La fede come protesta per l’assenza di
Dio
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L’esperienza di Gianni Genre
Moltissime persone hanno pensato la fede prima di noi e la pensano insieme
a noi. In materia di fede è veramente difficile, quindi, dire qualcosa di nuovo.
Ne ho avuto ulteriore conferma leggendo il colloquio con il pastore valdese
Gianni Genre contenuto nel libro di Sabina Barale e Alberto Corsani, Credenti
in bilico. La fede di fronte alle fratture dell’esistenza, Claudiana 2020, €13,50,
che contiene anche dialoghi con Massimo Recalcati, Bruno Forte, Bruna Peyrot,
Stefano Levi Della Torre, Eraldo Affinati, Vivian Lamaque, Michel Kocher ed Elisabetta
Ribet, che vi consiglio senz’altro.
La fede come protesta per l’assenza di Dio: questo corrisponde al mio
sentire religioso. Posso sottoscrivere e fare mia ogni parola detta da Genre
nel brano che trascrivo di seguito.
Giacobbe lotta con un angelo [dal libro della
Genesi, capitolo 32, versetti da 25 a 33 – versione in italiano TILC
Traduzione interconfessionale in lingua corrente
Giacobbe rimase solo, e uno sconosciuto lottò
con lui fino allo spuntar dell’alba. Quando costui vide che non poteva
vincere Giacobbe nella lotta, lo colpì all’articolazione del femore, che si
slogò, e disse:
—
Lasciami andare perché già spunta l’alba. Giacobbe rispose:
—
Non ti lascerò andare se prima non mi avrai benedetto.
Quello
chiese:
—
Come ti chiami?
—
Giacobbe — egli rispose.
L’altro
disse:
—
Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato contro Dio e
contro gli uomini e hai vinto.
Giacobbe
gli domandò:
—
Dimmi, ti prego, qual è il tuo nome? L’altro gli rispose:
—
Perché mi chiedi il mio nome? — e diede la sua benedizione a Giacobbe.
Giacobbe
disse: «Ho veduto Dio a faccia a faccia e non sono morto!». Perciò chiamò quel
luogo ‘Penuèl’ (A faccia a faccia con Dio).
Il
sole stava sorgendo quando Giacobbe, zoppicando all’anca, lasciò Penuèl.
Proprio per questo fatto anche oggi gli Ebrei
non mangiano il nervo sciatico che è sopra l’articolazione del femore: perché
quello sconosciuto colpì Giacobbe in quel punto, all’articolazione del femore.
***********************
[…]
Amo infinitamente il dipinto in cui Rembrandt
illustra la lotta di Giacobbe nella notte di Peniel. Spero possa essere,
alfine, così anche per me. La lotta è finita e scorgiamo Giacobbe che si abbandona
nell’abbraccio con la dolcezza e la complicità amorevole dell’angelo. Come anche
nel volto dell’angelo di Dio non c’è più nessuno sforzo, nessuna tensione.
Adesso Giacobbe si lascia andare, nella resa, nella tenerezza di Dio. Benedetto
e ferito, con una nuova identità che vive nell’amore gratuito di Dio.
E’ solo questo corpo a corpo con Dio che può portare a conoscere il proprio nome nuovo, la
propria audacia e la propria vulnerabilità, le cicatrici che il lottare con Dio
sempre ci produce insieme alla benedizione che dobbiamo strappargli. Questa, forse,
è la fede: una realtà che sfuma, alla fine della lotta, in un lasciarsi
portare, vorrei dire cullare, quando non c’è più nulla da chiedere e da sapere,
perché si è sperimentato l’amore di Dio che pure ci ha stremati.
Questo è un itinerario che forse vorremmo
essere in tanti a poter condividere, ma non sarà l’unico possibile…
Ma prima di arrivare a quell’immagine, mi rendo perfettamente conto che
i percorsi della fede possono essere diversi per ognuno e ognuna di noi. E riconosco
che la mia relazione con Dio può diventare addirittura un’ossessione: anzi, lo
è già da molto tempo. Perché per lunghi tratti di cammino sono assediato dall’esperienza
dell’assenza di Dio. Non che io, ormai, abbia più paure di sperimentare questa assenza, come
succedeva un tempo, quando ancora credevo che qualcosa dipendesse da me e dalla
fragilità della mia fede. Non mi interrogo più su quanto sia grande o debole la
mia fede. Anche questo esercizio di misurare la fede mi pare non solo inutile
ma profondamente errato, è ancora il frutto di un discorso che parte da me, che
mi pare autocentrato. Anzi, è frutto di un atteggiamento demoniaco, nulla di
meno.
Così non mi lascio insidiare da questi pensieri, ma reagisco. Almeno questo l’ho appreso -e non senza una grande
fatica! Reagisco in modo ossessivo. Una sorta di ossessione che nasce dal mio
grido a Dio a causa di quell’assenza che sembra accompagnare troppi momenti
della vita nel nostro mondo.
La dimensione della ricerca di fede (e anche la scelta di appartenere a
una chiesa) non nasce da ciò che possiedo, ma da ciò di cui sento la
mancanza. Traccia di fede, per me,
non è l’esperienza della presenza di Dio, come molte persone che incontro mi testimoniano. Mi dicono – a esempio,
che Dio è intervenuto e si sono salvati
in un momento di grave pericolo. Non discuto e non polemizzo con loro, è del
tutto plausibile che possano avere fatto questa esperienza ed è legittimo che
lo credano. Ma rimango interdetto quando mi dicono che la mano di Dio li ha
afferrati, mentre è stata troppo corta per salvare altri che hanno vissuto
esperienze analoghe, senza lieto fine.
Per me le la fede non può essere nutrita di presunti segni della presenza
di Dio che magari va a scapito di altri, ma è piuttosto una mancanza, la nostalgia
dolente per un’assenza, un grido di protesta, anche contro Dio.
La Bibbia si serve spesso di immagini incisive
per descrivere la condizione di noi uomini e donne: c’è un’immagine, secondo
lei, che possa dar conto di questa «nostalgia
di un’assenza»?
Quella delle cinque vergini avvedute
(Matteo 25), che in realtà, a mio avviso, sono folli. Sono folli perché folle è
l’atteggiamento di chi mantiene accese le lampade dopo mezzanotte, l’ora in cui
Dio non verrà più. Le vergini avvedute tengono le lampade accese perché hanno il
coraggio di rivendicare davanti a Dio la sua presenza quando non riescono più a
decifrarla, a rintracciarla. Sono semplicemente
ossessionate a tal punto da Dio dal chiedergli di venire, finalmente, in
questo mondo di dolore che lo aspetta, che non ce la fa più senza di Lui. Sono
l’immagine di chi ricarica paradossalmente la lampada quando la fede ormai si
spegne. Sperano contro speranza. Rappresentano l’ostinazione della fede che non
si arrende davanti al buio della notte.
Sono l’incarnazione di un’ossessione,
che rivendica la presenza di Dio davanti all’evidenza della sua assenza che si
protrae nella notte. Ecco qualcosa che si avvicina alla fede per me. L’atteggiamento
di chi dice a Dio «ti aspetto e ti aspetterò anche se l’attesa non ha più
senso, ance se la tua venuta sembra del tutto impossibile».
Ricaricano le lampade nel buio assoluto, come protesta contro Dio che
ancora non appare. Osano rivolgersi a Dio come a fatto Zvi Kolitz, un ebreo lituano,
che nel 1946, in una camera d’albergo di Buenos Aires scrive, in una sola
notte, un libretto: Yossl Rakover si rivolge a Dio. Un dialogo con Dio
che è in realtà un monologo ambientato a Varsavia, il 28 aprile 1943. E’ la Pasqua
ebraica, le SS irrompono nel ghetto con i loro lanciafiamme ma trovano gruppetti
di ebrei pronti a respingerle duramente. Yossl è nascosto in un palazzo semidistrutto
e sta aspettando di morire. Sa che tra poco qualche nazista lo ucciderà come ha
già ucciso gli altri undici ebrei che giacciono cadaveri accanto a lui. In
questa situazione disperata, il suo pensiero e la sua preghiera si rivolgono a
Dio, che sembra aver abbandonato Israele.
Credo nel Dio di Israele, anche se ha fatto di tutto perché
non credessi in lui. Credo nelle sue leggi, anche se non posso giustificare i
suoi atti. Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo verso il suo
padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua
grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote […]
Perciò concedimi,
Dio, prima di morire, ora che in me non vi è traccia di paura e la mia condizione
è di assoluta calma interiore e sicurezza,
di chiederTi ragione, per l’ultima volta, di ciò che succede.
L’ossessione per l’assenza di Dio che diventa una
requisitoria severa nei suoi confronti. Gridare la propria fede chiedendo a Dio
di essere Dio, di manifestarsi e di rispondere al grido degli umani che sale da
quella terra a cui apparteniamo. Anche soltanto questo grido, a mio avviso, può
bastare per dare senso all’ossessione della fede.
Fino a che un giorno ci si arrenda e ci si lasci finalmente andare, come
nel Giacobbe di Rembrandt, in un abbraccio più grande, dove non c’è più bisogno
di ricevere risposte. In quel consentimento, dopo la lotta, che ci farà
scoprire la pace.
Dal 18 al 25 gennaio di quest’anno si celebrerà
la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. A questo indirizzo
sul WEB potete trovare materiale utile, preparato dall’Ufficio nazionale per
l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana
Nella sesta domanda di quelle in cui si
articola l’Interrogativo fondamentale proposto per la consultazione del Popolo di
Dio nei cammini sinodali iniziati lo scorso 9 ottobre nelle nostre
Chiese si chiede anche
Quali esperienze di
dialogo e di impegno condiviso portiamo avanti con credenti di altre
religioni e con chi non crede?
Osservo che nella mia vita mi sono molto
arricchito del pensiero di credenti di altre denominazioni cristiane e di altre
religioni, nonostante la tremenda storia della nostra Chiesa che comprende
orribili persecuzioni a sfondo religioso in loro danno, le quali in genere
superano la consapevolezza dei nostri fedeli e che sono spesso ammantate da
incredibili giustificazioni propagandistiche. Certo, anche i cattolici ne hanno
subite di analoghe in certe epoche storiche e in certe parti del mondo. Ricordiamo
sempre però che in genere sono stati dalla parte dei dominatori del mondo, in
particolare da metà Ottocento a metà Novecento. Oggi si pensa che le religioni
possano collaborare per la pace e la prosperità del mondo, ma la loro storia va
purtroppo in senso contrario e non di rado dà argomenti a chi le ha combattute
e represse.
Tra i cristiani, dal 1999, dopo la Dichiarazione congiunta sulla dottrina
della giustificazione di Regensburg,
alla quale hanno poi aderito altre denominazioni,
è stato superato uno dei maggiori
motivi storici di conflitto teologico, e, in genere, si vive da amici,
rispettandosi. Vorrei riunire tutte le denominazioni cristiane sotto il Papa?
No, non vorrei. E ciò anche se il Papato riuscisse finalmente a superare il
triste totalitarismo che ha imposto dall’Ottocento a noi cattolici. Se io posso
vivere da amico con gli altri cristiani, credo di non essere più realmente
diviso da loro, ma credo che sia possibile vivere la fede secondo varie concezioni
e discipline, senza per questo ritenersi in difetto, imperfetti. E, anzi, il
pluralismo religioso tra cristiani è una ricchezza: i questo modo si impara
meglio gli uni dagli altri e ognuno può esprimere meglio la propria fede, sulla
base della propria esperienza personale e comunitaria. L’importante è vivere da
amici e in dialogo. L’unità non si fa intorno a istituzioni che storicamente
mutano e devono mutare, altrimenti non servono più a nulla, e spesso recano in
sé, come incrostazioni storiche, tradizioni inutili e fonte di sofferenza, ma intorno al Cristo, secondo il suo vangelo. Di
questo dovremmo convincerci anche nel dialogo intraecclesiale, dove è possibile
vivere vere divisioni, anche perché stando più vicini si litiga meglio, e spesso ciò che ci separa, al di là della
formale sottomissione a gerarchi comuni, che lascia il tempo che trova, è molto
più rilevante e conflittuale di ciò che ci differenzia da altre denominazioni
cristiane. Per questo scrivo spesso che tra noi cattolici più che sinodali dovremmo imparare ad essere ecumenici.
In Cristo non mi sento diviso dal valdese Gianni Genre, con il cui pensiero,
espresso qui sopra, sento una profonda consonanza. Che mi serve di più?
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli