Sinodalità contro comunione
da:
Juan Maria Laboa, Atlante dei concili
e dei sinodi nella storia della Chiesa, Città Nuova - Jaka Book, 2008, pag.
14,16
Fin
dai primi giorni di vita della comunità cristiane, non appena Gesù morì e gli
apostoli si sparpagliarono per annunciare il Vangelo, le diverse opinioni, le aspre dispute
sul valore della Legge ebraica, gli scontri tra cristiani in merito all’interpretazione
di alcune dottrine furono costanti. La pace che avrebbe dovuto regnare su
queste comunità fu spesso turbata, e fu sempre precaria. Le prime comunità di
cristiani, perennemente esposte agli attacchi dall’esterno, non sempre
trovarono al loro interno la tranquillità che sarebbe stata necessaria.
Giudeo-cristiani e cristiani gentili [provenienti dalle genti, dai
popoli diversi dai giudei], gregi e romani, discepoli di Paolo, di Pietro o di Giovanni
manifestarono con veemenza i propri punti di vista divergenti. Paolo arrivò a
definire «falsi apostoli» e «servi del demonio»
altri evangelizzatori cristiani con cui si trovava in disaccordo, e casi simili
si ripeterono con frequenza.
Come è risaputo la cristianità primitiva
non formava un’unica Chiesa uniforme e centralizzata. Già san Paolo fa
riferimento a diverse «comunità» e nei testi apostolici riscontriamo che non
tutte erano irreprensibili, né tutte si comprendevano e si apprezzavano; al
contrario , invece, spesso dimostravano apertamente la propria polemica
divergenza e contrapposizione. Pensiamo alle posizioni opposte di fronte alle
leggi sull’alimentazione che possiamo riscontrare nei passi di 1Corinzi 8-10 e
Romani 14, ai pareri divergenti rispetto alla legge in san Marco e san Matteo,
e alle sempre nuove incomprensioni tra i cristiani originari del giudaismo e
quelli che provenivano dai gentili.
A parte tutto, la «grande Chiesa» era qualcosa di reale, sentito e vivo per tutti. Tutti cristiani erano
coscienti di formare una parte del corpo di Cristo, di appartenere al corpo dei
suoi discepoli.
[…]
Alla fine dei 1° secolo, il presbitero
Clemente di Roma fece notare ai
cristiani di Corinto che lo scisma che li minacciava era un attentato contro il
corpo di Cristo, per cui dovevano sforzarsi di superarlo. Ignazio di Antiochia
(intorno al 110) ha un unico pensiero, quello dell’unità, in un tempo in cui l’eresia
e la discordia minacciavano la Chiesa quanto le persecuzioni.
[…]
Per questi e altri autori dell’epoca
come Giustino [l’autore che inventò l’idea di eresia nota mia, v. citazione sotto(*)] e Ireneo, il
vescovo era il segno visibile e il servitore più efficace dell’unità di tutte
le Chiese di fronte alle eresie a alle divisioni.
(*)
All’inizio del secolo [il 2° secolo nota mia, dal 100 al 199 dC], le comunità
cristiane erano distinte con difficoltà da quelle giudaiche. La rivolta giudaica
del 130 dC contribuì in modo decisivo alla loro separazione. Verso la metà del secolo
il filosofo Giustino, convertito al cristianesimo, fissa questa distinzione nel
suo Dialogo con Trifone. Nel contempo, nelle sue apologie, contribuisce
in modo determinante al confronto col mondo pagano, costruendo un’immagine del
cristianesimo destinata a dimostrarsi vincente. Per combattere i nemici interni,
infine, egli inventa il concetto di eresia come deviazione dottrinale di
origine diabolica dal patrimonio comune della fede: un’arma potente per costruire,
per converso, un concetto di ortodossia come pilastro della vera Chiesa. [da
Giovanni Filoramo, Storia della Chiesa. 1. L’età antica, EDB, 2019,
anche in ebook, pag. 49]
Nella nostra
Chiesa sinodalità e comunione
sono concetti che sono stati presi come simbolo da orientamenti
contrapposti in materia di esercizio del potere ecclesiastico.
I sinodali lo vogliono partecipato, prendendo spunto
da come lo si visse nel Primo secolo, gli altri lo vogliono accentrato in un capo sacrale le cui decisioni non possano essere
poste in discussione.
La
formula accentrata del potere ecclesiastico fu costruita nel Quarto secolo a
partire da prassi e ideologie che si erano formate dal secondo secolo intorno
al ruolo dei vescovo. Dal secondo secolo si affermò il potere
monocratico del vescovo, ma limitato alla comunità di riferimento che lo
esprimeva con procedure partecipate anche se l’eletto doveva ottenere l’approvazione
degli altri vescovi intorno. Le intese tra vescovi di una regione venivano
raggiunte con procedure sinodali. Successivamente i vescovi di alcuni centri
maggiori assunsero maggiore autorità sugli altri, in particolare quelli di Roma
e Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria d’Egitto. Nel quarto
secolo si ebbe una polarizzazione intorno a quelli di Roma e Costantinopoli, le
capitali dell’Impero romano dopo la riorganizzazione fatta da Diocleziano nel
Terzo secolo. Tutti i Concili del Primo millennio furono organizzati dall’imperatore
in o intorno Costantinopoli, in ambiente ellenistico. Questi concili furono molto
diversi da sinodi che avevano radunato i vescovi nei secoli precedenti, per il
ruolo importantissimo che vi ebbero gli imperatori. Le decisioni che ne
uscirono furono leggi dell’impero. Nel Quarto secolo i vescovi divennero progressivamente
funzionari imperiali. L’eresia,
vale a dire il dissenso dalle definizioni teologiche contenute in quelle leggi, divenne anche crimine
per lo stato. Quando si parla di Chiesa costantiniana, nel senso di
Chiesa accentrata intorno al potere politico, ci si riferisce a questo. Costantiniana
da Costantino 1°, l’imperatore che, nel quadro di una grandiosa risistemazione
del suo impero, inglobò il cristianesimo nell’ideologia dello stato, presentandosi
come Vicario di Cristo, titolo poi assunto, nel Secondo Millennio, dai
Papi romani.
La prima metà del Secondo Millennio fu travagliata dalle
acerrime controversie, con importanti risvolti politici, tra Conciliaristi (oggi diremmo sinodali) e Papisti, riguardo al potere assoluto
che il Papato aveva iniziato a rivendicare dall’Undicesimo secolo nella Chiesa,
e tra Papato e Imperatori germanici, quanto al potere rivendicato da entrambi
sui popoli nel loro dominio. Il Papato romano, rivendicando in esclusiva il
titolo di Vicario di Cristo, pretendeva di esercitare un’egemonia anche
politica sugli imperatori.
Nelle e tra le Chiese cristiane non si visse
mai una vera e stabile epoca di pace e ciò analogamente a quanto accadeva nella
politica coeva. La pace iniziò a divenire un valore anche politico per la
nostra Chiesa solo molto di recente, dalla metà degli scorsi anni ’40. In precedenza
era solo un valore religioso del quale si attendeva la realizzazione alla
fine dei tempi. Si dava per scontato che le controversie politiche potessero
richiedere di entrare in guerra e lo stesso Papato scelse talvolta quella via, in genere alleandosi con altre potenze, almeno fino
a quando gli venne tolto il piccolo regno che dall’antichità aveva nel centro
Italia, con capitale Roma. Le Crociate furono le principali, sanguinosissime, guerre del Papato romano. Nel '500 il Papato ebbe un fondamentale nell'organizzare una guerra contro l'Impero Ottomano, nel corso della quale fu combattuta la sanguinosissima "battaglia di Lepanto", il 7 ottobre 1571. L’ultima guerra fu combattuta dal Papato romano nel settembre
del 1870: il nemico era il Regno d’Italia, da poco costituito. Fece poi pace con il
Regno d’Italia solo nel 1929, stipulandola con il governo di Benito Mussolini
nei Patti Lateranensi, detti così perché stipulati nei palazzi del Laterano l’11
febbraio 1929. In questi accordi era compreso un Trattato in virtù del quale il
Papato ebbe un piccolo regno territoriale sul colle Vaticano, denominato Città del Vaticano. Nel 1931, con l’enciclica
Il Quarantennale - Quadragesimo anno, nel quarantesimo dal primo documento
della moderna dottrina sociale, vale a dire l’enciclica Le novità - Rerum
novarum del 1989, il papa Pio 11° esortò
i cattolici a collaborare all’ordinamento corporativo che il fascismo
mussoliniano stava allora organizzando e lodò il fascismo per la repressione
contro i socialisti.
92. Recentemente, come
tutti sanno, venne iniziata una speciale organizzazione sindacale e
corporativa, la quale, data la materia di questa Nostra Lettera enciclica,
richiede da Noi qualche cenno e anche qualche opportuna considerazione.
93. Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza
carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così riconosciuto, può
rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso solo concludere
contratti e patti di lavoro. L'iscrizione al sindacato è facoltativa, ed è
soltanto in questo senso che l'organizzazione sindacale può dirsi libera;
giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono obbligatorie per tutti
gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai o padroni, come per
tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal sindacato giuridico.
Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il sindacato giuridico non
escluse l'esistenza di associazioni professionali di fatto.
94. Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei
sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e professione, e, come
veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e coordinano i sindacati
nelle cose di interesse comune.
95. Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare,
interviene il Magistrato.
96. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell'ordinamento
per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione delle classi, la
repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l'azione moderatrice
di une speciale magistratura. Per non trascurare nulla in argomento di tanta
importanza, ed in armonia con i principi generali qui sopra richiamati, e con
quello che inibito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare chi
teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla
necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento
sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico,
e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari
intenti politici piuttosto che all'avviamento ed inizio di un migliore assetto
sociale.
Che possiamo concludere? Che non è mai
esistita un’epoca dell’oro nella quale nella nostra Chiesa si sia andati
d’accordo e i rapporti con la politica siano stati indolori.
Ma anche questo: storicamente la sinodalità
che si è praticata nella nostra Chiesa non ha mai veramente coinvolto il Popolo di
Dio, come ora si vorrebbe fare (in altre confessioni cristiane è stata mantenuta
una accentuata sinodalità episcopale e in altre ancora la sinodalità popolare
è divenuta una realtà), ma solo gerarchi ecclesiastici, assistiti talvolta da teologi, e sovrani o funzionari civili, e solo dagli
scorsi anni Sessanta è riuscita a scalfire il totalitarismo ecclesiale intorno
al Papato romano, nel quale la nostra Chiesa si era barricata nel corso dell’Ottocento.
L’accusa di lacerare il Corpo di Cristo,
quindi di peccare contro la comunione ecclesiale, viene con molta leggerezza
lanciata contro ogni tentativo di allargamento della sinodalità e, d’altra
parte, di quest’ultima tra i cattolici si ha scarsissima esperienza fuori delle
cerchie dei chierici e dei religiosi. Quando ci si incontra si cerca sempre di
riferirsi a qualche testo normativo o comunque autorevole contenente definizioni che possano essere sfruttate o piegate a proprio favore, per obbligare le altre persone a
seguire un certo orientamento. Poiché di solito l’acculturamento teologico delle
persone di fede è assai scarso, al di fuori di chierici e religiosi, si annaspa
nel gergo teologico e, in mancanza di riferimenti rigorosi, si tende ad inventare
fantasiose sistemazioni ideologiche. Poiché la capacità dialettica è quella che è, alla
fine si finisce per scagliarsi anatemi gli uni contro gli altri, in ciò in perfetta consonanza coi
costumi degli antichi, iracondi e bellicosi
cosiddetti Padri. Insomma, non sapendo argomentare, si passa a vie di
fatto.
Per realizzare una sinodalità che non metta a rischio la comunione,
non intesa però come sistemazione totalitaria sotto un unico piccolo padre terreno,
il capo-tribù, ma come atteggiamento di
benevola, amicale e solidale accettazione delle altre persone anche nelle loro diversità,
è consigliabile non accapigliarsi sulle definizioni e attenersi ai
concreti problemi in questione, astenendosi dal voler incautamente e da sprovveduti
tentare di ristrutturare le altre
persone secondo le proprie fantasie e, soprattutto, di pasticciare con la teologia.
Il principale problema della sinodalità a
livello parrocchiale è, però, che non c’è nessuna questione concreta, anche minima, che si vuole
lasciare alla sinodalità, per cui, di solito, sul povero Popolo di Dio
si riversano solo indigeribili pipponi di stampo spiritualistico, che lasciano
tutto com’è. Certo, chi riesce ad
ascoltarli poi non discute e quindi non ci sono controversie: ma le chiese si
svuotano.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli