola sindacato.
Dice Francesco: Sindacato è una bella parola che proviene dal greco
“dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”.
Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi. Il
sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a
chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali”
(cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei
lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli
“scarti”: in questo svolge una funzione profetica. Dice Francesco: “[il
sindacato] deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come
sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che
guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua
funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che
sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in
pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è
anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro
che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia”. In definitiva
occorre lottare. Se la società non apprezza il sindacato,
forse è perché non lo vede lottare abbastanza, in particolare nei
luoghi dei “diritti del non ancora”, nelle periferie
esistenziali, tra gli scartati del lavoro; non lo vede lottare tra gli
immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce
semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è
entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Nelle nostre società capitalistiche avanzate, ammonisce Francesco, il
sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo
simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato
col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio,
ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se
manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese
perde forza ed efficacia.
Dimenticare o negare la natura sociale dell’economia e del
lavoro è un peccato, e uno dei più grossi, sostiene il nostro Padre Francesco.
Allora, non è solo questione di lottare, ma anche di convertirsi.
Significa fare un passo in meglio.
Non c’è giustizia insieme se non è insieme
agli esclusi di oggi: è sbagliato pensare solo al proprio interesse privato, non è
il mercato che deve decidere tutto, lì dove i più grossi e potenti prevalgono
sui più deboli. E’ attraverso le lotte sindacali che la situazione viene
riequilibrata, perché insieme si ha più forza. Se l'economia, con la legge del
più forte, minaccia la dignità del lavoro, con la forza del numero e della
solidarietà occorre cambiare l'economia. Ma occorre lottare anche per chi i
diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai
diritti e dalla democrazia.
I primi commentatori hanno notato che l’apprezzamento di
Francesco per il lavoro del sindacato va controcorrente. I sindacati si sono
fatti più deboli, hanno meno presa sui lavoratori, anche perché il lavoro si è
fatto più precario, meno garantito, addirittura svalutato, e chi ce
l’ha teme di perderlo, di essere preso di mira in quanto lavoratore sindacalizzato.
Ma è proprio l’eclisse del sindacato uno dei fattori che ha svalutato il
lavoro.
Le idee esposte dal nostro Padre
Francesco ieri sono dagli anni ’70 parte del magistero sociale, della dottrina
sociale della Chiesa. Le ritroviamo, ad esempio, in un’esposizione estesa e
sistematica nell’enciclica Lavorando [l’essere umano deve
procurarsi il pane quotidiano …] , di san Karol Wojtyla,
diffusa nel settembre 1981.
[testo sul Web:
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091981_laborem-exercens.html ]
Come scrisse il Wojtyla nel finale di quel documento,
l'enciclica avrebbe dovuto essere diffusa il 15 maggio 1981, ma il 13 maggio ci
fu l’attentato in piazza San Pietro e poté essere riveduta dal Papa solo dopo
la sua degenza ospedaliera. Andare contro l’economia egemone può essere molto
rischioso.
Di nuovo, nelle parole di Francesco di
ieri, c’è sicuramente la considerazione del dovere di lottare, come sindacato,
da lavoratori sindacalizzati, anche per chi il lavoro non ce l’ha, per gli
esclusi. Ma come dev’essere questa lotta? La lotta è necessaria e doverosa
quando le giuste pretese di una parte sociale vengono rigettate dall’altra. Non
ci si può rassegnare all’ingiustizia. La parte forte rifiuta di ascoltare, di
sentire ragioni. Ha dimenticato la natura sociale dell’economia. La legge del
mercato è a favore dei più forti? Nelle società democratiche ci sono strumenti
legali per non accettare questa posizione. I deboli possono farsi forti facendo
massa e agendo in modo solidale. Le libertà civili servono anche a questo, a
non finire schiavi del mercato. C’è la libertà di parola, di manifestazione,
c'è la politica democratica, c’è lo sciopero. In Italia lo sciopero è un
diritto sociale riconosciuto dalla Costituzione. E in Costituzione c’è anche la
natura sociale dell’economia e della proprietà privata. L’impresa non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; in base alle leggi, deve essere
indirizzata e coordinata a fini sociali (art.41 Costituzione). La proprietà
privata deve essere resa accessibile a tutti e deve esserne assicurata la
funzione sociale (art.42 Costituzione). Il lavoratore ha diritto a una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e
dignitosa (art.36 Costituzione). L’organizzazione sindacale è libera (art.39
Costituzione) e lo sciopero è un diritto (art.39 Costituzione), anche se
la legge può regolarne l’esercizio. Queste sono leggi fondamentali della
Repubblica.
L’evoluzione sociale recente
richiederebbe modifiche costituzionali per rinforzare la natura sociale
dell’economia e del lavoro, ma in genere le proposte vanno in direzione
opposta. Si è di solito d’accordo nel notare che il lavoro si è svalutato e
ha perso garanzie. Si giustifica questo con le leggi del mercato:
queste leggi però sono incostituzionali e, in particolare dall’inizio
dell’attuale fase recessiva, nel 2008, hanno fatto e stanno facendo disastri
sociali. In Costituzione non ci sono principi per essere consumatori
responsabili. Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, in un’Italia tanto
più povera di oggi, non ci si pensava. I consumatori, in genere
inconsapevolmente, sono complici dell’ingiustizia sociale.
Il lavoro che c’è da fare, da fedeli
che vogliano rendere ragione delle loro convinzioni religiose, è quello di
ragionare sui temi richiamati dal nostro Padre Francesco ieri. Condividiamo la
sua posizione? Se sì, perché? Se no, perché? Si tratta di temi sociali e
politici sui quali non siamo obbligati a pensarla come un papa. La nostra
posizione su di essi ha comunque un significato religioso. Farsi complici di
ingiustizie sociali è peccato: questo è magistero etico, sul quale il Papa
insegna da papa, autorevolmente. Del resto possiamo facilmente evocare
fondamenti biblici: nelle note dell’enciclica Lavorando che
ho citato prima ve ne sono diversi. Dunque, riparare alle ingiustizie sociale
richiede propriamente una conversione. Specialmente quando si
pensa che siano ingiusti l’esclusione, l’emarginazione, l’essere senza diritti,
in particolare senza lavoro.
*************************
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI DELEGATI DELLA
CONFEDERAZIONE ITALIANA SINDACATI LAVORATORI (CISL)
Aula Paolo VI
Mercoledì, 28 giugno 2017
dal
Web: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170628_delegati-cisl.html
Cari fratelli e sorelle,
vi do il benvenuto in occasione del vostro
Congresso, e ringrazio la Segretaria Generale per la sua presentazione.
Avete scelto un motto molto bello per questo
Congresso: “Per la persona, per il lavoro”. Persona e lavoro sono due parole che possono e devono stare insieme.
Perché se pensiamo e diciamo il lavoro senza la persona, il
lavoro finisce per diventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone
dimentica e smarrisce sé stesso. Ma se pensiamo la persona senza lavoro,
diciamo qualcosa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in
pienezza quando diventa lavoratore, lavoratrice; perché l’individuo si fa persona quando
si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro.
La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione
che l’umanità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di
persone cooperano semplicemente lavorando: educando i
nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando pratiche in un
ufficio... Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né
sempre intenzionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta
avanti il mondo.
Certo, la persona non è solo lavoro… Dobbiamo
pensare anche alla sana cultura dell’ozio, di saper riposare. Questo non è pigrizia,
è un bisogno umano. Quando domando a un uomo, a una donna che ha due, tre bambini:
“Ma, mi dica, lei gioca con i suoi figli? Ha questo ‘ozio’?” – “Eh, sa, quando
io vado al lavoro, loro ancora dormono, e quando torno, sono già a letto”.
Questo è disumano. Per questo, insieme con il lavoro deve andare anche l’altra
cultura. Perché la persona non è solo
lavoro, perché non sempre lavoriamo,
e non sempre dobbiamo lavorare. Da bambini non si lavora, e non si deve
lavorare. Non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi. Ci sono
molte persone che ancora non lavorano, o che non lavorano più. Tutto questo è vero e conosciuto, ma va
ricordato anche oggi, quando ci sono nel mondo ancora troppi bambini e ragazzi
che lavorano e non studiano, mentre lo
studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi. E quando non sempre e non a tutti è
riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera
né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno
grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del
tempo del lavoro diventino perenni. O
quando un lavoratore si ammala e viene scartato anche dal mondo del lavoro in
nome dell’efficienza – e invece se una persona malata riesce, nei suoi limiti,
ancora a lavorare, il lavoro svolge anche una funzione terapeutica: a volte si
guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.
E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani
a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di
giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per
tutti. Quando i giovani sono
fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo,
innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che
rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità. È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto
sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima
stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere
di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai
figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote
con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta.
Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento sindacale deve affrontare e
vincere se vuole continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene
comune.
La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa
del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindacato è espressione del profilo
profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte
che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero
“venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i
potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa
dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. Come dimostra anche la grande tradizione della
CISL, il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. Ma nelle nostre società capitalistiche
avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e
diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe
criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo
alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro
linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa
dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è
la profezia.
Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono delle
sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve
vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che
guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e
protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua
funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che
sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o
è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra
vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli
esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.
Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del
sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia,
dell’impresa. Questo è uno dei peccati più grossi. Economia di mercato: no.
Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha
insegnato San Giovanni Paolo
II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura
sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei
legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche
perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non
ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro. Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni in giù,
che non hanno lavoro. Qui. In Italia. E voi
dovete lottare lì! Sono periferie esistenziali. Non lo vede lottare tra gli
immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce
semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è
entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Non lasciatevi bloccare da questo.
So che vi state impegnando già da tempo nelle direzioni giuste, specialmente
con i migranti, con i giovani e con le donne. E questo che dico potrebbe
sembrare superato, ma nel mondo del lavoro la donna è ancora di seconda classe.
Voi potreste dire: “No, ma c’è quell’imprenditrice, quell’altra…”. Sì, ma la
donna guadagna di meno, è più facilmente sfruttata… Fate qualcosa. Vi
incoraggio a continuare e, se possibile, a fare di più. Abitare le
periferie può diventare una strategia di azione, una priorità del
sindacato di oggi e di domani. Non c’è
una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non
rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre
scartate dell’economia in pietre angolari. Sindacato è una bella
parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia
insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.
Vi ringrazio per questo incontro, vi benedico,
benedico il vostro lavoro e auguro ogni bene per il vostro Congresso e il
vostro lavoro quotidiano. E quando noi
nella Chiesa facciamo una missione, in una parrocchia, per esempio, il vescovo
dice: “Facciamo la missione perché tutta la parrocchia si converta, cioè faccia
un passo in meglio”. Anche voi “convertitevi”: fate un passo in meglio nel
vostro lavoro, che sia migliore. Grazie!
E adesso, vi chiedo di pregare per me, perché
anch’io devo convertirmi, nel mio lavoro: ogni giorno devo fare meglio per
aiutare e fare la mia vocazione. Pregate per me e vorrei darvi la benedizione
del Signore.
[Benedizione]
71. Le
culture, veri miracoli dell’umanità
Le culture umane sono un vero miracolo, un
evento prodigioso.
Cultura significa complesso di costumi,
conoscenze, tecnologie, concezioni sul mondo, metodi di relazioni sociali e
comprende anche le religioni. Le culture sono in continuo mutamento, per
adattarsi alle condizioni delle società umane che le esprimono. Ci consentono
di superare i nostri limiti individuali e di specie.
Come persone abbiamo angusti limiti cognitivi, possiamo intrattenere
vere relazioni con più o meno duecento nostri simili, che corrispondono
all’incirca a una famiglia allargata di una volta. Del resto è questo l’ambito
sociale dei viventi che ci sono più simili. La nostra mente, che governa le
relazioni sociali, si è formata circa duecentomila anni fa, è uno strumento
biologico molto, veramente molto più antico di ogni nostra civiltà. Le più
antiche vengono situate intorno ai diecimila anni fa. La storia viene fatta iniziare
intorno ai cinquemila anni fa, con la pratica della scrittura. Quindi i limiti
che abbiamo come individui corrispondono a quelli che abbiamo come specie.
Come riusciamo a far funzionare società che globalmente
comprendono circa otto miliardi di individui? E’ appunto questo il miracolo ed
è prodotto dalle culture. Tra i fenomeni culturali le religioni sono tra più
potenti strumenti di integrazione sociale. Mediante la spiritualità consentono
di collegare la persona alle società più vaste, che rimarrebbero inconoscibili
al singolo per i suoi limiti cognitivi. E anche di collegare passato e futuro,
dando una direzione all’evoluzione sociale. E, infine, di pensare una
paternità/maternità condivisa, sia come genitori sia come figli, e quindi ad
una famiglia umana.
Ci si può occupare di un’altra persona come fanno un padre o una madre,
biologici o adottivi? E’ occupazione che richiede di spendersi totalmente per
l’altro. Anche i genitori non lo fanno per l’intera loro vita con la stessa
intensità. In questi giorni è stata ricordata la figura di un maestro
straordinario, Lorenzo Milani, il quale, in definitiva, si occupò, esercitando
anche una vera e propria paternità spirituale e civile, di poche decine di
ragazzi. Come estendere quell’intensità ad otto miliardi di persone? E’ appunto
l’opportunità che ci è data dalla cultura di una società.
Ecco perché, nella formazione religiosa e nelle relazioni che si hanno
in religione, è importantissimo quel lavoro che si definisce mediazione culturale.
72.Partire da lontano per
capire i vicini
Ma che ci serve ragionare su fatti di
duecentomila anni faper lavorare in parrocchia? Ma anche solo diecimila anni
indietro non sono troppi? Non basta guardare ciò che si ha intorno?
Non basta.
Non è così che si ragiona in religione.
C’è una parte delle Scritture che mi ha
sempre terrorizzato. E’ dove si legge di com’era prima che arrivassero gli
esseri umani. Si comincia veramente da molto lontano. Da un universo informe
che man mano diventa più simile a quello che ci è familiare. Ci sono
state ere in cui non c’eravamo! Poi comincia a girare gente simile a noi,
ma le civiltà vengono dopo. Tornare indietro non si può. E’ scritto che degli
angeli sbarrano la strada, con spade fiammeggianti. Il tempo, il
nostro tempo, ha una direzione, un orientamento, va avanti. C’è un prima, c’è
sempre un dopo diverso dal prima, e noi che brulichiamo in mezzo, un po’
come gli altri viventi. Brulicare? Per gli esseri umani si capisce
che non si tratta solo di questo. Ad un certo punto è scritto delle nazioni.
Ce n’è un lungo elenco, veramente difficile da ricordare. La gente si
disperde per tutta la terra, ma ormai ha un’organizzazione
politica. La storia sacra
comincia più o meno quattromila anni fa tra l’attuale Iraq e l’attuale Egitto,
nel corso di una lunga migrazione, da Meridione a Settentrione e poi da Oriente
a Occidente e di nuovo verso Meridione.. Più o meno nello stesso periodo si pensa che i Latini siano
scesi in Italia. Facevano parte di popoli che gli studiosi chiamano indoeuropei e
che erano migranti. Parlavano lingue che avevano
caratteristiche comuni. Nell’Enciclopedia Treccani se ne elencano dodici rami:
Indiano (sanscrito e altre lingue), Iranico, Tocario, Armeno, Albanese, Greco,
Italico, Celtico, Germanico, Baltico, Slavo, Hittito. C’è anche una certa
parentela tra i parlanti quelle lingue? Le indagini genetiche cominciano a
darci risposte. Ci consentono di ricostruire lunghissime migrazioni di popoli
dal luogo originario, in Africa, a oriente della Valle del Rift, dalle
parti tra la Tanzania, l’Uganda e l’Etiopia. Ma al centro della storia sacra ci
sono i semiti, che parlavano lingue di una diversa famiglia. Gli
Hittiti compaiono in Gen 15,20. Vengono riferiti loro discorsi in Gen 23.
Ma non è sicuro che si tratti degli Hittiti che parlavano indoeuropeo. La
loro civiltà infatti si diffuse più tardi. Tra tutte queste civiltà antiche,
ognuna con la sua cultura, non è facile raccapezzarsi. Perché, poi
è diventato più semplice? Assolutamente no. Quando la storia, quindi
le culture umane, fanno la comparsa nelle Scritture, tutto si
complica. Di quella storia bisogna però raggiungere una memoria
affidabile e quelle culture vanno capite, a partire dalle
loro lingue. Le Scritture sono fatte per essere lette e capite, ma
non sono una lettura facile: vengono da varie culture, molto
antiche, e molte generazioni ci hanno lavorato sopra per trasmetterne una
memoria affidabile. Ma lo hanno fatto secondo le proprie culture,
quindi, studiando, si può riconoscere la mano e il pensiero di chi ha
collaborato nella tradizione.
Che cosa sono quattromila anni, sui
circa duecentomila della nostra specie? Non tutto ciò che è importante per noi
è compreso negli ultimi quattromila anni. La nostra mente, ad esempio. E’ più o
meno quella di duecentomila anni fa. Così come il nostro corpo. Le culture,
invece, si sono evolute sempre più rapidamente, in particolare negli ultimi due
secoli, ma in modo veramente frenetico negli ultimi cinquant’anni. Questo crea
dei problemi. E’ come se il tempo accelerasse. E indietro non si può tornare.
Ricordate, ci sono quegli angeli a chiudere la strada.
Oggi siamo preoccupati delle migrazioni
umane. Perché? Possiamo considerare gli esseri umani dei migranti nati.
E’ invece la rapidissima evoluzione delle culture che costituisce un bel
problema. Ne va infatti della nostra vita. Per consentire la sopravvivenza di
un’umanità di circa otto miliardi di persone occorre integrarle così
rapidamente come evolvono. Capire per trasformare per sopravvivere:
ecco che cosa c’è da fare, ma molto più velocemente di prima.
E la religioni? Fanno parte di quelle
culture che evolvono, si sono evolute anch’esse, alcune molto rapidamente, in
particolare la nostra, che è stata quella praticata dai dominatori del mondo,
gli europei. Ci sono segni che il loro, il nostro, dominio stia tramontando. Si
sta affacciando nel mondo, tra i
dominatori, la cultura cinese, che è in cerca di una neo-religione;
oggi è ancora piuttosto europeizzata. Forse, nell’era della fine, anche
l’evoluzione della religione degli europei si farà più lenta. Ma per ora
condivide quella, velocissima, delle culture che li caratterizzano.
Ma c’è qualcosa che rimane?
E’ appunto questo il problema
della mediazione culturale. Non si tratta, come sostengono i
reazionari, di adattare la religione ai gusti dei
contemporanei. Si tratta di riconoscere nella religione ciò che è espressione
di culture sorpassate dall’evoluzione sociale e ciò che non lo
è, ma appartiene alla struttura originaria della fede.
Quando cambia quest’ultima si passa ad un’altra religione. Il resto può
evolvere senza problemi. E se non si riesce a farlo, la religione diventa
cultura inutile e passa tra le cose che vengono superate. Nessuno oggi,
nell’Europa di oggi, si sente, in genere, obbligato a sterminare i vinti, come
troviamo prescritto in alcuni passi delle Scritture, molto antichi. Così, ai
tempi nostri, in Europa, riteniamo barbaro punire con la morte gli eretici o i
blasfemi. Nelle Scritture lo troviamo invece prescritto, anche qui in passi
antichi. Ma molto a lungo in Europa la si è pensata così, fino a circa tre secoli
fa: è stato l’emergere delle democrazie moderne ad aver cambiato, tra gli
europei, quelle concezioni. Sterminare i vinti e massacrare eretici e blasfemi
non rientrano, evidentemente, nella struttura originaria della nostra fede. Ci
siamo convinti che si poteva farne a meno. Ci ha convinti un lavoro di
mediazione culturale.
Una cultura si può anche immaginare.
L’immaginazione dà una certa libertà. I rivoluzionari in genere immaginano, poi progettano e
infine agiscono. Ma fino a che punto è utile immaginare in
religione? Le Scritture sono piene di sogni e di sognanti.
Ma che succede a quelli che immaginando finiscono per
vivere in un sogno? Ci sono quelli che, ad esempio, sognano di
riportare indietro la storia e di far rivivere culture del passato, recente o
meno recente. Che succede poi, nel confronto con la realtà?
Ad altri piace immaginarsi un
passato, liberamente interpretato, da calare nel presente. Allora non è neanche
il passato che si vuole fare tornare, ma è un neo-passato che
si vuole costruire.
Si tratta di esperienze realmente
vissute in religione, tante volte.
Non c’è mediazione culturale se non si
resta ancorati alla realtà. Abusando dell’immaginazione si pensa di sopprimere
uno dei poli da mediare.
Nell’immaginazione le cose sembrano
facili, perché, nel sogno, si superano i limiti della realtà sociale in cui si
opera. Ma quando poi ci si sbatte contro? Non si è fatto lo sforzo di capirla e
i sogni funzionano solo nel tempo dei sogni, che è limitato. Si costruiscono
così Disneyland religiose, belle per esperienze forti limitate.
Allora c’è il mondo del sogno, quello della religione, e quello reale: si va
dall’uno all’altro, ma lo stacco c’è, si avverte, le
regole per vivere nei due mondi sono diverse. La cultura però è una sola,
quella reale, l’altra è solo sogno. La religione in questo modo diventa psichedelica, perché
introduce in realtà di sogno, che realtà però non sono e
presto svaniscono. Non è questo che, oggi, mi pare ci venga chiesto
come fedeli.
Tornare indietro non si può! Ci
sono quegli angeli, di cui ho scritto sopra, che lo impediscono.
Non si può essere reazionari in religione. E dove c’è, nei fondamenti della
nostra religione, l’autorizzazione a vivere realtà psichedeliche?
Non è vero che siamo stati mandati per il mondo a incontrare tutte
le genti? Anche alle Valli è così. Conosciamo la gente tra la quale viviamo,
qui nel nostro quartiere? Capiamo la loro cultura? E’ questo il nostro
problema, che è poi il problema di sempre dell’umanità, da quando c’è la storia e
ci sono le culture. I nostri limiti cognitivi di specie ci rendono
difficile incontrare moltitudini: ma la spiritualità è
un mezzo potente per riuscirci. Nella comune spiritualità riusciamo a incontrare gente
che nella nostra vita non riusciremo mai a conoscere. La spiritualità
religiosa, allora, non è necessariamente evasione dalla realtà, ma
può essere un mezzo molto efficace per immergervisi e capirla veramente.
Accostando grandi maestri di spiritualità si ha la sensazione di uscire dalla
cecità, di vedere finalmente le cose come sono. Come è scritto: “Si
aprirono i loro occhi”.
Restare ancorati alla realtà non è
sempre facile, perché è in genere è faticoso, richiede un impegno costante,
un’etica, e può anche essere doloroso. La realtà infatti in genere è meno
bella di come vorremmo, delude i nostri sogni. Di una parte del male che in
essa c’è siamo corresponsabili; questo la rende, oltre che dolorosa,
disonorevole. Si rivive l'esperienza della narrazione biblica della cacciata
dal Paradiso terrestre. Tra cinquant'anni, probabilmente, gli storici
tratteranno gli europei di oggi, per come si sono condotti con i migranti, come
i peggiori criminali sociali del passato. Però noi, adesso, ci consoliamo con
un’altra narrazione, in cui noi siamo poveri e buoni, e per questo incolpevoli,
e gli altri sono gli aggressori. Eroici, siamo: è stato detto.
Davvero ci crediamo? Qualche eroe c’è veramente. Ed è ogni persona che riesce a
salvare una vita a rischio della sua. E’ benedetto chi fa così. Ha un posto nel
Regno, è scritto. In religione si pensa che non ci sia segno di benevolenza
più grande. Incontrare veramente la gente, capire veramente
le culture umane, spinge in genere a quel cambiamento profondo di mentalità che
definiamo conversione e che può essere espresso anche
con le antiche parole metànoia (greco antico, la lingua
delle Scritture originate dalle nostre prime collettività di fede) o teshuvah (ebraico,
la lingua delle Scritture più antiche). E’ questo che poi spinge a salvare le
vite degli altri.
73. Come si è popolo in religione?
Che
cos’è un popolo?
E’ una questione molto importante,
perché, in religione, riteniamo di essere un popolo.
La risposta che si dà rileva anche in
sede locale, in una realtà come la parrocchia.
Nel pensiero giuridico il popolo è gente
soggetta ad un’autorità politica riconosciuta ed effettiva in un determinato
territorio. Per circa mille anni, dall’Undicesimo secolo e fino al Concilio
Vaticano 2° (1962-1965) la nostra gerarchia del clero ha voluto essere quell’autorità,
in religione. Nel primo millennio, dal Quarto secolo della nostra era,
quell’autorità è stata invece impersonata da monarchi civili, a partire dagli
imperatori romani con potere politico sacralizzato secondo
la nostra fede. La conquista dell’autorità propriamente politica da parte del
papato romano si ha tra l’Ottavo e l’Undicesimo secolo. Alla fine del processo,
il papato romano si presenta e vuole farsi accreditare dagli altri monarchi
civili come suprema autorità politico-religiosa. Questo storicamente ha
generato conflitti politico-religiosi per tutto il Secondo millennio e, tutto
sommato, anche ai nostri giorni. Un conflitto di questo tipo è quello che si
nota tra l’autorità del Papa attualmente regnante e il presidente statunitense
Donald Trump, che diffondono magisteri antitetici. In epoca contemporanea
scontri del genere ci sono stati con il liberalismo, il nazionalismo italiano
di impronta cavouriana-mazziniana, il cristianesimo-democratico e,
particolarmente acceso e irriducibile, con il socialismo e ancor più con il
comunismo di tipo marxista leninista, in particolare con quello, di tipo neo-religioso,
diffuso dal regime sovietico.
In sostanza, per circa mille anni, il
papato romano si è fatto insegnare l’autorità politica dalla cultura dei propri
tempi. Questo è accaduto anche quando iniziarono a svilupparsi processi
democratici, dal Settecento. L’apprendimento della democrazia è stato però
particolarmente faticoso, travagliato, controverso ed è ancora in corso.
Le democrazie contemporanee teorizzano
la sovranità del popolo. Si tratta di una rivoluzione
culturale di grande rilevanza nella storia dell’umanità. Il popolo è definito
dalla soggezione ad un’autorità politica, ma quest’ultima la si vuole nelle
mani del popolo.
La riflessione sul popolo e sul suo
ruolo nelle dinamiche religiose è stata al centro del dibattito svoltosi tra i
saggi riuniti a Roma nel Concilio Vaticano 2°. Non è stata detta una parola
definitiva. Si è lavorato anche su dogmi, sulle concezioni ritenute fondamentali
per definire la fede. Il risultato è stato un compromesso: è stata mantenuta
l’antica struttura feudale del potere del clero, affiancando i laici, vale a
dire il resto del popolo come consulenti e forza operativa
nella vita civile. Questo ha generato notevoli tensioni che si sono manifestate
in particolare nel decennio seguente quel consesso, negli anni ’70, nella fase
attuativa. Nel lungo pontificato di Karol Wojtyla si sospese d’autorità il
dibattito, per quanto quel Papa avesse chiara consapevolezza della latenza del
problema, in particolare della necessità di ridefinire il ruolo del papato.
L’accettazione della democrazia politica nell’organizzazione delle società
civili, venuta nel 1991 con l’enciclica Il Centenario, di quel
Papa, conseguì a un decennio di sperimentazione in Polonia di un’azione
politico-religiosa in cui i laici erano stati fondamentali, realizzando il
passaggio da un regime di totalitarismo di tipo sovietico marxista leninista ad
una democrazia di tipo Occidentale, realizzata a partire dal 1990, con la
presidenza di stato del cattolico Lech Walesa, strettamente legato al Wojtyla.
Tuttavia il modello di integrazione che aveva funzionato nella Polonia degli
anni ’80 non lo ha fatto più bene in regime democratico: si ebbe l’affermazione
di un nazionalismo sacralizzato, con sostanziale strumentalizzazione politica
della fede. La società polacca, nel complesso, appare ampiamente laicizzata,
molto distante dagli ideali religiosi nella vita pratica, al mondo delle altre
società civili dell’Europa settentrionale.
Negli sviluppi dell’attuazione dei
principi del Concilio Vaticano 2°, si è riconosciuto:
-che clero e laici fanno parte di un
medesimo popolo;
-che entrambi hanno diritto ad avere voce.
Tuttavia, in genere, la voce del
popolo è silenziata da quelle dei centri di potere del clero. Tutto il
potere politico-religioso è in fondo rimasto al clero. Negli istituti di
partecipazione, i vari consigli che si sono fondati, il
ruolo dei laici, in genere, non va oltre quello di docenti e
di consulenti.
Ai tempi nostri le democrazie
occidentali manifestano una crisi generalizzata. E’ stato osservato che il
potere politico si è trasferito ad entità diverse da quelle costituzionali.
Niente di soprannaturale, anche se spesso soggetti come il mercato vengono
presentati con caratteristiche di quel tipo. La globalizzazione, l’unificazione
totale dei modi di produrre e di commerciare, ha richiesto accordi
sovranazionali i quali hanno definito un’autorità politica globale che è la
risultante delle potenze economiche che controllano i mercati e i flussi
finanziari. La creatura, originata da accordi tra stati, è sfuggita al
controllo di questi ultimi. Il nostro stile di vita in Occidente, ma in genere
anche nelle altre parti del mondo, dipende dal mantenimento di quell’assetto
politico, che però impedisce di realizzare giustizia sociale perché consente
una sorta di extraterritorialità del capitale: significa
che chi ha risorse da investire può rapidamente sganciarsi da ogni situazione
di crisi sociale e industriale, mettendosi al riparo, con i propri soldi,
altrove. Da questo deriva la crisi dello stato del
benessere, quello che correggeva le diseguaglianze con prestazioni
pubbliche di benessere, come sanità e previdenza sociale. Ha sempre meno
risorse.
La crisi delle democrazia occidentali
non favorisce certo l’acculturazione alla democrazia in religione. Si comincia
a pensare di poterne fare a meno. In religione di praticano poco i processi
democratici e, soprattutto, non si è sviluppata, o non a sufficienza, una spiritualità adeguata.
Coesistono, principalmente, spiritualità del passato. Quando si passa alla
pratica, a cercare di impersonare quella spiritualità sorgono problemi.
Ad esempio: il Papa regnante vive in un
albergo, in un bell’albergo in Vaticano, ma pur sempre in un albergo. Questo
urta molti. La spiritualità del Papa-Re è ancora molto diffusa. Ma è in genere
il modello dell’episcopato monarchico che non soddisfa più. La linea infatti è
data, in genere, dalla Conferenze episcopali, organismi che
risentono di processi democratici.
In un documento come l’enciclica Laudato
si’ il laicato è stato molto di più di un’accolita di consulenti. Lo
ha riconosciuto espressamente il suo autore. Dal laicato sono emersi i principi
di azione sociale, che poi si sono innestati in una nuova spiritualità nella
quale si avverte l’impostazione del Papa regnante. Il compito del popolo di
fede, oggi, non solo quindi del laicato, è di continuare in quella direzione,
sperimentando il nuovo prima di teorizzarlo e teorizzandolo mentre lo si
sperimenta.
74. Popolo sognato
La teologia, in genere, non ha
un’immagine realistica del popolo, ed essa è la parte più importante della
formazione dei nostri capi religiosi. Eppure, teorizzando, dà molta importanza
al popolo in tema di verità: in sostanza esso avrebbe un intuito
innato per individuarla, anche se poi c’è sempre necessità di qualcun altro che
gliela spieghi.
Nella Costituzione La
gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) si legge: «L'universalità
dei fedeli, che hanno l'unzione ricevuta dal Santo (cf. 1 Gv. 2,
20 e 27), non può ingannarsi nel credere, e manifesta questa sua singolare
proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo,
quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" (S.
Agostino, De Praed. Sanct. 14, 27) esprime l'unanime suo
consenso in cose riguardanti la fede e i costumi». Se ne è anche scritto come
di infallibilità del Popolo di Dio (ad esempio nella Dichiarazione circa
la Dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori d'oggi,
diffusa nel 1973 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede).
Mille anni di crudele polizia
ideologica religiosa (modello di tutte le altre inquisizioni politiche)
potrebbero però convincerci del contrario: questi sono fatti. Se è necessario
trucidare la gente per mantenere la disciplina dottrinale, non è proprio
evidente che verità e popolo vadano naturalmente d’accordo.
Ma che cos’è la verità? E’ una domanda che risuona anche nelle
Scritture. Di fatto sembra che non sia mai stato facile stabilirlo. Se ne è
discusso molto per tutti i due millenni della storia della nostra fede. Spesso
non ci si è intesi e allora ci si è anche combattuti. Accade anche ora, ma i
limiti all'accanimento contro gli altri imposti nei sistemi democratici
impediscono esiti tragici.
C’è un verità che riguarda anche
il popolo. Qui bisogna scegliere: averne una visione affidabile,
corrispondente alla sua realtà, o immaginarsela per progettare qualcosa di
diverso. Da chi è fatto il popolo che rileva per la fede? Oggi, in genere, si
pensa che sia l’intera umanità, su tutta la Terra. Se ne vorrebbe fare una sola
famiglia. In passato se ne ebbero altre concezioni, più limitate. E’ un po’
quello che accade ai tempi nostri con i migranti indesiderati, quelli che
vengono dalle nostre parti senza permesso. E’ gente di cui dobbiamo occuparci?
Una risposta, che è quella che è venuta l’altro giorno da uno dei capi politici
italiani, e prima di lui da altri come lui, è che “Noi non abbiamo il dovere
morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. Aiutiamoli a casa
loro”. Che significa: respingerli. Di parere
diverso è il nostro Padre Francesco, che ci esorta invece ad accoglierli.
Entrambi ritengono che si debba aiutarli, ma, è chiaro, una cosa è darsi da
fare subito, su gente che si ha vicina, su persone concrete, con necessità
immediate, altra programmare di farlo da lontano. Da vicino le persone
sono veramente persone. Da lontano le persone diventano gente e
poi popolo, e popolo di cui, per la lontananza, si tende ad
avere una visione confusa, come appunto accade quando si guardano le cose da
lontano. E, aggiungo, quando ci si comincia a fare sconti sui doveri morali è
poi tutta una china che va verso quella direzione e, in fondo, ripete la
tragica situazione che troviamo all’inizio della storia sacra
con quel “Dov’è tuo fratello?”.
Nella nostra
confessione la verità è stata legata storicamente all’autorità,
non al popolo. Si è pensato che la verità, scesa del
Cielo, fosse proclamata in modo affidabile, ma anche obbligatorio,
dall’autorità religiosa costituita, che a metà Ottocento è stata poi definita
inderogabilmente nel papato, dal punto di vista dogmatico e giuridico. Vale a
dire che si ritiene fondamentale, per la fede, credere che il papato
possa dire in merito una parola definitiva. E questo nonostante la catena
infinita di errori che il papato imperiale, come ogni
altra autorità politica, ha commesso storicamente in ogni campo dello scibile
umano, a volta correggendosi e a volte no. Insomma si confida che in materia di
fede, quando usa certe formule solenni e impegna la propria
autorità sacrale, il papato non sbagli. La decisione di quella svolta
dogmatica venne in tempi turbolenti, nel corso di un travagliato Concilio
Vaticano 1°, quando, in fondo, la fiducia dei nostri capi religiosi nella
capacità del popolo di intuire la verità era veramente ai minimi. Infatti
sembrava che stesse per crollare un mondo. E’ un po’, in fondo, anche la situazione
dei tempi nostri.
In genere l’autorità
religiosa si è ritagliata il proprio popolo
a misura delle definizioni di verità di volta in volta escogitate. Il suo popolo era quello che subiva il fascino della verità
proclamata d’autorità e come gregge seguiva il suo pastore e
la sua voce, senza porre problemi. Ma questo modo di procedere non ha
funzionato più tanto bene quando si è trattato di interloquire in processi
democratici. Questo si è reso necessario più o meno dall’Ottocento, in Europa,
con la metamorfosi, e talvolta il crollo, delle monarchie europee con cui
il papato si era federato, con concordati o accordi simili. Questo in particolare
in rapporto con i movimenti nazionalistici italiani prima e con il
Regno d’Italia poi.
Innanzi tutto, con la fondazione
dell’Azione Cattolica, all’inizio del Novecento (ciò che c’era prima nel
laicato italiano era piuttosto diverso), si è tentato di costituire un corpo
politico coerente agli ordini del papato. Poi, dal secondo dopoguerra, si è
accettata una collaborazione politica dei laici con sempre maggiore autonomia,
nelle istituzioni pubbliche civili, fino alla formale accettazione della
democrazia politica nel 1991. In questa fase sono tornati utili il lavoro
sistematico di formazione del laicato fatto nei decenni precedenti e il
ripianare i contrasti con la componente cattolico-democratico del laicato, con
la mediazione di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro. Negli anni a
seguire, quindi negli anni ’90, si è provato a riprendere il controllo diretto
del popolo che politicamente serviva, senza la mediazione dei
cattolico-democratici, ma non è andata bene e ora non si sa più che fare. La
lunga sfiducia manifestata sotto il regno religioso di Karol Wojtyla verso il
laicato adulto italiano, vale a dire relativamente autonomo,
quello che Fulvio De Giorgi ha paragonato in un suo fortunato libro al brutto
anatroccolo, con il tentativo di silenziare il libero dibattito sulla
maggior parte delle questioni per sospetto di deviazione in senso liberale o
marxista, e ciò più o meno fino all’inizio del regno del nostro
Padre Francesco, ha privato, in fondo, la gerarchia di un vero e proprio popolo.
Del resto non se ne è curata a sufficienza la formazione, non si è assecondata
una tradizione democratica, timorosi di perderne il controllo.
Ora spesso si avverte, da come ne
parlano, che i nostri capi religiosi non conoscono a sufficienza il loro
popolo, impegnati come sono in prevalenza, per la gran parte della loro
giornata che è di ventiquattro ore come quella di tutti noi, nell’amministrazione del
clero e dei religiosi degli istituti di vita consacrata, e dei beni
e aziende che al clero e agli istituti di vita consacrata fanno riferimento.
Francesco vorrebbe che avessero l’odore del gregge, vale a dire che
avessero maggiore dimestichezza con la gente, ma anche questa è una metafora
che presenta qualche rischio. Quando si parla di pastori ci
si riferisce ai capi, che dovrebbero essere come il Buon Pastore,
un pastore veramente particolare, che non sfrutta economicamente il gregge.
Ma pensare poi al popolo come a un vero e proprio gregge,
con la spiritualità, diciamo, della pecora, non aiuta. Le
persone non sono pecore, non vanno dove si dice loro di andare: bisogna
convincerle e spesso vogliono partecipare alle scelte. Noi laici
non siamo e non vogliamo essere pecore e, dico chiaramente quello che
gran parte di noi pensa e non si azzarda in genere a dire, non
riteniamo la docilità al modo di pecore una virtù. Tra pastore e gregge
non ci può essere dialogo. Tra persone sì. Ma la partecipazione
e il dialogo, che è innanzi tutto confronto tra diverse
argomentazioni, richiedono un tirocinio che in religione in genere non si fa o
si fa troppo poco. In Azione cattolica, ad esempio, si fa.
Il gregge ideale
venne talvolta individuato nel mondo contadino. Accadde nell’Ottocento. Le
popolazioni cittadine erano invece esposte, si riteneva, alle subdole insidie
delle nuove ideologie che si venivano affermando. I pastori dovevano
proteggere gli uni e gli altri, contadini e cittadini, con atteggiamento intransigente,
senza possibilità di mediazioni di qualsiasi genere. Si riteneva che non
si dovesse, non si potesse, ma in definitiva non si
volle fare diversamente. Ruppero con il nuovo stato nazionale
italiano. Questa fu fondamentalmente la posizione del papato dal 1870 alla
fondazione dell’Azione Cattolica nel 1906. Fu la privazione della democrazia
per i fedeli cattolici: una tragedia culturale e politica durata circa
cinquant'anni, e anni cruciali per la vita politica italiana. Ma il mondo
contadino serviva a poco, al dunque, perché era una forza sociale subalterna e
finché fosse rimasta tale, sebbene, almeno fino agli inizi del Novecento molto
numerosa, molto più di oggi. Questo richiese la collaborazione delle classi
colte e un lavoro di formazione sistematico tra la gente, a partire dai più
piccoli: fu affidato all’Azione Cattolica. In Italia, si era iniziato
spontaneamente a svolgerlo, da parte dei laici, nella seconda metà
dell’Ottocento, ma erano sorti, verso la fine del secolo, gravi dissidi tra
correnti intransigenti politicamente contrarie
all’integrazione nel nuovo stato nazionale italiano e correnti democratiche.
L’enciclica Le novità, del 1891, dalla quale si fa iniziare
la dottrina sociale contemporanea, venne dopo almeno due decenni di iniziative
sociali di laici e preti. Esse si manifestavano periodicamente in
un’istituzione nazionale che era l’Opera dei Congressi, sede di incontro per
coloro che in quelle azioni sociali erano impegnati. Non riuscendo a
controllare la situazione, il papato ripartì da capo con l’Azione Cattolica, ad
inizio Novecento, dopo aver posto termine d’autorità a ciò che c’era prima.
Fino al 1958, quando terminò il regno religioso di Eugenio Pacelli, la
struttura era centrata su un potere religioso-politico sacralizzato e
centralizzato, il papato romano, regnante religioso alla cui maestà la
gente si accostava al modo in cui faceva con i regnanti civili, con
lo stesso timoroso e sottomesso ossequio, e su masse politicamente e
sistematicamente formate a seguire gli indirizzi politici del papato nelle
questioni civili (per sostenere i diritti della Chiesa). Una
soluzione che ebbe notevole successo e che consentì un ruolo determinante dei
cattolici nella fase politica successiva alla caduta del fascismo. Dal ‘58 si
attivarono processi democratici e si ebbe una progressiva desacralizzazione del
potere politico del papato, sostituita dal fascino personale del
regnante. Si cominciò con il Papa-buono, Angelo Roncalli, e poi con
la spettacolare e lunga esperienza di Karol Wojtyla. In questa fase la
relazione mediatica tra regnante e masse fu molto importante e la gente fu
spinta a diventare popolo del Papa: un papismo ingenuo, non
sacralizzato, in cui la personalità e la vita del regnante erano molto
importanti e conosciute fin nei minimi dettagli (cosa inimmaginabile riferita
ai papi sacrali regnanti fino al 1958). Dagli anni
’80 il lavoro di formazione del laicato progressivamente si fece meno efficace
e i processi democratici annichilirono. Si riteneva, in definitiva, che fosse
sufficiente l’immedesimazione emotiva del popolo con
il regnante, che, nei grandi eventi di massa, appariva così efficace. Questo ha
creato un vuoto, una distanza, tra pastori e gregge,
per cui ci si conosce poco. Per la gente comune c’è stata, dunque, e a
lungo, prevalentemente la spiritualità-spettacolo, di massa, senza
vera partecipazione, ma solo presenza; per una stretta cerchia
di consulenti c’è stata la possibilità di avvicinare i capi
religiosi ma senza alcuna vera condivisione di responsabilità. Della partecipazione,
in fondo, si diffidava e non si sapeva nemmeno come gestirla: per questo
divenne carente anche la formazione. Dal 2005, in Italia, si è tentato di
rimediare: è del marzo di quell’anno la Lettera ai fedeli laici -
“Fare di Cristo il cuore del mondo” dellaCommissione
Episcopale per il laicato della Conferenza
Episcopale Italiana, nella quale si legge:
“A volte, può essere che il laico nella Chiesa
si senta ancora poco valorizzato, poco ascoltato o compreso. Oppure,
all’opposto, può sembrare che anche la ripetuta convocazione dei fedeli laici
da parte dei pastori non trovi pronta e adeguata risposta, per disattenzione o
per una certa sfiducia o un larvato disimpegno. Dobbiamo superare questa
situazione. Una cosa è certa: il Signore ci chiama; chiama ognuno di noi per
nome.
[…]
È indispensabile uscire da quello strano ed
errato atteggiamento interiore che faceva sentire il laico più “cliente” che
compartecipe della vita e della missione della Chiesa.
[…]
Se lo Spirito Santo è il protagonista
ultimo della vita personale, così come lo è della vita della Chiesa, non si può
ritenere che ci sia un’isola spirituale, cioè la comunità ecclesiale in cui
affidarsi alla guida dei pastori, e uno spazio operativo, cioè il mondo, dove
si è soli con la propria autodeterminazione. La responsabilità laicale comincia
nel partecipare attivamente là dove si assumono i grandi orientamenti delle
scelte cristiane sotto la guida di pastori; la fedeltà a Cristo e alla Chiesa
continua là dove si vive immersi nel mondo e nella relativa autonomia dei suoi
ambiti. Parte integrante di questa sintesi di vita del laico è la capacità di
raccordare sapientemente il suo essere e servire nella Chiesa, con il compito
di animare cristianamente la realtà del mondo.
[…]
In questo momento storico, in cui si va
plasmando la complessa fisionomia di una nuova civiltà planetaria; mentre la
comunità cristiana italiana si prepara a celebrare nel 2006 a Verona il suo
quarto Convegno ecclesiale nazionale, che ruoterà intorno a tali problemi, c’è
bisogno di una nuova primavera del laicato, che possa letteralmente rianimare,
in forme significative e comunicabili, tutti gli ambiti di vita in cui un
fedele laico può essere apostolo: nell’evangelizzazione e santificazione,
nell’animazione cristiana della società, nell’opera caritativa; nell’azione
pastorale della Chiesa, così come nella famiglia e nella vita pubblica; in
forme individuali e associate; delineando un nuovo stile di vita, segnato dalla
conversione dell’intelligenza e degli affetti, in cui l’intera rete delle
relazioni con se stesso, con gli altri e con il creato sia abitata dal soffio
dello Spirito. Ma per fare ciò bisogna ovviamente pregare, riflettere, estrarre
dal nostro tesoro «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52): essere cioè veri
cristiani.”
Da allora però non si è fatta molta strada.
Venuto meno un regnante
religioso con la personalità e l’indole adatte agli eventi spirituali
spettacolari, ci si è avveduti che la gente è preda del populismo,
che è quando ci si fa massa dietro a colui che conferma la gente nelle sue
paure o nelle sue tentazioni. Ma anche l’immagine del popolo che danno
i populisti è poco aderente alla realtà. Il populismo,
come certi fatti religiosi, è solo incantamento e, in genere, ha le gambe
corte, come si dice delle bugie, e disillude presto. Rimangono le persone con i
loro problemi di vita e accostarle costa fatica, ma alla fine produce, crea
relazioni più significative. Nel contesto dell’individualismo dei nostri
giorni, in cui sembra che ognuno viva per sé, o al massimo in famiglia,
possiamo figurarci un popolo disperso. Le scorciatoie
mediatiche per radunarlo si sono dimostrate piuttosto inefficaci: al massimo
fanno convergere una folla, che rapidamente si disperde, nel giro di qualche
ora o al più di qualche giorno. Eppure, come si sostiene fin dall’antichità,
gli esseri umani sono viventi sociali. E’ sufficiente creare delle
opportunità e si stabiliranno nuove relazioni. Ma bisogna accettare le persone
per quelle che sono, vale a dire esseri umani, non pecore, gregge.
Sì, in effetti noi laici abbiamo avuto l’impressione di essere stati poco valorizzati, ma
anche più di questo: sappiamo di contare poco o nulla. Si parla di noi laici,
nei convegni che fanno sulle nostre vite i nostri capi
religiosi, ma ci è abbastanza chiaro che di noi, di quelle nostre vite, non
sanno molto e, in più, decidono sulla base di molti partiti presi di dubbio
fondamento. Così, si coesiste ignorando tutto ciò, facendo finta che tutto vada
come deve. Quindi poi esistono due mondi, affiancati non integrati: quello
delle vite dei laici e quello del clero e dei religiosi. Ci si accosta perché
si ha bisogno gli uni degli altri, ma c’è poco più di questo. Potrebbe essere
diverso? Potrebbe. Perché no? Ma certe cose occorre inventarsele, e prima
ancora sperimentarle. Non sarà dall’ambigua teologia pastorale corrente,
piena di distinguo e di riserve, per cui con una mano sembra che si dia ma con
l’altra sicuramente si riprende, che verranno le soluzioni. Se il principio
rimarrà “tutto il potere al clero”, non si andrà molto avanti.
Il gregge rimarrà tale e tanti saluti a tutto…
75.
Grandi orizzonti
Quando fu eletto papa Karol Wojtyla, nell’ottobre del 1978, ci trovammo
in mezzo alla grande storia. Questo mentre il laicato italiano era
prevalentemente occupato in faccende di rilevanza molto minore, nazionale.
I movimenti
della destra religiosa, quelli che
volevano riportare le nostre collettività di fede ai tempi del papa Eugenio
Pacelli, a prima del Concilio Vaticano 2°, battagliavano con i
cattolico-democratici accusandoli dell’apparente dispersione della gente di
fede, in particolare della crisi del nostro associazionismo. Si proseguì così
per gran parte degli anni ’80, finché il mondo cambiò e sulle nostre
collettività di fede scese una lunga era glaciale, in cui tutto fu silenziato,
sospeso. Tutto fu sostituito dalla stupefatta adesione al magistero religioso e
politico del Wojtyla, attorno al quale si costruì la leggenda che fosse
l’artefice principale del crollo dell’impero sovietico. Come resistergli?
Di quella storia fui testimone: ho l’età per esserlo e mi interessava
molto.
Il lungo regno religioso del Wojtyla fu caratterizzato da un attivismo
politico internazionale intensissimo, al modo dei Papi della prima metà del
secondo Millennio. Egli, profondo conoscitore della situazione politica
dell’Europa orientale caduta sotto il dominio del sistema sovietico, aveva
intuito la metamorfosi incipiente dei comunismi dell’Europa orientale, analoga
e parallela a quella che si stava producendo anche in quelli dell’Europa
occidentale. All’inizio degli anni ’80 ci credevano in pochi. Egli si illudeva che ciò avrebbe aperto
opportunità alla vita di fede: come ora sappiamo, in questo si sbagliava.
Per capire il senso dei suoi orizzonti si possono leggere le sue
encicliche politiche, la “Il Redentore dell’uomo”, la “Lavorando” e la “Il Centenario”, quest’ultima per commemorare il secolo dalla prima
enciclica della dottrina sociale
contemporanea, la “Le novità”, del
1891. Erano grandi orizzonti, anche se centrati
prevalentemente sull’Europa. Wojtyla previde che nel giro di pochi anni
l’Europa si sarebbe unificata, sarebbe stata rimossa quella che Winston Churchill
chiamò “cortina di ferro”, il confine
corazzato e non oltrepassabile che
divideva le nazioni europee dominate dal capitalismo di tipo Occidentale da
quelle dominate dall’economica collettivistica sul modello sovietico.
Il Wojtyla non mancò certo di criticare il consumismo occidentale e lo
sfruttamento dei lavoratori in ambiente capitalista. Ma, come osservano i suoi
biografi [chi voglia approfondire può leggere
di Andrea Riccardi, Giovanni Paolo
II, la biografia], egli fondamentalmente apparteneva al mondo comunista; il
suo assillo principale era di ricongiungere quel mondo, il suo mondo, all’altra
parte dell’Europa, che era dominata dal capitalismo, ciò che non poteva farsi
senza abbattere l’economia comunista e i sistemi politici comunisti: era per questo che, presentandosi per la prima volta dopo la sua elezione ai
fedeli in piazza San Pietro (tra i quali c’ero anch’io), ci disse di venire da un paese lontano,
“lontano, ma sempre così
vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana.” Scrive Riccardi nel libro che ho citato (pag. 159):
“A Cracovia si soffriva la forzata lontananza dal
cuore dell’Europa, proprio nella città che era divenuta un punto di rifugio della cultura polacca nel
clima asburgico e nel contatto
con quella austro-tedesca. Un papa di Cracovia non è distante dal resto
dell’Europa. Ma il papa viene da lontano non per la distanza geografica o
culturale, ma perché appartiene al mondo comunista.
[…]
L’utopia
europea di Giovanni Paolo II si radica nella sua cultura che guarda all’Europa
da quella particolare giuntura tra mondi che è la Polonia. Nell’enciclica
Slavorum Apostoli [=Apostoli degli slavi; ci si
riferisce ai santi Cirillo e Metodio], Giovanni
Paolo II si definisce «il primo papa chiamato alla sede di San Pietro dalla
Polonia e, dunque, dal mezzo delle nazioni slave». Il papa parla spesso di
un’Europa che respira con «due polmoni», alludendo alla tradizione occidentale e orientale (a questa espressione
- disse a padre Duprey - lo aveva familiarizzato un suo professore di
seminario). L’immagine dei «due polmoni» è del russo Viaceslav Ivanov, vicino a
Solov’ev, esule a Roma, professore di letteratura russa al Pontificio Istituto
Orientale. Ivanov, accostatosi al cattolicesimo senza abiurare l’ortodossia,
morì a Roma nel 1949. E’ significativo che Giovanni Paolo II abbia ricevuto nel
maggio 1983 i partecipanti a un convegno
su questo intellettuale russo. In
quell’occasione ricorda le parole di
Ivanov in una lettera del 1930, in cui affermava di aver sofferto per la divisione «dall’altra
metà di questo tesoro vivente di santità e grazia, e di respirare, per così
dire, come un tisico con un solo polmone». Un cattolico, per il papa, «deve
avere due polmoni, cioè quello orientale e occidentale.”
Questo suo problema principale, riunire le due parti d’Europa
portando l’oriente verso l’occidente,
portò Wojtyla a non comprendere l’evoluzione del socialismo dell’Europa
occidentale, in particolare di quello italiano, e a diffidare di quello
dell’America Latina. Trattò le questioni relative, per ciò che riguardava le
collettività di fede, tagliando corto, senza accettare nessuna mediazione,
costruendo un’angusta gabbia ideologica in cui volle rinchiudere la ricerca
teologica, in particolare con l’imposizione normativa del suo Catechismo
della Chiesa cattolica, del
1992-1997. A ciò si accompagnò una politica di severa polizia ideologica verso
i dissenzienti tra il clero e i religiosi.
L’azione politica del papa Wojtyla ebbe
risvolti spettacolari in Polonia, con l’azione del partito-sindacato Solidarnosc, che in fondo trovò il suo programma nelle
encicliche Il Redentore dell’uomo e Lavorando. Le urgenze degli eventi polacchi
portarono il Wojtyla piuttosto vicino all’amministrazione del presidente
statunitense Ronald Reagan, espressa
dalla destra politica. Ma vi furono contatti, e forse intese, anche con il
comunista Michail Gorbacev,
presidente dell’Unione Sovietica e ultimo segretario del Partito comunista
dell’Unione Sovietica, negli anni ’80 impegnato in una profonda riforma del
sistema sovietico, caratterizzata dai due principi della glasnost, che significa trasparenza,
e della perestroika, che significa rinnovamento, ricostruzione. Il Gorbacev
decise di non far intervenire le forze militari del Patto di Varsavia,
l’alleanza tra gli stati comunisti dell’Europa orientale dominati dai
sovietici, per bloccare gli sviluppi politici che si stavano rapidamente
manifestando, e questo consentì la caduta dei regimi comunisti dell’Europa
orientale e la riunificazione dell’Europa, in particolare della Germania, della
quale fu protagonista il democristiano Helmut Kohl. La Germania riunificata fu
il principale motore della costruzione dell’Unione Europea, che comprende anche
stati che furono sotto il dominio dei sovietici e del comunismo di ispirazione
marxista-leninista-staliniana, e ne è rimasta lo stato guida, con la
democristiana Angela Merkel. Il disegno politico del Wojtyla si è così
compiuto, anche se ciò che si sta manifestando negli stati dell’Europa orientale
appare molto diverso dai suoi auspici religiosi.
Mentre il Wojtyla era impegnato in questo grande disegno politico, che
comprendeva anche la progettazione di un futuro democratico per gli stati
usciti dai sistemi politici comunisti, secondo gli indirizzi dell’enciclica Il Centenario, le collettività di fede
italiane svolsero ruoli marginali e prevalentemente centrati sui rivolgimenti
italiani. I reazionari cercarono di accaparrarsi il favore del Papa, con un
certo successo. Gli altri si chiusero in difesa, in particolare nella nuova
Azione Cattolica uscita dall’attuazione del Concilio Vaticano 2° e intorno ad
alcuni capi religiosi preminenti, come l’arcivescovo di Milano Carlo Maria
Martini. Dagli anni ’90 si ebbe la dispersione culturale e personale di tutto
un mondo, quello del cattolicesimo-democratico, che era stato protagonista
della travagliata marcia del cattolicesimo italiano verso la democrazia, da
metà Ottocento fino all’inizio degli anni ’80. E questo proprio durante il
regno di uno dei papi più politici di sempre.
Dall’inizio del regno del nostro Padre Francesco, ci vengono
esortazioni a riprendere quel processo
di acculturazione e sviluppo verso la
democrazia. L’altro ieri, in un’intervista, ha criticato le visioni distorte di America, Russia, Cina e Corea del Nord.
Questo implica un apprezzamento per la visione europea, non compresa tra quelle altre, negative. Ha detto che se
non rafforziamo l’unità europea non conteremo nulla. Questo lo pensano in
molti. In questa visione si va contro i nostri populismi nazionali,
marcatamente anti-europeisti. Anche Francesco viene di lontano, ma questa
volta veramente di lontano. Sia in
senso geografico che culturale. Sotto quest’ultimo profilo, nelle sue parole si
sente l’eco delle molte voci che il Wojtyla volle silenziare d’autorità. Che
fare, dunque?
Mi piacerebbe che, questa volta, ai grandi orizzonti del Papa ne corrispondessero anche di
nostri. Un lavoro che richiede di osservare, capire, progettare collettivamente e che può farsi anche a
partire da realtà di prossimità come la parrocchia.
Ai tempi del Wojtyla i fatti europei degli anni ‘80 ci colsero di
sorpresa e, tutto sommato, non ci videro come protagonisti. Lo furono, invece,
gli Stati Uniti d’America, ma non come azione di massa, come era avvenuto a
cavallo tra gli anni ’60 e i ’70 con la stagione dei diritti civili, ma
prevalentemente come politica presidenziale, supportata da vari centri d’azione
amministrativa e militare, ciò che si ripercosse con tutta evidenza, e
negativamente, su ciò che si produsse,
su come l’evoluzione dal comunismo al capitalismo si realizzò in Europa
Orientale e anche in Russia.
Ora che invece l’Europa Unita, fra tante visioni distorte delle altre potenze mondiali, può diventare potenza umanitaria, il germe di un mondo
nuovo, in fondo secondo gli auspici del nostro Padre Francesco, potremmo
diventare molto più attivi, noi laici di fede, innanzi tutto cominciando a
familiarizzarci con società e politica, in modo, innanzi tutto, da non ricadere
nel desolante populismo subalterno,
quello che rischia di farci diventare docile
massa di manovra per ambiziosi spregiudicati, quello che vuole confermarci
in tutte le nostre paure e tentazioni, rendendo ragionevole il diventare infami, abbandonando al proprio destino
chi sta peggio, ripetendoci che non c’è altra via d’uscita e che non dobbiamo
vergognarcene, perché o noi o loro.
Non si tratta più, come ai tempi del Wojtyla, del riunificare l’Europa per
l’Europa stessa, ma di potenziare il
processo di unità europea per creare un agente di massa sufficiente per
iniziare a riformare il mondo intero.
76. Noi e il
mondo
Nel 1982 fu pubblicata un’edizione in quattro
volumi degli scritti di Enrico Bartoletti, segretario generale della Conferenza
Episcopale italiana negli anni ’70, cruciali per l’attuazione dei principi
enunciati durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Andai alla presentazione
dell’opera, e un amico mi prestò una copia di quei libri. Confesso che sono rimasti sempre con
me. In questo momento ho tra le mani il quarto volume, intitolato La Chiesa nel mondo.
L’ultimo Concilio produsse un grandioso
mutamento di prospettiva nelle nostre relazioni religiose con il
mondo, vale a dire con tutto ciò che c’è fuori degli spazi
liturgici. Come sempre accade in queste cose, prima venne la
sperimentazione, la pratica, e poi ci
si ragionò sopra in teologia.
A che cosa serve lo stare insieme, in
religione?
A rendere presenti realtà soprannaturali, ci
insegnano i teologi. Non accade solo nella liturgia, non è faccenda solo da
preti. Il nostro lavoro di fedeli in società non è indifferente, non serve solo
ad acquisire meriti personali: si è segno di realtà
soprannaturali e loro strumento. Ci
sono un metodo e una via che conducono ad esse e tutti i fedeli
ne fanno parte e ne sono, quindi corresponsabili.
Per certi versi, nei secoli precedenti le
società religiose secondo la nostra fede venivano viste come un mondo a parte.
Un sopra-mondo nel quale era molto visibile il clero,
organizzato al modo di un impero religioso con una propria gerarchia molto ben
definita. Di questa organizzazione era membri a pieno titolo i membri degli
istituti di vita consacrata, monaci e monache, frati e suore, con loro speciali
ordinamenti. Poi c’erano tutto gli altri, semplicemente soggetti al potere
altrui, ma solo per una parte delle loro vite, perché per il resto erano
sudditi dei sovrani civili. La presenza
di tutti questi altri non caratterizzava l’insieme: ci fosse o non ci fosse, in
fondo, era indifferente. Potevano esserci o non esserci, ma quel sopra-mondo andava avanti lo stesso. Si
cercava di coinvolgerli come sudditi religiosi, perché la missione consisteva, in
definitiva, in questo. O anche in questo? Il bene principale era considerato
infatti mantenere integra l’organizzazione gerarchica, il suo spazio di libertà
nei confronti dei sovrani civili, l’integrità dei suoi beni, la maggiore
esenzione possibili dagli altri poteri, sotto i profili politico, fiscale,
giurisdizionale. Questo, naturalmente,
per portare tutti al Cielo. La
sola via per ottenere quella salvezza era quella di farsi
sudditi religiosi. Ancora ai tempi nostri vi è traccia di questa concezione,
quando si dice la Chiesa fa, la Chiesa
dice, e
si intende riferirsi al papa e ai vescovi, e qualche volta anche ai preti e ai
religiosi. In questa concezione sono molto importanti i diritti dell’organizzazione
religiosa, intesi come il complesso di libertà,
proprietà ed esenzioni riconosciute dalle autorità civili. Si viene a patti con
i sovrani civili, attraverso concordati, o altri accordi simili tra autorità religiose
e civili, si stabilisce una sorta di condominio
sui sudditi, e, una volta raggiunte
queste intese, non si sta a sindacare, dal punto di vista religioso, le
politica dei sovrani civili ai quali in questo modo ci si è federati. Decidono
la guerra? In questo caso i diritti che si rivendicano sono solo: l’esenzione di preti e religiosi dal combattimento e la libertà di assistere spiritualmente i combattenti e, in genere, i morenti, compresi i
condannati dalle corti militari secondo il diritto di guerra (negli opposti
eserciti belligeranti, nel caso di conflitti tra nazioni che seguissero la
nostra fede). Lorenzo Milani, negli anni ’60, in una polemica con i cappellani militari, i preti inquadrati militarmente nel
nostro esercito, fece notare che ai preti e ai religiosi il Concordato stipulato nel 1929 con il Regno d’Italia, e
rimasto in vigore in epoca repubblicana, riconosceva il diritto all’obiezione di coscienza che invece costava il carcere ai nostri fedeli
che lo invocavano. Questo rende bene l’idea della situazione dell’epoca.
Di solito, quando si racconta degli eventi
del Concilio Vaticano 2°, e nella prassi parrocchiale lo si fa piuttosto di
rado, si inizia con il dire che fu richiesto un maggiore impegno dei laici.
Questo essenzialmente perché dei laici oggi si ha bisogno per integrare il
lavoro dei preti, che sono sempre meno. Così però finisce che i laici appaiono
come arruolati nei ranghi parrocchiali o di altri settori
dell’organizzazione religiosa come una specie di preti onorari, o di vice preti, al modo in cui accadeva nel
West, in Nord-America, in cui lo sceriffo
per certe emergenze poteva nominare
dei vice.
In realtà l’impegno nuovo dei
laici progettato dai saggi dell’ultimo Concilio conseguì ad una nuova idea
della missione religiosa, che troviamo in particolare in due documenti molto
importanti approvati e diffusi dal Concilio Vaticano 2°, le Costituzioni Luce per le genti e La
gioia e la speranza. Si ritenne che per la fede non potesse essere
indifferente come andava il mondo, anche dopo aver sistemato le questioni dei diritti dell’organizzazione religiosa.
Occorre infatti: consociare le forze, risanare le istituzioni e le condizioni del
mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano
rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano le
virtù (Cost. Luce per le genti, n.36).
Ed è qui che entrano in campo i laici in una nuova posizione, con una nuova dignità. Servono per questo lavoro di
trasformazione del mondo secondo i principi di fede, che, nel gergo teologico, viene espresso
con “trattare le cose temporali [vale
a dire del mondo] ordinandole secondo i
principi di fede” (Cost. Luce per le genti n. 31). Devono essere competenti, certo, per questo devono essere formati
adeguatamente, certo, ma il loro compito non si esaurisce
nell’essere consulenti. Devono anche lavorare nella
società, in spirito di dialogo fraterno
con le altre sue componenti (Cost. La
gioia e la speranza n. 92) per il
conseguimento del bene comune (Cost. La
gioia e la speranza n. 73).
Perché:
Le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che
soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore. (Cost. La gioia e la speranza n. 1).
e:
Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa;
essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore,
l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza
alla verità a salvare e non a
condannare, a servire e non ad essere servito (Cost. La Gioia e la speranza n.3)
pertanto:
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla
luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa
rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente
e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e
comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo
carattere spesso drammatico. (Cost. La Gioia e la
speranza n.4)
Quindi non “ci sono anche i laici, troviamo loro da fare”, ma “c’è un lavoro in società da fare in cui i
laici sono indispensabili”. Il nuovo
ruolo dei laici avrebbe richiesto anche modifiche organizzative, che però non
si riuscì, in gran parte, non dico a realizzare, ma proprio a progettare. Come
è evidente dalla lettura della Costituzione Luce
per le genti, le nostre collettività religiose sono rimaste ancora
organizzate come un impero religioso feudale, secondo l’impostazione data loro
tra l’Undicesimo e il Sedicesimo secolo,
e questo pur nel contesto di una
diversa teologia.
Secondo le statistiche del 2014, i battezzati nella nostra confessione religiosa
sarebbero un miliardo e trecento milioni, circa il 17% della popolazione
mondiale. dei quali circa un milione sono
preti, diaconi, monaci e monache, suore e frati, in questa quota compresi il
papa e i vescovi. E’ una popolazione mondiale più o meno uguale a quella
dell’attuale Repubblica popolare cinese. I due sistemi politici, quello nostro
eligioso e quello cinese presentano qualche somiglianza, anche se il secondo è
molto più complesso. Fondamentalmente in entrambi il potere scende dall’alto.
Non vi è ammessa la democrazia come la si intende in Europa. Nel primo, però, è
tollerata nei sudditi una maggiore libertà ideologica, salvo che per i
funzionari del clero e dei religiosi. Quando si viaggia su quei numeri, quella
della democrazia è una vera sfida. Come tenere tutto insieme? Senza poi poter
contare su di un apparato poliziesco come quelli degli stati.
Certe volte si ha l’impressione che i nostri
capi religiosi, tutti appartenenti al clero, vadano per la loro strada, come
nei secoli passati. Parlano di noi, ma senza di noi. Noi parliamo loro della
società e di noi, ma quelli sentono solo quello che vogliono sentire. Poi
legiferano, ma noi obbediamo quello a cui ci sentiamo di obbedire. Noi e loro,
poi, facciamo come se tutto andasse come deve. Perché, se si dovesse cambiare
veramente, nulla sarebbe più come prima, nelle loro vite e nelle nostre vite, e
per noi laici sarebbe molto più impegnativo di adesso. Così, in genere,
ripieghiamo nel ruolo di sudditi, che fu del passato. Così però la religione
diventa insignificante e inutile, un po’ la ciliegina
sulla torta delle nostre vite per il
giorno della festa, come lamentano i nostri critici. Continuiamo a fare massa
per garantire i diritti della nostra organizzazione religiosa, le sue libertà, le sue proprietà e le sue esenzioni, e anche un ingente e automatico
flusso di finanziamenti pubblici che, solo, consente di tenere in vita
l’organizzazione religiosa. Ma, fatto questo, non ci sentiamo veramente
impegnati a molto di più. E i principi
di condivisione delle gioie, speranza, dolori, tristezze e angosce?
Il lavoro di trasformare il mondo secondo i principi di fede? Ci passiamo un po’
sopra, non è così? Ecco che poi, ad esempio, sentiamo proclamare nella nostra
politica il proposito “aiutiamoli a casa
loro”, che significa in definitiva respingere, e non ci sentiamo interpellati
religiosamente, in questo non nostro rifiuto dell’impegno etico di condividere sofferenze altrui.
Va bene, questa è l’analisi. Che si fa?
Proviamo a sperimentare dei cambiamenti.
Quello che appare tanto difficile nel piccolo regno vaticano, nel quale la
Curia appare come prigioniera del proprio ruolo storico e delle alte muraglie
dietro cui è arroccata, può essere più facile in una realtà di prossimità come
una parrocchia. Impariamo a praticarvi la democrazia, che non è solo metodo di
conta per decidere chi ha vinto, ma
anche e soprattutto sistema di valori.
Impariamo a rendere conto pubblicamente di ciò che facciamo. Se si
progetta, poi si facciano bilanci dei risultati. Si discutano apertamente le
modifiche da fare. In ogni cosa, anche a partire dai più giovani, si attivi la
corresponsabilità. Contrastiamo la clericalizzazione dei laici. Rendiamo
pubblici i conti della gestione e l’inventario.
77. Che portiamo al mondo?
Ho menzionato un libro di scritti di Enrico Bartoletti che avevo tra le
mani, intitolato La Chiesa nel mondo, l’ultimo di un’opera in
quattro volumi, del 1982. Bartoletti morì nel 1976, da segretario
generale della Conferenza Episcopale Italiana, l’istituzione che riunisce i
vescovi italiani. Lo era diventato nel 1972. Si era agli inizi della fase di
attuazione del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), al quale Bartoletti aveva
partecipato. Chi ha studiato il suo lavoro concorda che il suo ruolo fu molto
importante. Egli lo definì come quello di traghettare la Chiesa
Italiana sulla sponda del Concilio. Fu scelto come segretario generale
perché aveva iniziato a farlo con sapienza e efficacia già durante il Concilio,
a Lucca, dove faceva il vescovo e poi anche dopo, in particolare nel
progettare il rinnovamento della catechesi. La raccolta di scritti a cui faccio
riferimento inizia con un intervento del gennaio 1962 al Movimento dei
Laureati Cattolici, un’organizzazione di Azione Cattolica che oggi,
con maggiore autonomia organizzativa, si chiama MEIC - Movimento Ecclesiale
di Impegno Culturale. Il Concilio era stato indetto pochi giorni
prima. Dalla lettura si capiscono le attese che si ebbero verso il Concilio. Il
discorso comincia appunto con il riferirsi ad un carico di
speranze e di attese. Ma Bartoletti chiarì anche che non si trattava
di un inizio di una nuova stagione, ma della presa d’atto di
un inizio che c’era già stato, già si viveva. Era
un fatto buono? Bartoletti riteneva di sì. Occorreva però ripensare il modo di
stare insieme e, innanzi tutto, le ragioni e il senso dello stare insieme, in
religione: quindi serviva una adeguata teologia.
Che cos’è la teologia?
E’ ragionare sulla nostra fede collettiva, sulla religione e sulla
liturgia, sullo stare insieme nella fede. Spesso si ha presente prevalentemente
quella che si occupa di esporre le verità individuate e ritenute come
fondamentali e come tali anche proclamate dall’autorità religiosa: la teologia
dogmatica. Questo perché i catechismi, specialmente quelli per la
formazione degli adulti, vi fanno molto riferimento. Ma la dogmatica non
è tutto. Si tratta anche di capire il senso religioso di ciò che si fa. E’ per
questo che praticamente ogni attività umana ha una sua teologia. C’è, ad
esempio, una teologia del lavoro, ma anche, ne ha parlato il nostro Padre
Francesco qualche giorno fa in un intervento che ho trascritto su questo blog,
una specie di teologia dell’ozio. Se ragioniamo sul senso dello stare
insieme in religione i due aspetti sono presenti entrambi: la dogmatica e
la riflessione religiosa sul lavoro che si fa. Che relazioni ci sono tra di
loro, qual è la più importante? Nasce prima la seconda: i dogmi,
infatti, le concezioni ritenute fondamentali e caratterizzanti della fede, ne
sono sviluppi. Nella nostra confessione vengono proclamati d’autorità dai
concilio e dai papi. Individuato un dogma, si cerca di farlo entrare nella tradizione e di trovargli anche
precedenti in quella passata. Quindi l’altra teologia vi è soggetta. Ma ci sono
anche sviluppi nei dogmi, successivi alla loro proclamazione, per approfondirne
la comprensione. Ci lavorano la teologia dogmatica e l’altra teologia. E’
quello che è accaduto proprio nel Concilio Vaticano 2° su diversi temi, in
particolare sulle ragioni, il senso e il modo di essere delle nostre
collettività di fede. Tra le leggi date dal Concilio vi
è infatti una grandiosa Costituzione dogmatica sulla Chiesa,
denominata Luce per le genti dalle prime parole del suo
testo: “Cristo è luce delle genti: questo santo Concilio,
adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il
Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini della luce del Cristo che
risplende nel volto della Chiesa”. Questa è dogmatica. Poi c’è
la riflessione sul senso religioso del lavoro che si fa collettivamente: ad
essa è dedicata un’altra grandiosa Costituzione, quella denominata La
gioia e la speranza, che inizia così: Le
gioie e le speranze, le tristezze e
le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro
che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore. L’intera mia
vita di fede, così come quella dei miei coetanei credenti, è stata
centrata su quei documenti. La prima vera acculturazione a quei testi la
ebbi con la lettura degli scritti di Bartoletti, raccolti dal suo segretario
Pietro Gianneschi, che oggi è parroco nella parrocchia di San Vito, nella
diocesi di Lucca. E’ lui che mi prestò i volumi di
cui ho scritto ieri e oggi.
Disse Bartoletti ai
Laureati Cattolici, in quell’intervento del 1962:
“[…] il Concilio sarà
altresì, una nuova Pentecoste; più volte il Santo Padre ha parlato di ringiovanimento della
Chiesa, di purificazione interiore, cioè, e
conseguentemente di rinnovamento delle sue strumentazioni apostoliche,
in faccia alla realtà nuova del mondo moderno da evangelizzare ed
assumere.
E li esortò a prepararsi al Concilio:
[…]Prepararsi a
comprendere la vastità dell’impegno della Chiesa intera, che si mette a
confronto con la realtà del mondo, così vasta e sconcertante.
Prepararsi a percepire
i due termini di confronto, nella loro piena accezione, e nella loro dimensione
esistenziale.
Prepararsi,
soprattutto, a realizzare quell’incontro, salvifico tra la Chiesa e il mondo
che non può avvenire senza di noi o fuori di noi, essendo tutti, in maniera
diversa, compresenti all’una e all’altra realtà, sì da costituire naturale
elemento di congiunzione e strumento di penetrazione.
Prepararsi; in modo da
dare ciascuno modestamente il proprio contributo, oltreché di
preghiera, anche di studio e di esperienza cristiana, presentando difficoltà e
insuccessi, offrendo disponibilità e collaborazione.
Quindi c’era nelle sue parole
l’idea di un Concilio che non fosse solo un congresso di dignitari religiosi,
ma che coinvolgesse tutte le persone di fede perché dessero anche un contributo
di studio e di esperienza cristiana. Perché, in fondo, che cosa si porta
innanzi tutto al mondo, da persone di fede, nell’incontro?
Portiamo noi stessi in quanto partecipi di un’unità soprannaturale, di
cui ci sforziamo di farci tramite verso gli altri, verso il mondo,
perché “Per analogia con Gesù Cristo - lui solo dà una giusta nozione
della Chiesa che è il suo corpo e la sua manifestazione terrestre - il
divino è in esse sempre legato all’umano. Fino alla fine dei tempi la Chiesa
rimane mistero di Dio e opera dell’uomo, un unico ministero di luce e
d’ombre [Hans Kung, Il Concilio e il ritorno all’unità,
1961, citato da Bartoletti nel discorso ai Laureati Cattolici del 1962].
Proseguì Bartoletti:
[…] è possibile
fissare un momento storico della vita della Chiesa; per questo è doveroso, per
noi cristiani, confrontarla col mondo e vedere i suoi rapporti con esso.
E’ chiaro, la Chiesa
non è il mondo e non è del mondo; ma pure vive nel mondo - Chiesa peregrinante
- e vi è immersa secondo il piano stesso di Dio, come in cosa che le
appartiene, appartenendo a Cristo, che la riconduce a sé.
Ché, anzi, il mondo è
nella Chiesa attraverso di noi, che del mondo portiamo la cultura e la mentalità,
i problemi e le istanze, il male da redimere, il bene da
soprannaturalizzare [=rendere manifesto il senso religioso del bene
che c’è],
Chiesa di
uomini e Chiesa anche di peccatori, che cerchiamo in lei redenzione e salvezza.
Per questo il cammino
della Chiesa è tanto difficile nei secoli: essa deve stabilire il suo incontro
col mondo, senza restare “mondanizzata”[livellata ad un gruppo sociale tra i tanti
e come tanti], portare la nostra debolezza, senza per questo
rimanerne indebolita; attraversare la nostra opacità, senza per questo perdere
la sua lucentezza.
Sta di fatto che il
volto della Chiesa, adeguatamente considerato in un momento della sua storia, è
la risultante di questa duplice componente: il dono permanente di Dio e la
risposta degli uomini.
La realtà e la vita
della Chiesa, oggi, scaturisce da una sorgente che è in Dio e nell’atto
costitutivo di Cristo; ma è anche frutto della sua storia precedente, come dei
rapporti che essa assume col mondo attuale, in una convergenza della libera
cooperazione dei suoi membri all’azione liberissima e sempre nuova dello
Spirito Santo.
Sono passati
cinquantadue anni dalla fine del Concilio Vaticano 2°. E allora? Che ne è stato
delle attese e speranze che ne accompagnarono l’annuncio?
Si è, in fondo, ancora
appena agli inizi del lavoro che si era progettato. Ma non solo. Quello che si
stava realizzando ha spaventato. Ad un certo punto si è sospesa d’autorità
l’evoluzione. Ciò accadde durante il lungo regno religioso di san Karol
Wojtyla. Così, l’organizzazione delle nostre collettività religiose non è molto
cambiata da com’era negli anni Cinquanta: vi si sono solo affiancate altre
componenti che fanno prevalentemente vita propria. La teologia si è molto
rinnovata e ha visto anche la comparsa di una generazione di teologhe. Ma la
formazione religiosa delle masse è ancora piuttosto carente: e, in fondo,
sembra che a volte si preferisca che rimangano quello che sono, masse appunto,
che vanno dove si dice loro e fanno ciò che si richiede loro, secondo quello
che è scritto nel foglietto che viene distribuito
nei grandi eventi che i nostri capi religiosi
periodicamente organizzano. Nelle parrocchie la situazione non è poi molto
diversa da quella di sessant’anni fa e, in fondo, sono proprio i laici ad
essere riottosi al cambiamento. I preti, i quali una volta erano tanto
partecipi della vita sociale della nazione, spesso si sono spiritualizzati, non
riescono a spiegare bene il senso religioso della vita civile, e se
vengono da altre nazioni conoscono poco i fedeli. Si sono scoraggiate le
sperimentazioni, timorosi di perderne il controllo. L’altro giorno a Roma è
morto Giovanni Franzoni, che fu benedettino, abate della comunità monastica di
San Paolo fuori le mura e che partecipò con il rango di vescovo al Concilio
Vaticano 2°, il più giovane tra i saggi che vi presero parte. Le sue
sperimentazioni religiose furono duramente represse, perse tutto come maestro e
capo religioso, salvo l’affetto della sua comunità di base e
di molti altri che lo stimavano. Una storia che lo accomuna a molti altri
brillanti sperimentatori sulla via tracciata dai
saggi del Concilio, come ad esempio il teologo Kung citato da Bartoletti.
I documenti del
Concilio sono poco conosciuti. Si è spesso insegnato a diffidarne pregiudizialmente,
propinandoli con un'avvertenza simile a quella che si legge sui pacchetti di
sigarette: "può nuocere grandemente alla salute dello
spirito". Lo avverto tutta la volta che provo a parlarne. Si è spinti
ad accontentarsi di compendi di dogmatica. Ma è
proprio dalla formazione e dalla sperimentazione che bisognerebbe ripartire. Un
maggior impegno dei laici richiede, in particolare, lo sviluppo di
procedure democratiche anche nelle collettività religiose: consiglio, nella
formazione, di partire da una specie di teologia della democrazia.
Ci può essere? Certo, perché possiamo trovare il senso religioso di ogni nostro
bene.
78. Costruire democraticamente le basi della convivenza in religione
Mi ha sempre stupito il malanimo con
cui si sta insieme in religione. Ci si guarda in cagnesco e ci si sopporta a
stento. Si sta prevalentemente con quelli della propria fazione. Praticamente
in tutti gli ambienti che ho osservato è così. Fioriscono i pettegolezzi. E’ un
male antico: se ne parla già nelle Scritture che risalgono alle prime nostre
collettività di fede. Tra laici va peggio perché, in genere, si sa troppo poco
di tutto. Viene a mancare una base comune. E’, questo della nostra incultura
religiosa, un problema veramente generale, che periodicamente viene
stigmatizzato. C’è proprio una letteratura che riporta gli strafalcioni e le
baggianate che circolano. Tra i sapienti non è che le relazioni personali siano
migliori: ci si detesta, però, sapendo bene perché, avendo chiare e distinte le
ragioni per cui lo si fa. Ha quindi ragione il nostro parroco, quando sostiene
che il vero problema è proprio quello di cominciare a volersi bene. E’
paradossale che sia così difficile in una fede in cui si parla tanto di agàpe,
di benevolenza conviviale.
Ciascuno entra in religione con la sua
verità. Non ha poi tanta voglia di ascoltare quelle degli altri. Ma c’è
poi la verità? Come dubitarne? Sarebbe sorprendente che
fosse diverso, dopo la serie infinita di conflitti su questioni di verità.
Ai tempi nostri si è però più prudenti e si pone l’accento sulla ricerca della
verità, di generazione in generazione. Possiamo confidare, quindi, che la
verità ci sia, ma non è nelle nostre mani, non la possediamo, non possiamo
farne ciò che vogliamo, ne possiamo solo diventare discepoli. Infatti la verità
è di origine soprannaturale: così si pensa in religione. Ne abbiamo varie
formulazioni, definizioni, che abbiamo tramandato nei due millenni della nostra
storia, e praticamente ogni generazione di teologi ci ha messo mano,
soprattutto nell’interpretazione e nelle rifiniture. Scrivono anche che ci sia
una gerarchia delle verità, quindi un loro ordine per cui non hanno
lo stesso grado di resistenza alle obiezioni e alle integrazioni. Ad esempio ne
tratta un documento del Concilio Vaticano 2°, il Decreto sull’ecumenismo Ristabilire
l’unità: “[…]nel dialogo
ecumenico i teologi cattolici, fedeli alla dottrina della Chiesa,
nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con
amore della verità, con carità e umiltà. Nel mettere a confronto le dottrine si
ricordino cheesiste un ordine o «gerarchia » nelle verità della dottrina
cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede
cristiana. Così si preparerà la via nella quale, per mezzo di questa
fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda cognizione e
più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo.”
Ma parlare di verità complica un po’ le cose. Può
sembrare che mettere una qualche verità un po’ più
giù in classifica sia relativizzarla. Oh, ecco il relativismo!
Se però, per farci un’idea, parliamo di definizioni, l’ansia
diminuisce. Ho letto che anni fa san Karol Wojtyla parlò di epilessia a
proposito di certi episodi evangelici che raccontavano di gente con la bava
alla bocca, scossa da convulsioni e via dicendo. Aggiunse che, in quelle
condizioni, si poteva essere più esposti all’azione dei demòni, questo
naturalmente per spiegare il contesto scritturistico, in cui si parlava di gente
invasa da quegli esseri soprannaturali. Parlava un papa, ma questa cosa
dell’epilessia che renderebbe più vulnerabili ai demòni non mi convince tanto.
Non ne parlerei neanche come di una verità. Del resto il
santo non era un medico, ma un filosofo e teologo. Non mi faccio problemi a
dissentire su quel tema. Do per certo, invece, che il Maestro si dedicasse a
risanare gli ammalati e che collegasse questa sua azione benefica al suo
insegnamento religioso.
Ma in parrocchia non dobbiamo rifare un
Concilio. Si è già provveduto. Né, preti a parte, siamo teologi. Abbiamo di
solito un’immagine un po’ approssimativa delle verità della
fede. Le conosciamo, non dico attraverso compendi, ma spesso
attraverso sintesi di riassunti di compendi, per di più lette chissà quando.
Infatti non di rado ce ne usciamo con opinioni discutibili, sulle quali però in
genere, per amor proprio innanzi tutto, non accettiamo discussioni. E lacarità e umiltà consigliate
sopra, dove sono? Siccome sappiamo poco di tutto, allora cerchiamo di tirare i
preti dalla nostra parte; loro naturalmente resistono, e allora critichiamo
anche loro. Fosse poi solo per le questioni che ammettono più opinioni! Ma
sulla carità, come si fa a dissentire? Qui siamo veramente
molto in alto nella gerarchia delle verità. Un papa ci
dice: siate caritatevoli, soccorrete i fratelli in pericolo. Dico
un papa. Fa il suo mestiere. E lo fa in linea con le Scritture e la Tradizione,
il Magistero di sempre. Dov’è il tuo fratello? Ma a noi, a volte,
pare eretico quando dice così. Quand’è però che i papi hanno mai detto qualcosa
di diverso? E’ eretico rispetto all’opinione comune che consiglia di ributtare
a mare i sofferenti. Ecco che allora abbiamo rifatto in quattro
e quattr’otto un Concilio, inaugurato una nuova dottrina, quella che approva
chi sbotta “E che, sono il guardiano di mio fratello?”.
In parrocchia dovremmo morderci la lingua tutte le volte che, da
laici!, ci viene di scomunicare qualcun altro, di lanciargli conto l’antica
invettiva “Anàtema!”, vale a dire “Maledetto!”, come
i saggi (si fa per dire) degli antichi Concili, che avevano la scomunica
facile, ma comunque erano sapienti. Il passo successivo è infatti quello di
indicare la porta in uscita a chi disapproviamo in quel modo.
La gran parte del lavoro che da laici
facciamo in parrocchia non mette in questione definizioni cruciali per la fede
e questo, in particolare, quando programmiamo il lavoro da fare in società, ad
esempio nel quartiere. Al fondo di quelle che appaiono controversie su verità in
genere possiamo facilmente individuare ragioni politiche. E’ per questo che, in
definitiva, ci si divide in religione. Ma la politica ha vie di risoluzione che
sono diverse da quelle della teologia, che si occupa di definizioni relative a
verità di vario livello. La base è accordarsi, con una specie di costituzione,
sul mantenimento di un ambiente di agàpe. In democrazia si
esprime la stessa cosa dicendo che occorre rispettare la dignità e la libertà
degli altri. Ogni potere abbia un limite, in estensione e durata. Nessuno deve
cadere completamente in mani altrui. Nessuno deve essere costretto a svelarsi
completamente, se non nel Sacramento della Confessione. Sia sempre consentito
il dialogo e di seguire vie diverse se non pongano in pericolo l’agàpe. Ogni
giudizio sia sempre collegiale, ammettendo più voci. Non si
disprezzi mai chi è con carità e umiltà alla ricerca del vero e si sforza
sinceramente di capire. Si sappia distinguere l’errore dall’errante, perché
quest’ultimo è persona umana che mai e poi mai può essere privata, per
qualsiasi motivo, della sua dignità.
Naturalmente in questo lavoro la presidenza dell’apostolo
è molto importante. Deve sapere mantenere un ambiente pluralistico. Ma con il
tempo, con il consolidarsi di tradizioni democratiche, bisogna anche suscitare
una resistenza collettiva alle degenerazioni che possono esserci, come in ogni
collettività umana, quindi produrre una vera e propria tradizione in quel
senso. E’ una conquista culturale. A volte si è troppo clero-dipendenti. E’ problema
che si manifesta anche su scala maggiore. Cambia un papa e cambia il mondo
religioso. Allora c’è la tentazione di colpire il pastore per disperdere il
gregge. Ma, in fondo, è proprio il gregge che deve uscire da quella sua
condizioni di gregge, per farsi collettività umana. A questo appunto servono i
processi democratici, su grande e piccola scala.
79.
Sperimentare nuove forme di democrazia
La democrazia come oggi la intendiamo, vale a dire come ordinamento per l’universale partecipazione al potere
politico sulla base di un sistema di valori umani, è esperienza piuttosto
recente, risale infatti a circa due secoli fa,
a partire dall’Europa. Se ne sono avuto diverse concezioni, tutte molto
diverse da quelle più antiche, ad esempio da quelle dell’antica Atene,
dell’antica Roma o dei Comuni medioevali. Dalla fine della Seconda guerra
mondiale si collegano democrazia e pace, nel senso che si ritiene che un ordine
internazionale possa essere fondato solo su basi democratiche. Quest’idea è
ancora più recente di quelle su cui si fonda la concezione moderna della
democrazia: all’inizio non c’era e, anzi, le potenze democratiche si erano
dimostrate storicamente piuttosto bellicose. Essa origina sostanzialmente dal
pensiero cattolico. La troviamo nel primo documento nel quale il papato romano
aprì alle concezioni democratiche, dandone anche una prima ideologia sua
propria, il radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Eugenio Pacelli, in cui si
legge, nel paragrafo intitolato Il problema della democrazia:
“[…] sotto
il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente ardore della
fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un lungo
torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un
contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara
esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere
dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono [=richiedono] un sistema di governo, che sia più
compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli
strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga
e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di
sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe
stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare
per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo
stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se
la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il
consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente
ai destini degli individui e della società?
Fu il
punto di arrivo di una lunga evoluzione, mediata dall’azione politica dei
cattolico-democratici, in particolare nella fase di ripensamento della politica
europea prodottasi durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945). All’inizio
del secolo, invece, il papato, con le encicliche Le gravi controversie sulle questioni sociali (del 1901) e Fin
dal principio (1902) aveva condannato il pensiero e la politica
democratici, considerando come eresia l’idea che potessero accordarsi con
l’azione sociale ispirata dalla fede, vietando addirittura ai sacerdoti di impegnarsi i movimenti democratici-cristiani e ai seminaristi di acculturarsi alla
democrazia.
Dal
Settecento i processi democratici prendevano come loro soggetto attivo di
riferimento il popolo. C’era la convinzione che i
sovrani degli antichi regimi non facessero gli interessi del popolo, non
esprimessero la volontà del popolo. Si pensò di cambiare la situazione mediante
nuove istituzioni che prevedessero una partecipazione del popolo, essenzialmente
mediante elezioni di rappresentanti in organi più ristretti ai quali poi era
attribuito di stabilire leggi uguali per tutti. Questo sistema richiedeva
maggiori spazi di libertà per la gente, che si voleva elevare dalla condizione
di suddita a quella di cittadina. Nei primi ambienti democratici contemporanei,
tuttavia, questa partecipazione aveva dei limiti piuttosto ristretti, a
paragone con gli spazi che oggi sono consentiti. I periodi rivoluzionari
avevano coinvolto le masse, ma al dunque, quando si trattò poi di prendere
decisioni politiche nella gestione ordinaria delle nazioni, tutto andò
diversamente. I sistemi elettorali posero in genere gravi limiti alla
partecipazione delle classi più povere e incolte. Queste ultime erano però
quelle che più risentivano dei disordini internazionali, in particolare delle
guerre. La politica era fatta tuttavia dalla classi dominanti che non temevano
le guerre, pensando di ricavarne profitti. Sembrava che un ordine pacifico
internazionale fosse utopia da filosofi: l’aveva teorizzato, ad esempio, il
filosofo illuminista Immanuel Kant (1724-1804), in un suo libretto intitolato La pace perpetua. Fatalmente ogni popolo
sembrava finire per questionare con gli altri, in controversie non risolvibili
che con la guerra, non essendovi un’autorità superiore universalmente
riconosciuta. Ma chi era il popolo?
Se ne ebbe a lungo un’immagine vaga e intellettualistica. Lo si concepì come un
organismo che abitava la storia, un po’ come gli individui che lo componevano.
Non se ne percepiva il pluralismo interno: fu lo sviluppo del pensiero
sociologico, a partire da metà Ottocento, a metterlo in luce.
Il
pensiero cattolico, che non aveva il problema di definire il popolo come nuovo
sovrano sociale in quanto riconosceva la sovranità, il potere supremo, ad un ordine soprannaturale del quale
il papato era il rappresentante nel mondo, riuscì a rendersi conto di quel
pluralismo, innanzi tutto perché iniziò a viverlo, nelle tante iniziative
sociali che si svilupparono dalla metà dell’Ottocento, sugli esempi che
venivano da altre parti d’Europa e, in particolare, per iniziativa del
socialismo. Troviamo descritta questa realtà nella prima enciclica sociale dell’era contemporanea, la Le
novità del papa Vincenzo
Gioacchino Pecci, del 1891. Quest’ultima era volta essenzialmente a far
prendere al papato il controllo di quel vasto e vivace movimento per
indirizzarlo politicamente secondo gli interessi del papato in quel momento. E’
proprio per questo che inizialmente se ne vietarono gli sviluppi democratici-cristiani: la politica, in
particolare la gestione delle relazioni con il Regno d’Italia da poco fondato,
competevano al papato. In questa concezione i movimenti presenti nella
società erano apprezzati in particolare nel loro effetto di critica sociale contro l’ordine liberale-borghese
dominante. A cavallo tra Ottocento e
Novecento il papato aveva in corso con il
Regno d’Italia la cosiddetta questione romana, vale a dire la
rivendicazione del papato della restituzione del suo piccolo regno nel Centro
d’Italia, comprendente anche Roma. La cosa non era più fattibile e alla fine il
papato, nel 1929, contrattò con il Mussolini, che in quegli anni egemonizzava
politicamente il Regno d’Italia, risarcimenti, altre restituzioni e un piccolo
regno di quartiere a Roma, e considerò la faccenda conclusa onorevolmente così.
Durante il fascismo il potenziale di critica sociale del movimento cattolico fu
silenziato. In particolare ciò riguardò la nuova Azione Cattolica, fondata nel
1903 con una struttura di partito popolare che rapidamente realizzò una
vastissima azione di educazione sociale delle masse, comprese quelle femminili.
A differenza dei movimenti che l’avevano storicamente preceduta, radunati
nell’Opera dei Congressi sciolta d’autorità del papato nel 1904, l’Azione
Cattolica non aveva l’obiettivo della critica sociale. Venne concepita come
strumento sociale e politico sotto lo stretto controllo del papato, in un’epoca
in cui si cominciò a pensare a sanare la frattura con il Regno d’Italia. Sotto
il fascismo italiano la critica sociale in Azione Cattolica fu ammessa, in
genere, solo nelle organizzazioni intellettuali,
come la FUCI, gli universitari
cattolici, e i Laureati Cattolici. E tuttavia, l’esperienza del fascismi
storici europei e gli sviluppi che avevano preso gli eventi bellici dal 1943,
con la prospettiva imminente di un nuovo ordine europeo, fecero recuperare al
papato l’idea di una critica sociale mediante una società con ordinamento
pluralistico, per ripristinare un ordine pacifico tra le nazioni. Si ritenne
infatti che questa critica sociale in ambiente pluralistico sarebbe valso a
contenere l’aggressività dei poteri politici dominanti. Questa intuizione si
rivelò fondata. La nostra nuova Europa, che ha realizzato il periodo di pace
internazionale più a lungo vissuto sul continente storicamente, si fondò
proprio su questo, sull’idea di popoli animati da formazioni
sociali che consentissero
l’emergere degli interessi anche degli strati più umili della popolazione,
quelli che in genere venivano ignorati o al più strumentalizzati e che erano
contrari allo sviluppo delle guerre. Questo è il sistema politico centrato sul principio di sussidiarietà, che è quando
il potere politico non cerca di comprimere o strumentalizzare le realtà sociali
più piccole, ma anzi le aiuta e le promuove, consentendone l’azione sociale,
intervenendo solo quando la società non riesce a esprimere ciò che serve per il
bene comune. Bisogna dire che, però, quando, a partire dagli anni ’70, la
critica sociale interessò la stessa organizzazione religiosa, essa fu di nuovo
scoraggiata. In un ambiente politico come quello italiano in cui tanta
importanza aveva assunto l’azione sociale di quelle formazioni sociali animate
dalla nostra fede questo aprì la strada al populismo,
che oggi è appunto il principale problema della politica italiana. Il populista
conferma la gente nelle sue paure e nelle sue tentazioni, la spinge all’azzardo morale, a farsi ragione da sé a
spese degli altri, confermando che questa è l’unica soluzione. Lo fa per montare sulle spalle della gente e
spingersi in alto, al potere. La gente però rimane in basso, perché non è più
capace di critica sociale e decide senza ragionare, ma emotivamente, divenendo
succube del populista. Una volta al potere il populista continuerà sulla stessa
via, potendo però contare su una disponibilità di mezzi molto superiore. E’ per
questa via che in Italia si sviluppò il fascismo storico, che, nella sua forma
matura, si presentò come un populismo e richiedeva anzitutto conformismo.
I
sociologi ci avvertono che ai tempi nostri il potere politico è cambiato. Non è
più accentrato negli stati o in istituzioni pubbliche sovranazionali. E’ in
primo luogo un fatto dell’economia, la quale, favorita da un complesso sistema
di accordi internazionali, ha preso il controllo delle società globalizzate. Si
è riprodotta una divisione tra classi sociali analoga a quella osservata
nell’Ottocento: dall’economia globalizzata riceviamo tutti i beni materiali
della vita e una buona parte di quelli immateriali, ma essa ci domina in un
sistema di scambi diseguali, che finisce per favorire un’esigua minoranza. Da
qui diseguaglianze sociali molto accentuate, e sempre più accentuate.
L’economia ci spinge al conformismo, minacciando che in caso facessimo diversamente
non arriverebbe più ciò che ci serve per vivere. Spinge a fare ognuno per sé e
in questo modo, avendo di fronte non società ma individui socializzati, ci
domina meglio, confermandoci in tutte le nostre paure e tentazioni: ed è una
forma di populismo dai mille volti. Siccome ci siamo convinti che ognuno debba
fare per sé per salvarsi, non abbiamo argomenti per rimproverare i padroni
dell’economia quando, in tempi di crisi, tolgono le tende e fuggono con il loro
tesoro, lasciando tra noi solo macerie materiali e umane.
Questo
nuovo sistema è intrinsecamente disordinato, caotico, preda degli appetiti
egoistici dei gruppi economici maggiori, in grado di condizionare ormai intere
nazioni. E allora da questo disordine è riemerso il pericolo di una guerra guerreggiata molto estesa, non più solo
dei conflitti limitati che furono caratteristici dell’epoca della guerra fredda (1945-1991) tra statunitensi e sovietici.
Anche l’Europa ne risulta coinvolta.
La
soluzione è riprendere a contrastare i populismi di ogni tipo attraverso la
critica sociale condotta in formazioni sociali pluralistiche, secondo
l’intuizione del pensiero sociale cristiano. E’ molto importante l’educazione
alla politica, fin da molto piccoli, con forme di tirocinio. Si tratta di rinsaldare
quel sistema di limiti e valori che costituisce l’essenza della democrazia
avanzata contemporanea. Far uscire la gente dallo stato di massa, soggetta acriticamente all’influsso di ogni specie di
populismo. E’ una nuova democrazia che occorre progettare e realizzare, o meglio
una democrazia adeguata ai nostri tempi, che vanno anzitutto ben compresi.
80.
Capire la democrazia
Il pensiero sociale ispirato ai valori della
nostra fede è arrivato a collegare pace e democrazia: si ritiene che il
mantenimento della pace possa avvenire solo in un ordinamento democratico.
Eppure questo nesso tra pace e democrazia è divenuto evidente solo in Europa a
partire dalla caduta dei fascismi storici, dal 1945. Prima, e altrove anche
successivamente, le democrazie non si sono mostrate particolarmente pacifiche e
pacificanti. Un esempio di democrazia abbastanza bellicosa sono gli Stati Uniti
d’America, la prima delle democrazie contemporanee, instaurata nei 1789, con
l’entrata in vigore della Costituzione approvata nel 1787.
Democrazia significa governo del popolo, ma che cos’è il popolo e come
fa a governare? Di fatto il potere rimane nelle mani di una minoranza, per
quanto legittimata da elezioni. E che
cosa ci assicura che il popolo e i suoi rappresentanti prenderanno decisioni
giuste? Le masse possono trasformarsi in belve, sotto l’influsso di chi riesce
a dominarle. Lo avevano capito anche gli antichi greci, che furono i primi
teorizzatori della politica. Infatti diffidavano della democrazia. Alcuni di
loro avrebbero preferito dare il potere a dei sapienti.
Erano democrazie i Comuni medievali, diffusisi
in Europa nel Secondo millennio della nostra era e fino al Trecento, ed erano
molto bellicosi.
C’è qualcosa che è cambiato nell’Europa (Occidentale) del Secondo
dopoguerra, per cui le democrazie sono divenute pacifiche? E’ successo proprio
questo: è cambiato qualcosa nella concezione e nella pratica della democrazia.
Ed è stata molto importante l’influenza delle ideologie e delle politiche
sviluppate dai cattolici. La crisi delle democrazie europee è coeva
dell’eclisse del pensiero e pratica della democrazia tra i cattolici: sono
fatti avvenuti nella stessa epoca e certamente collegati.
Parlo di pensiero cattolico,
perché riconosco una specificità reale, che è nei fatti, non si tratta di
mettere un’etichetta su cosa che si è formata in altro ambiente.
All’origine delle democrazie contemporanee,
dal Settecento, vi è l’idea di popolo
e di legge: il popolo si dà le sue
leggi, è quindi sovrano, e le impone
a tutti. Attraverso delle procedure il popolo detta le sue
leggi: secondo questa concezione è in
questo che consiste la democrazia. Si sostituisce agli antichi sovrani
dinastici, quel complesso di autorità monarchiche (regna uno solo) o al più
oligarchiche (il potere è del re e di un senato che con lui collabora) di prima, il popolo, vale a dire i suoi eletti. La
legge del popolo limita tutti, si impone su tutti senza distinzione: è uguale per tutti. Si
è uguali perché tutti soggetti alla legge del popolo. Ma si è anche liberi, perché non si è più soggetti
all’arbitrio altrui ma alla legge a cui tutti sono soggetti, che definisce i
diritti e i doveri di tutti. Per tenere in piedi il sistema occorre anche
imporsi doveri sociali, perché altrimenti non si sarebbe popolo, ma solo massa
che si muove qua e là, a seconda delle emozioni che spazzano la gente come
tempesta e la spingono. Ma anche questi doveri sono stabiliti dalla legge del
popolo. Di fatto le leggi vengono scritte a fatte approvare da chi riesce a dominare
le masse e così ad accaparrarsene i
consensi e il voto. In questo modo il potere del popolo, la democrazia,
si può fare dispotica quanto il potere delle antiche monarchie. Il popolo può
essere un sovrano dispotico. Si dice popolo, ma sono gli strati sociali
dominanti che legiferano: le guerre sono catastrofi per le masse di quelli che
stanno peggio, perché da questi ultimi sono combattute nei posti più pericolosi
e i vantaggi che dalle guerre si ricavano rapinando le ricchezze altrui sono ripartiti in modo diseguale; tuttavia i
conflitti vengono decisi da chi riesce a fare le leggi, da quegli strati
dominanti che delle guerre possono beneficiare. Quindi le democrazie, secondo
questo modello, non sono in genere
pacifiche.
Il pensiero sociale cattolico, che poi si tradusse in una dottrina sociale, non parte dall’idea di popolo sovrano. Nessuno può farsi sovrano, né uno solo, né pochi, né la
maggioranza. Perché l’unico sovrano è in Cielo. L’atto di costituirsi sovrano è in fondo sempre un arbitrio. Nasconde una
prepotenza nei confronti degli altri esseri umani e del Cielo. Per cui, in
definitiva, il lavoro politico del credente è sempre un rovesciare i potenti dai troni. La dottrina sociale non vede il
popolo, ma, più realisticamente, un
insieme di formazioni sociali nelle quali ognuno
ricava il senso della propria vita. Questo brulicare di formazioni, delle quali il papato aveva fatto esperienza nella
seconda metà dell’Ottocento, descrivendola poi nella prima enciclica sociale,
la Le novità, del 1891, costituisce un
sistema di limiti sia verso l’alto, che verso gli individui, che intorno. A
nessuna sovranità deve essere permesso di
abrogarlo. Ma anzi i poteri pubblici devono sorreggerlo, aiutarlo nel suo
espandersi e, innanzi tutto, lasciare le formazioni sociali libere di operare
per il bene universale, di tutti. Il principio di sussidiarietà. Perché appunto
è questo, il bene universale, che distingue quelle esperienze sociali da altre
tese a realizzare interessi privati,
particolari, come le società che gestiscono imprese: ci si aiuta come fratelli nell’interesse di tutti,
Se uno cade, è sostenuto dall'altro. Guai a chi è
solo; se cade non ha una mano che lo sollevi (Eccl 4,9-10). E altrove: il
fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prov
18,19). [enciclica Le
novità, n.37],
per un fine
“universale, perché è quello che
riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella
debita proporzione.” [enciclica Le
novità, n.37]. E’ un fine virtuoso
proprio perché ha di mira il bene comune, universale.
E’ una visione di una società che cresce
liberamente dal basso, che non viene egemonizzata
all’alto, da un qualche sovrano, sia pure esso il popolo. E’ questo
pluralismo incomprimibile, che i cattolico-democratici sono riusciti a inserire
nella nostra Costituzione all’art.2, il limite più efficace a quella
degenerazione del potere che porta alle guerre. In questa visione l’autorità
opera secondo il principio di sussidiarietà, che le vieta di inglobare
tutta la società civile e di normarla dispoticamente a prescindere da essa. In
una società brulicante di formazioni sociali virtuose e costantemente attive è
difficile che gli interessi delle masse degli strati sociali inferiori possano
venire completamente oscurati da chi detiene il potere, e che si decida di far
guerra contro l’interesse dei più. L’interesse per la pace che è dei più
contrasta efficacemente gli interessi bellicosi dei pochi. La politica delle
masse non si manifesta saltuariamente di elezione in elezione, lasciando poi
fare ai pochi che riescono a raggiungere il potere, ma è lavoro di continua
generazione della società integrando gli individui che sempre richiede nuovi
spazi e occasioni di bene ed è dunque azione continua in società. E’ limite che
così si manifesta continuamente in società e che obietta a chi, giunto in alto,
invita gli altri a farlo governare senza creare
ostacoli, fino alle prossime elezioni. Questo pluralismo è l’antidoto più efficace ad
ogni potere che tenda a degenerare e a farsi assoluto, secondo la tentazione
che è di ogni potere, anche in ambiente democratico, se non lo si contiene con
limiti efficaci. Ma come evitare che il pluralismo sfasci la società? Occorre
diffondere e sostenere un sistema di valori, primo tra tutti quello dell’agàpe, secondo il quale si ritiene che
si debba far posto a tutti come in un lieto convito. Agàpe viene tradotto in italiano con carità ed è per questo che
nel pensiero sociale cattolico si sostiene che la politica è una manifestazione di carità molto
importante. Questa ideologia, di matrice sicuramente cattolica, il capolavoro
dottrinale del papato romano dalla fine dell’Ottocento nonostante l’indole
generalmente reazionaria dei singoli papi, è alla base dell’ordinamento
politico della nostra nuova Europa. Ecco perché è così importante che i
cattolici riprendano a ragionare e a fare di tirocinio di democrazia.
81. Comprendere gli esseri umani
Siamo stati abituati ad ascoltare molti
pregiudizi sulla nostra fede, come quello che non comprenderebbe a fondo gli
esseri umani. Invece è proprio il contrario ed è un vero miracolo: una dottrina
proclamata da una schiatta di veterani reazionari da sempre, per scelta
estranei alla vita dei più, che coglie così bene nel segno. Vi si può vedere
addirittura un segno soprannaturale. Ne rimango sempre stupefatto. Va bene, non
hanno inventato nulla, hanno imparato dalla vita, ma non è da tutti farlo. C’è
qualcosa di più della semplice osservazione, come potrebbe fare un antropologo
che gira per le varie società umana, prende appunti, fa domande, vede come
fanno quelli in mezzo ai quali è capitato e poi ci ragiona su. Come lo possiamo
chiamare? Compassione, empatia, simpatia, misericordia… Non è mai uno sguardo
distaccato quello religioso perché prende le mosse da una conversione. Quando
lo spirito, che è in noi e che non è solo la nostra mente, ci porta a desistere
dai nostri istinti di antiche belve e ad accostarci agli altri in modo nuovo.
E’ un comandamento nuovo che si segue
e che avvince, ma non come le altre regole a cui si è soggetti e che pesa obbedire: è un giogo leggero, anche se ne può andare di
mezzo la vita. Perché chi perde la propria vita seguendo il comandamento nuovo
la salverà, come è scritto.
E’ un papa reazionario, Achille Ratti, ad
avere collegato politica e carità, in un discorso agli universitari della FUCI
tenuto il 18 dicembre 1927:
I giovani talora si
chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco
che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se
stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è
diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è
la suprema lex a cui
devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e
compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e
importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il
lavoro. E tale è il campo della
politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo
riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si
potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore. È
con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la
politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal
rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di
un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur
mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.
Atteggiamento questo tanto più raccomandabile a giovani universitari che devono
consacrarsi alla propria preparazione, senza la quale la loro futura attività
non può essere né illuminata, né benefica. Come nel loro presente periodo essi
attendono allo studio delle future professioni e non le esercitano, così anche
per ciò che riguarda il viver sociale; essi devono ora attenersi al loro
programma di preparazione, perché, quando prenderanno il loro posto nella
società, possano poi dare a questa anche il contributo della buona, cristiana
politica.
Abbiamo riflettuto bene su ciò che comporta?
E’ la base di una vera e propria rivoluzione. Tradurre l’agàpe in realtà sociale:
niente di meno! Fare posto a tutti, perché si sa che la vita non è vita umana
se si rinuncia ad anche uno solo degli altri intorno a noi.
Parliamo di popolo e ci sentiamo
spaesati. Ma chi è questo popolo,
riusciamo a figurarcelo? Se però parliamo di mondi sociali, di un insieme
di relazioni che creano il senso della vita e che si cercano e si conoscono
continuamente tra loro e danno senso alla vita proprio nel cercarsi e
incontrarsi, allora è diverso, perché vi è rappresentata la nostra vita. Siamo
noi. Si parte dalle famiglie, al loro meglio naturalmente, quando non sono
ancora sfigurate dalle convenzioni sociali e nascono da un cercarsi e un
conoscersi, per incontrarsi, e allora sono innanzi tutto luoghi dell’anima, mondi vitali, come scriveva mio zio Achille.
Perché non dovrebbe essere in tutto così? Questa l’utopia religiosa. Utopia
però sarebbe un posto che non c’è, in un tempo che non viene mai. Ma tra gli
esseri umani questo c’è già, lo si vive. Ma intorno c’è anche una realtà
sociale che fa resistenza. Perché? La realtà dell’agàpe ci è stata rivelata, ci si è imposta ad un certo
punto, da un certo momento. Ci distoglie dalle nostre antiche e crudeli
consuetudini naturali, pe cui pesce grosso mangia pesce piccolo. Non sono
d’accordo con chi dice che le fedi religiose sono più o meno tutte uguali. Ma è
vero che più o meno in tutte quelle che mi sono note si coglie questa
aspirazione verso l’agàpe. Ma poterla chiamare per nome? Nella nostra
fede lo facciamo. Non è questa una
grande responsabilità? Perla preziosa, tesoro nascosto, la definiamo con tanti paragoni. Si è spinti a
lasciare tutto per conseguirla. E più si avanza negli anni, se si riesce anche
ad avanzare in saggezza, questo diventa sempre più evidente.
Non siamo macchine animate, pensanti: c’è in
noi una realtà spirituale, che non è fantasia, ma, appunto, realtà, che ciascuno sperimenta. E’
attraverso lo spirito che entriamo in relazione con gli altri e costruiamo l’agàpe in senso anche religioso. I problemi sociali nascono più o meno tutti
quando quella realtà viene negata, con vari argomenti e per varie ragioni. Ma
fondamentalmente accade quando si vuole poter fare degli altri ciò che si
vuole, farne docili strumenti della propria volontà. Qui viene però
l’irriducibile obiezione religiosa che ha anche un valore politico. I papi
storicamente immaginarono di essere plenipotenziari religiosi, vicari, in quel senso. Ma non riuscì
loro granché bene. Furono storicamente sovrani mediocri, alcuni migliori degli
altri, ma in genere mediocri. Penso che si possa trasferirli dai loro troni
agli altari solo con una buona dose di immaginazione. Furono sovrani come tanti
altri del loro tempo e anche prima e dopo di loro. Gli esseri umani posti sul
trono in genere deludono, e ci si può fare poco, salvo prevedere procedure per
la loro sostituzione senza esiti drammatici.
A questo appunto serve la democrazia, a porre un limite a qualsiasi
potere. Ma i papi, nell’indicare una
sovranità celeste, nel relativizzare ogni altra sovranità, anche quella che si
pretendeva fosse del popolo, funzionarono. Nessuno deve essere completamente in
mani altrui. E ciò che non è agàpe vale poco. Pervicacemente i papi da fine
Ottocento proclamarono questa dottrina, che, nell’opera ostinata del
cattolicesimo democratico, sovvertì, alla caduta dei fascismi storici, la
bellicosa Europa di prima, creando un’Europa di pace, la nostra nuova Europa,
fondata sul principio di sussidiarietà.
Eccolo definito da un papa:
80. È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la
mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da
grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. Ma deve
tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che
siccome è illecito togliere agli
individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per
affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta
società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è
questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della
società; perché l'oggetto naturale di
qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera
suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e
assorbirle.
81. Perciò è necessario che l'autorità suprema dello stato,
rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle
cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta
; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le
parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione
cioè, di vigilanza di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle
necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più
perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni,
conforme al principio della funzione suppletiva dell'attività sociale, tanto
più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e
più prospera la condizione dello Stato stesso.
82. Questa poi deve essere la prima mira, questo lo sforzo dello
Stato e dei migliori cittadini; mettere fine alle competizioni delle due classi
opposte, risvegliare e promuovere una cordiale cooperazione delle varie
professioni dei cittadini.
[Dall’enciclica Il quarantennale, del 1931, diffusa dal papa Achille Ratti,
regnante in religione come Pio 11°]
Che
cosa potrebbe esserci di più distante dal fascismo italiano totalitario, che
imperava nel 1931? Eppure solo due anni prima, nel 1929, il papato aveva
concluso un compromesso proprio con il capo del fascismo che venne immortalato
mentre, nel palazzo del Laterano, firmava i documenti dei Patti Lateranensi.
E’ per questo che noi cattolici non abbiamo
mai avuto veramente cuore di separarci dai nostri papi, pur come essi sono, con
i loro limiti umani, che tanto più vengono in evidenza negli esseri umani, ed
anche nei sovrani religiosi, quanto
più si giunge in alto. Sì, ci sono state
anche altre grandi anime che si sono
spese in quella stessa direzione. Ma in fondo è proprio la dottrina sociale, il lavoro
organizzato dai nostri papi, ad aver prodotto, con una svolta cultura
importantissima, con riflessi politici, giuridici, istituzionali, sociali, la
straordinaria realtà sociale della nostra nuova Europa, un fatto unico nella
storia dell’umanità, mai visto prima. Non
è un caso, credo, che l’Unione Europa sia attualmente guidata dalla
Germania governata da democristiani. Ora è in crisi, certo, ognuno è tentato di
fare per sé, il miracolo sembra dissolversi. Si preferirebbe lasciare i
sofferenti al loro destino, non si pensa si avere bisogno, non ci si sente
diminuiti se mancano all’appello. Non è forse perché la capacità politica dei
cattolico-democratici è venuta progressivamente meno e, allora, la politica è
vista come lotta di tutti contro tutti per far prevalere gli interessi dei più
forti, gli altri abbiano le briciole, stiano indietro e spilucchino ciò che
cade dalle tavole dei ricchi? Uno spirito religioso si sente rimordere dentro.
Ma se uno vuole farsi macchina sociale, antica belva, perché, nel suo spirito,
non vede altra soluzione e, inoltre, i populisti gli confermano che
effettivamente non c’è altra soluzione che essere, farsi, cattivi? Ed ecco che
anche oggi, però, ci giunge la voce di un papa, il quale, pur con tutti i suoi
limiti che egli nemmeno nega, tanto che non manca mai di chiederci di pregare
per lui, ci richiama l’anima e lo spirito, l’agàpe e l’insegnamento del nostro antico Maestro, la giusta via.
Dal male nasce solo il male: oggi tocca ad altri, domani toccherà a noi, come
accade in natura quando le bestie invecchiano e allora vengono lasciate
indietro e muoiono, sopraffatte da bestie più feroci di loro o semplicemente
dalla natura, senza più nessuno a dare aiuto.
Democrazia, carità, pace, persona e mondi
vitali: tutto il nostro pensiero sociale ruota intorno a questo. Quando c’era
il conflitto tra socialismo e capitalismo se ne parlava come di una terza via, una specie di via
di mezzo, ma non è così: è veramente un’altra
via. Lì dove i mondi vitali, invece di confliggere, come vorrebbe la
crudele legge della natura, si cercano, si incontrano, e nell’incontro, nella
relazione, non nel conflitto, crescono e si arricchiscono.
82. Fare politica in spirito di carità
Quando il papa Achille Ratti, regnante in
religione come Pio 11°, nel 1927 diceva
agli universitari cattolici della FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica
Italiana, queste parole:
I giovani talora si
chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco
che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se
stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è
diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è
la suprema lex a cui
devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e
compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e
importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il
lavoro. E tale è il campo della
politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo
riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si
potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.
non pensava alla politica democratica, a quella che oggi dobbiamo
praticare in Italia.
In Italia si era all’epoca del
fascismo storico trionfante e da tempo si stava trattando per superare la questione romana, le pretese rivendicate
dal papato sulla città di Roma e sull’Italia dopo la conquista militare del suo
piccolo regno nell’Italia centrale, nel 1870, da parte del Regno d’Italia. A
breve sarebbero stati compiuti due atti formali che avrebbero spinto i
cattolici italiani alla collaborazione con le istituzioni del regime fascista
italiano, in particolare nel sistema delle Corporazioni che organizzava,
inquadrandole nel sistema statale, le forze del lavoro. Si tratta dei Patti Lateranensi, conclusi nel 1929 dal
rappresentante del papa Ratti e dal capo del governo Benito Mussolini, in
rappresentanza del Regno d’Italia, e dell’enciclica Il quarantennale, del 1931, in occasione dei quarant’anni dalla
prima enciclica sociale
contemporanea, la Le novità, del papa Vincenzo Gioacchino
Pecci.
Tuttavia presto gli universitari
cattolici e gli aderenti al movimento di Azione cattolica denominato Laureati Cattolici, sorto tra i fucini
laureati, i rami intellettuali dell’Azione Cattolica, colsero l’opportunità
del collegamento tra politica e carità, che rendeva lecito dal punto di vista
dottrinale conciliare quelle due dimensioni, per progettare un
futuro dell’Italia diverso da quello prospettato dal fascismo e, in
particolare, una politica democratica. Bisogna ricordare che quest’idea era
stata scomunicata all’inizio del secolo, dallo
stesso papa della Le novità, il Pecci, con l’enciclica Le gravi [controversie] sociali, del 1901. Lo stesso magistero
papale virò verso questa concezione democratica a partire dal 1944, quando, constatando
la rovina dell’Italia causata dalla guerra mondiale in cui dal 1940 il
Mussolini aveva portato la nazione al seguito del despota nazista Adolf Hitler,
il papa Eugenio Pacelli, nel radiomessaggio natalizio del 1944, incoraggiò i
cattolici sulla via della democrazia. La piena accettazione delle democrazia
come regime politico maggiormente conforme allo spirito di carità si ebbe però
molto più tardi, con l’enciclica Il
centenario, diffusa nel 1991 dal papa Karol Wojtyla in occasione dei cento
anni dall’enciclica Le novità. Tra il
1891 e il 1991 si è avuto un completo ribaltamento del magistero papale sulla
democrazia, condannata addirittura come eretica all’inizio e alla fine proposta
come regime politico più conforme alla dignità umana. Con il Wojtyla si ebbe
invece una ripresa della polemica con il socialismo, che era molto forte
nell’enciclica Le novità. Ma quanto a
questo la situazione storica era molto diversa: nel 1891 il socialismo era in
forte espansione, in particolare tra gli operai europei, mentre nel 1991 era in
crisi terminale.
Che significa questo nesso tra
politica e carità, che secondo il magistero ci deve essere? Dipende da che cosa
si intende per politica e per carità. Politica significa governo della società. Carità, in senso religioso secondo la nostra
fede, è far posto agli altri in un
benevolo convito dove ce n’è per tutti. In spirito di carità religiosa non è
lecito fare esclusioni: tutti significa tutti.
Prefigura un nuovo ordine mondiale. C’è appunto questo in due documenti normativi
molto importanti in religione, le Costituzioni Luce per le genti e La
gioia e la speranza diffusi dal
Concilio Vaticano 2°, tenutosi a Roma tra il 1962 e il 1965. Tra quei due poli
c’è la democrazia, che significa governo del popolo, ma anche per
il popolo e mediante il popolo. E’ appunto questa la
definizione che ne diede il presidente statunitense Abramo Lincoln in un
celebre discorso tenuto a Gettysburg nel
1863, durante fine la Guerra civile tra gli stati del nord e quelli del sud, inaugurando
un cimitero militare:
[…]we here highly resolve that these dead shall
not have died in vain—that this nation, under God, shall have a new birth of
freedom—and that government of the people, by the people, for the people, shall
not perish from the earth.
Siamo fortemente determinati a far
sì che questi morti non siano morti
invano, che questa nazione, al cospetto di Dio, abbia una rinascita di libertà,
e che il governo del popolo, mediante il popolo e per il popolo non scompaia
dalla terra.
Nella concezione fascista il
popolo era il popolo italiano,
intesa come gente che era nata da italiani da generazioni e che per questo
aveva un po’ la stessa faccia. Si pensava ad una razza fascista, una variante
umana italica, che in realtà non è
mai esistita. L’altro giorno un politico, parlando di sostenere le famiglie
italiane, ha detto che bisogna farlo perché la
nostra razza non scompaia: non se ne
è reso conto, perché è una persona che politicamente vuole collocarsi in ambito
democratico, ma ha sviluppato un’idea fascista. C’è questa concezione al fondo
della decisione di attribuire la cittadinanza italiana a persone che abbiano
nonni italiani, anche se non hanno altro legame con l’Italia, e addirittura di
farle votare alle nostre elezioni politiche. L’altro giorno si è saputo che il
ministro australiano Matt Canavan si è dovuto dimettere perché ha scoperto di
avere anche la cittadinanza italiana e in Australia non si
può essere ministri avendo la doppia cittadinanza. Nel 2007 sua madre, nata da
italiani, chiese e ottenne la cittadinanza italiana, così sembra che si
diventato cittadino italiano, a sua
insaputa, anche il figlio, appunto Matt Canavan, all’epoca venticinquenne.
Ma è davvero andata così? Davvero non c’è stato necessità di altro? Sulla
stampa sono state riportate queste dichiarazioni del ministro dimissionario: “Non sono nato in Italia, non ci sono mai
stato e per quanto ne sappia non ho neanche mai messo piede nel consolato o
nell’ambasciata italiana. Sapevo che mia
madre fosse diventata cittadina italiana, ma non avevo idea di esserlo anch’io,
né avevo mai chiesto di diventarlo”. Ecco dunque un signore australiano che è
diventato italiano senza aver altro
legame con l’Italia che i suoi nonni, per diritto
di sangue. E da noi ci sono tantissimi ragazzi che sono nati in Italia, parlano
italiano, hanno studiato in Italia, pensano in italiano, agiscono come
italiani, amano l’Italia e gli italiani,
vorrebbero con tutte le loro forze essere cittadini italiani e non possono
diventarlo perché sono nati da stranieri. Per condanna di sangue sono esclusi, l’Italia non è loro, né per
loro, né mediante loro. Non potranno votare da noi e se vanno in visita alla
Camera dei deputati con la loro classe scolastica, come è accaduto, vengono
cortesemente accompagnati alla porta. Il Canavan vi sarebbe invece ammesso,
caso mai gli capitasse di passare per l’Italia, perché è anche cittadino italiano.
Avrebbe probabilmente bisogno dell’interprete per farsi capire bene, perché
l’italiano che sa risale all’infanzia, se mai la madre gli ha parlato nella
nostra lingua.
“Noi il popolo degli Stati Uniti”, con si apre la Costituzione
degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel 1789, uno degli atti
fondamentali della prima rivoluzione democratica moderna, quella statunitense,
insieme alla Dichiarazione di Indipendenza nel 1776. Quel noi non comprendeva la
popolazione schiava, composta di genti africane deportate in America, che
viveva negli Stati Uniti, una parte rilevante della popolazione residente. Ma
neanche tutto il resto del mondo. Ma, con tutto ciò, era un atto lungimirante,
che poteva prefigurare una rivoluzione molto più vasta, globale: in qualche
modo i rivoluzionari statunitensi avevano parlato a nome dell’intera umanità,
non solo di un popolo, ma di tutti
i popoli della Terra, quando avevano
proclamato, nella loro Dichiarazione di indipendenza:
Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per
sé stesse evidenti; che tutti gli uomini
sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di
alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la
ricerca della Felicità; che allo
scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i
quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni
qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto
del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi
su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli
sembri più idoneo al raggiungimento della sua sicurezza e felicità.
Non si può rivendicare il diritto alla democrazia senza riconoscerlo a tutti. Ne siamo
consapevoli?
Settant’anni di democrazia avanzata hanno
inciso meno profondamente nella cultura popolare dei vent’anni del fascismo
storico. Perché? La vera ragione è molto dura da accettare, specialmente per
noi cattolici. E’ che fascismo e dottrina sociale si erano profondamente
integrati e questo ha determinato una vera e propria tradizione, di genitori in figli, che è giunta anche tra noi. E
qualche volta, quando si parla del buon
cattolico, non ci si rende conto di tratteggiare la figura del fascista cattolico, approvata dal
magistero ai tempi della compromissione con il regime fascista storico, a
cavallo tra gli anni Venti e Trenta. Lo si fa il più delle volte senza
rendersene conto, ripetendo atteggiamenti che si sono imparati da piccoli, dai
nostri genitori, i quali a loro volta li hanno imparati dai loro. Questa
ideologia di conciliazione tra fede e fascismo si è radicata fortemente nelle nostre genti di
fede al tempo in cui l’Azione Cattolica, la potente agenzia culturale e
politica (oltre che naturalmente
religiosa) creata dal papato nel 1906, si fascistizzò, ad eccezione dei suoi rami intellettuali, della FUCI e dei Laureati Cattolici. Abbiamo, così, in
qualche modo, succhiato il
clerico-fascismo con il latte delle nostre madri. Sarebbe
possibile realizzare una tradizione
democratica nella fede altrettanto
forte? Perché no? Tutto però dipende da che cosa, e soprattutto da chi,
consideriamo per popolo.
83. Noi popolo
A chi pensiamo quando parliamo di "popolo"? È importante
saperlo in un sistema politico come quello italiano che dà la
"sovranità" al popolo.
In diritto si parla di popolo riferendosi alla gente che
sta sotto un potere pubblico, che si impone senza bisogno di consenso. Vi hanno
mai chiesto se volevate essere italiani? Eppure, vivendo in Italia, siete
soggetti alle leggi italiane. Siete popolo. Ma se siete anche
"cittadini" rimanete parte del popolo italiano anche andando
all'estero. In Italia c'è anche gente che fa parte del popolo, perché vive e
lavora stabilmente da noi, è soggetta alle leggi italiane, ma non ha la
"cittadinanza". Avere la cittadinanza significa poter partecipare,
quando si hanno diciotto anni, alle procedure democratiche delle istituzioni
pubbliche, quelle che esercitano i poteri pubblici. Un sistema politico è tanto
più democratico, secondo la concezione che ai tempi nostri si ha della
democrazia, quanto più la cittadinanza è estesa al popolo, quanto più si riduce
il numero di quelli che sono popolo ma non cittadini. Nell'antica Atene, dove
vennero ideate le "parole" della democrazia, non era così: i
cittadini erano una minoranza, vale a dire tutti quelli che, non avendo
l'obbligo di lavorare, avevano tempo di discutere dei problemi dello stato. A
quell'epoca lavorano quasi solo gli schiavi. Il lavoro era un lavoro schiavo.
La democrazia italiana di oggi dovrebbe essere invece "fondata sul
lavoro". È scritto nell'art.1 della nostra Costituzione. Che significa?
Significa impegnarsi a non escludere i lavoratori dalle procedure democratiche.
Questo però richiede che il lavoro non sia lavoro schiavo. È quindi un
"impegno" perché si è visto storicamente che l'economia, lasciata a
sé stessa genera lavoro schiavo.
Di
popolo però si può parlare anche in altro senso. Come di gente che, non solo è
soggetta ad uno stesso potere pubblico, ma che è legata anche da altro, ad
esempio da una lingua e da altre tradizioni culturali, modi di vita, modi di
pensare, anche idee religiose. Era così che lo intendeva il rivoluzionario
italiano dell'Ottocento Giuseppe Mazzini, al quale sono intitolate tante vie e
piazze in Italia. Il suo motto fu "Dio e popolo". Fino al 1861,
quando fu proclamata l'unità nazionale sotto il Regno d'Italia, e sotto la
monarchia dinastica dei Savoia, non ci fu "un" popolo italiano inteso
come soggetto ad un unico potere pubblico, ma più popoli italiani, sotto
diverse autorità pubbliche, ed anche ad un'autorità straniera, quella
dell'Impero di Austria e Ungheria. Mazzini però ed altri intellettuali e
rivoluzionari della sua epoca, pensavano che ci fosse una unità di cultura,
intesa come storia,stili di vita, modi di pensare che faceva degli italiani un
solo popolo anche se al momento erano sotto varie autorità pubbliche. Questo,
nella sua visione, esigeva l'unità nazionale. Era, per lui, anche un problema
di dignità. Come si canta nel nostro inno nazionale, scritto e musicato da
rivoluzionari mazziniani, gli italiani erano "calpesti e derisi"
proprio perché non erano "popolo", perché erano divisi.
84. Serve un governo del
popolo?
La democrazia ê governo del popolo. Ma serve? Le imprese, ad
esempio, non sono dirette con criteri democratici, eppure sono prese spesso a
modello quando si pensa come gestire al meglio gli affari pubblici.
Se consideriamo realisticamente noi stessi, capiamo che sappiamo
fare bene poche cose. Questo anche se in un certo campo arriviamo ad essere
degli esperti. Come possiamo "governare"? Gli altri però sono nelle
nostre stesse condizioni. Che cambia mettendosi insieme? Sono obiezioni alla
democrazia che furono poste fin da quando su questi temi si cominciò a
ragionare sistematicamente, nell'antica Grecia di circa 2500 anni fa.
Si pensò, allora, che fosse meglio che
lo stato fosse retto da competenti: si pensò ai filosofi, che nell'antichità si
intendevano un po' di tutto. Ma, al dunque, fu sempre la forza a prevalere.
All'origine di ogni potere politico c'era sempre un atto di violenza. Poi il
potere tendeva a perpetuarsi e a trasmettersi in una piccola cerchia. In
particolare si cercava di tramandarlo in famiglia, di genitore in figlio,
quindi di renderlo potere dinastico. Del resto il governo monarchico era una
tradizione molto antica. Ancora oggi l'idea di fare unità politica intorno ad
una persona convince. Ma non regge ad una critica razionale. Perché i singoli
rimangono sempre persone limitate: in genere, finiscono con il deludere. E, di
solito, non vanno al potere dei sapienti. La storia rende chiaro, poi, che la
capacità di governo non si trasmette di genitore in figlio e non si accompagna
automaticamente alla sfrontatezza e alla violenza di quelli che con la forza
ambiscono a conquistare il potere. Per impratichirsi nel governo occorre tempo,
ma il protrarsi di un governo tende a produrre una degenerazione, in
particolare una commistione di interessi privati e pubblici. Più si resta al
potere, più si diventa dipendenti dal potere e non lo si vuole lasciare. Si
ricorre ad ogni mezzo per non esserne esclusi. Le monarchie dinastiche europee
dal Medioevo cercarono di accreditarsi come volute dal Cielo, ma anche prima
c'era stato un impiego della religione a sostegno del potere pubblico. A volta
si divinizzavano i sovrani, ma in un ambiente di religione politeistica questo
aveva conseguenze meno serie: il sovrano era solo un dio tra molti altri, e
nemmeno il più potente. La gente si accostava al sovrano-dio con lo stesso
spirito con cui lo faceva con gli altri cercando di ingraziarsene i capricciosi
favori. Se però l'autorità celeste è una sola e per di più è per definizione
sommo bene, l'effetto di consolidamento del potere è molto maggiore, e i
sudditi non devono solo obbedire, ma anche amare il sovrano. In questo quadro
la democrazia viene considerata un'empietà. È in fondo questo il vero motivo
per il quale si vorrebbe che la Chiesa non fosse democratica, ed effettivamente
non lo è. Poi però si deve constatare che questi sovrani voluti dal Cielo,
civili o religiosi che siano, non sono granché. Ancora oggi ci sono monarchie
politiche dinastiche, sebbene contino poco nel governo dello stato, affidato a
istituzioni democratiche. A parte dare spettacolo, con fastose cerimonie
pubbliche di tanto in tanto, i monarchi di oggi fanno ben poco e, individualmente,
non si distinguono molto dai loro sudditi. Non sono sapienti, ma non sono
nemmeno competenti in qualche cosa, salvo l'etichetta di corte. Hanno il
problema di come passare il molto tempo libero che hanno e spesso hanno
sviluppato le abitudini di vita dei grandi ricchi tra i quali si sono
formati.
Ma il "popolo" è meglio di
loro? Se lo consideriamo solo come insieme di gente che è soggetto ad un potere
pubblico, sicuramente no. Perché questa è una posizione puramente passiva.
Diventa migliore quando si manifesta capace di critica sociale, a cominciare
dall'autocritica. La critica induce a migliorarsi, ma è cosa che si impara. Uno
come Giuseppe Mazzini (1805-1872) pensava, e infatti lo scrisse, che gli
italiani fossero democratici per indole, per natura capaci quindi di
migliorarsi mediante critica e autocritica. Così ribatteva a chi lo metteva in
guardia che in realtà non era così. Gli obiettavano che era meglio procedere
per gradi: conquistare l'unità nazionale sotto la monarchia Savoia, che dal 1948
si era fatta "costituzionale", concedendo uno Statuto e accettando di
condividere il potere con istituzioni democratiche, poi educare la gente alla
democrazia, quindi farne "popolo" di cittadini da popolo di
sudditi che era, poi, infine, proclamare la repubblica. Mazzini premeva invece
per avere subito la repubblica per far fare precocemente tirocinio di
democrazia alla gente. Pensava infatti che le dinastie regnanti dell'epoca, al
di là dei periodici conflitti per ragioni di espansione territoriale, al dunque
si sarebbero coalizzate contro i loro popoli, per mantenere il loro dominio
dinastico su di essi. E in questo non sbagliava.
Se il popolo si impegna nel governo
democratico, divenendo capace di critica e autocritica sociale e accettando i
limiti democratici ad ogni potere, in durata ed estensione, può essere un
governante migliore di quando il potere finisce stabilmente nelle mani di pochi
o di uno solo, perché più gente significa più risorse umane, più competenza,
poter vedere le cose da più punti di vista e quindi meglio,ma soprattutto
cercare di non trascurare nessuno. Per riuscirci il popolo deve proporsi di non
essere un despota. Infatti nella nostra Costituzione, nello stesso articolo, il
primo dei "principi fondamentali", in cui si attribuisce al popolo la
"sovranità", vale a dire il poter più alto, si pone ad esso il limite
della legge. Quello del popolo, se vuole essere democratico, non deve mai
essere un potere "assoluto", vale a dire illimitato. I
"populisti", quelli che cercano di ingraziarsi emotivamente il popolo
per montargli sulle spalle e dominarlo, lo propongono invece come illimitato,
contrapponendo democrazia e popolo. Ma la legge della storia è questa: il
popolo che vuole farsi despota, cade in mano ai despoti. Quelli che si lasciano
fascinare dalle parole d'ordine dei populisti di oggi, come "meno
tasse!" e "aiutiamoli a casa loro!", costruiscono il nido del
despota.
85. Diventare popolo?
L'unità nazionale si fece tra il 1848
e il 1870 e ai moti e alle vere e proprie guerre per realizzarla parteciparono
molti cattolici. Vi si opponevano le monarchie che dominavano all'epoca gli
Stati italiani, tra le quali l'Impero di Austria e Ungheria e il Regno
pontificio, ad eccezione di quella dei Savoia del Regno di Sardegna, con capitale
Torino. Dall'altra parte del fronte c'erano altri italiani, oltre che i
militari e funzionari austro-ungarici, e questi nemici erano, in massima
parte, cattolici. Giuseppe Mazzini, l'apostolo dell'unità nazionale, aveva
scelto come motto quello di "Dio e popolo", e voleva costruire il
nuovo stato unitario come una repubblica animata da valori umanitari. La
scritta "Dio e popolo" era al centro del tricolore che fu adottato
come bandiera della Repubblica romana, nel 1849, quando per alcuni mesi ebbe
successo una rivoluzione democratica a Roma. In quell'occasione Mazzini
partecipò con Aurelio Saffi e Carlo Armellini all'organo provvisorio di
governo del nuovo stato. Il papato non riuscì a fornire una teologia che
indirizzasse tutti i cattolici, in questa tumultuosa fase politica, per
costruire una pace democratica nei tempi nuovi, che la storia spingeva verso il
superamento della frammentazione istituzionale italiana. I moti per
l'unificazione nazionale non erano irreligiosi, ma divennero anticlericali per la
strenua opposizione del papato. Quest'ultimo, addirittura, dopo la
proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861, vietò ai cattolici la
partecipazione alla vita democratica del nuovo stato nazionale. E, in un
drammatico concilio tenutosi nel 1870, l'anno della conquista militare del
Regno pontificio da parte delle truppe del Regno d'Italia, rafforzò il divieto
proclamandosi infallibile nella materia di fede: e la conquista di Roma, con la
perdita della sovranità politica del papato, la poneva in questione, perché
riguardava anche la missione del papato. Fatto sta che, come osservò lo
scrittore e politico Massimo D'Azeglio, fatta l'Italia bisognava fare gli
italiani. In questo il papato si pose di traverso, realizzando una vera e
propria tragedia nazionale, privando il nuovo stato dell'apporto dei
cattolici, che proprio in quegli anni, dall'unità nazionale in poi, avevano
cominciato ad esprimere numerosissime e vivaci iniziative sociali, in
particolare a beneficio degli strati meno ricchi del popolo. In un certo senso,
quello del "fare gli italiani" è un problema ancora attuale, sebbene
in un senso diverso da come veniva inteso a metà dell'Ottocento. Non si
tratta infatti di aderire ad un modello politico ideale di italiano, quindi di
adeguare la realtà ad una teoria, ma di riscoprire le ragioni di essere popolo,
e,innanzi tutto, di scegliere come esserlo e con chi.
Come ho accennato negli interventi
precedenti ci sono infatti vari modi di essere popolo. Un popolo democratico è
qualcosa di più di gente soggetta ad un potere pubblico su un certo territorio.
In democrazia il popolo esprime la cittadinanza, vale a dire una partecipazione
al governo. Si parla in proposito di "sovranità", intesa come potere
supremo, ma bisognerebbe trovare un'altra espressione per definire il potere
democratico. Infatti, in democrazia, nessun potere, nemmeno quello del popolo,
è veramente "sovrano", vale a dire illimitato. Nelle democrazie
contemporanee il potere supremo, la "sovranità", è limitato da un
sistema di principi umanitari che valgono anche se non espressi in leggi
formali e addirittura contro le leggi formali, fondando il diritto personale e
comunitario di resistenza. È su queste basi che, tra il 1945 e il 1946,
poterono celebrarsi processi giudiziari in sede internazionale contro alcuni
del più alti capi del governo tedesco dei tempi in cui la Germania era stata
governata da un regime nazional-socialista, vale a dire dal fascismo di Adolf
Hitler. Questa idea, che nessun popolo possa finire completamente in mani
altrui, fossero anche quelle di capi legittimati dallo stesso popolo, fa parte
della dottrina sociale della Chiesa ed è molto antica, risalendo al pensiero
medievale, come filosofia istituzionale. Ma i suoi fondamenti sono ancora più
antichi e li troviamo nei Vangeli. Nelle varie encicliche sociali del papa
Karol Wojtyla ne possiamo leggere un'ampia e sistematica esposizione. La
"costituzione" dell'Unione Europea si basa su di essa. Non appena i
cattolici, dopo la Seconda guerra mondiale, furono liberati dai vincoli
clericali che ostacolavano la loro piena partecipazione alle democrazie
europee, essi idearono un nuovo mondo, e parteciparono in ruoli determinanti
alla sua realizzazione. Poteva accadere prima, fin dall'Ottocento? Le risorse
culturali c'erano. Mancava la democrazia. Il nesso tra valori e democrazia è
fortissimo. Certi valori richiedono un ambiente politico democratico per
affermarsi. Mazzini se ne rendeva conto e contestava vivacemente quelli che
pensavano che democrazia significasse solo anarchia. Oggi però il populismo
corrente contesta appunto alla democrazia la mancanza di valori e propone di
fare a meno di essa. A ognuno dovrebbe essere consentito di esprimere
preferenze via internet, poi si fa il conto: ma questa non è democrazia, è un
sondaggio. Che cosa manca? Manca l'impegno personale. Che cosa si mette di sé,
infatti, in questa procedura? Si è disposti a rischiare la propria vita o,
comunque, ciò che di più importante si è o si fa? E mancano anche il dialogo e
l'intesa con gli altri: il farsi partito, il modo in cui si dà ordine e
prospettiva all'impegno politico collettivo. È per questa via che il Mazzini
indusse moti popolari molto potenti, basati su un coinvolgimento etico e
personale fortissimo, che furono determinanti nel realizzare l'unità nazionale.
Questa è politica che cambia le cose. Il populismo invece è solo un inganno,
per strumentalizzare il voto popolare e saltare sulle spalle di un popolo. Non
cambia veramente nulla per il popolo, se non l'identità di chi è riuscito a
dominarlo, domandolo. Per questa via la democrazia perde senso, rimane solo
vuota procedura.
86. La società costruita
Nell'organizzazione della società non
c'è nulla di naturale: è integralmente una costruzione umana. È per questo che
cambia continuamente e, in genere, abbastanza rapidamente. Il bene e il male
che c'è dipendono da questo assetto della società. Senza un ordine la società
non potrebbe esistere, non ci sarebbe più. Esso deriva dalle relazioni tra i
gruppi sociali, e, al livello minore, tra le persone. Le consuetudini sociali
sono le più antiche leggi umane. È come quando tante persone percorrono una
certa via in un bosco e allora a terra si crea un sentiero visibile, che viene
percorso quando si vuole arrivare da una certa parte. Quando sulle consuetudini
si crea un accordo esplicito, nasce la legge come la intendiamo. Ma una legge
può anche essere imposta dal gruppo sociale che riesce a imporsi sugli altri.
Nasce un'autorità pubblica. Queste leggi, imposte da un'autorità, sono più
resistenti al cambiamento, perché sono legate alla forza del gruppo sociale che
le ha rese obbligatorie e che si occupa di punire chi non le segue. Si crea
così una tradizione normativa. Per dare più forza a queste leggi le si può
collegare ad un'autorità celeste e allora la violazione diventa anche un atto
empio. Le violazioni più gravi lo sono ancora, ad esempio il furto o
l'omicidio. In religione si sta in questi giorni discutendo se rendere tale
anche il delitto di corruzione politica. Ma le leggi umane rimangono integralmente
una costruzione sociale che dipende dal rapporto di forza tra i gruppi della
società.
Quando emergono nuovi gruppi sociali,
cambiano le norme. È accaduto con l'affermarsi dei ceti popolari, degli strati
più umili della società, nel corso del Novecento. Erano, e sono, quelli che
stanno peggio. Chi stava meglio in società era una piccola minoranza. Sembrava
che il Cielo volesse così. Reagire a questo stato di cose sembrò in origine un
atto empio. È per questo che in religione spesso si ostacolò il processo di
cambiamento sociale in senso più giusto. In particolare questa fu, a lungo, la
posizione del papato. Nell'enciclica Le novità, diffusa nel
1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone 13*,
si insegnava che la diseguaglianza tra i gruppi sociali non poteva essere
superata, quindi che era "naturale", ma che i più ricchi e i padroni
dell'economia non dovevano infierire su chi stava peggio. Poi la dottrina
sociale cambiò molto e nell'enciclica Lavorando, diffusa nel 1981
dal papa Karol Wojtyla, regnante in religione come Giovanni Paolo 2*, per molti
versi si insegnano idee opposte. Anche la Chiesa come gruppo sociale cambia? È
certamente così. Nelle sue dinamiche sociali ha seguito quelle delle altre
società. I suoi capi hanno esercitato l'autorità recependo il modo di comandare
delle altre autorità. I papi, in particolare, concepirono sé stessi come
imperatori, ma dagli anni Sessanta vorrebbero essere qualcosa di diverso.
Il male che c'è in una società, quello
collettivo e quello personale dipende in gran parte da come è stata costruita
l'organizzazione sociale. I più interessati al cambiamento sono quelli che
stanno peggio, che di solito sono la maggioranza. Senza correttivi, tendono
infatti a prevalere minoranze di privilegiati che per varie ragioni hanno
raggiunto posizioni di forza. In ambente democratico, in cui prevalgono le
maggioranze, queste ultime dovrebbero poter riuscire a cambiare le cose, ma
storicamente non è stato così facile. Questo perché la cultura, che spiega come
vanno le cose, è in genere controllata da chi sta meglio e quindi dà molte
buone ragioni per lasciare tutto com'è. il primo passo per suscitare un
movimento popolare di riforma è di far prendere alla gente coscienza del fatto
che certe sofferenze non sono ineluttabili, ma la conseguenza di un certo
ordine sociale, che come è stato costruito può essere cambiato, e anche
abbattuto se veramente malvagio.
87. Pensare come popolo
Per fare politica, quindi per
governare la società, bisogna pensare in termini collettivi, sia che lo si
voglia fare con metodi democratici sia che lo si voglia fare in altro modo.
Questo, il pensare sociale, ci viene oggi più difficile. Siamo stati diseducati
a farlo, la società è stata intenzionalmente disarticolata. È un processo che
si è sviluppato in tutto il mondo Occidentale a partire dagli scorsi anni '80 e
che ha avuto nel capo del governo inglese Margaret Thatcher, in carica dal 1979
al 1990, l'ideologa più lucida, coerente e determinata. Sosteneva che la
società non esiste e che esistono solo gli individui. In questa concezione
ognuno vale per sé stesso o, come si dice ora in Italia, "uno vale
uno". Questo modo di pensare impedisce alle masse di quelli che in società
stanno peggio di cambiare le cose a loro favore democraticamente. Esse hanno di
fronte i privilegiati che controllano il corso degli eventi politici da
posizioni di forza raggiunte storicamente, di solito attraverso il controllo
dell'economia, e possono prevalere solo con il numero, facendosi popolo da insieme
caotico di individui che sono. Una persona da sola non conta nulla e la prima
strategia di chi controlla il potere da un punto di forza è quella di
disarticolare le opposizioni, di scoraggiarle, disperderle e dissolverle, in
modo che tornino masse di individui scollegati. Perché, per fare politica, non
basta pensare in molti in uno stesso modo e avere interessi comuni, ma occorre
essere legati da un patto d'unità d'azione a cui essere strenuamente fedeli. E
bisogna avere un progetto non solo per sé stessi e per il proprio gruppo, ma
anche per tutti gli altri, compresi quelli che ci si oppongono. Infatti la
società c'è ed è la rete di relazioni che ci consente di sopravvivere in tanti
in un mondo che si è fatto molto complesso e che esprime stili di vita con
molta sofisticata tecnologia dentro. In un progetto totalitario l'obiettivo
principale sarà il dominio della società, in modo da rendere stabile il proprio
potere. In un'ottica democratica si cercherà invece di organizzare la politica
in modo che nella società la maggior parte possibile della gente, nonostante le
sue diversità, possa beneficiare delle attività collettive e, innanzi
tutto, far valere i propri problemi di vita. Si cercherà quindi di individuare,
in ogni momento storico, quale sia il "bene comune", che comprende
anche la pace sociale e internazionale, in modo che non sia messa in pericolo
la vita della gente. In una visione non democratica, quando un gruppo
riesce a conquistare il potere prevalendo sugli altri, si avrà invece di mira essenzialmente
il benessere del ceto dominante, mentre quello degli altri verrà considerato
quel tanto che basta ad ottenerne il consenso sociale che serve a disarticolare
ogni opposizione. È appunto a questo che servono le politiche
"populiste", che ebbero nel fascismo mussoliniano un esempio
importante. Ma storicamente è una linea che era stata seguita anche dai
monarchi dinastici dell'epoca dell'assolutismo regio, fin da tempi
molto antichi. Nell'antica Roma, dopo la decadenza delle istituzioni repubblicane,
nel primo secolo dell'era antica, il favore delle masse veniva conquistato con
sistematiche elargizioni e spettacoli pubblici, "pane e circo" si
diceva. In questo modo, di fronte al potere populista non democratico, le masse
rimangono plebe informe, tumultuante per avere di più, ciascuno in lotta con
gli altri. Farsi popolo richiede un'etica diversa e, innanzi tutto, un'etica,
un senso del dovere per il quale si diviene insensibili alle lusinghe populiste
e capaci di resistere alla violenza esercitata dal potere non democratico
quando il populismo non funziona. Nelle drammatiche violenze di questi giorni
in Venezuela assistiamo alla degenerazione di una democrazia verso l'autocrazia
violenta dopo il fallimento di politiche populiste.
L'idea che in politica si debba
seguire il "bene comune" è centrale nella dottrina sociale della
Chiesa. Questo significa che l'egoismo sociale è riprovato. Questo condanna
molte delle parole d'ordine populiste di oggi come l'idea che si debbano
"rottamare" persone, o l' "aiutiamoli a casa loro" e,
infine, il "meno tasse". Il pensiero sociale sviluppato in religione
dagli anni Sessanta, dall'ultimo Concilio ecumenico, in cui gli affari sociali
ebbero grande considerazione, ritiene che nessuno debba essere rottamato, che
ognuno debba essere aiutato nel momento e dove si trova in difficoltà e che in
società si debbano trovare le risorse necessarie per il benessere di tutti, a
prescindere dalla distribuzione delle risorse che si ottiene nei rapporti di
forza del mercato, il che richiede un adeguato livello di imposizione fiscale
e, soprattutto, imposte che non gravino su tutti in modo eguale, ma di più sui
ceti privilegiati. Infatti il privilegio, nella maggior parte dei casi, deriva
da posizioni di forza sociale ingiustificate dal punto di vista razionale e di
equità, per cui alcuni vogliono di più e facendo forza sugli altri, ma
anche sfruttando le opportunità offerte dal sistema sociale, riescono ad
ottenere ciò che vogliono. Nel gergo, si dice che occorre quindi una "politica
dei redditi", espressione che oggi suona strana, perché si ritiene sacro,
e quindi intangibile, ciò che ciascuno riesce a conquistare in società, ma che
è un fattore essenziale della democrazia, che rapidamente degenera nel caso
dell'aggravarsi di generalizzate diseguaglianze ingiustificate. Lo strumento
fiscale serve anche a temperarle. Il populismo corrente non ha un
progetto di politica dei redditi e, in merito, ha presentato come un grosso
successo l'aver tagliato un po' le pensioni di alcuni vecchi parlamentari di
lungo corso, disponendo che fossero ricalcolate secondo i diversi criteri
vigenti per i parlamentari attuali: un risparmio tutto sommato irrisorio,che
non tocca gli squilibri molto più rilevanti che ci sono in società, in un tempo
in cui è enormemente aumentato, in particolare nel settore privato, il rapporto
tra stipendi dei più alti dirigenti e quelli di base e in cui i risultati dei
dirigenti vengono valutati tanto più positivamente, con aumenti di
stipendi e premi, quanto più si riesce a risparmiare sui costi del lavoro,
quindi sul numero e gli stipendi degli addetti. Una misura che, tra l'altro,
come è stato osservato giustamente nel dibattito parlamentare, apre la via al
ricalcolo di tutte le pensioni dei più anziani, che sono state determinate con
criteri molto più favorevoli di quelli stabiliti per chi oggi ancora lavora.
88. La felicità di tutti
Le scienze sociali e della mente ci
avvertono che gli esseri umani sono viventi in relazione. Questo è anche il più
profondo insegnamento della nostra fede. Quindi la nostra felicità dipende dai
nostri rapporti con chi ci sta intorno e la condanna più dura è quella alla
solitudine, se la vita, in quel momento, non è riempita dal soprannaturale, dal
rapporto con il fondamento che vive. Non è avendo di più che si è più felici:
spesso lo dimentichiamo. Ma, oggi più che in tempi passati, è la nostra stessa
sopravvivenza che dipende dagli altri, e, ai tempi nostri, anche da gente che
vive dall'altra parte del mondo. Sulle cose di nostro uso comune c'è quasi
sempre un'etichetta o una scritta in una parte nascosta che dice dove sono
state fatte. Gran parte di esse sono state prodotte in Oriente. Una guerra da
quelle parti, dall'altra parte del globo, potrebbe privarci delle cose che ci
servono quotidianamente o potremmo essere costretti a pagarle molto di più. Le
vite di tutti sono interconnesse. Che succederebbe se tutto procedesse
caoticamente, senza alcun ordine, solo secondo i rapporti di forza bruta? La
società da cui dipendiamo per la sopravvivenza non potrebbe esistere. E infatti
un'ordine c'è, disciplinato da una fitta rete di accordi internazionali, che fa
sì che merci dall'altra parte del mondo possano arrivare fino a noi. Questi
trattati sono stati costruiti dalla politica. Dunque, se vogliamo "fare
politica" dobbiamo occuparcene, almeno a grandi linee e il destino di
popoli lontani non ci può essere indifferente. E per loro è lo stesso.
Spesso la politica è presentata come
una via per avere di più, e invece dovrebbe servire a vivere meglio. Per questo
è necessariamente legata ad un'etica. Se è lotta di tutti contro tutti,
per accaparrarsi un di più di risorse scarse, diventa inefficace e produce solo
caos, in cui si vive peggio e addirittura si rischia di soccombere. È per
questo che il mercato, in cui tutti competono con tutti, deve avere correttivi
politici e non può fornire l'etica di una società, ma solo quella di un suo
settore. Ma, in realtà, è proprio vero che il mercato è quella specie di
giungla come ci viene presentato, in cui i grossi cercano di mangiare i piccoli
e, comunque, di fare fuori i più deboli? No, non è così. Tanto che è proprio in
una società di mercanti che è nata, nell'antica Grecia, la più antica
democrazia. Il mercato è un'istituzione che consente l'incontro e gli scambi,
in sicurezza e anche a livello internazionale, tra genti che appartengono a
sistemi politici diversi. E l'etica del capitalismo, in cui la produzione e gli
scambi lasciano molto spazio all'autonomia privata, è appunto un'etica, vale a
dire un sistema di limiti che ciascuno riconosce al proprio arbitrio e ai
propri appetiti. Altrimenti diviene impossibile il commercio e rimane solo la
rapina, per cui i forti profittano dei più deboli e li spogliano dei loro beni.
Diverrebbe così impossibile lo stesso capitalismo se le vite e i beni fossero
costantemente minacciati e nessuno potesse fidarsi degli altri. Questa
condizione di insicurezza farebbe regredire la nostra civiltà a livelli
primordiali, che non consentirebbero la sopravvivenza di otto miliardi e oltre
di persone sul nostro pianeta. L'idea che si debbano "rottamare" i
meno idonei sorse dalla seconda metà dell'Ottocento, sulla suggestione della
scoperta dell'evoluzione naturale delle specie animali secondo la lotta
per la sopravvivenza, con la seguente selezione degli organismi più adatti alle
condizioni ambientali. Si pensò che ciò che si era prodotto in milioni di anni
nel mutamento delle specie viventi potesse essere applicato alla rapidissima
evoluzione sociale degli umani. È il "darwinismo sociale", dal
cognome dello scienziato Charles Darwin che nell'Ottocento studiò l'evoluzione
delle specie. Ecco poi l'idea che la guerra sia un'igiene del mondo,
diffusa nel secolo scorso dai futuristi e ripresa dal fascismo mussoliniano.
Salvo poi constatare che la guerra è solo un immenso spreco di umanità, in cui
spesso sono proprio i migliori a soccombere sul campo di battaglia. Era cosa
nota da secoli, ma certe conquiste culturali vanno rinnovate di generazione in
generazione.
Si sostiene che i meno idonei in
società dovrebbero essere rottamati per dare una specie di giustificazione alla
propria crudeltà, a tutte le sofferenze che si producono e si ignorano negli
altri. Si vorrebbe accreditare l'idea che questo sia "naturale", per
scaricarsi la coscienza. Si ragiona in questo modo quando si dice che dovremmo
selezionare i migranti per bisogno, tenendoci solo quelli che ci servono. Non
si tiene conto che oggi tocca a loro e domani, affermato quel bestiale
principio, potrebbe toccare a noi. E, del resto, già sta accadendo ai nostri
figli che sono andati all'estero, perché da noi non abbiamo saputo costruire le
condizioni per un loro impiego.
La società costituisce ormai, a
livello mondiale, un tutto integrato e inscindibile, da cui dipendono la nostra
felicità e la nostra sopravvivenza. Non possiamo ragionevolmente pensare di
poter sopravvivere in un nostro piccolo mondo separato, in cui ci sono solo
quelli che ci vanno a genio. Dobbiamo pensare alla felicità di tutti e dobbiamo
farlo razionalmente, programmando e costruendo relazioni. È questa anche la
realtà dell'agàpe religiosa, che significa benevolenza per far posto a tutti,
nessuno escluso. È questo che è al fondo della dottrina sociale, che contrasta
duramente con la crudele ideologia dei rottamatori sociali. Nella visione del
pensiero sociale animato dalla nostra fede la politica è agàpe. E, più o meno
dagli anni Trenta del secolo scorso, si ritiene anche che sia un compito di
tutti, non solo di quelli che si trovano al comando. Questo ora rende possibile
costruire una teologia della democrazia, vale a dire rendere esplicito il senso
religioso della democrazia come oggi là si intende, piena di valori umanitari,
non solo procedura in cui vince la maggioranza. Una democrazia di tutti: questo
è l'obiettivo che ci viene indicato dal nostro pensiero sociale ed esso è in
grado di rivoluzionare il mondo in cui viviamo, nel quale c'è ancora tanta
sofferenza. A questo si contrappongono i populismi correnti che sono
profondamente antidemocratici e mirano a disarticolare le masse, rendendole
schiave delle loro paure e delle loro tentazioni, per poi dominarle salendo
loro sulle spalle e mantenendole schiave, come tutti i populismi hanno sempre
fatto. Il paziente e pertinace lavoro di formazione sociale che in religione si
va facendo sulle masse dal secolo scorso è teso invece a suscitare una realtà
di popolo impegnato nell'agàpe, per trasformare la società avendo di mira la
vera felicità. Laddove i populisti gridano "Avete ragione di avere
paura!", la dottrina sociale esorta e incoraggia, invece, con un "Non
abbiate paura!".
89. La politica e i valori
La politica democratica, in una democrazia
popolare quali sono le democrazie dei nostri tempi, è quella che consente e
richiede la partecipazione di tutti al governo della società. Questo richiede
che sia piena di valori. Non si tratta infatti solo di dominare, ma anche,
attraverso l'esercizio dell'autorità, e questo è appunto il governo, migliorare
la vita di tutti. Ma come farlo senza stabilire dei principi che orientino in
questo lavoro? Se invece la politica è solo dominio, allora non ha bisogno di
tener conto di tutti, le basta creare le condizioni sufficienti per conquistare
e mantenere il potere. In questo caso si comanda nell'interesse proprio e del
proprio ceto, vale a dire di quelli che, dominando la società, vogliono avere o
mantenere una posizione favorevole. Chi governa in questa prospettiva è
tendenzialmente un conservatore, perché, conquistato il dominio sulla società,
non ha alcun vantaggio a cambiare. In politica l'orientamento conservatore è di
solito definito "di destra", perché, nel Parlamento nazionale, fin da
quando ne esiste uno, dalle prime elezioni politiche tenutesi nel Regno
d'Italia dopo la sua fondazione, avvenuta nel 1861, i conservatori si
collocavano nei banchi di destra. Questo accadeva già nella Camera dei Deputati
del Regno di Sardegna, trasformatosi nel 1861 in Regno d'Italia, dopo
l'annessione di gran parte dei territori italiani. Non è detto però che un
conservatore sia contrario al progresso, e quindi anche a cambiamenti piuttosto
intensi. Storicamente, anzi, abbiamo assistito a movimenti politici
conservatori che proponevano politiche volte al progresso, sia tecnologico che
sociale. La tendenza conservatrice, quindi, riguarda essenzialmente solo
l'assetto sociale, in particolare nel contrastare l'emersione politica di altri
gruppi sociali che rivendicano vantaggi analoghi a quelli dei ceti dominanti.
Quando a voler emergere sono i ceti popolari posti in società in posizione generalmente
subalterna, allora questa tendenza politica è definita di sinistra, perché
storicamente i parlamentari che l'hanno impersonata si collocavano nei banchi
di sinistra del Parlamento. In Italia questa tendenza politica è stata
storicamente manifestata dai mazzinianesimo, vale a dire dai seguaci del
politico rivoluzionario repubblicano Giuseppe Mazzini (1805-1872), dal
socialismo, nei diversi partiti che storicamente lo espressero, a partire dal
1892, con la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani, ma anche dal
cattolicesimo democratico sulla base dei principi di giustizia sociale
insegnati nella dottrina sociale a partire dall'enciclica Le novità,
diffusa nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione con
il nome di Leone 13^.
I processi democratici furono animati
e diretti inizialmente, da metà Settecento, dai ceti che controllavano le nuove
tecnologie di produzione e di commercio, detti "borghesi", nei
confronti della nobiltà federata con i sovrani dinastici assoluti, la cui
ricchezza era essenzialmente basata sulla proprietà terriera. Successivamente
furono progressivamente sempre più influenzati da forze politiche di sinistra,
nell'emergere alla politica delle classi popolari, dovuto principalmente
all'azione delle forze socialiste, ma anche, e questo molto sensibilmente dagli
anni '40 del Novecento, di quelle del cattolicesimo democratico ispirato alla
dottrina sociale. Questo allargamento della base sociale dei processi
democratici ha anche prodotto una notevole estensione dei valori democratici,
al centro dei quali, per l'azione determinante di esponenti cattolici e
socialisti nella progettazione della nuova Costituzione repubblicana entrata in
vigore nel 1948, vennero a situarsi quelli della persona umana e del lavoro. Essi,
in questa concezione politica, sono strettamente collegati attraverso l'idea di
" dignità", che riassume un sistema di limiti etici a ciò che si può
fare agli e degli altri. Il lavoro deve essere rispettoso della dignità della
persona e, così, diviene essenziale per rafforzare e manifestare la dignità
della persona. Si tratta di dignità che si vuole di tutti, quindi nella sua
massima estensione. Per capire la differenza tra politiche di destra e di
sinistra è molto importante studiare come si pongono su quei temi.
Storicamente si manifestarono, in
particolare in Italia con il fascismo storico, politiche populiste. Nel
populismo le minoranze dominanti, in genere in quanto controllano l'economia,
prendono atto della forza delle masse e concludono con esse un patto di dominio
e protezione: le masse accettano di rimanere ordinatamente sottomesse e in
cambio hanno prestazioni sociali, in genere in danno di un qualche nemico
temuto dalla gente. In questo quadro le risorse per le politiche sociali non
derivano da un riequilibrio delle diseguaglianze sociali, ma da strategie di
potenza consentite dalla forza delle masse. Il fascismo mussoliniano le cercò
mediante le guerre coloniali e, da ultimo, con la guerra imperialista al
seguito della Germania dominata dal fascismo di Adolf Hitler. Queste politiche
populiste vengono inquadrate solitamente in quelle di destra, perché si
oppongono agli ideali e ai progetti di quelle di sinistra.
Ai tempi nostri la politica è
generalmente orientata in senso populista. È quindi conservatrice, ma tenta di
avere un vasto consenso sociale prospettando prestazioni sociali. È piuttosto
vaga quanto all'individuazione delle fonti delle risorse necessarie, che non si
ritiene debbano conseguire a un riequilibrio delle diseguaglianze sociali. La
prima prestazione sociale promessa è, in Italia, il contrasto all'immigrazione
dalle nazioni povere dell'Africa e dall'Asia, ma anche quella di negare i
diritti di cittadinanza alla gente straniera che già di fatto fa parte del
nostro popolo, avendo acquisito cultura e stili di vita di carattere europeo.
Ha quindi carattere xenofobo, parola che significa avversione verso lo
straniero. Ragionandoci sopra si capisce che gli impegni xenofobi non
potranno essere mantenuti e, quindi, sono più o meno a costo zero: richiedono
solo periodiche manifestazioni di rigore verso la gente che vorrebbe vivere tra
noi, per convincere i cittadini che sia possibile risolvere il problema delle
migrazioni mediante respingimenti di massa. Si tratta di misure contrastanti
con la dignità della persona e del lavoro e, in questo, riconoscibili come non
appartenenti ad ideologie di sinistra. Il populista di oggi mira a far votare
per lui, poi si vedrà. Propone un cambiamento di chi comanda, ma non
dell'assetto sociale. Quindi è un conservatore, perché non ha un progetto
alternativo di società, anche se, nei discorsi che fa, appare un
rivoluzionario. Spesso è molto bellicoso con chi nella società sta peggio e non
pensa possa votare per lui, o perché non ne ha diritto o perché gli è
irriducibilmente avverso. Il più importante capo politico populista del mondo è
oggi il presidente statunitense Donald Trump. Tutti gli altri populisti del
mondo gli fanno in genere eco. Fa eccezione l'odierno Venezuela, che ha
sviluppato un populismo di altro segno, sul modello staliniano. Il principale
esponente che nel mondo si oppone ideologicamente al populismo del tipo
trumpiano è papa Francesco. La dottrina sociale, con la sua etica molto
esigente, è infatti all'antitesi del populismo.
90. Cambiare le persone
al comando o le politiche?
Questa serie di riflessioni estive possono
servire a dare un orientamento su come affrontare i problemi politici
nell'Italia di oggi, come siamo esortati a fare dai nostri vescovi. Hanno
quindi una particolare attenzione agli insegnamenti di quel vasto corpo di
documenti del magistero che contiene la dottrina sociale religiosa. La
politica, quindi il governo della società, può essere una manifestazione
dell'agàpe della fede, termine del greco antico che traduciamo in italiano con
"carità" o "amore", ma che ha in realtà un senso sociale
molto più intenso, facendo riferimento ad un lieto convito in cui c'è posto per
tutti e in cui non manca nulla a nessuno.
Di questi tempi ci viene proposto di
cambiare classe politica, quindi le persone che comandano in politica, in
Parlamento, nel Governo, negli altri posti dai quali si dà la linea all'azione
sociale. L'idea è che cambiando le persone cambierà anche la politica è che, si
sottintende, cambierà in meglio. Tuttavia può essere osservato che nel 2013 c'è
già stato uno spettacolare cambio di classe politica: quelli di prima si sono
ritirati e al comando c'è veramente gente nuova. Basta considerare le biografie
degli attuali ministri, ma anche quelle dei parlamentari. Il mutamento è stato
particolarmente accentuato nelle amministrazioni comunali di alcune grandi
città, come Roma. Tuttavia, nonostante la "rottamazione" di tanta
parte dei politici del passato, le politiche attuate non hanno presentato che
mutamenti di dettaglio, piccole rifiniture. In passato le alternative non
furono solo tra classi politiche, ma tra progetti politici ed erano veramente
più impegnative, coinvolgendo addirittura lo schieramento internazionale
dell'Italia rispetto ai due grandi blocchi all'epoca dominanti, quello dei
capitalismi, guidato dagli Stati Uniti d'America, e quello dei comunismi,
guidato dall'Unione Sovietica. In mezzo c'era un coordinamento di nazioni
"non allineate" promosso dalla Jugoslavia.
Il confronto, e anche lo scontro, tra
disegni politici molto divergenti si risolse, in Italia, in ambito democratico,
non nel caos, ma, nel dialogo culturale e sociale, in particolare nel
Parlamento, con un conseguente risultato dialettico, per cui le due linee
finirono per integrarsi, riconoscendo e inglobando gli elementi positivi
ciascuna dell'altra. Questo è appunto il metodo raccomandato nella dottrina
sociale della Chiesa, nella quale si prende realisticamente atto delle
divisioni sociali, ma si invita a superarle nel dialogo, accentuando ciò che è
il fondamento comune della convivenza civile. Un sistema di valori condivisi
sorresse questa dinamica di dialogo: si trattava dei valori
costituzionali, con al centro quelli della persona umana e del lavoro. È
appunto lo smarrimento di questo orientamento verso i valori che crea tanti
problemi nella politica di oggi e impedisce di proseguire nella progettazione e
attuazione di un mondo nuovo, vale a dire il lavoro iniziato dalle forze
politiche dalle quali originò, nel 1948, dopo il lavoro dell'Assemblea
Costituente, la nostra Repubblica democratica.
Non basta cambiare le persone, occorre
cambiare il progetto politico, se si vuole veramente cambiare una società in
cui c'è troppa sofferenza. E innanzi tutto occorre averne uno. Ma, appunto,
questo è un problema, oggi, perché i candidati a posti di comando non si
azzardano ad essere troppo espliciti, rimanendo sulle generali, a livello degli
slogan, che hanno la consistenza degli annunci pubblicitari. In effetti i
candidati sono spesso consigliati dagli stessi specialisti in psicologia della
decisione che strutturano gli annunci pubblicitari commerciali. Cercano di
indurci a preferirli alle elezioni con le stesse tecniche.I loro appelli
cercano di attivare la nostra mente più antica, quella che viene guidata dalle
emozioni, che si basa sulla prima impressione è che ci serve a fare velocemente
le scelte quotidiane ripetitive, dove è superfluo esercitare la nostra facoltà
critica, ragionarci tanto sopra. È stato dimostrato che, raggiunto quel livello,
poi la coscienza critica che dovesse attivarsi successivamente, secondo la
parte della nostra mente più evoluta, farà fatica a imporsi. Si rimane ancorato
alla prima impressione, al primo giudizio emotivo, superficiale. Ma quando si
tratta di fare scelte che implicano il futuro nazionale, è giusto fare così?
Non si dovrebbe perdere un po' più di tempo per attivare la razionalità delle
persone? Se però si punta solo a convincere gli elettori a tracciare un segno
sulla scheda, non serve. Non è nemmeno necessario perdere tempo a ragionare
ordinatamente e informandosi da fonti affidabili sui mali sociali e sulle
soluzioni, come ad esempio si fa nell'enciclica Laudato si' del
2015. Non occorre avere un progetto di cambiamento. Ci si penserà quando si
sarà al potere. Ma, allora, potrebbe essere troppo tardi. Fatalmente, non
essendo preparati, si farà come quelli di prima, si seguirà la tradizione. Ecco
dunque che gente nuova fa le cose di sempre.
Per cambiare veramente occorre un nuovo
progetto di società, altrimenti è scontato che si continuerà a fare come prima.
Un criterio molto importante per valutare le proposte politiche e chi si
presenta come candidato è quindi quello di individuare il progetto di società
che c'è dietro, al di là degli slogan, delle parole d'ordine. Spesso i politici
di oggi fanno appello alla fiducia verso di loro, dovremmo fidarci. Uno slogan
di una pubblicità commerciale di alcuni anni fa diceva "La fiducia è una
cosa seria, che si dà alle cose serie". È proprio vero. Nella politica
decidiamo a chi affidare le vite nostre e dei nostri cari. Dovremo scegliere
persone serie. È una persona seria il nostro Padre Francesco che ha scritto una
lunga enciclica per spiegarci i mali d'oggi è le possibili soluzioni,
acquisendo il parere di molti esperti; non mi pare che si dimostrino tali
quelli che vanno per slogan tipo "rottamiamoli", "aiutiamoli a
casa loro", e "meno tasse".
91. Partecipare al governo democratico
Nella Costituzione è scritto che la
sovranità appartiene al popolo, con il limite delle leggi che la regolano, ma
in genere ciascuno pensa si contare poco, come singolo, nel governo della
società. E in effetti è così, infatti la democrazia si esprime in azioni
collettive e quindi i cittadini non contano come individui ma nella misura in
cui sanno farsi popolo, quindi ad esprimere una forza collettiva.
Ma come?, noi "siamo" già
"popolo", siamo italiani, viviamo in Italia dove la gran parte di noi
è nata, parliamo italiano, vestiamo secondo la moda corrente in Italia, e via
dicendo e precisando, in che senso dovremmo "farci" popolo? Questo è
appunto il grande problema, e anche l'impegno, principale delle democrazie
popolari, in cui il popolo non soltanto "è", ma anche
"decide". Per essere "popolo che decide", per influire
collettivamente sul governo della società, occorre fare unità nella gente al di
là di quella che è manifestata da una certa somiglianza di elementi culturali,
che, in fondo, è minimamente "decisa" dalla gente è in massima
parte subìta, per cui uno nasce e si ritrova in un certo ambiente sociale e si
uniforma ad esso, facendo come gli altri. È per questo che ai rivoluzionari
italiani del Risorgimento si presentò l'esigenza, dopo essere riusciti a
"fare" l'Italia, unificando le genti stanziate in Italia sotto un'unica
autorità politica, sotto un sovrano italiano, la dinastia dei Savoia, di
"fare" gli italiani. Infatti dal 1848 la monarchia Savoia era del
tipo "costituzionale", vale a dire che riconosceva limiti al potere
del monarca e ammetteva la partecipazione democratica dei sudditi al governo
dello stato, in particolare mediante l'azione politica di un Parlamento in cui
la Camera dei deputati era eletta dai cittadini maschi e con certi requisiti di
istruzione o di reddito. Quindi non bastava più, per essere popolo, essere
sudditi di un unico re, occorreva un popolo con capacità politica. Ci si
accorse che l'Italia era ancora "fatta" di popoli diversi, che
addirittura parlavano lingue diverse e comunque avevano culture diverse:
integrarli non si presentava facile. È un lavoro che fu in gran parte portato a
termine solo negli anni Sessanta del secolo scorso, con quel potente strumento
di integrazione culturale costituito dalle reti televisive pubbliche della Rai
e con la realizzazione della scolarizzazione pubblica di massa, in particolare
con la riforma della scuola media inferiore, che risale sempre agli scorsi anni
Sessanta. La formazione è indispensabile per dare al popolo la capacità
politica. Fin dall'Ottocento lo si era capito e ne aveva scritto, ad esempio,
il rivoluzionario repubblicano Carlo Cattaneo (1801-1869), uno dei capi della
rivolta milanese del 1848 contro gli occupanti austro-ungarici. Per fare
politica non è sufficiente conoscere i problemi propri e di quelli che vivono
nelle immediate nostre vicinanza, bisogna capire la storia in cui si vive, ed
avere una prospettiva molto più ampia.
Uno strumento molto potente per
conquistare una capacità politica sono le encicliche sociali dei nostri
papi, in particolare a partire dalla La pace in terra,
diffusa nel 1963, dal Papa Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni
23^. Esse sono strettamente connesse con l'attualità, non si tengono sulle
generali, e hanno una visione veramente globale. Non sono sempre facili da
leggere, richiedono quasi sempre degli approfondimenti, ed è bene tenere a
portata di mano, affrontandone lo studio, il libro di storia di terza media o
un Smart-phone che possa consultare Wikipedia e l'enciclopedia Treccani in
lìne.
Per farsi popolo democratico occorre
elevarsi sopra il proprio particolare. Altrimenti si rimane solo fazione
politica, in lotta con le altre per avere di più delle risorse nazionali. Oggi
la politica democratica è diffamata dalle fazioni politiche con l'accusa di
corruzione e di inconcludenza; ma la gran parte dei problemi della politica
democratica sono causati dallo spirito di fazione, per l'incapacità di elevarsi
al di sopra dei propri interessi particolari. Al centro degli insegnamenti
della dottrina sociale della Chiesa vi è invece l'esortazione a farlo. Questo
perché, se non si riesce a farlo, la società vive nel disordine della lotta di
tutti contro tutti, e allora prevale il più forte, finché rimane tale, ad
imitazione della crudele legge della natura. Ciò contrasta con la dignità degli
esseri umani come persone, per natura soggetti di diritti universali,
inviolabili e inalienabili ( così si legge nell'enciclica La pace in
terra, sopra citata, n.5). C'è un limite alle pretese politiche di
fazione ed esso deriva da ciò che costituisce come persona l'essere umana: in
religione lo si ritiene di origine soprannaturale. Quindi un buon inizio di
politica democratica è quando non si tiene conto solo di ciò che è bene per la
propria fazione, ma anche delle esigenze umane delle persone che la pensano
diversamente da noi e sono diverse da noi. Le divisioni della società, se non
risolte tenendo conto del bene di tutti, distruggono la società. Questa è stata
un'importantissima conquista culturale nel nostro pensiero religioso e ha
portato, con l'azione determinante di gente della nostra fede, alla
realizzazione della nostra nuova Europa, che ha consentito una lunghissima era
di pace e di prosperità, senza precedenti nella storia dell'umanità.
92. Vivere la politica democratica
Parlo con la gente intorno a me e sento
che è delusa della politica democratica. Mi pare anche che ne abbia perso
dimestichezza. La vive al modo di sudditi e allora rivendica miglioramenti per
sé, senza preoccuparsi degli altri e della società intorno. Non sente la
politica come propria. Le riescono difficili i temi che tratta e non intravede
soluzioni. Anzi, peggio, sospetta che ogni soluzione che viene proposta
nasconda un imbroglio, in particolare che chi comanda in politica non le dica
tutta la verità. Sospetta anche che i "politici" non siano capaci di
vero altruismo e che quando parlano di "sacrifici" da fare escludano
sempre sé stessi e i propri favoriti. Si è quindi di fronte, per quello che mi
appare, ad una spettacolare "crisi di legittimazione" della politica,
analoga a quella che iniziò a manifestarsi negli anni '80 del Novecento, e alla
quale si tentò con scarso successo di porre rimedio.
Delegittimata dalla sfiducia della
gente, la politica, allora, cerca di stare a galla con metodi antidemocratici,
in particolare con strategie populiste. Nel populismo l'adesione della gente
non viene ottenuta consapevolmente, ma suscitando reazioni collettive di tipo
emotivo, confermando le persone nelle loro paure e nelle loro tentazioni,
deprimendone il senso critico, presentando la situazione in cui si trovano come
senza altra via di uscita che quella di abbandonare una parte dei sofferenti o
di riuscire ad accaparrarsi risorse pubbliche a preferenza di altri, e infine
garantendo ai propri seguaci che questo lavoro "sporco" sarà fatto senza
che essi debbano insozzarsene le mani e le coscienze. Basta tracciare un segno
nel posto giusto sulla scheda elettorale. Poi la gente dovrà lasciare mano
libera agli eletti fino alle elezioni successive, non creare problemi, non
impicciarsi, non essere mai forza critica, non manifestarsi più come popolo,
perché, in fondo, in democrazia il popolo si potrebbe esprimere solo in
occasione delle elezioni, o, al massimo, partecipando a periodici sondaggi, di
cui la politica sarebbe libera di tener conto o meno. Questa però non è
democrazia, come oggi la si intende. E non lo è perché è troppo povera di
valori e di responsabilità critica collettiva e personale. Non consente alle
persone di farsi un'idea realistica del loro tempo e punta a far sovrastimare
la gravità di certi problemi, quelli che appunto servono a suscitare adesione
emotiva, irrazionale e poco informata. I casi tipici sono quelli
dell'immigrazione e dell' "Unione Europea". Sembra che tutti i nostri
guai originino da lì e invece sono provocati dall'assetto irrazionale della
nostra economia, che la politica non sa e non vuole cambiare, perché manca di
un progetto. Così si limita ad esortare a cambiare le persone, con argomenti
populisti: ma si è poi visto che i populisti al potere non riescono a cambiare
granché, perché, come ho detto, non lo sanno fare e,soprattutto, nemmeno
vogliono farlo.
La politica democratica è innanzi
tutto un sistema di valori: se lo si dimentica si finirà prima o poi nelle mani
dei populisti, o peggio. E poi è un sistema di limiti: bisogna sospettare di
chi pretende di avere mani libere. Il primo limite è quello dei valori: bisogna
delegittimare chi ci spinge all'azzardo morale, ad esempio a respingere i
migranti sofferenti abbandonandoli, contro il nostro dovere, in inferni
sociali. L'altro limite è quello della critica sociale, che in democrazia deve
essere costante, non di elezione in elezione. Tenta di sottrarsene chi si esime
dall'obbligo politico di presentare progetti compiuti di riforme sociali ai
cittadini, che possano essere compresi e criticati, ma si limita a slogan come
"rottamiamoli", meno tasse", "aiutiamoli a casa loro",
"fuori dell'Europa".
L'epoca che stiamo vivendo non è la
peggiore che la nazione abbia passato. Ve ne fu una molto più grave durante la
Seconda guerra mondiale, nella quale ci aveva trascinato il populismo
mussoliniano. A quei tempi si fu veramente smarriti. È allora che, in Italia,
ci si convertì alla democrazia, come popolo; quella democrazia della quale oggi
in genere si diffida. Fu la nostra Chiesa a prendere un'iniziativa, nella linea
dei precedenti interventi sociali, ma iniziando essa stessa dal riconoscimento
delle colpe collettive, mutando sensibilmente i precedenti orientamenti verso
la politica democratica. Fu un lavoro collettivo, che vide in prima fila
l'Azione Cattolica, dalla quale scaturì molta della classe di governo della
Repubblica democratica. Fu manifestato al mondo nei radiomessaggi natalizi del
papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12^, tra il 1941 e il
1944, ancora con il regime fascista egemone, documenti che vi invito a cercare
mediante Google digitando a "radiomessaggio Natale” e l'anno, ad esempio “1941”.
Ebbero il valore di vere e proprie encicliche. Sono tutti pubblicati su
www.vatican.va. Si era nel mezzo del disastroso conflitto mondiale: furono
rivolti ai "desolati senza speranza" e contenevano un invito alla
conversione ad un nuovo ordine sociale internazionale che rivoluzionasse i
sistemi totalitari, ma anche quelli dominati dal capitalismo dalla faccia feroce,
e che fosse finalmente rispettoso della dignità umana. Un progetto compiuto di
società, pieno di valori, che, con il contributo determinante dei
cattolici-democratici, fu realizzato democraticamente nella nostra nuova
Europa, a tutt'oggi diretta, in fondo, da una leader cristiano-democratica.
Quando gli italiani, tra il 1946 e il 1948, e per la prima volta anche le
donne, si trovarono a decidere tra monarchia e repubblica e poi tra democrazia
popolare, democrazia liberale o democrazia sovietica, tra allineamento con
nazioni occidentali o con l'Unione sovietica, scelsero tra quel progetto e
altri progetti di società molto articolati, non su slogan populisti come quelli
che erano stati proposti per un ventennio dal fascismo mussoliniano.
93. Fare la propria
parte
È indifferente, per un cittadino italiano,
vivere in Italia o altrove? Non dico dal punto di vista del clima,
dell'ambiente naturale, degli stili di vita e anche degli amici che si
frequentano. Mi riferisco ai propri doveri sociali. Sarebbe lo stesso vivere
all'estero? Se il mondo va come va e non c'è nulla da fare per cambiare come
va, in fondo è lo stesso. Se poi una persona considera solo sé stessa,
come individuo, è molto evidente la sproporzione tra le forze del singolo e le
forze sociali che determinano la storia. Eppure queste ultime sono appunto
"sociali", vale a dire umane, e la storia, fenomeni naturali a parte,
è integralmente una costruzione umana. Come è stata fatta, può dunque essere
cambiata. Procede per rapporti di forza, salvo in ciò in cui gli umani riescono
ad affrancarsi dalla legge della natura, che è appunto quella della forza, e la
legano a dei valori. Partecipare al governo della società, come si fa in
politica, consente di affermarvi la propria volontà. Questo, fino a due secoli
fa, era prerogativa dei sovrani. La democrazia è un sistema di
istituzioni per consentire un'ampia collaborazione in quel lavoro,
tendenzialmente della maggior parte degli adulti di un popolo. Il cittadino ha
diritto di farlo nel sistema politico che lo riconosce come tale. Questo però
lo costituisce in una posizione di responsabilità, perché se può indurre
un cambiamento e nella misura in cui può farlo. ha anche il dovere di
farlo per il meglio. Perché deve? Perché in società si è tutti
dipendenti da tutti per la propria sopravvivenza e quindi nessuno ha interesse
ha far andare peggio le cose, o addirittura a distruggere la società da cui
dipende, In democrazia nessuno può ragionevolmente chiamarsi fuori, esonerarsi
dalla responsabilità. Nella misura in cui uno è venuto meno al proprio dovere
politico è responsabile della rovina della società, vale a dire di un
bene molto importante. Ha promosso i valori? Si è adoperato a concorrere a
limitare l'arbitrio altrui? Ha cercato di informarsi bene della situazione, o è
stato troppo superficiale? Nei limiti della propria competenza, e aiutandosi
con la competenza altrui, ha fatto proposte realistiche, buone per tutti, e ha
cercato di affermarle in società? Ha studiato bene le proposte altrui, e
valutandole criticamente, ha individuato quelle che meglio corrispondono ai
valori mettendosi di traverso per ostacolare le altre?
Se uno interagisce in società solo per
fare i propri interessi e quelli della propria fazione, non vuole e non fa il
bene di tutti. Questo comporterà la rovina e la distruzione della società e dei
valori e la ripresa della legge della giungla. È così che agiscono le mafie,
che sono tra le maggiori cause dei problemi sociali italiani, in particolare
cause di spreco immane di risorse sociali. Nei contesti sociali in cui le mafie
sono riuscite a dettare legge, la società dei valori scompare e in certi casi
vengono vanificati i diritti politici dei cittadini e non si riescono più ad
organizzare le elezioni locali. Le mafie, allora, impongono un duro servaggio.
Ciascuno è parte del sistema
democratico di valori e di limiti, con il voto e con tutte le altre attività
sociali con le quali si può attivare il controllo democratico, ad esempio nella
cultura, nelle manifestazioni pubbliche, nello sciopero, ma anche nelle azioni
che fa come consumatore, lavoratore e datore di lavoro, fino ad arrivare
all'esercizio del diritto di resistenza, vale a dire a svolgere quel tipo di
opposizione sociale all'arbitrio altrui dalla quale è nata la nostra
Repubblica democratica.
La storia ci insegna che, dalle origini
e fino all'ultima campagna per referendum costituzionale e ad oggi,
quando abbiamo davanti elezioni politiche cruciali per la nostra
democrazia come poche altre, le masse coinvolte nei processi democratici hanno
contato, e molto, contribuendo a mantenere sostanzialmente integro, di
generazione in generazione, il sistema dei valori che è alla base della
nostra ideologia democratica, con al centro quelli della persona, del lavoro,
della dignità dell'una e dell'altro. Le scelte politiche che si
prospettano di qui a poco non sono banali, e non riguardano solo l'identità
anagrafica dei politici di comando, ma coinvolgono pesantemente quei valori,
dei quali occorre innanzi tutto acquisire piena consapevolezza. Siamo ancora
all'altezza di quei valori? Ad esempio, la persona, il lavoro. la pace, sono
ancora per noi valori e valori importanti?
L'impegno che il nostro dovere ci
richiede va ben oltre il tracciare un segno su una scheda elettorale. Siamo di
fronte a scelte che indubbiamente richiederanno un cambiamento dei nostri stili
di vita, se vogliamo salvare la società dalla quale dipende la nostra
sopravvivenza. Ne ha scritto il nostro Padre Francesco nell'enciclica Laudato
si'", Altrimenti, che succederà? Altrimenti la società che ci ha
finora garantito un lungo periodo di pace e un discreto benessere, per cui ad
esempio i problemi dell'alimentazione insufficiente e dell'abbandono nella
malattia, nell'età anziana e nell'infanzia non sono generalizzati,
cambierà e saranno molto di più i "sommersi", il cui numero è già ora
in aumento; le relazioni umane incattiviranno; non ci si farà più scrupolo ad
abbandonare i sofferenti e ci si dovrà augurare di riuscire ad avere sempre
forze e le alleanze sociali sufficienti a rimanere tra i "salvati".
Come pensiamo debba essere il nostro prossimo futuro sociale? Nelle pubblicità
politiche correnti in questi giorni non viene precisato. Si fanno promesse,
certo, in particolare promesse di cambiamento di ciò che va male, ma non
si spiega come si pensa di mantenerle. Chi le fa dunque, non avendo precisi
progetti di cambiamento, se prevarrà si ritroverà probabilmente a fare come in
passato, seguendo una tradizione amministrativa. Cambieranno i capi, ma non le
politiche. È questo che in genere accade con i populisti. Le cose, quindi, non
miglioreranno. Migliorare richiederebbe infatti cambiamenti, perché c'è
tanta gente che in una società ricca sta sempre peggio e questo è paradossale,
irragionevole, segnala qualcosa che va corretto, ma in genere i cambiamenti
vengono prospettati proprio in danno di chi in società sta già peggio, a cui si
chiede di accettare "sacrifici",perché è lì che si vuole
"risparmiare"; questo in una società tra le più ricche del mondo
Occidentale, il quale a sua volta è, per ora, la parte più ricca del mondo
intero. Il trattamento del lavoro è molto peggiorato negli ultimi vent'anni e
questo colpisce la dignità delle persone il cui lavoro si è trovato ad essere
svalutato. Ma disumanizza l'intera società. È facile osservare che questo è
iniziato da quando, all'inizio degli anni '80 del secolo scorso, la forza delle
organizzazioni che tradizionalmente avevano promosso l'affermarsi della dignità
dei lavoratori si è indebolita. Fu l'epoca in cui il populismo all'epoca
corrente nel mondo Occidentale cominciò a presentare la tutela del lavoro come
un ostacolo all'arricchimento individuale. Gli slogan erano "Meno società!
Meno tasse!". A distanza di trent'anni possiamo studiare gli effetti
sociali di questa politica, che sono andati, mi pare, in danno dei più e
a vantaggio di minoranze di privilegiati. Le diseguaglianze sociali sono
enormemente aumentate, ma questo non ha aumentato il benessere collettivo né
quello individuale dei ceti non favoriti, che comprendono la gran parte dei
lavoratori e di chi lavoratore non può più esserlo, per disoccupazione
sopravvenuta, malattia o vecchiaia, o non è mai stato. Del resto
era irrealistico pensare che, scatenando la lotta di tutti contro tutti, abrogando
le regole che impedivano che la competizione sociale incrudelisse, togliendo ai
poteri pubblici sempre più risorse a beneficio di organizzazioni private,
potesse andare diversamente. Ma certamente è ancora possibile che vada
addirittura peggio. Basta unirsi al coro intonato dai populisti che oggi
gridano "Meno società! Meno tasse!" e seguirli, facendo come
dicono.
Questi che ho indicato sono i temi
politici veramente cruciali di oggi. Ma in genere nel ragionare di politica si
perde molto tempo sul tema dell' "aiutiamoli a casa loro", il quale,
benché tutto sommato marginale rispetto a quegli altri nel senso che non mette
in pericolo la sopravvivenza della società, pone in questione il valore della
dignità della persona umana, sulla quale i populisti ci spingono ad incrudelire
con il pretesto che si debba salvarci la vita senza tener conto di quelle degli
altri. O noi, o loro. Non ci sarebbe alternativa. Attenti, però! Oggi tocca a
disperati africani, ma presto potrebbe toccare anche ai nostri figli e a noi
stessi se, in politica, abbandoniamo la fedeltà ai valori. Siamo proprio sicuri
di poterci sempre salvare con le nostre sole forze di fronte ad ogni rovescio
della vita? Basta poco, molto poco, ai più per passare nella parte dei
sommersi. Basta ad esempio trovarsi nella fascia d'età degli
ultrasettantentenni, quando presto si diventa sempre più fragili.
94. La dottrina sociale:
una grande opportunità
La
dottrina sociale, vale a dire gli insegnamenti su come realizzare società
conformi al l'etica religiosa, è stata sostanzialmente accentrata dai papi
nell'era moderna, a partire dal regno del papa Giovanni Maria Mastai
Ferretti, in religione Pio 9^ (papa dal 1846 al 1878), cioè da quando il papato
decise di organizzare una forza di popolo per sostenere le proprie politiche,
in particolare nell'Italia dei moti nazionalistici e, successivamente, negli
sviluppi del nuovo regno unitario, istituito nel 1861. I papi furono, in
genere, mediocri capi politici (fatta eccezione per San Karol Wojtyla con
riguardo ai moti politici democratici nella Polonia degli anni 80), ma
eccezionali maestri di politica. I radiomessaggi, le encicliche, le esortazioni
e le lettere apostoliche in materia sociale diffuse dal papato a partire dal
1941, in particolare, costituiscono, nel complesso, uno dei più completi
manuali di democrazia correnti, l'unico con quella estensione e attenzione alla
concreta prassi della storia, e inoltre continuamente aggiornato, fino
all'enciclica Laudato si', diffusa nel 2015 dal papa attualmente
regnante Jorge Mario Bergoglio, Francesco in religione. Si tratta di documenti
in genere poco conosciuti. Per i più richiedono un aiuto per avvicinarli, come
l'ho avuto io per tutta la mia vita, fin da universitario. Questo soprattutto
per inquadrare il contesto storico e culturale in cui si inseriscono. La
dottrina sociale è diffusa dal papato, per un ordine che viene di volta in
volta dal papa regnante che ne firma i testi, ma naturalmente è stata sempre un
lavoro collettivo, in cui i papi hanno svolto generalmente il ruolo di
committenti, ispiratori, coordinatori, capi redattori e poi di divulgatori. Il
nostro Padre Francesco ne ha parlato proprio in questi termini per quanto
riguarda la genesi dell'enciclica Laudato si, nella quale
tanta parte hanno avuto diverse scienze.
Partita da posizioni francamente
reazionarie, la dottrina sociale, in una lunga evoluzione prodottasi nel
contatto vivo con la gente, ha superato l'iniziale diffidenza per la democrazia
che caratterizzò la sua impostazione dal papato di Mastai Ferretti a quello del
papa Achille Ratti, che regnò in religione dal 1922 al 1939 come Pio 11^. Essa
non usò mai argomenti populisti. Questo ne fa un tesoro prezioso,una perla
rara, nel desolante contesto politico italiano attuale, nel quale le maggiori forze
politiche usano disinvoltamente il populismo. La ragione è che la dottrina
sociale moderna, fin dalle sue origini, si presentò come forza critica, in
particolare prima nei confronti del nazionalismo italiano, poi nei riguardi
dello sviluppo del nuovo stato unitario, istituito nel 1861, e quindi nei
riguardi del liberalismo, del socialismo, del nazionalismo, del capitalismo
liberistico, dell'individualismo, del collettivismo, dell'imperialismo, del
colonialismo, del razzismo, di ogni specie di suprematismo di gruppi sociali su
altri. La dottrina sociale nacque come orientamento del popolo per organizzarlo
a sostenere, in particolare in Italia e in ambiente democratico-liberale, le
politiche del papato in un'epoca in cui esso era in polemica con le politiche
di buona parte degli Stati europei, per varie ragioni. Essa, proprio in quanto
forza critica, fa costante riferimento alla coscienza e alla ragione e in
questo, oltre che che al rapporto con la fede, può individuarsi una sua
continuità, pur nella sua evoluzione. La dottrina sociale non è solo teologia,
anche se la teologia come riflessione sui doveri sociali che la fede comporta,
indubbiamente la caratterizza. Essa si presenta essenzialmente come analisi
critica del proprio tempo, del quale cerca di avere una visione realistica, ma
anche come rassegna critica delle diverse soluzioni possibili ai mali sociali.
Originariamente il papato immaginò di poter dare autonomamente
indicazioni normative per una completa ristrutturazione degli assetti sociali,
quindi di poter esso stesso ricavare, con la teologia, le soluzioni di volta in
volta necessarie, fin nei dettagli. Dsgli anni Sessanta capì invece di dover
accettare una collaborazione più ampia, in particolare sulla base delle scienze
sociali e della concreta esperienza politica svolta dai laici di fede. Ma già
in precedenza aveva posto l'accento sulla necessità di laici di fede veramente
competenti nelle questioni sociali e scientifiche promuovendone la formazione
mediante le proprie organizzazioni di universitari.
Un documento molto importante di
quell'impostazione, di importanza veramente epocale, fu la lettera
apostolica Octogesima Adveniens- Approssimandosi
l'Ottantesimo [anniversario dell'enciclica Le novità, diffusa
nel 1891 dal papa Leone 13^], diffusa nel 1971 dal papa Montini, in religione
Paolo 6^, che vi invito a cercare su Web e a leggere attentamente. Per la prima
volta si accetta l'idea che in politica la fede possa esprimersi in diversi
orientamenti, che però devono passare al vaglio critico della coscienza
religiosa e della ragione. Si esortano i fedeli a collaborare alla
realizzazione di una nuova democrazia. Un lavoro che è ancora in
corso. Da allora è passata più di una generazione. Purtroppo è stato carente il
lavoro di formazione. Questo ha esposto la gente di fede al pericolo, alla
tentazione, e alla colpa sociale, di prestare fede alle politiche populiste. La
nostra gente non appare più capace di essere veramente forza sociale critica e
l'esperienza segnala che ha crescente difficoltà ad intendere gli insegnamenti
della dottrina sociale.
95. Prepararsi alla
cittadinanza
La
politica è una manifestazione della carità in senso religioso, ci insegnano. E,
allora, che dobbiamo pensare di una persona che se ne esce con un "Io, non
mi occupo di politica"?
Si pensa, però, che della politica
debbano occuparsi i "governanti". Li dovremmo accettare, e subire, un
po' come accade con la pioggia e il bel tempo: vengono e ci si rallegra se non
fanno danno. Ancora non abbiamo inventato metodi per mantenere il bel tempo
stabile. Poi ogni tanto la terra trema e anche in questo caso non ci si può
fare nulla, se non rimuovere le macerie e ricostruire. Però in politica è molto
diverso e tanto più nei regimi democratici. Non occorre fare una rivoluzione violenta
per cambiare, ma per cambiare in meglio non è sufficiente recarsi ogni tanto ai
seggi elettorali. E, innanzi tutto, cambiare è possibile, perché la società
intorno a noi è integralmente una costruzione umana e come è stata fatta può
essere mutata. Nella storia dell'Italia democratica è avvenuto molte volte. La
prima volta è stato nel giugno del 1946, quando si dovette scegliere tra
Repubblica e Monarchia ed eleggere un'assemblea con il compito di scrivere e
approvare una Costituzione, in sostituzione delle norme fondamentali sul
funzionamento dello stato impartite nel 1848 dalla dinastia monarchica dei
Savoia (lo "Statuto Albertino", imposto dal re Carlo Alberto
accogliendo richieste sostenute da un imponente moto popolare). Più recentemente
si è avuto nel 2013, quando, a seguito di elezioni politiche, si ê prodotto un
significativo mutamento del ceto parlamentare, in gran parte rinnovato. Non è
vero, quindi, quello che sento dire non di rado, che "Sono sempre gli
stessi!". Tra queste due epoche ci sono stati molti altri cambiamenti
nella politica nazionale, che negli anni '70 ha dovuto fronteggiare anche
tentativi di colpi di stato di opposta tendenza. In queste fasi le masse
sono state determinanti, e non solo con il voto. La concreta possibilità di indurre
collettivamente dei cambiamenti politici pone i cittadini in una condizione di
responsabilità. Da un punto di vista etico, quindi anche della morale
religiosa, vale a dire di ciò che si deve fare in quanto giusto, anche
l'omissione, il semplice non fare, che in genere significa anche un
"lasciar fare", è colpa. "Non fare" quando "si
può" fare e nei limiti in cui si può. Questo insegnamento ci viene dal
magistero in modo pressante, in particolare riguardo alla politica, dagli
scorsi anni Sessanta. Lo troviamo, ad esempio, nella lettera apostolica
Octogesima Aveniens - Avvicinandosi l'ottantesimo [anniversario
dall'enciclica Le novità, del 1891], diffusa nel 1971 dal papa
Giovanni Battista Montini, regnante in religione come Paolo 6^. Scrisse in quel
documento:
"47. [...] Occorre inventare
forme di moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la possibilità di
tenersi informato e di esprimersi, ma impegnandolo in una responsabilità
comune. I gruppi umani così si trasformano a poco a poco in comunità di
partecipazione e di vita. La libertà, che si afferma troppo spesso come
rivendicazione di autonomia opponendosi alla libertà altrui, si sviluppa così
nella sua realtà umana più profonda: impegnarsi e prodigarsi per costruire
solidarietà attiva e vissuta.
[...]
48. È a tutti i cristiani che noi
indirizziamo, di nuovo e in maniera esigente, un invito all'azione. [...] Ê
troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non
si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria
innanzi tutto la conversione personale".
Questa che ho citata è una delle più belle e
coinvolgenti definizioni della politica democratica in cui mi sia mai
imbattuto. Capite? La politica è molto più che accreditare proposte altrui
tracciando un segno su una scheda elettorale o di referendum. Occorre una
"conversione", vale a dire un profondo cambiamento di mentalità, che
è anche conversione alla democrazia. È tanto facile, oggi, accodarsi a chi
facilmente la diffama, innanzi tutti ai populisti di ogni colore, i quali sono
accomunanti da uno stesso rifiuto dei processi democratici e la cui
proposta si riduce in definitiva ad una sola: far fare tutto a loro,
rinunciando ad altra partecipazione che non sia quella di dar loro via libera.
Da dove inizia il nostro dovere di
cittadini? Dall'informarsi, dal capire il tempo in cui si vive. La prima colpa
la dovremmo, allora, riconoscere quando, da ragazzi, passando al primo anno
delle superiori, buttiamo o vendiamo i libri di storia del triennio delle medie
inferiori, uno strumento essenziale per capire. Così facendo, rinunciando allo
sforzo di capire, innanzi tutto facendo memoria, ci mettiamo nelle mani della
politica spregiudicata, a cui basta il nostro voto ma a cui di noi non importa nulla.
Per convincerci, se non ci fortifichiamo preparandoci, le basta poco, quel
tanto che è sufficiente al successo di una campagna pubblicitaria commerciale,
basata sull'emotività e su meccanismi logici elementari. Se io dico, ad
esempio: "la ricchezza prodotta nell'ultimo trimestre è aumentata più
delle aspettative e ciò è avvenuto dopo le riforme attuate da
un certo governo, quindi accade a causa di quelle
riforme", sostengo una cosa che potrebbe non essere vera, perché ciò che
viene prima non è sempre causa di ciò che
viene dopo, ma potrebbe essere vera però non fare onore a quel governo, se, ad
esempio, nelle altre nazioni vicine la ricchezza fosse aumentata di più. Questo
significherebbe che l'aumento più contenuto della ricchezza che si è avuto da noi
è colpa, non merito, di quel governo.
Da come viene posta la questione, cambia il risultato. E spesso viene posta nel
modo più conveniente a chi vuole il consenso della gente. Se uno è un cittadino
un po' superficiale, e non è mai bene esserlo nelle cose importanti, e non va a
verificare, corre il rischio di accreditare come un merito di un governo ciò
che invece potrebbe essere addirittura una colpa, o, forse, più probabilmente,
se l'entità della variazione è piccola e si riferisce ad un periodo molto breve,
ad esempio uno "0,qualche cosa" in un trimestre, non dipendere
dal!'azione di quel governo, ma da altri fattori.
Un buon cittadino deve impegnarsi ad
essere meno superficiale: ma questo, a ben considerare, dovrebbe essere anche
una qualità della persona religiosa, la quale vuole essere addirittura capace
di incontrare l'eterno lì dove apparentemente non c'è nulla, perché, come è
scritto, "Nessuno l'ha mai visto".
96.
Fare politica
Non
basta interessarsi di politica, occorre "fare" politica. Ci insegnano
che è anche un dovere religioso. Spesso invece lo si ritiene una colpa in
religione. Bisognerebbe tenere separate politica e religione, si sostiene.
Se esaminiamo i documenti della dottrina sociale possiamo facilmente
renderci conto che non è questo l'insegnamento del magistero. Ad esempio, nella
lettera apostolica Octogesima adveniens - Approssimandosi
l'ottantesimo [anniversario della prima enciclica sociale moderna,
la Rerum novarum - Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone
13^], del papa Giovanni Battista Montini - Paolo 6^ in religione, diffusa nel
1971 leggiamo:
"L'attività economica rischia di
assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si palesa
necessario il passaggio dall'economia alla politica. [...] ciascuno sente che nel settore
sociale ed economico , sia nazionale che internazionale, l'ultima decisione
spetta alla politica. Questo, in quanto è il,vincolo naturale è necessario per
assicurare la coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione
del bene comune.
[...]
È a tutti i cristiani che noi
indirizziamo, di nuovo e in maniera esigente, un invito all'azione [...] È
troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non
si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria
innanzi tutto la conversione personale [...] nella diversità delle
funzioni,delle organizzazioni, ciascuno deve precisare le proprie
responsabilità e individuare, coscienziosamente,le azioni alle quali egli è
chiamato a partecipare. Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle
solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di
opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi.
La Chiesa invita tutti i cristiani al duplice compito di animazione e di
innovazione per far evolvere le strutture e adattarle ai bisogni
presenti."
Un invito all'azione è più
di un invito a informarsi, anche se lo comprende, perché è
vano agire senza aver prima capito. La politica si fa collettivamente. Non è
politica l'opinione che uno ha della politica. In quanti bisogna essere
per fare politica? Direi almeno in due, purché si tratti
di un rapporto vero, umano, forte, non virtuale, come invece sono quelli che si
formano mediante internet. Si deve convivere, perché è appunto
nella convivenza che si affrontano realmente i problemi politici, vale a dire
quelli di governo delle società umane. Essi sorgono molto presto, fin da
bambini, nelle prime esperienze sociali, le quali, ognuno lo sa bene, contengono
quasi tutti i problemi politici delle società maggiori. È da quel momento che
occorre iniziare a fare politica e, quindi, che occorre
anche insegnare a fare politica. Ad esempio a
non dare ascolto a chi vorrebbe spingerci a dare il peggio di noi stessi. Così
poi, da adulti, ci si sarà fortificati e si saprà come reagire di fronte a
proposte analoghe. Non è in fondo questa la morale, il profondo insegnamento,
di un libro come Pinocchio, che è per i bambini, ma anche per
adulti ridivenuti bambini? Non è mai bene acciaccare al muro i grilli
parlanti. È in definitiva questo che si è fatto quando,
all'invito del nostro padre Francesco di accogliere, proteggere,
promuovere, integrare, i migranti e i rifugiati, gli si è replicato
con una specie di pinocchiesco "Chetati , grillaccio del
malaugurio!", invitandolo a farsi gli affari suoi e a rimanersene
chiuso in Vaticano, "perché non possiamo accogliere tutta
l'Africa". In effetti non tutta l'Africa è giunta da noi in
un anno, ma, è stato osservato, più o meno tante persone quante ne potrebbero
contenere due stadi di calcio. E non è nemmeno tutta l'Africa che si sta
spostando verso l'Europa, quindi dai posti più poveri del pianeta ad uno dei
posti più ricchi, e certamente il più sicuro per viverci. Ma indubbiamente vi
sono veramente molti sofferenti in viaggio: non li si dovrebbe carcerare
solo per questo, dice il nostro padre Francesco, ( "evitare ogni forma
di detenzione in ragione della loro condizione di migranti"), ma
le cronache ci dicono che in Libia, con i cui governanti abbiamo recentemente
raggiunto accordo riguardo alle migrazioni umane, è proprio questo che sta
accadendo, mentre l'Italia sta anche intervenendo militarmente laggiù. Sono in
questione principi umanitari molto importanti, ma anche prettamente religiosi.
Scrive il nostro padre Francesco, nel Messaggio per la Giornata mondiale
de rifugiati 2018: "Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è
un'occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo
straniero accolto o rifiutato in ogni epoca (confronta Mt 25,35.43).
Nulla di nuovo per la verità. L'attuale
Papa non fa che ribadire, precisandolo, l'insegnamento del suo predecessore
Montini, il quale, nella lettera apostolica che ho sopra citato, scriveva, nel
1971, in un tempo in cui i tra i migranti da proteggere vi era ancora tanta
gente nostra:
"Pensiamo altresì alla situazione di un
gran numero di lavoratori emigrati, la cui condizione di stranieri rende ancora
più difficile, da parte dei medesimi, ogni rivendicazione sociale, nonostante
la loro reale partecipazione allo sforzo economico del paese che li accoglie. È
urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente
nazionalistico, per creare uno statuto che riconosca il diritto
all'emigrazione, favorisca la loro integrazione, faciliti la loro promozione
professionale e consenta a essi l'accesso a un alloggio decente dove,
occorrendo, possano essere raggiunti dalle loro famiglie.
A questa categoria si aggiungono le
popolazioni che, per trovare lavoro, sottrarsi a una catastrofe o a un clima
ostile, abbandonano le loro,regioni e si trovano sradicate presso altre
genti."
Perché Pinocchio dà ascolto ai cattivi
compagni? Perché è solo di fronte a loro e, in fondo, sta bene cosi. Ne ha
avuto abbastanza dei grilli parlanti. Se ne va, allora, al Paese dei
balocchi, spregiando i suoi doveri. Era diventato umano, da burattino che
era, ma, così facendo. diventa addirittura animale, un somaro. Recupererà
l'umanità quando recupererà la capacità di misericordia, dandosi da fare per il
padre. Ma, e questo nel Pinocchio di Collodi non c'è, non ci
si può riuscire rimanendo da soli: da soli ci prende la paura e allora finiamo
nelle mani di chi si attacca alle nostre paure per spingerci al male, per
convincerci che non c'è altra strada per salvarci che essere cattivi, che
scegliere il pace, ad esempio sostiene che tutta l'Africa sta
venendo da noi e allora noi dovremmo, per non farci travolgere, per questo
negare la cittadinanza a chi cittadino lo è ormai di fatto, perché parla come
noi, pensa come noi, vive come noi, e dá il suo contributo al bene comune; e
negare qualsiasi impegno per quelli che soffrono nella migrazione, e sono anche
carcerati all'estero. La nostra salvezza dipende dalla pace, ma, questo ci
insegnano i nostri maestri religiosi, non c'è pace duratura senza fraternità
universale. Se oggi respingiamo chi invoca il nostro aiuto, poi introduciamo in
società un principio malvagio che ci si potrebbe ritorcere contro, quando
saremo noi ad essere nel bisogno. E a noi italiani sta già accadendo con
l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. La condizione dei nostri
giovani emigrati per lavoro in quella nazione si sta facendo precaria.
97.Informarsi, conoscere, capire
Di
solito gli adulti pensano di saperne abbastanza sulla società intorno. Quando
però parlano tra loro scoprono tante curiosità non appagate. Non è sempre
chiaro come funzionano le cose. Dove e come informarsi meglio?
Se una persona rimane da sola, non
sempre avverte la necessità di sapere di più. Questo accade anche se la maggior
parte delle relazioni che si hanno avvengono telematicamente, in gruppi sociali
collegati mediante applicazioni internet. Questo perché, aderendo ai vari
gruppi, ci si seleziona, si è molto simili in tutto, e ciò che si
sa In genere basta. A quei gruppi va bene una definizione delle
masse che le chiama "folle solitarie", perché, anche se si dialoga
convergendo in un'applicazione, non ci sono mai vere relazioni personali.
Queste ultime sorgono solo quando ci si incontra realmente, faccia a faccia.
Nel governo della società occorre
sapere di più e, innanzi tutto, conoscerla meglio. In un regime democratico non
è cosa da specialisti, ma compito, e addirittura dovere, di tutti. Non solo di
quelli che possono votare alle elezioni, ma di tutti quelli che compongono la
società e che con i loro comportamenti la determinano. Si partecipa alla
società fin da bambini e anche se non si è cittadini. E il governo popolare di
una società non si fa solo votando alle elezioni. Uno dei modi più importanti
in cui si partecipa alla società è da lavoratori e da consumatori. Il lavoro
comprende anche quello che si fa creando e organizzando un'impresa, vale a dire una collettività che si dedica alla
produzione e al commercio. Il sistema sociale delle relazioni tra lavoratori e
e consumatori costituisce il mercato, che ai tempi nostri è esteso a tutto il
pianeta, vale a dire su scala "globale". È regolato da norme
giuridiche, parte delle quali sono di origine pubblica, sono imposte dalle
leggi degli stati e da accordi internazionali, e parte sono concordate dai
privati. Un esempio di queste ultime sono i contratti che firmiamo quando
compriamo un servizio telefonico, come un numero di telefono cellulare.
Ai nostri tempi le relazioni di mercato
tendono a influenzare quelle politiche, che riguardano il governo della
società. La legge fondamentale del mercato è quella del più forte, che non
significa necessariamente il migliore. Gli operatori più forti sono in grado di
influenzare il mercato e addirittura di determinare il comportamento dei
consumatori, creando nuovi bisogni sociali. La politica regola il mercato in
modo che questa legge sia moderata da norme che impediscano ai più forti di
mangiarsi tutto. Se però la politica si fa più debole, e, in particolare, più
debole nei confronti del mercato, allora può accadere che i più forti sul
mercato divengano anche i più forti in politica. Essi però agiscono
essenzialmente nel proprio interesse, mentre in democrazia la politica dovrebbe
operare nell'interesse di tutti. Mirano al "profitto" che è la
differenza tra quanto si ricava dal commercio sul mercato dei prodotti e quanto
si è speso nella produzione (i costi). Chi opera sul mercato, anche i
consumatori, tende al profitto maggiore. E gli operatori più forti sul mercato
tendono a persuadere i consumatori che acquistando un certo prodotto avranno un
profitto, anche se magari esso non c'è, o è minore dei quello prospettato o ha
molte controindicazioni, ad esempio danni per la salute. Le norme della
politica servono anche a impedire che la pubblicità, che può essere molto
convincente, non inganni il consumatore. Se però il mercato prevale sulla
politica, anche questa attività regolatrice di farà più debole. Governi meno
attenti all'utilità pubblica si sono fatti, anzi, un vanto di aver
"deregolamentato". È accaduto, in particolare negli anni '80. I
politici più importanti che seguirono in quegli anni quella linea furono il
presidente statunitense Ronald Reagan e il primo ministro britannico Margaret
Thatcher. Essi confidarono nella capacità dell'economia di autoregolarsi e di
creare ricchezza per tutti, pur se ciascun operatore mirava solo al proprio
profitto, al proprio interesse.
La dottrina sociale dà invece
l'indicazione di regolare l'economia in modo che non danneggi il bene comune.
Assegna questo compito alla politica, che in democrazia è compito di tutti.
Leggiamo ad esempio nella lettera
apostolica Octogesima Adveniens - Approssimandosi
l'ottantesimo [anniversario dell'enciclica Rerum novarum - Le
novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 12^], diffusa nel 1971 dal
papa Giovanni Battista Montini, Paolo 6^:
46.L'attività economica [...] rischia
di assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si palesa
necessario il passaggio dall'economia alla politica [...] ciascuno
sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che internazionale,
l'ultima decisione spetta al potere politico".
L'appello alla politica chiama in causa tutti
noi che, nel partecipare alla società, ad esempio da consumatori, siamo anche
agenti politici. Siamo convinti che sia bene che la politica, vale a dire
ciascuno di noi, possa regolare i fatti economici o, invece, riteniamo, come
Reagan e Thatcher, che le leggi del mercato debbano fare il loro corso fino
alle ultime conseguenze e che la società debba fare un passo indietro? Questo
un primo tema su cui intendersi, innanzi tutto sulla base della nostra concreta
e quotidiana esperienza. L'alternativa è attualissima ed è rappresentata oggi
dalle linee del presidente statunitense Donald Trump e del Papa Francesco.
Quest'ultimo, nella sua enciclica Laudato si' del 2015, non fa che ribadire
l'insegnamento sociale dei suoi predecessori, in particolare gli sviluppi della
dottrina sociale dal 1941. Dobbiamo però vagliare razionalmente le
argomentazioni proposte, perché è da queste che, trattandosi di materia sociale
e non di dottrina di fede, deriva la loro autorevolezza. Ma come farlo senza
una sufficiente informazione, rimanendo soli o al più parti di folle solitarie
su internet? Il lavoro che c'è da fare ci spinge quindi ad incontri reali e
sistematici, per arrivare a persuaderci di un certo orientamento e a
determinarci di conseguenza. Un'attività che può senz'altro farsi in
parrocchia, fin dalla prima formazione alla fede, tenendo conto che la dottrina
sociale non è fatta per un pubblico di esperti, ma per tutti.
98. Usare l'intelligenza
Usare l'intelligenza fa parte dei
doveri politici di tutti. È una fatica che i populisti, quelli che pretendono da
noi mani libere confermandoci nelle nostre paure e incoraggiandoci a cedere
alle nostre peggiori tentazioni, vorrebbero risparmiarci. Lasciando loro le
mani libere, finiremmo poi nelle loro mani. E in che mani! Gente che non sente
scrupoli a usare le maniere forti con chi sta peggio e che ci propone di
fare lei in società, per conto nostro, il lavoro sporco che ci ripugna,
assicurandoci che non saremo tra quelli abbandonati. Possiamo credere loro? Una
volta introdotto un principio disumano, di abbandonare i sofferenti al loro
destino, quello poi si diffonde come un cancro, guastando la società. E la
sofferenza tocca a tutti. A quel punto si vorrebbe solidarietà. Ma in nome di
che? In un sistema in cui tutto ha un prezzo, bisogna avere di che pagarlo. E se
non se ne ha o non se ne ha abbastanza? Potremmo scoprire che la società,
caduta in mano ai populisti, non è più "casa nostra". E che
"casa nostra" è ormai solo la nostra condizione di sofferenza e che
noi siamo diventati, per la società intorno, gli scarti da rimandare a mani
vuote "a casa loro". Troppo tardi, per noi, ci potremmo convincere
che le cose sarebbero potute andare diversamente, solo se avessimo, al tempo
giusto, voluto seguire gli insegnamenti dei nostri buoni maestri, come è ai tempi
nostri il nostro Padre Francesco, disinvoltamente svillaneggiato sui giornali
della nostra destra. Egli non fa che confermare l'insegnamento dei suoi
predecessori. In politica occorre usare l'intelligenza, la testa e non la
pancia, la ragione e non l'emotività. Questo per convincerci che non c'è alcuna
via di salvezza per l'umanità che quella di seguire la via dei veri valori,
quelli che l'animo religioso ritiene donati agli umani per virtù
soprannaturale. Quelli che ci portano a distaccarci dalle leggi violente della
natura, dove prevale il più forte. Se noi ci facciamo come bestie, rinunciando
al l'intelligenza, avremo il destino delle bestie. Ma un'umanità di otto
miliardi di umani non può sopravvivere se governata da bestie e riducendo a
bestie gli umani.
Di questo si tratta per esteso in
molti documenti di quel magistero che viene indicato come dottrina sociale.
Leggiamo ad esempio nell'enciclica Pacemaker in terris - La pace sulla
terra, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in
religione come Giovanni 23^:
"4. Una deviazione, nella quale si
incorre spesso, sta nel fatto di poter regolare i rapporti di convivenza tra
gli esseri umani e le rispettive comunità con le stesse leggi che sono proprie
delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l'universo; quando
invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura
diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.
Sono quelle, infatti, le leggi che
indicano chiaramente come gli uomini devono regolare i loro vicendevoli
rapporti nella convivenza; e come vanno regolati i rapporti fra i cittadini e
le pubbliche autorità all'interno delle singole comunità politiche; come pure i
rapporti fra le stesse comunità politiche; e quelli tra le singole persone e le
comunità da una parte, e dall'altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi
è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune universale.
5. In una convivenza ordinata e feconda va
posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una
natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi un soggetto di
diritti e doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua
stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili
e inalienabili.
Che se poi si considera la dignità
della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa appare
incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono redenti dal sangue di
Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi
della gloria eterna."
99. Uguali in dignità
Voglio ricordare questa affermazione,
che si legge al n.5 dell'enciclica La pace sulla terra - Pacem in
terris, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante
in religione come Giovanni 23^:
"In una convivenza ordinata e feconda va
posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una
natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi un soggetto di
diritti e doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua
stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili
e inalienabili."
Essa è molto importante perché contiene la definizione
di persona in senso insieme religioso, filosofico,
ideologico e politico. Quanto a quest'ultimo, esso deriva dal
fatto che, nell'impostazione del Roncalli, che è poi quella della dottrina
sociale moderna, il principio della dignità della persona deve
essere posto a base di una convivenza ordinata, che comprende
appunto ogni comunità politica, ad ogni livello. Si è parlato, a proposito
dell'orientamento espresso nell'enciclica che ho citato, di principio
personalistico. In politica esso trova un antecedente fondamentale in
questa affermazione contenuta nella Dichiarazione di indipendenza degli
Stati Uniti d'America, del 1776, nel punto dove si proclama:
"Consideriamo evidente [=che non ha
bisogno di essere provato] che tutti gli esseri umani siano stati creati uguali,
dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti, e tra di
essi quello alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità".
Si tratta di un principio che in Italia
è attualmente legge fondamentale della Repubblica, agli articoli 2 e 3 della
Costituzione. Inteso in tutta la sua estensione fonda un orientamento di
solidarietà umana che va molto oltre quello che consegue alla cittadinanza di
uno stato e ha di mira la pace universale, l'unica condizione in cui gli esseri
umani possono essere veramente felici. È appunto in questo modo che viene
insegnato nella dottrina sociale. Esso, mediante l'azione determinante dei
cattolici democratici è stato posto alla base della realizzazione del processo
di unificazione europea. Avendo perseguito con determinazione la pace a
livello continentale, proprio dove fin dall'antichità si era avuta una serie
praticamente ininterrotta di guerre, si è effettivamente prodotto un periodo di
pace molto lungo in Europa, come mai era accaduto prima, tanto che oggi, in
Italia, chi ha meno di ottanta anni o giù di lì non ha memoria personale della
guerra. Per un cittadino degli Stati Uniti d'America, ad esempio, è molto
diverso, perché la sua nazione ha vissuto pochi periodi di pace e anche oggi
vive il pericolo di diverse guerre contemporaneamente. Anche per l'Europa la
situazione sta però cambiando. Un focolaio di guerra è in atto, ad esempio,
in Ucraina tra stati in cui prevalgono i cristiani. Ma gli europei sono
impegnati in guerre in Afghanistan e in Siria e stanno intervenendo anche in
Libia.
È chiaro che l'affermazione della dignità
inalienabile degli esseri umani non ha mai impedito ai democratici
statunitensi, come ad altri democratici nel mondo, fatta eccezione per la
nostra nuova Europa, di fare guerra. L'apporto caratteristico del pensiero
sociale orientato dalla nostra fede è stato invece quello di inserire la pace
tra i diritti umani fondamentali. L'idea è che la dignità della persona non sia
compatibile con l'azzardo morale della guerra, con lo sterminio di altri esseri
umani. Questa dottrina politica è piuttosto recente anche in religione.
Gli stessi papi nel medioevo proclamarono delle guerre. Le ultime a cui
parteciparono come sovrani politici furono nel 1848 la prima guerra
d'Indipendenza italiana, con l'invio di un corpo militare nel lombardo-Veneto
contro gli austroungarici, al quale fu però impartito l'ordine di ritiro prima
che avesse impegnato il nemico (ordine che non fu obbedito dal capo della
spedizione), e nel 1849 e nel 1870 la difesa della città di Roma
rispettivamente dai rivoluzionari mazziniani e dall'esercito del Regno
d'Italia. La svolta si ebbe durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e fu
preceduta dalla riflessione filosofica e politica del pensiero sociale
cristiano e preparata da una dichiarazione del papa Benedetto 15^ del 1917,
contenuta in una lettera ai capi delle nazioni in guerra, in cui definì la
guerra che si stava combattendo, la Prima Guerra Mondiale, una "inutile
strage".
La responsabilità delle persone di
fede è maggiormente coinvolta in politica proprio perché è con il contributo determinante
del pensiero religioso che nell'era contemporanea è scaturita l'idea di
realizzare in concreto una politica di pace a livello mondiale come parte dei
diritti umani inalienabili degli esseri umani. In passato l'aveva proposta, ad
esempio, il filosofo cristiano Immanuel Kant (1724-1804), nel libro Per
la pace perpetua, del 1795.
100. Veramente uguali
Si legge
nell’enciclica Pacem in terris - La pace
sulla terra, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23°:
“4. Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto
che si ritiene di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani
e le rispettive comunità politiche con le stesse leggi che sono proprie delle
forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l’universo; quando invece le
leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e
vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.
Sono quelle, infatti, le leggi che indicano chiaramente come gli
uomini devono regolare i loro vicendevoli rapporti nella convivenza; e come
vanno regolati i rapporti fra i cittadini e le pubbliche autorità all’interno
delle singole comunità politiche; come pure i rapporti fra le stesse comunità
politiche; e quelli fra le singole persone e le comunità politiche da una
parte, e dall’altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente
reclamata dalle esigenze del bene comune universale.”
e poi:
“5. In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento
il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di
intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri
che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura:
diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili.
Che se poi si considera la dignità della persona umana alla luce
della rivelazione divina, allora essa apparirà incomparabilmente più grande,
poiché gli uomini sono stati redenti dal sangue di Gesù Cristo, e con la grazia
sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna.”
Definire l’essere umano, ogni essere umano, persona nel senso sopra
precisato, significa proclamare il principio dell’uguaglianza in dignità tra
gli esseri umani. Nella visione della dottrina sociale esso non varia a seconda
dei rapporti stabiliti tra gli esseri umani. Nell’enciclica sono ricordati
tutti: a) quelli vicendevoli tra le persone, b) quelli tra le persone e le
autorità politiche; c) quelli tra le comunità politiche, d) quelli tra le
persone e la comunità mondiale ed e) quelli tra le comunità politiche e la
comunità mondiale. Il nostro magistero insegna che, in ognuna di quelle relazioni
sociali, si è sempre persona nello
stesso modo, con gli stessi diritti e doveri
universali, inviolabili, inalienabili. Una conseguenza è che, per la
dottrina sociale, se si finisce nelle mani di una comunità politica diversa da
quella di origine, non per questo si è meno persona
quanto a quei diritti e doveri fondamentali. Ai tempi nostri, tra le comunità
politiche più ricche del mondo, come è la società italiana, si dissente su
questa applicazione del principio di uguaglianza. Di fatto si vorrebbe limitare
quest’ultima ai cittadini, ma se questa eccezione riguarda i diritti
fondamentali, quelli che la dottrina sociale definisce universali, inviolabili e inalienabili, lo si fa non solo violando
l’etica religiosa, ma anche le norme fondamentali vigenti, a cominciare dalla
Costituzione della Repubblica, la quale all’art.2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia
come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, richiedendo, contemporaneamente, indipendentemente dalla condizione di
cittadinanza, l’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Ma la violazione riguarda anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, anch’essa legge vigente in
Italia. Essa stabilisce l’inviolabilità della dignità umana estendendo esplicitamente,
in merito, ad ogni persona umana la
condizione di uguale dignità
sociale, anche con riferimento a
diritti fondamentali previsti espressamente dalla nostra Costituzione per i
cittadini (ma riconosciuti per via interpretativa anche agli stranieri dalla
giurisprudenza della Corte Costituzionale).
TITOLO III
UGUAGLIANZA
Articolo 20
Uguaglianza davanti alla legge
Tutte le persone
sono uguali davanti alla legge.
Articolo 21
Non discriminazione
1. È vietata qualsiasi forma
di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore
della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la
lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di
qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
2. Nell'ambito d’applicazione
dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata
qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.
Articolo 22
Diversità culturale, religiosa e linguistica
L'Unione rispetta la diversità culturale,
religiosa e linguistica.
Articolo 23
Parità tra donne e uomini
La parità tra donne e uomini deve essere
assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di
retribuzione.
Il principio della parità non osta al
mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore
del sesso sottorappresentato.
Siamo
veramente convinti della pari dignità sociale delle persone? E se
sì, siamo disposti ad agire conseguentemente? E se non lo siamo, come la
mettiamo con la religione e la legge?
E’
diverso agire in un certo modo perché si è convinti di fare il giusto o solo
perché si temono le sanzioni per le violazioni. Se poi si è partecipi di una
democrazia di popolo, in cui si tiene conto degli orientamenti della gente,
potrebbe avvenire che le leggi, anche quelle molto importanti, vengano
sostanzialmente disapplicate. Durante il regime fascista, quando vennero
imposte per leggi discriminazioni sociali contro gli ebrei, accadde che molta
gente rifiutò di applicare quelle più dure. Ora qualche volta sembra accadere
l’opposto. Certe cose ripugnano, ma c’è che si propone di farle per nostro
conto, senza che personalmente ci si debba sporcare le mani. Basta che si
faccia fare a loro, senza legar loro le mani con questioni di principio.
Abbiamo istintivamente paura del diverso e loro ci confermano che abbiamo
ragione di temere.
Sì, è
vero, i più di noi temiamo per il futuro. Ce lo dicono i sociologi: viviamo una
condizione di insicurezza sociale. Eppure le nostre società sono tra le più
ricche del mondo. Com’è che, in società tanto ricche, c’è tanta gente che sta
male e le autorità dichiarano di non avere di che pagare i servizi sociali per
la collettività? Si sta male e allora chi può, in particolare i più giovani,
emigrano. Lo possono fare liberamente nell’Unione Europea, perché è un diritto
che è stato loro riconosciuto. Non vengono respinti, ma si trovano nella
condizione di doversi trasferire all’estero. Non li rimproveriamo per questo.
In altre nazioni europee il fenomeno è stato molto più imponente. Del resto il
diritto di migrare è previsto da
un’altra importante convenzione internazionale che è diventata legge dello stato, il Protocollo
n.4 addizionale della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: art.2, comma 2:
Ogni persona è libera di lasciare
qualsiasi Paese compreso il proprio”. I giovani europei migrano, ma di
solito non rischiano la vita se non lo fanno. Molti di quelli che, rischiando
la vita in lunghi viaggi per terra e per mare, giungono alle nostro frontiere,
o vengono intercettati mentre vi stanno arrivando, invece fuggono da condizioni
sociali tali a mettere in pericolo le loro vite. Da stati dove non è possibile
procurarsi ciò che è indispensabile per vivere, in cui le abitazioni sono
malsane, in cui non ci si può curare, in cui non ci si può procurare
un’istruzione sufficiente. E’ chiaro che usiamo due principi diversi per
valutare le condotte dei nostri cittadini che emigrano e quelle di quegli
altri. E’ in questione la vita, quindi si tratta di diritti fondamentali. Ma
quali sono le cause che costringono la gente a emigrare? Alcuni studiosi ci
dicono che le cause sono le stesse per i nostri cittadini e per quegli altri e
che è un’illusione pensare di risolvere il problema solo respingendo chi a
rischio della vita certa di arrivare da noi. Occorre riformare profondamente i
sistemi economici, sociali e politici che causano il problema. E occorre farlo
su scala globale, perché il problema si è fatto globale. Chi si trova in
condizione privilegiata, perché si è trovato inserito nella parte giusta del
mondo, o è riuscito ad esservi ammesso, rifiuta di doveri di solidarietà inderogabili per soccorrere quegli altri
che sono rimasti esclusi, che quindi risultano essere uno scarto del sistema. Ce ne ha
parlato il nostro Padre Francesco
nell’enciclica Laudato si’, del 2015.
O invece pensiamo che il mondo debba andare così come va, così come vengono i terremoti
e non ci si può fare nulla se non cercando di mettersi in salvo e di scampare
alla morte? Ma come la mettiamo con il fatto che i sistemi sociali sono
integralmente una costruzione umana? Hanno una storia, cambiano, possono
cambiare in un senso o nell’altro, in peggio o in meglio. E’ dalla metà degli
scorsi anni ’80 che stanno cambiando in senso sfavorevole ai lavoratori che
lavorano alle dipendenze altrui. In particolare si è passati da rapporti di
lavoro più stabili a rapporti meno stabili. E il potere di acquisto dei salari
è costantemente diminuito, salvo che per le categorie che si trovavano in
rapporti di forza favorevoli o che hanno potuto conservare meccanismi di
adeguamento automatico.
Tutte
le questioni a cui ho accennato rientrano in quelle comprese nel tema della giustizia sociale. Quest’ultimo è in
genere ritenuta collegato a quello della pace,
nel senso che storicamente non si è mai riusciti ad assicurare veramente la
pace senza creare condizioni di
giustizia sociale. Ecco come se ne parla nell’enciclica La pace sulla terra:
Secondo giustizia
51. I rapporti fra le comunità politiche vanno inoltre regolati
secondo giustizia: il che comporta, oltre che il riconoscimento dei vicendevoli
diritti, l’adempimento dei rispettivi doveri.
Le comunità politiche hanno il diritto all’esistenza, al proprio
sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo: ad essere le prime artefici
nell’attuazione del medesimo; ed hanno pure il diritto alla buona riputazione e
ai debiti onori: di conseguenza e simultaneamente le stesse comunità politiche
hanno pure il dovere di rispettare ognuno di quei diritti; e di evitare quindi
le azioni che ne costituiscono una violazione. Come nei rapporti tra i singoli
esseri umani, agli uni non è lecito perseguire i propri interessi a danno degli
altri, così nei rapporti fra le comunità politiche, alle une non è lecito
sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre. Cade qui opportuno il
detto di sant’Agostino: "Abbandonata la giustizia, a che si riducono i
regni, se non a grandi latrocini?".
Certo, anche tra le comunità politiche possono sorgere e di fatto
sorgono contrasti di interessi; però i contrasti vanno superati e le rispettive
controversie risolte, non con il ricorso alla forza, con la frode o con
l’inganno, ma, come si addice agli esseri umani, con la reciproca comprensione,
attraverso valutazioni serenamente obiettive e l’equa composizione.
Nell’enciclica Laudato si’, del nostro
padre Francesco, questo lavoro di realizzare la pace nella giustizia è
assegnato a tutti noi, a ciascuno di noi e noi nelle collettività di cui siamo
partecipi, nel quadro di uno sforzo di conversione:
218 Ricordiamo il modello di san Francesco d’Assisi, per proporre
una sana relazione col creato come una dimensione della conversione integrale
della persona. Questo esige anche di riconoscere i propri errori, peccati, vizi
o negligenze, e pentirsi di cuore, cambiare dal di dentro. I Vescovi
dell’Australia hanno saputo esprimere la conversione in termini di
riconciliazione con il creato: «Per realizzare questa riconciliazione dobbiamo
esaminare le nostre vite e riconoscere in che modo offendiamo la creazione di
Dio con le nostre azioni e con la nostra incapacità di agire. Dobbiamo fare
l’esperienza di una conversione, di una trasformazione del cuore».[ Conferenza dei Vescovi Cattolici
dell’Australia, A New Earth. The
Environmental Challenge (2002).]
219. Tuttavia,
non basta che ognuno sia migliore per risolvere una situazione tanto complessa
come quella che affronta il mondo attuale. I singoli individui possono perdere
la capacità e la libertà di vincere la logica della ragione strumentale e
finiscono per soccombere a un consumismo senza etica e senza senso sociale e
ambientale. Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, non con la
mera somma di beni individuali: «Le esigenze di quest’opera saranno così
immense che le possibilità delle iniziative individuali e la cooperazione dei
singoli, individualisticamente formati, non saranno in grado di rispondervi.
Sarà necessaria una unione di forze e una unità di contribuzioni». Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit, 72 (trad. it.: La fine dell’epoca moderna, 66).La
conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento
duraturo è anche una conversione comunitaria.
Ecco, politica è anzitutto costruire quelle reti comunitarie virtuose a cui
l’enciclica si riferisce. Ogni ideologia democratica è partita da questo.
101. Populismo
Gli studiosi di politica segnalano in
Italia il pericolo del populismo. Quest’ultimo, per come lo si
intende nel dibattito pubblico di oggi, è una strategia politica per
conquistare e conservare il potere. Viene attuata da gruppi in crisi di
legittimazione, vale a dire quando non riescono a convincere la gente con altri
argomenti. Consiste nel confermare le persone nelle loro paure irrazionali,
giustificando le loro tentazioni cattive. Si sostiene che la situazione è tanto
grave che non c’è altro modo per uscirne che essere cattivi, come si fa in
guerra. I populisti si offrono di fare il male per conto altrui: propongono un
patto che consiste nel dar loro il potere senza stare tanto a sottilizzare e promettono
di fare loro il lavoro sporco che occorre per salvarsi, liberando le coscienze
dei loro mandanti politici. Però richiedono mani libere. Non vogliono sentire
obiezioni in corso d’opera. E quando cominciano a far danno e qualcuno
protesta, dicono che è troppo presto per farlo, che bisogna lasciarli lavorare.
E’ sempre troppo presto. E se si osserva che, continuando in un certo
modo, le cose non potranno che peggiorare, allora accusano chi fa queste
previsioni di essere un menagramo e un disfattista. Proposta questa
impostazione politica, si è di fronte al populismo, nel senso che ho sopra
precisato. E’ chiaro che si tratta di un atteggiamento che ricorre in misura
maggiore o minore in quasi tutte le politiche italiane di oggi. E’ una
manifestazione del degrado della politica. Si tratta di un fenomeno che è in
corso dagli scorsi anni ’80, quando appunto gli studiosi cominciarono a parlare
di crisi dei legittimazione della politica. E’ degrado per tre
aspetti: per il fatto che non si dice alla gente la verità sui mali sociali;
perché si propone come soluzione un lavoro sporco, che consiste nell’essere
cattivi; perché, infine, si propone di dare fiducia incondizionata a certi
politici, disertando un lavoro essenziale in democrazia che è quello della costante
critica politica razionale.
Il populismo può essere considerato
come una grave malattia della democrazia. Infatti è una strategia che è stata
attuata storicamente da correnti politiche non democratiche e dai loro
principali esponenti. Fu sostanzialmente populista la politica del fascismo
mussoliniano, fino alla sua prima caduta nel luglio del 1943. Successivamente
esso fu caratterizzato essenzialmente dalla violenza politica, fino al disastro
finale nell’Italia del Nord, nel 1945. Ma populismo e violenza politica spesso
si accompagnano. Questo perché il populismo di solito prende di mira certi
settori sociali, dai quali può venire una reazione alla quale si oppone una
repressione violenta. Il populismo è insofferente dei limiti che caratterizzano
le politiche democratiche e li considera parte del problema da risolvere senza
tanti scrupoli morali. Il pericolo della violenza politica incombe quindi in
tutte le politiche populiste.
Parliamo di popolo e
di paure. Ma quali sono le paure esagerate artificiosamente dal
populismo? Possono essere le più varie, a seconda degli strati sociali
coinvolti. In questa prospettiva il popolo perde il suo aspetto unitario, di
massa in cui non si riesce bene a distinguere granché, come in una fotografia
dell’alto del grande pubblico di un concerto rock. Appaiono vari gruppi,
ciascuno dei quali ha le sue specifiche paure. Il populista confermerà tutti
nelle loro paure, senza curarsi di avere un atteggiamento coerente. A tutti
dirà che penserà lui a mettere le cose a posto, andando al potere. Se si cerca
di approfondire, andrà su generico, ad esempio dicendo di ispirarsi a qualche
modello straniero vincente. Ma le ragioni per cui ci sono
nazioni vincenti e nazioni perdenti sono
appunto quelle che occorre studiare per capire che fare. Com’è successo che
certi siano tra iperdenti? E come farà il nostro populista a ribaltare
la situazione? Che competenza ha? Un discorso come questo dà fastidio al
populista: a questo punto i fascisti storici iniziavano a menare le mani. Quando
ci affidiamo ad una qualche azienda per le nostre esigenze, ad esempio per
acquistare l’automobile alla quale affidiamo le nostre vite, ci informiamo
delle referenze di chi produce e vende. Il populista in genere non è in grado
di esibire curriculi impressionanti. A volte è veramente alle prime armi. O le
sue esperienze di amministrazione riguardano situazioni piuttosto limitate. Ma
è ambizioso, se gli si affidasse il mondo intero avrebbe la soluzione a tutti i
suoi problemi. E fa una colpa a chi ha da obiettare in merito.
Immaginate di dover subire un
delicato intervento chirurgico. Preferireste affidarvi a chi capita o ad un
medico con un buon curriculum?
Tutti dovrebbero intendersi un po’ di
politica. Non è come per la medicina, dove per capirci occorre aver seguito un
impegnativo corso di studi. Ma governare una grande città, una regione o una
nazione intera richiede molto più che l’intendersi un po’ di
politica: occorre aver dimostrato di saper fare e, innanzi tutto, di conoscere
veramente e realisticamente le istituzioni con le quali si deve avere a che
fare, le funzioni da svolgere e i problemi che ci sono.
Poi, a disastro avvenuto, ci sarà
sempre qualcuno che dirà che il populista qualcosa di buono
l’avrà pure fatto. Questo argomento mi è stato proposto questa estate a
proposito del Mussolini.
Allora ho fatto l’esempio che segue.
Qualche anno fa il secondo pilota di un aereo di linea, rimasto solo alla
guida, ha mandato l’apparecchio a schiantarsi contro una montagna. Aveva deciso
di farla finita. In quel momento gli è parsa una buona soluzione e si è
trascinato dietro gli altri membri dell’equipaggio e i passeggeri. Si è
scoperto che aveva avuto problemi psichiatrici, che però non erano stati
segnalati alla compagnia aerea. Ma qualcosa di buono l’avrà pure fatto!
Avrà voluto bene a qualcuno. Avrà avuto una famiglia che ha seguito
amorevolmente. Prima di quell’ultimo volo, non aveva fatto sempre quello
che doveva? Eh, sì, qualcosa di buono certamente l’avrà fatto. Ma
voi, se aveste saputo dei problemi psichiatrici che aveva maturato quel pilota,
ci sareste saliti con lui su quell’ultimo volo? E’ così che vanno giudicati i
politici di governo, prima e dopo il loro servizio. Sì, ad esempio, avranno
pure fatto qualcosa di buono, ma ora sono in grado di pilotare la
nazione? Non è che ci manderanno a sbattere contro una montagna? Nel caso del
Mussolini, non è che egli abbia nascosto le sue intenzioni: voleva fare guerra,
diceva, per conquistare uno spazio vitale,
in cui erano comprese Libia ed Etiopia. Lo ha detto chiaro e forte e agli
italiani, fin da piccoli, ha messo in mano libro e moschetto (un
tipo di fucile utilizzato in guerra). Seguiva i futuristi, per i
quali la guerra era l’unica igiene del mondo. Bene, l’Italia ebbe
la guerra, diverse guerre, prima quelle coloniali e poi
quella mondiale. Gli italiani, che erano meno ricchi della
gente di altre nazioni, speravano di guadagnarci. Conquistare non
significa anche un po’ rapinare, che è quando con la violenza
ci si impossessa delle ricchezze altrui? Gli italiani ritennero di averne il
diritto, perché anche gli altri europei facevano lo stesso. Quindi poi alla
fine sono andati a sbattere in una disastrosa guerra mondiale, dalla quale la
nazione è uscita pressoché annientata. Alcuni sono ancora tentati da quella
via, ma capiscono che qualcosa non è andato per il verso giusto e allora,
quando non passano a menare le mani, propongono l’argomento principe dei
populisti di sempre a disastro avvenuto, appunto quello del ma
qualcosa di buono l’avrà fatto. Altri sostengono che però sarebbe
meglio vederci chiaro, realisticamente, prima ed ora su
come andrà a finire nel complesso con una politica; a loro non
basta che chi comanda qualcosa di buono l'abbia comunque fatto. E
se poi la storia si ripetesse? E se ci si schiantasse? I saggi invitano ad
imparare dalla storia, che è, dicono, maestra di vita.
Ognuno ha delle paure per come vanno le cose in società.
Il sociologo Zygmunt Bauman (1925-2017) ha scritto che la nostra epoca è
caratterizzata dall’insicurezza sociale, ed anche nelle
società più ricche. Non si è più sicuri del lavoro, di avere una casa, di
essere aiutati nelle difficoltà. Si cerca di trovare soluzioni private a questi
mali sociali, ma di solito si è sempre indietro, in fondo impotenti, rimane
sempre questa paura. Ma com'è che accade anche nelle nazioni più ricche? Non ci
si potrebbe fare qualcosa con gli strumenti della politica? Probabilmente sì,
perché si tratta di mali sociali che sono le conseguenze di sistemi di
relazioni sociali che non funzionano bene. Si tratta di costruzioni umane che,
come sono state fatte, possono anche essere cambiate. Però si tratta di sistemi
molto complessi, di reti di relazioni che ormai coinvolgono tutto il mondo. Per
cui, ad esempio, il pericolo di una guerra nucleare dall’altra parte del globo
ci preoccupa, e veramente ci deve preoccupare ha sostenuto il capo del governo
tedesco Angela Merkel, non tanto perché potrebbe arrivarci addosso un
qualche missile sparato da laggiù, ma perché gran parte delle nostre cose di
uso quotidiano, che compriamo a basso prezzo, ci vengono da quelle parti. Prima
di operare bisogna, quindi, innanzi tuttocapire e capire in
modo veritiero, realistico, che significa in modo
aderente ai fatti e razionalmente. E,
capendo, si potrebbe avere la spiacevole sorpresa di concludere che le
cose non possono cambiare veramente se non si decide innanzi tutto di cambiare
il modo come è impostata la propria vita. Non serve essere
cattivi con qualcun altro. E’ appunto ciò che viene proposto
nell’enciclica Laudato si’, diffusa nel 2015 dal papa Francesco. E’
un documento che contiene un’analisi realistica e razionale dei mali sociali di
oggi. Ma non contiene populismo, come i detrattori del Papa sostengono:
innanzi tutto perché si tratta di un’analisi realistica della realtà; poi
perché non conferma la gente nelle sue paure, ma anzi esorta a non
avere paura; non propone di essere cattivi per salvarsi, ma anzi di
essere virtuosi, e, infine, e questo è molto importante per distinguere la sua
prospettiva da quella populista, il suo principale problema non è di
conquistare o di mantenere un potere politico, ma di migliorare la situazione
sociale.
Il principale intento del populista è
invece quello di conquistare o di mantenere il potere politico, non di
risolvere i problemi della gente. E’ per questo che non ha necessità di una
visione realistica e razionale dei problemi della società. Gli basta avere una
visione realistica e razionale dei suoi problemi,
che pensa di risolvere andando al potere e mantenendolo. Ma a mente fredda gli
altri non gli darebbero credito perché non ha mai dimostrato di essere granché
come politico: bisogna allora che la gente abbia paura e abbandoni la
razionalità, il costume della critica sociale, e, insomma, si fidi senza
stare troppo a sottilizzare, si fidi sulla parola di chi le garantisce che la
salverà, anche se a costo di sofferenze altrui, il lavoro sporco del quale il
populista promette di occuparsi, senza farlo gravare sulle coscienze dei suoi
mandanti. Così il populista incoraggia la gente ad avere paura perché in questo
modo pensa che gli cadrà nelle mani, senza tante remore, scrupoli di coscienza,
resistenze intellettuali o morali. Il suo principale argomento è “non
è il momento di fare tanto gli schizzinosi”. L’etica passa in secondo
piano, come la razionalità. Ma come essere veramente sicuri di non rimanere
vittime di questo abbandono dell’etica, di quello che gli economisti
chiamano azzardo morale, che significa appunto fare i propri
interessi, egoisticamente, senza fare tanto gli schizzinosi?
Attualmente la principale paura che le
politiche populiste incoraggiano nella nostra gente è quella degli immigrati,
in particolare dall’Africa. Sembra che tutti i nostri problemi dipendano da questo.
E’ una paura irrazionale, naturalmente. Non è per questo che rischiamo, ad
esempio, il posto di lavoro e che il lavoro viene pagato, in genere, sempre
meno. E non è per questo che le risorse per i servizi sociali, ad esempio per
l’istruzione o la sanità, appaiono sempre eccessive, troppo onerose, mentre
quei servizi hanno crescenti difficoltà appunto per mancanza di risorse
sufficienti. L’economia ha prodotto crescenti diseguaglianze sociali. E si
vogliono spendere meno soldi per i servizi sociali, pubblici, che
contribuiscono ad aumentare il benessere di tutti, correggendo quelle
diseguaglianze in fondo ingiuste, quelle che il Papa chiama inequità.
Il tenore di vita di chi sta peggio è attualmente sostenuto dal
vantaggio di poter ancora acquistare a basso la gran parte dei prodotti di uso
comune, perché vengono prodotti in Oriente, dove i lavoratori vengono pagati
meno che da noi. L’aver spostato in Oriente la produzione di questi beni è una
delle ragioni per cui ci sono meno posti di lavoro in Europa. Noi acquistiamo
senza tanti problemi quei prodotti, anche se sappiamo che incorporano uno
sfruttamento dei lavoratori delle industrie che li hanno realizzati. Come
lavoratori siamo danneggiati, ma come consumatori avvantaggiati. In generale è
il lavoro che, qui da noi e in Oriente, non è pagato il giusto. Bisognerebbe
mettere in questione il sistema economico che attribuisce questo valore
ingiusto al lavoro. E’ il mercato. Non è una potenza della
natura. Le forze del mercato hanno regole e non solo quelle economiche. Una
serie di trattati internazionali consente alle cose di andare come vanno,
creando una cornice giuridica in cui poi si realizza questa ingiustizia
per cui il lavoro non è pagato il giusto. Vi è chi si avvantaggia. Per questo,
appunto, in Occidente come in Oriente sono aumentate fortemente le
diseguaglianze sociali. Sono una minoranza quelli che si trovano in una
posizione privilegiata. E quest’ultima dipende dalle politiche correnti, che
creano la struttura giuridica per mantenere un sistema economico che produce
diseguaglianze e, quindi, sofferenze sociali. Ma, alla fine e in particolare
nei sistemi democratici, non dovrebbero essere le maggioranze a prevalere? In
astratto, sì. Di fatto, paradossalmente, la maggioranza della gente rimane
soggetta alle minoranze dei privilegiati sociali e la situazione tende ad
inasprirsi sempre più se i correttivi sociali si fanno più deboli, ad esempio
se si fa più debole la resistenza dei sindacati nei rapporti di lavoro. Per
mantenere il controllo dei più, le minoranze dei privilegiati sviluppano
politiche populistiche. Significa che ancora la giustizia sociale non è di
questo mondo? Ma potrebbe esserlo, si potrebbe tentare di fare in modo che lo
sia, sarebbe interesse dei più cercare di promuoverla. Questa è anche la
posizione della dottrina sociale. Ecco come inizia, ad esempio, la lettera
apostolica Octogesima Adveniens - Avvicinandosi l’ottantesimo
anniversario (potete leggerla sul WEB a questo indirizzo
http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_letters/documents/hf_p-vi_apl_19710514_octogesima-adveniens.html
diffusa nel 1971 dal papa Giovanni Battista
Montini, in religione Paolo 6°:
1. L'80° anniversario della pubblicazione
dell'enciclica Rerum novarum,
il cui messaggio continua a ispirare l'azione per la giustizia sociale,
ci spinge a riprendere e a prolungare l'insegnamento dei nostri predecessori,
in risposta ai nuovi bisogni di un mondo in trasformazione. La chiesa, infatti,
cammina con l'umanità e ne condivide la sorte nel corso della storia.
Annunciando agli uomini la buona novella dell'amore di Dio e della salvezza nel
Cristo, essa illumina la loro attività con la luce dell'evangelo, aiutandoli in
tal modo a corrispondere al divino disegno d'amore e a realizzare la pienezza
delle loro aspirazioni.
Appello universale a maggiore giustizia
2. Con fiducia, noi vediamo lo Spirito del
Signore continuare la sua opera nel cuore degli uomini e radunare dovunque
comunità cristiane coscienti delle loro responsabilità nella società. In tutti
i continenti, tra tutte le razze, le nazioni, le culture, in mezzo ad ogni
sorta di condizioni, il Signore continua a suscitare autentici apostoli
dell'evangelo.
Ci è stato dato di incontrarli, di ammirarli,
di incoraggiarli durante i nostri recenti viaggi. Abbiamo avvicinato le folle e
ascoltato i loro appelli, grida di miseria e di speranza al tempo stesso.
In queste circostanze, i gravi problemi del
nostro tempo ci sono apparsi con un nuovo rilievo, come particolari, certo, a
ciascuna regione, ma tuttavia comuni a una umanità che si interroga sul suo
avvenire, sull'orientamento e il significato dei mutamenti in corso. Differenze
evidenti sussistono nello sviluppo economico, culturale e politico delle
nazioni: accanto a regioni fortemente industrializzate, altre sono ancora allo
stadio agricolo; accanto a paesi che conoscono il benessere, altri lottano
contro la fame; accanto a popoli ad alto livello culturale, altri continuano a
occuparsi della eliminazione dell'analfabetismo. Da ogni parte sale
un'aspirazione a maggiore giustizia e si alza il desiderio di una pace meglio
assicurata, in un mutuo rispetto tra gli uomini e tra i popoli.
Il populista cerca di accattivarsi la fiducia dei più
promettendo di farli privilegiati o, comunque, di trattarli come tali. Non ha
di mira la giustizia sociale. Qualcuno ci rimetterà, ma, assicura, non saranno
quelli a cui promette un patto richiedendo fiducia incondizionata.
Siamo terrorizzati da chi ha la pelle
di un colore diverso dalla nostra, non si esprime (ancora) bene in Italiano ed
è povero. Sembra che finirà per sottrarci qualche cosa. Ma, se consideriamo
bene, non è vero che le principali sofferenze ci sono inflitte, invece, da
connazionali? Ad esempio da chi ci licenzia dall’oggi al domani e magari era
tanto tempo che lavoravamo per lui. Oggi le leggi danno più libertà di
licenziare. Nella maggior parte dei casi oggi è previsto solo un indennizzo
pecuniario. Fino a qualche anno fa era diverso: le cose, dunque, sono cambiate
in peggio. Uno oggi può essere licenziato più facilmente, pagandogli qualcosa.
Ma, perso il lavoro, e quindi poi anche la dignità, che se ne fa uno di un
gruzzoletto che presto finisce? Siamo disgustati se si spacciano stupefacenti o
ci si offre in prostituzione sotto casa nostra, ma chi sono i clienti? Chi sta
peggio cerca di imitare i costumi di vita di chi sta meglio, ma essi sono
costosi. Allora può accadere che si rubi o si rapini. Magari per scoprire che
quello che si è ottenuto non serve per una vita buona, non dà la felicità e che
si è sempre gli stessi, poveri in umanità e dunque infelici, pur in mezzo
a case a volte trasformate in delle specie di magazzini in cui sono
affastellate alla rinfusa cose costose ma di cattivo gusto. E’ questa
l’impressione che si ricava, ad esempio, dalle foto, diffuse dai giornali e
dalle televisioni, delle perquisizioni nelle abitazioni di certi criminali che
si sono arricchiti. Bisognerebbe invece imparare la vita buona e la virtù, da
qui viene la felicità: questo è l’insegnamento della dottrina sociale.
Di fatto agli immigrati africani si
sono chiuse certe vie per raggiungere le nostre coste. Questo è costato
violenza. Avviene tutto lontano dai nostri occhi, così cerchiamo di
dimenticarcene. Il populista ci rassicura: abbiamo ragione a non avere scrupoli
di coscienza. Non si poteva fare diversamente. Il Papa, invece, ci ricorda il
tremendo rimprovero biblico a Caino e ai suoi seguaci, "Dov'è il tuo
fratello?". Gente viene ora respinta in massa. Questi respingimenti
collettivi non sarebbero consentiti dalle norme internazionali in vigore, ad
esempio dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Articolo 19
Protezione in caso di allontanamento, di
espulsione e di estradizione
1. Le espulsioni collettive
sono vietate.
2. Nessuno può essere
allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio
di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o
trattamenti inumani o degradanti.
Un divieto analogo è contenuto
nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata proprio a Roma nel 1950. Nel 2014 la
Repubblica italiana è stata condannata con sentenza della Corte Europea dei
Diritti Umani per averli attuati. Ma ora tutto si svolge in un’altra nazione,
considerata insicura dalle autorità internazionali ma anche dalle nostre
autorità: e tutto si fa in base ad accordi che abbiamo concluso laggiù, anche
con autorità locali. Le nostre paure hanno trovato una specie di conforto,
effettivamente l’immigrazione africana si è ridotta, senza che ci tocchi la
violenza che è stata necessaria per riuscirci, ma rimane la gente che è già
riuscita a giungere tra noi, anche quella ci fa paura. E quando
riuscissimo a sistemare anche quella, ma sarà più
difficile farlo perché certe soluzioni sbrigative non le possiamo proprio
attuare sul nostro territorio nonostante tutte le nostre cattive
intenzioni, poi le cose andrebbero veramente meglio? Alcuni sono convinti di sì
e le politiche populiste li incoraggiano, come appunto i populisti sono soliti
fare. Ma poi, in genere, non si soffre veramente a causa degli immigrati, che
al più, se poveri, possono essere un brutto spettacolo, come la povertà in
genere è, ma null’altro. Si soffre, ad esempio, per il taglio della spesa
pubblica, che determina una riduzione delle spese sociali, di benessere di
tutti, e consegue anche, ma non solo, al proposito di tagliare le tasse.
Meno tasse, meno entrate fiscali, meno spesa pubblica: i
conti così tornano. Il populista, però, a chi è
preoccupato per le tasse, promette di ridurle, e a chi è preoccupato per la
riduzione della spesa pubblica, promette di aumentarla. Come farà? Di solito si
tiene sul vago. Promette di colpire l’evasione fiscale, ma allora poi
protesteranno i suoi sostenitori che sono preoccupati per le tasse e forse
hanno già scelto quella via per proteggersene. O propone di liberarsi dai
vincoli europei e di uscire dall’area dell’Euro, la moneta comune della nostra
Unione Europea, la nostra nuova Europa, riacquistando la sovranità monetaria,
per tornare così, rapidamente, all’inflazione a due cifre che chi ha la mia età
ha sperimentato. Negli anni ’70 arrivò, in concomitanza con la crisi
energetica, quasi fino al 25% annuo e così stipendi e risparmi della
gente evaporavano. Una soluzione che, secondo molti studiosi, ci
manderebbe a sbattere. Non è stampando più carta moneta
che si risolvono i problemi dell’economia, tanto più che è molto aumentata la
nostra dipendenza dall’estero, dove acquistiamo praticamente tutti i prodotti
di uso comune. Che mercato potrebbe avere una
moneta svalutata?
Perché il populismo ha preso tanto
piede, venendo utilizzato, in misura più o meno ampia, anche da forze che non
se ne servirono in passato? E’ appunto, come ho scritto, per la crisi di
legittimazione della politica, per cui la gente non ritiene più utile fare politica
e non se ne vuole più occupare. Si è stufata di discorsi politici ragionevoli,
li ritiene più o meno degli imbrogli. Tutti i politici sono uguali, pensa, e
fanno solo i propri interessi. Servirebbe piuttosto farsene dei complici. E'
appunto questa la proposta del populista. Allora si finisce per dare
ascolto ai tipi sbrigativi, anche se poco referenziati, che promettono di
esonerare la gente da tutte quelle preoccupazioni: faranno tutto loro,
promettono, anche il lavoro sporco, che poi potrebbe dare problemi di
coscienza, e lo faranno anche nel nostro interesse, ma sempre in danno di certi
altri, quelli che di volta in volta sono additati come responsabili del male
che c’è, assicurandoci che noi non saremo tra quelli. Sono promesse che
assomigliano certe volte, appunto, ad un arruolamento come complici. E
può prevedersi che, quando le cose finiranno male, i populisti con cui ci
saremo federati ci chiameranno a correi: diranno che noi siamo stati loro
complici. Certe cose le avevamo chieste noi. Ma anche di più,
storicamente è accaduto proprio questo: diranno che le cose sono andate
male non per colpa loro, che hanno tenuto fede ai patti, ma per colpa nostra,
perché non siamo stati abbastanza determinati nell'essere cattivi. Ci
accuseranno di aver avuto troppi scrupoli, di aver guastato tutto per aver
frenato mettendo di mezzo, ad un certo punto, la ragione e l'etica. Non si era
concordato di non fare tanto gli schizzinosi? Ci troveremmo,
allora, in questo caso, davanti al tribunale della storia, insieme a
loro.
Non sarebbe meglio, invece,
seguire la via della virtù indicata dalla dottrina sociale?
FINE