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Manuale operativo di sinodalità
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10.4
Il metodo – 4
Accade di riunirsi in un gruppo di orientamento religioso e di non sapere che fare. Si cerca, allora, una guida, un intrattenitore, e, in genere ci si aspetta che questo ruolo sia svolto da un prete. In effetti ora nel lungo percorso formativo dei preti si studia animazione dei gruppi e questo talvolta comprende anche degli specifici tirocini detti simulate. Appunto, con gli studenti si crea artificialmente un gruppo che necessita di animazione e si prova a fare gli animatori. Se però fare il prete si riduce a questo e alla celebrazione dei culti, quindi alla liturgia, poi ce se ne disamora. Noi persone laiche dobbiamo quindi prendere coscienza di essere parte del problema della crisi delle vocazioni. Il prete in crisi pensa di risolvere assumendo uno stile di vita più vicino a quello di monaci e frati che lo porta a separarsi ancora di più da gruppi di fedeli verso i quali non avverte nessun trasporto, nessuna inclinazione. Chi ha anche un altro lavoro, oltre quello relativo al ministero ecclesiale, si butta su quello. Non pochi lasciano. Questo sconcerta i fedeli. Si vive avendo tra sé un prete, si intessono relazioni e poi quello sparisce e non se ne sa più nulla, né egli vuol più far sapere nulla di sé. E non si ha nemmeno cuore di cercarlo, perché non si sa come la prenderebbe. In fondo è un uomo in fuga. E’ cosa che accade anche nella spiritualità delle altre persone di fede. L’esperienza comunitaria alla quale si è partecipato perde senso e allora non ci fa più vedere, come si dice si rompe con quel gruppo. Non si sta a dare tante spiegazioni, semplicemente si scompare. Poi si ritenta da un’altra parte. E così via talvolta per una vita intera. Fino a che, magari, si cade nel tipo di gruppi organizzati come comunità-rifugio che promettono protezione a fronte della completa rinuncia a sé, in particolare della sottomissione assoluta ad una gerarchia interna, minacciando di ributtare i renitenti nella vita priva di un senso che facevano prima. E’ la vita che vedo fare, in fondo, ai preti che decidono di inquadrarsi in congregazioni di cosiddetti tradizionalisti, in cui si costruisce una neo-tradizione e la memoria di un neo-passato e ad essi ci si adegua trovando una superficiale sicurezza: si vive in realtà in un sogno.
La sinodalità è il rimedio
a tutto questo. E’ una forma di organizzazione, certo, ma non solo questo. E’
importante quello che è alla sua base. Ed è l’idea che non ci sia separazione
tra fede e vita, per cui quando ci si riunisce con spirito religioso si debba
cercare di fare qualcosa di diverso dalla propria vita consueta: quest’ultima,
tutta, ha un significato religioso. Non si è religiosi soltanto a messa, nella
celebrazione di altri sacramenti, nella preghiera personale o comunitaria,
leggendo libri di argomento religioso, ascoltando conferenze su quel tema e via
dicendo. In particolare la vita con le altre persone è sempre anche un’esperienza di fede. Quindi la sinodalità
non è limitata ai propri ambienti
ecclesiali di riferimento, ad esempio la parrocchia: si può costruire la
sinodalità in ogni esperienza collettiva che dal semplice trovarsi insieme,
come accade viaggiando in metropolitana, si fa comunità perché si
condivide consapevolmente un’esperienza di vita cercando di conoscersi meglio,
di intendersi e, in tal modo, di renderla più intensa e anche capace di
modificare ciò che si vive. Se ogni vita ha un senso religioso, sempre, allora la sinodalità è per tutti e può essere animata da tutti. E' un modo di fare Chiesa diverso da quello per il quale lo si è solo in certi contesti e non lo si può essere se non limitandosi a obbedire alla volontà sacralizzata altrui, per cui se manca quest'ultima ci si disperde o non si sa più che fare.
Che si fa in una parrocchia?
Quando pensiamo a una parrocchia, la possiamo considerare
prevalentemente nei servizi che offre: liturgia, formazione, assistenza
personale e animazione, solidarietà, tenuta di registri sullo stato ecclesiale
delle persone, amministrazione di beni mobili ed immobili. Sotto questo profilo
non differisce da un’azienda, un insieme di beni e di persone organizzato
per fornire altri beni o servizi. Le sue prestazioni sono suscettibili di
valutazione economica, anche se non intesa in senso esclusivamente di resa
patrimoniale, ma come bilancio tra le risorse impiegate e i risultati
conseguiti. Attualmente a tutto questo è preposto un parroco incaricato dal
vescovo senza che in questa scelta concorrano minimamente le persone di fede
residenti nella parrocchia, che costituiscono il popolo amministrato da quell’istituzione ecclesiale.
La parrocchia, infatti, è costituita come ente ecclesiastico territoriale e vi
ci si ricade dentro solo per il fatto di abitare nel territorio ad esso assegnato.
Si può osservare che una parte consistente delle attività parrocchiali non
rientrano nella competenza per così dire professionale del prete. Il parroco svolge ad esempio
mansioni che sono tipiche del proprietario di un immobile o di un gestore di un
teatro. Accumulandosi nella vita di un prete queste mansioni non tipiche del
suo ministero possono arrivare a togliergli la gioia della sua specifica
missione. E questo indubbiamente è parte del problema della crisi delle
vocazioni. La soluzione è a portata di mano: condividere il peso di tutto ciò con chi prete non è, ma, ad esempio sa amministrare beni e gestire un teatro. Ma
l’esasperata caratterizzazione gerarchica e il clericalismo della nostra Chiesa
la ostacola, fino a impedirla. Ma non si
era detto che tutta la vita è rilevante per la fede? Allora dovrebbe
esserlo anche l’amministrazione di un patrimonio. E’ così, in effetti. Ma è
anche vero che non tutte le occupazioni che uno ha nella vita hanno lo stesso
peso per darle senso. Ce n’è sempre qualcuna che prevale ed è appunto il
caso dell’impegno nel ministero del pastore. Esso è un ruolo sociale che è legato a un complesso di doveri
molto pesanti, a ciò che viene definito uno stato di vita. E
l’amministrazione patrimoniale è un suo aspetto collaterale ma non caratterizzante.
Di solito uno non decide di farsi prete per amministrare un patrimonio,
anche se poi può capitargli di doverlo fare, quando gli vengono attribuite
certe posizioni negli enti ecclesiastici. Addirittura il Papa è anche il capo
di una specie di mini-stato, ma certamente non ha accettato di essere papa, con
tutte le pesantissime limitazioni che ciò comporta, tanto da farlo quasi
apparire come prigioniero nella sua minuscola città stato, per
regnare in Vaticano, pari a Km2 0,44, con il suo gigantesco
chiesone, altre chiesine, stazione ferroviaria, supermercato, ufficio postale,
eliporto, mini-tribunale, mini-polizia, mini-esercito in costume, grande museo,
teatro, un bel parco, e via dicendo.
D’altra parte la parrocchia è anche definita come una comunità, e
ciò a seguito dei principi di riforma ecclesiale deliberati durante il Concilio
ecumenico Vaticano 2°:
dal
codice di diritto canonico:
Canone 515 - §1. La
parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita
stabilmente nell'àmbito di una Chiesa particolare, la cui cura pastorale è
affidata, sotto l'autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo
proprio pastore.
E’ stato notato, tuttavia,
che le comunità di fedeli preesistono e solo gli enti possono essere istituiti per deliberazione gerarchica. Non è come
quando si istituisce un convento di frati e poi ci va a vivere una comunità di religiosi. Quindi,
nel caso della parrocchia, la comunità non è costituita dal vescovo, ma viene solo istituito l’ente, delimitandone la competenza. Quindi si
ricade nella parrocchia perché si abita nel suo territorio e, tuttavia, ciò che costituisce una collettività come comunità è un sistema di relazioni,
che possono essere agevolate dal fatto che risiedere vicini gli uni agli altri,
ma che possono anche essere fatte d’altro. Per cui i confini territoriali dell'ente parrocchia sfumano quando si considera la parrocchia comunità e, ad esempio, gli isolati tra piazza Conca d'Oro e via Nomentana, pur ricadendo territorialmente nella parrocchia degli Angeli Custodi, a piazza Sempione, gravitano di fatto verso la nostra parrocchia.
Per valutare lo stato di
una parrocchia non basta tener conto solo della resa dei servizi, ma anche
dello stato delle relazioni comunitarie e, innanzi tutto, di quanta gente coinvolgano
effettivamente. L’organizzazione improntata a sinodalità serve a migliorare i primi e le altre. Se,
tuttavia, teniamo conto solo dell’aspetto di ente della parrocchia, con i suoi servizi, vengono
in risalto confini che sono diversi da quelli comunitari. Se si
considera la comunità salta infatti il confine tra ciò che si fa in
chiesa, intesa come chiesa parrocchiale e annessi, e ciò che si fa fuori,
perché tutta la vita delle persone di fede rileva. Se però la qualità delle
relazioni tra le persone di fede è scarsa, per cui ognuno vive la fede essenzialmente
nella propria individualità, la parrocchia, sotto questo profilo svanisce.
Stando alle statistiche
della popolazione residente e a quelle relative alla religiosità della
popolazione, possiamo stimare in circa 8.000 le persone del quartiere che fanno
riferimento alla religiosità cristiane, in circa 1.000 quelle che frequentano abitualmente
i locali parrocchiali per servizi religiosi e, in base ad osservazione diretta,
in qualche decina le persone che animano la vita comunitaria che si svolge in chiesa,
nel senso sopra precisato. Sono troppo poche. Di come la gente vive comunitariamente la fede fuori
della chiesa sappiamo poco, ma
certamente in qualche modo la vive anche lì. La scarsità di persone che animano
la vita comunitaria in chiesa influisce anche sulla resa dei servizi, che
sono essenzialmente servizi alla persona e che quindi richiedono persone per
svolgerli. La resa comunitaria è certamente scarsa.
I servizi necessitano di
continuità: pensando a una riforma sinodale dell’organizzazione parrocchiale è
consigliabile occuparsene solo dopo aver ottenuto risultati significativi sotto
l’aspetto comunitario. In quest’ultimo campo si tratta di tessere pazientemente
relazioni. Il processo sinodale che si è tentato di avviare in parrocchia ha
mostrato i problemi che si presentano. La
seconda assemblea sinodale è stata molto meno partecipata della prima ed
essenzialmente per due motivi: non è stata preparata bene, e in particolare non
sono date sufficienti informazioni alla gente, e al termine della prima non ci
si era scambiati i dati di contatti necessari per concordare quando e come
rivedersi; così è stato anche al termine della seconda. Osservo anche che si sono saltate le tappe dedicate all’ascoltare e alla parresia / franchezza nel parlare e si è passati subito al celebrare,
incentrando tutto su come si vorrebbe che venissero celebrate le messe. Fatalmente
queste ultime sono state considerate più che altro sotto il profilo teatrale, secondo il quale
il celebrante recita la parte
principale. Non si è tessuta bene la sinodalità e la maglie hanno ceduto.
La sostanziale inesistenza
del Consiglio pastorale parrocchiale impedisce di ragionare su come gestire meglio la
cosa, includendovi progressivamente i referenti emersi dai gruppi sinodali. Se
si vuole incrementare la partecipazione occorrerebbe sfruttare le opportunità
date da quell’organo partecipativo, contemplato dal diritto canonico e, sulla
carta, obbligatorio nella Diocesi di Roma. Per contrastare la tirannia fondamentalista
che potrebbe manifestarsi, basterebbe organizzarne meglio la composizione, come
le norme vigenti consentono.
Una volta che la vita fuori
della chiesa divenga rilevante e che
non si tratti solo di dare una mano ai preti nei servizi, le cose da fare salterebbero
subito fuori. Anche l’arte e lo sport vi rientrerebbero. La formazione che si
potrebbe fare non sarebbe solo quella minima per essere ammessi a certi sacramenti,
ma si estenderebbe, ad esempio, alla valutazione dei fatti sociali, e allora
sarebbe utile anche fuori della
chiesa. Nella gran parte dei campi potrebbe attuarsi l’auto-organizzazione,
perché si sarebbe fuori dei campi strettamente inerenti alla pastorale, nel
quale non si può prescindere dai preti secondo il principio “non senza di
loro, non solo da loro”.
Uno degli obiettivi di
medio periodo potrebbe essere quello di suscitare un’assemblea dei parrocchiani realmente partecipata perché
preparata da un’attività sinodale con carattere di continuità in gruppi più limitati, in cui si impari a
lavorare insieme senza perdere tempo.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte
Sacro, Valli